E' morto, a 68 anni, Robert Kurz. E' morto a Norimberga, durante un'operazione. Sembra che, mentre lo stavano operando ai reni, per errore, gli abbiano affettato il pancreas!! Già membro del gruppo Krisis, con cui pubblicò il "Manifesto contro il Lavoro", da anni era l'animatore della rivista Exit, un prezioso strumento teorico e conoscitivo che, nell'ambito della "critica del valore", provava, e prova, a spiegare la crisi e il mondo in cui viviamo. Appena poco prima di morire, aveva pubblicato un ultimo libro " GELD OHNE WERT, Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie". Voglio ricordarlo, traducendo uno dei suoi ultimi scritti, la lettera aperta che ogni anno scriveva per chiedere sostegno alla rivista "Exit". Risale al gennaio di quest'anno ed ha un titolo impietoso, "Nessuna Rivoluzione, da nessuna parte"!
NESSUNA RIVOLUZIONE, DA NESSUNA PARTE
La sinistra cosiddetta movimentista per molto tempo si è creduta al di sopra dell'opposizione, anche a partire dalla semplice relazione fra riforme e rivoluzione. Questo non può significare che una cosa: che tra riforme e rivoluzione non sapeva più quale dovesse prevalere. L'obiettivo di un rovesciamento rivoluzionario del capitalismo, visto come catalizzatore necessario per le riforme sociali, per quanto modeste potevano essere, non era mai stato riformulato ma era stato semplicemente attribuito in tutta fretta al defunto marxismo di partito e di stato.
In realtà, gli agitati dei movimenti di sinistra con la loro ideologia decostruttivista avevano chiuso nell'armadio l'idea di rivoluzione, dal momento che non disponevano nemmeno della forza necessaria per una banale riforma all'interno del quadro capitalista. Come ognuno sa, tranne i partiti, il neoliberismo aveva messo le mani sul concetto di riforma per rivoltarlo come un guanto, senza incontrare alcuna resistenza significativa. Non solo le lotte sociali reali si sono rarefatte ma hanno abbandonato qualsiasi riferimento alla critica radicale della società per limitarsi ad una timida difesa degli interessi particolari. L'intrusione che sconvolge i rapporti sociali cede il passo all'azione simbolica, sotto forma di "happening"; di qui la farse dei "movimenti", oramai quasi immobili, che fingono di svolgere il proprio ruolo in faccia alle telecamere. Alle bolle finanziarie del capitale in crisi fanno da contraltare le bolle dei movimenti di sinistra che, anch'esse, devono finire per scoppiare.
Ancora meno credibile appare in queste condizioni l'improvvisa inflazione del concetto di rivoluzione, che ha trovato una seconda giovinezza nel 2011, in tutto il mondo, senza che le idee del passato siano state oggetto del minimo riesame critico né della minima modifica. Abbiamo avuto in primo piano la cosiddetta rivoluzione araba che, a prezzo di numerosissime vite umane, è riuscita a far cadere qualche regime autoritario (Tunisia, Egitto, Libia) mentre altrove è stata schiacciata sul nascere dall'esercito (Syria, Algeria, Bahrein, Yemen). In seguito, ci sono state delle sommosse anche in Europa. La Gran Bretagna ha sperimentato violenti disordini da parte di giovani sottoproletari disperati, e il governo conservatore ha risposto prendendo a modello la repressione araba. I paesi sud-europei colpiti dalla crisi del debito (Grecia, Spagna, Portogallo, Italia) hanno visto movimenti sociali più o meno grandi protestare contro la brutale politica d'austerità rivolta principalmente contro le giovani generazioni. Israele ha presentato grosso modo un quadro analogo, con proteste di massa contro le politiche antisociali del governo Netanyahu. In Cile, gli studenti si sono ribellati alla controriforma neoconservatrice dell'insegnamento. Negli Stati Uniti, infine, il movimento delle "occupazioni", con il suo discorso diretto contro l'ineguaglianza crescente e il potere delle banche, è apparso come un contrappeso al "Tea Party" ultraconservatore ed è stato emulato in diversi paesi, compresa la Germania.
Questa sinistra che guarda il culo ad ogni più piccola dimostrazione sociale che si vede per la strada si sarebbe senza dubbio rotolata nei paesaggi fioriti di un anno 2011 della rivoluzione [allusione ad un celebre discorso del socialdemocratico Helmut Kohl che, quando ci fu la riunificazione tedesca nel 1990 - era cancelliere - promise imprudentemente di trasformare i Länder della Germania dell'Est « molto rapidamente in paesaggi fioriti dove varrà la pena di vivere e lavorare». (Ndt)]. Solo che, senza voler evocare l'opportunismo cinico con cui si è operato per rosicchiare freneticamente quest'imbarazzante parola che comincia con la R, quando si diceva fino a poco fa che apparteneva definitivamente al passato, è chiaro che il semplice fatto di incensare i diversi movimenti insurrezionali e di protesta non ha per niente servito alla causa dell'emancipazione sociale. Marx ha giustamente sottolineato come uno sconvolgimento realmente rivoluzionario progredisce solo nella misura in cui si criticano - senza pietà! - gli inizi e le tappe successive, al fine di poter andare più lontano scartando le mezze misure, le ricadute negative e le derive. In caso contrario, tutta l'impresa può trasformarsi nel suo contrario. Lo statuto accordato alla riflessione teorica qui si fa decisivo. A maggior ragione in un contesto come il nostro, oggigiorno, dove il concetto di una rottura rivoluzionaria con l'ordine dominante brilla per la sua assenza. La forma d'intervento è la polemica sullo stato dei movimenti; accontentarsi di partecipare con compiacimento equivale a reagire in modo puramente tattico su delle basi ideologiche errate che rassicura inoltre gli attori nella loro illusione di immediatezza. Dopo più di 250 anni di storia della modernizzazione, la spontaneità innocente non esiste più.
Procedere ad un'analisi critica, richiede in primo luogo lo stabilire una scala per così dire esistenziale che permetta di valutare la rudezza dell'insurrezione e della repressione. I movimenti di massa arabi hanno sacrificato scientemente numerose vite ed hanno realmente rovesciato dei governi. Gli scontri nell'Europa del Sud ed in Gran Bretagna, sebbene violenti nella scala dei rapporti sociali delle metropoli occidentali, sono stati tuttavia molto meno intensi e largamente inefficaci. Altrettanto si può dire per Israele e Cile. Quanto al movimento statunitense delle occupazioni, conteneva essenzialmente un moralismo senza mordente, superficiale e banale, che gli imitatori tedeschi si sono incaricati di abbassare ulteriormente: una banda di delegati di classe che pongono delle belle e gentili domande. Ben inteso, queste differenze esteriori in materia di militantismo non ci dicono ancora niente su un contenuto rivoluzionario che solo una seria critica radicale può permetterci di determinare; ci dicono semplicemente quanto grande è il disastro e quanto grande è la disperazione in questa o quella regione del mondo.
La recente crisi economica mondiale, lungi dall'essere confinata alla sola sfera dell'economia, causa nella maggior parte del globo l'indurimento delle situazioni di relegazione sociale che le condizioni e le forme di sviluppo specifico locale non sono sempre in gradi di assorbire; queste situazioni rivelano la struttura trascendente del capitalismo mondiale. Per cominciare, si assiste ad un'esplosione generalizzata dei prezzi dei generi alimentari; cosa che colpisce innanzitutto gli strati più bassi, ma resta il fatto che anche le famiglie a reddito medio cominciano a soffrirne sempre di più. Così i limiti interni (economici) ed esterni (ecologici) del capitale si incontrano. Nel caso dei beni agricoli, gli effetti della politica inflazionista adottata dappertutto, e che consiste in un fiume di denaro versato dalle banche centrali, sono aggravate dalla produzione crescente di biocarburanti al posto degli alimenti di base, questi ultimi contemporaneamente continuano a diminuire a causa di un certo numero di catastrofi naturali causati dalla società. Chiaramente osservabile in tutti quanti i paesi, senza nessuna eccezione, questa tendenza diventa insopportabile laddove, come nel caso della maggioranza delle genti del mondo arabo, il costo dei generi di base divora la maggior parte del bilancio familiare.
D'altra parte, la crisi economica mondiale ha visto drammaticamente accentuarsi la precarizzazione dei giovani laureati. Si tratta, ancora, di un fenomeno globale; anche in Germania, la "generazione stage" non risale certamente a ieri. In Europa del Sud la disoccupazione giovanile colpisce dappertutto, e vede oltrepassare la barriera del 50%, mentre dequalificazione e sottoimpiego aumentano sempre più. Non è solo la Cina, dove i laureati trovano sempre meno un posto commisurato alle loro capacità. Per i dottorandi, come per gli "extra" impiegati nel restauro, il momento buono è finito. Naturalmente, in questo quadro evolutivo, possiamo trovare delle differenze fra una regione e l'altra. Se, in Europa ed in America del Nord, nella loro assenza di prospettive, i rampolli della classe media qualificata possono ancora in parte contare sul sostegno dei loro anziani, altrove è l'inverso: ci sono dei giovani che mantengono la famiglia che affonda nella miseria. Non c'è da stupirsi che il simbolo del sollevamento arabo sia stata l'autoimmolazione di un giovane laureato tunisino che, pur vendendo ortaggi, non riusciva più a guadagnarsi da vivere.
Nella storia moderna, il declino sociale della gioventù studentesca ha sempre costituito un fermento di eruzioni rivoluzionarie. Tuttavia, perché si producesse un reale sconvolgimento sociale, è stato necessario, in primo luogo, produrre un concetto teorico al passo con i tempi e, in secondo luogo, mettere in campo un'organizzazione sociale, senza escludere soprattutto gli strati inferiori. Si misura, a tale riguardo, l'infinità mediocrità intellettuale, sociale ed organizzativa della generazione Facebook. In nessuno dei movimenti attuali troviamo traccia di un'idea rivoluzionaria. La classe media studentesca è in gran parte ripiegata su sé stessa, senza legami sistematici con le classi inferiori, e l'incontro senza coinvolgimento a partire da Internet non sortisce alcun effetto strutturante nella scala della società. Non porta che a belle parole vuote e democratiche. Ecco perché, ancora una volta, non si può parlare da nessuna parte di rivoluzione nel momento in cui la si concepisce come cambiamento economico fondamentale e non soltanto come sostituzione di un notabile con un altro peggiore che rimane a capo dell'amministrazione della crisi.
In assenza di una dialettica qualitativamente nuova, fra riforme e rivoluzione, lo stesso approccio sindacale che mantengono alcuni paesi arabi non va molto lontano. Si rimane alla semplice ridistribuzione delle rendite petrolifere e turistiche. In Europa e negli STati Uniti non esiste alcuna esigenza sociale concreta degna di questo nome. Per cui si a strumentalizzare la rivolta di forze con cui non si ha niente a che vedere e che, considerata l'assenza di concetti e strutture organizzative, fanno valere le loro tendenze barbariche. Nel mondo arabo ci sono gli islamofascisti; guadagnano alle elezioni, una dopo l'altra, riescono perfino a far passare lo sterile democraticismo formale per un modello di legittimità e sono disinteressati alle questioni di fondo. Hanno già in parte soppiantato i sindacati, hanno imposto la loro politica dell'elemosina come emancipazione sociale (ottenendo l'adesione degli strati popolari), hanno installato un terrorismo della virtù misogina e omofoba, ed hanno fatto della propaganda antisemita diretta contro Israele una valvola al risentimento violento a causa di un miglioramento economico che tarda a venire. Nell'Europa del Sud e dell'Est, c'è il ribollente e anacronistico nazionalfascismo in cui vengono rigurgitate divario concettuale e impotenza sociale. Progrom contro i Rom in Italia e in Ungheria, o il trattamento crudele che viene riservato in Grecia ai rifugiati e ai migranti. A tale riguardo, il tono francamente antisemita del movimento delle occupazioni si integra perfettamente a completare il quadro.
Qui Israele rivela la sua duplice natura per cui da una parte, in quanto Stato ebraico, è diventato oggetto di odio numero uno sotto l'effetto del rimuginare ideologico mondiale sulla crisi, mentre dall'altra parte, in quanto Stato capitalista, esso attraversa le medesime fratture sociali di tutti gli altri ed ha prodotto il suo proprio fascismo religioso (un fenomeno che trascende tutte le culture della post-modernità) sotto forma di un potenziale intrinseco di auto-distruzione. Degli eminenti rabbini evocano il rischio di talebanizzazione che fa correre a quel paese una minoranza di fanatici ebrei ultra-ortodossi che assomigliano, come si assomigliano due gocce d'acqua, ai loro nemici fratelli islamici. Unendo le loro forze a quelle dei coloni sciovinisti, minacciano di piombare Israele nella barbarie e di privarla della sua legittimità storica. Quanto al movimento sociale dei giovani israeliani contro l'amministrazione della crisi, esso è identico sotto molti aspetti ai movimenti che conosce l'Europa. Data la situazione generale, è stato resuscitato una forza d'intervento di tipo sindacale, pur mantenendo la potenza militare, a fronte di una coalizione di paesi ostili che vogliono, in definitiva, cancellare lo stato israeliano dalle carte geografiche; ci potrà essere un margine di manovra all'interno di questo quadro solo chiudendo il rubinetto delle sovvenzioni agli ultra religiosi ed ai nazionalisti. La protesta sociale arriva a far proprio il concetto di base sionista che risale a Mose Hess, l'ideale socialista che, ancora una volta, non è che l'ombra di sé stesso.
La cosa più sorprendente è che, al di là delle differenze, la rivolta si verifica dappertutto "senza la sinistra", come rileva con soddisfazione il Frankfurter Allgemeine Zeitung. Di colpo, anche per i politici da operetta post-operaisti della globalizzazione, l'entusiasmo per questo soprassalto della moltitudine è andato loro di traverso. Ma cosa dovrebbe aver da dire la corrente, o piuttosto il ruscelletto che è tutto quel che rimane del marxismo e del post-marxismo, oggi ai manifestanti che, indipendentemente dalla sua retorica, si sono messi in movimento? Se il niente intellettuale e l'apatia sociale della generazione Facebook si stanno dimostrando un puro prodotto della socializzazione di un capitalismo in crisi virtualizzata, dovrebbe toccare alla sinistra e alle sue diverse sensibilità proporre un'ideologia che abbia un senso. Accontentarsi di ripresentare la sua propria comprensione teorica fatta di un medley decostruttivista non aprirà la pur minima prospettiva storica ai nuovi attori. Parimenti, non serve a niente mescolare una scienza economica riesumata dai quadri interpretativi degli anni '70 (se non addirittura ancora prima) e incorporarla nel pensiero postmoderno, in un impasto infetto.
La teoria marxiana non è stata sviluppata ed estesa al di là di una lettura diventata ormai storicamente obsoleta; anzi, è stata privata della sua essenziale critica della forma fondamentale capitalista, per poter così trasformare il marxismo tradizionale e striminzito del movimento operaio in un marxismo post-moderno, ancora più striminzito, ad uso della classe media. Invece di creare un nuovo concetto di rivoluzione e, così facendo, di fornire un contrappeso all'imbarbarimento che è all'opera nella crisi, questa sinistra accecata dal culturalismo è arrivata perfino ad allucinare l'islamofascismo come una forza con la quale sarebbe possibile e legittimo fare un'alleanza (evviva la differenza!) e ad accogliere nel suo seno una diffusa spinta antisemita ostile ad Israele; cosa che fa perfettamente il paio con la sepoltura della critica radicale dell'economia politica.
La protesta-senza-la-sinistra e la post-sinistra che la guarda disorientata hanno in comune che entrambe ritengono di poter legittimare il discorso democratico per mezzo del discorso esistenzialista. Quello che fa difetto ad entrambi, è la critica scientemente antipolitica della sfera capitalista di regolamentazione; e questo perché la protesta è antipolitica fino al midollo, mentre la sinistra continua a scaldare la minestra del politicismo più stantìo. Sul rovescio della stessa medaglia, vediamo dappertutto proliferare un "rivoltismo" (in Francia, dipinto di post-situazionismo) ostile a qualsiasi pensiero teorico, che pretende di risparmiare la fatica di un ripensamento concettuale ed analitico della critica radicale, che scrive una sorta di feuilleton fantasioso dove la falsa coscienza delle masse starebbe salpando verso nuovi lidi.
"L'insurrezione che viene" è già là, ma sul piano del contenuto è altrettanto deplorevole delle stesse circostanze, che non sembrano trascendere in nessun modo dei concetti. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario; bisogna reinventare questa vecchia massima in funzione della situazione storica che è cambiata. E' nello sviluppo e nella diffusione dei contenuti che generano riflessione, dentro l'intervento teorico stesso, che oggi si trova la risposta alla domanda "che fare?": non è nelle pseudo-attività o nel bricolage dei piccoli mondi perfetti ed illusori che i movimenti di protesta si lasciano velocemente alle spalle. Tali movimenti continueranno a girare a vuoto finché non si trasformeranno attraverso il confronto con la teoria riformulata e, pertanto, attraverso l'intervento diretto sul proprio corso. Certo, c'è una comicità involontaria nel vedere questa sinistra che non ha mai seriamente rotto con gli schemi di pensiero vetero-marxista o post-moderno che l'hanno fatta naufragare, appellarsi ancora una volta, in un'assenza pressoché totale di sostanza teorica, alla "questione dell'organizzazione". Appello che, già nel 1968, era rimasto perfettamente inascoltato.
Chiunque si rifiuta si cogliere e di combattere la totalità capitalista ha già perso. La svolta culturalista e decostruttivista ha portato in un vicolo cieco perché ha fatto dimenticare la logica oggettiva del feticcio-capitale portando la critica ad affogare nelle particolarità. E' importante dare battaglia a questa specie di universalismo che considera l'astrazione delle categorie come se fosse il nostro rapporto essenziale con il reale.
Per venire a capo della paralisi che affligge la trascendenza rivoluzionaria, occorre senza dubbio uno sforzo teorico da parte dei numerosi gruppi dappertutto in tutto il mondo. Non sotto la forma della cacofonia borghese-pluralista, ma mirando risolutamente all'oggetto che ingloba e condiziona tutti i settori - il capitale mondiale - e combattendo per la verità teorica della nostra epoca. Dentro lo spazio di lingua tedesca e al di là, la costruzione teorica che consiste nella critica della dissociazione-valore formulata nel contesto della rivista EXIT! si sforza di dare un contributo. La critica dei rapporti umani assoggettati alla dissociazione-valore, rapporti dove il genere gioca anch'esso un ruolo determinante, ha dimostrato di non essere un'interpretazione contorta e desueta, un prodotto derivato del Capitale; questo perché cerca più che mai di afferrare il concetto di totalità - in sé stesso frammentario - del capitale. Non abbiamo scoperto la pietra filosofale; la nostra attenzione alla critica fondamentale della forma ed al contesto storico sono il risultato delle premesse di una trasformazione della teoria critica. Chi si lamenta, giustamente, del fatto che la costruzione teorica non sia stata ancora sviluppata a sufficienza, e concretizzata, non dovrebbe perdere di vista quelle che sono le condizioni. Senza sostegno materiale niente è possibile, e niente si ottiene gratuitamente: né la produzione teorica né la possibilità di riceverla in modo indipendente. Gli impazienti - ma non solo loro - sono invitati a sostenere EXIT! nel suo "nuotare contro corrente".
Robert Kurz per la redazione di EXIT!, gennaio 2012
2 commenti:
Un notevole saggio di lucidità e di visione impietosa della situazione che stiamo attraversando. Ma, come molte delle, pur ragguardevoli, analisi che si leggono su qyesto blg come altrove, il tutto si esaurisce in una critica del reale senza un briciolo di indicazione sia teorica che di indirizzo pratico (se toglie, ovviamente, l'esortazione a sostenere economicamente EXIT!).
Il "Che fare" dunque permane. In assenza di non dico risposte, ma di ipotesi di risposte, la maggior parte dei "contro" rimane attaccata al risaputo, anche quando ne constrata tutti i limiti oggettivi. Anche questo è un fatto.
Ma la cosa peggiore è, come al solito, non voler trovare una forma organizzativa che travalichi le differenze ideologiche o di strumentalizzazione dei movimenti:
siamo ancora troppo legati al nostro piccolo, insulso e in definitva "borghese" ego.
Caro Gigi, la questione è annosa assai e parte da lontano, volendo fin da Marx. Nel senso che, come Marx, si può essere il miglior teorico e non sapere proprio niente di organizzazione, come testimonia la sua influenza catastrofica sulla Prima Internazionale. Così, il grimaldello teorico rimane solo uno strumento, un dispositivo inutilizzato che, magari, ci consola, annunciandoci il destino irreversibile della fine del capitalismo. L'avevano già fatto i cosiddetti "catastrofisti" e il buon Bordiga che era riuscito a sbagliarne l'anno, nella sua previsione. Oggi, leggo Moiso su Carmilla che cita Labrousse, a proposito di rivoluzioni, quando dice che ""Le rivoluzioni avvengono nonostante i rivoluzionari. Davanti al fatto compiuto i governi restano increduli. Ma il"rivoluzionario medio" non ne vuol proprio sentir parlare." Forse hanno ragione, Moiso e Labrousse, o forse è l'ennesima consolazione.
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