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giovedì 31 ottobre 2024

Guadagnare denaro anche nel tempo libero…

La dittatura del tempo astratto
Sulla crisi comune del lavoro e del tempo libero -
di Robert Kurz

Fin dall'Illuminismo, la modernità capitalista è sempre stata vista come se fosse la punta di diamante del progresso. Il passato premoderno era presumibilmente dominato dalla fame, dalla miseria, dalla schiavitù e dal lavoro forzato. La verità, però, è esattamente l'opposto: è stata proprio la stessa modernità capitalistica che, a partire dal XVI secolo, ha esteso la giornata lavorativa, spingendola ai limiti di ciò che è fisicamente sopportabile. Ed è stato solo gradualmente, e a costo di aspre lotte sociali, che la giornata lavorativa cominciò a essere nuovamente ridotta, a partire dalla fine del XIX secolo. Molte società premoderne non erano consapevoli dell'astrazione del "lavoro", laddove il termine si riferiva a un'attività svolta in uno stato di dipendenza, o di non emancipazione. Metaforicamente, il lavoro era pertanto sinonimo di sofferenza e di miseria. Del resto, non esisteva una denominazione generale per quelle che sono le attività concrete del «processo di metabolismo con la natura» (Marx), dalla produzione agricola all'arte. Il denaro cessava di essere un mero mezzo, per diventare un fine astratto in sé stesso (trasformazione del denaro in altro denaro). Dal momento che, così facendo, tutte le attività produttive andarono a riferirsi all'astrazione comune del denaro, la moderna categoria del lavoro, a sua volta. emerse sotto forma di una generalizzazione sociale astratta, cui veniva subordinata la totalità della vita. La trasmutazione automatica del denaro in più denaro, aveva richiesto la trasformazione del lavoro in più lavoro. Questo carattere insaziabile del «soggetto automatico» (Marx) rendeva impossibile tradurre le crescenti forze produttive nell'ottenimento di meno lavoro (cosa che ha anche causato il fallimento di teorie come quella di Jean Fourastié [N.d.E.: L'economista Jean Fourastié (1907-1990) è il padre dell'espressione “Les Trente Glorieuses”, titolo del suo libro sull'eccezionale crescita del dopoguerra]).

L'astrazione delle attività concrete a favore dell'astrazione del denaro, ha anche astratto il tempo di questo nuovo "lavoro". Questa dittatura del tempo astratto, rafforzata dalla concorrenza anonima, ha trasformato le attività del «processo di metabolismo con la natura» in uno spazio funzionale astratto, vale a dire, in capitale separato dal resto della vita. Quindi, "lavoro" e habitat, "lavoro" e vita privata, "lavoro" e cultura, ecc. sono stati tutti tra di essi dissociati. In tal modo, è nata la moderna separazione e il dualismo tra il "lavoro" e il "tempo libero". Nelle società premoderne, anche in quelle con scarse risorse, lo scopo della produzione non era mai un obiettivo astratto di per sé, quanto piuttosto il piacere e l'otium. Questa nozione antica e medievale di otium, non può essere confusa con il tempo libero moderno. L'otium non era una frazione della vita, isolata dal processo dell'attività che invece doveva essere volta al profitto, ma esso era presente financo nei pori e nelle nicchie dell'attività produttiva stessa. Detto in termini moderni, era questo il motivo per cui la giornata “lavorativa” non solo era più breve, ma era anche meno densa. Dal suo canto, la famiglia borghese diventa uno spazio funzionale complementare alla vita privata, creando così quello che sarebbe stato lo sfondo delle sfere capitalistiche. Da un lato, questo spazio personale viene oggi considerato come la sfera privata della tenerezza e dell'intimità, ma, dall'altro lato, viene anche a essere secondario e di scarso valore, proprio perché esso non è lo spazio sociale in cui «si guadagna denaro». Così, nel processo di modernizzazione, questo spazio ambiguo nella società è stato assegnato, obbligatoriamente, insieme a tutte le attività che vi si svolgono, alla metà femminile. Erano le donne le responsabili della casa e della famiglia, e di tante altre "attività" immateriali, come "l'amore", la "devozione", ecc.

Già nel XX secolo, si verificava il fenomeno del doppio fardello: come gli uomini, anche le donne dovevano, ora, «guadagnare denaro» e, allo stesso tempo, erano obbligate a farsi carico della sfera personale della casa. In tal modo, con l'eccezione delle donne delle classi superiori e di alcune professioniste, la partecipazione delle donne al tempo libero capitalistico è rimasta estremamente modesta. Dall'altro lato, l'utopia di una continua riduzione della giornata lavorativa, e di un aumento del tempo libero, è fallita sotto diversi aspetti. Anche nelle metropoli occidentali, la giornata lavorativa effettiva è stata ridotta solo in una certa misura; ben lontana dall'aumento della produttività. Ma il fallimento dell'utopia del tempo libero si è verificato soprattutto in termini di contenuti. Nella misura in cui questo semplice avanzo dell'esistenza è aumentato, esso è stato immediatamente occupato dalle finalità proprie del capitale: le industrie culturali e del tempo libero sono arrivate a occupare e colonizzare il tempo faticosamente conquistato e concesso al di fuori dello spazio funzionale astratto. Dal momento che il "lavoro" manca, a priori, di emancipazione, anche il "tempo libero", a sua volta, dev'essere reso dipendente. Esso, non consiste in un tempo liberato, proprio a partire dal fatto che diventa uno spazio funzionale secondario del capitale. Non si tratta pertanto di libero svago, nella sua accezione antica, ma di tempo che dev'essere reso funzionale al consumo permanente di merce. Ironia della sorte, per il consumatore, il tempo libero è diventato il proseguimento del lavoro con altri mezzi. Non solo nel momento in cui "guadagna" denaro, ma anche quando lo spende, l'uomo capitalista è sempre un "lavoratore". In tal modo, la dittatura del tempo astratto ha occupato anche il tempo libero.

- Robert Kurz - Testo pubblicato nella Folha de São Paulo, ottobre 1999.

    - Testo presentato al V Congresso Mondiale del Tempo Libero, São Paulo, 1999, è una sintesi parziale del testo "Die Dikatur der abstrakten Zeit", Amburgo 1999 -

mercoledì 30 ottobre 2024

Tutte le capre diventano giardiniere !!

Sostenibilità per tutti [*1]
- di Robert Kurz -

Il movimento per la pace finì quando la cantante Nicole cantò "A Little Peace" e Ronald Reagan e la sua famiglia si unirono alla catena umana. Oggi, tutti i produttori di armi e tutti i torturatori sono a favore di «un po' di pace» e, ovviamente, per la democrazia. La stessa cosa vale anche per il movimento socio-ecologico e per il vago concetto di "sostenibilità", che si ferma a un soffio da una critica fondamentale del calcolo economico. Da quando la modernità ha subito un restyling postmoderno, tutto sta andando bene proprio perché ogni cosa non significa più nulla. Nel rumore di fondo della macchina del mercato globale, è tutto indifferente: espresso in prezzi monetari, ogni cosa che è vivente in questo mondo, sembra possedere la medesima intercambiabile qualità. E la libertà non è altro che comprendere la necessità di adattarsi al mercato; Orwell non avrebbe avuto nemmeno bisogno di inventare una "neolingua". Quello che si diffonde è un vorace discorso plastico, che si appropria di tutti i concetti e appiattisce tutte le differenze nel mentre che parla di "individualità" e di "diversità". Ogni critica sociale viene inghiottita per poi essere trasformata in un oggetto di mercato da mettere accanto alle carte di credito, ai salva-slip e ai telefoni cellulari. In tal modo, la politica e i media preparano la zuppa dello spirito del tempo, in cui quelle che sono le ultime parole d'ordine ora devono nuotare per essere vendute, sebbene non abbiano più sostanza di quanto ne abbia una "zuppa di pollo" di Knorr, o di quanto vero pollo contenga una zuppa di Maggi. Sembra che il termine plastico, "sostenibilità", sia stato coniato su misura proprio per questo "discorso" del fast food. Questa nuova parola si adatta perfettamente alla fusione tra gli interessi del mercato e la cagnara della responsabilità ecologica, al fine di introdurre nei meccanismi infiniti del giornalismo degli antipasti un prodotto che sia commestibile per tutti. La "sostenibilità" rende facile il presentarsi come figura sociale ed ecologica, senza però mettere in discussione l'ordine sociale dominante e la sua economizzazione del mondo da parte dell'azienda. Nel frattempo, persino ogni bambino sa che la razionalità economica esternalizza costantemente i costi: verso la società nel suo complesso, verso il futuro, e appunto anche vero la natura. È stato dimostrato che è praticamente impossibile reintegrare questi costi sociali ed ecologici esternalizzati nel bilancio economico grazie alla regolamentazione politica. Ma avremmo dovuto saperlo prima, dal momento che l'essenza dell'economia aziendale risiede proprio in questo particolare calcolo che vede solo l'interesse dell'autoconservazione economica, e non ha letteralmente nulla a che fare con tutto il resto. Chi nel mondo non fa casino, viene punito dai mercati. In ogni caso, continuare a organizzare la società secondo un principio che esclude sistematicamente i costi sociali ed ecologici che ne derivano, per poterli poi reintegrare a posteriori, sarebbe una procedura del tutto assurda. Perché invece non utilizzare le risorse dell'azienda in modo ragionevole fin da subito? Purtroppo, questo buon senso può essere mobilitato solo a condizione che la società ponga fine al sistema del cieco calcolo economico. Tuttavia, non dobbiamo toccare il fondo. Per i vincitori del mercato globale, il dibattito socio-ecologico degli anni '70 e '80 è stato chiaramente un bene di lusso. Ma ora non ridiamo più. E ciò avviene proprio in un momento in cui il dumping ecologico e la deregolamentazione sociale stanno accelerando la crisi nella quale sta facendo carriera la "sostenibilità". Così, questa "sostenibilità" diventa il nome che assume la capitolazione della critica socio-ecologica della società. Più velocemente scompaiono le foreste tropicali, più l'acqua potabile diventa inquinata, più drammaticamente aumentano la disoccupazione e la povertà di massa, e più diffuso si fa l'impegno per la "sostenibilità". Ecco perché perfino un radicale anticonformista del mercato, qual è il presidente della Federazione delle industrie tedesche, Olaf Henkel, finisce per essere all'origine del dibattito sulla sostenibilità. Tutte le capre diventano giardinieri, e la microeconomia trionfante distrugge il mondo in maniera sostenibile!

- Robert Kurz, gennaio 2000 -

Fonte: Exit!

[*1] Nota dell'editore: questo testo è apparso per la prima volta in: "Politische Ökologie", nel gennaio 2000, a p. 10. Tuttavia il testo potrebbe essere stato scritto oggi; solo i nomi di alcune persone sarebbero stati diversi, e sarebbe stata aggiunto il concetto di "catastrofe climatica".

lunedì 28 ottobre 2024

Un mix tra King Kong e un barbiere di periferia !!

Come funziona la propaganda fascista
- di Samir Gandesha [*] -

Come riassumere oggi la rappresentazione socio-psicologica della propaganda fascista fatta da Adorno? Gli ambiti, in cui le riflessioni di Adorno sono illuminanti, Sono fondamentalmente tre: (1) il populismo; (2) l'analisi degli "agitatori" contemporanei; e, infine, (3) l'industria culturale. Prima di affrontare questi temi, è importante considerare anche i limiti delle sue straordinarie riflessioni. Come ho sostenuto altrove, i presupposti sociologici dell'appropriazione di Freud da parte di Adorno - in particolare il concetto, tratto da Pollock, di "capitalismo di Stato", secondo il quale il ruolo dello Stato è quello di gestire le tendenze alla crisi da parte del capitalismo – vanno ripensate in un periodo che è caratterizzato dall'obsolescenza del keynesismo. Inoltre, Adorno ebbe una immediata fiducia in quella che è la spiegazione freudiana ortodossa della teoria della pulsione, e del concetto di conflitto edipico. Tuttavia, anche questo va ripensato e ricostruito in modo da poter andare oltre, visto che l'ontologia atomistica e hobbesiana di Freud non si adatta particolarmente bene a un'ontologia sociale debitrice di Hegel e di Marx. Ciò che rimane di importanza duratura, tuttavia, è la discussione, fatta da Adorno, sulla contraddizione di base che sta al cuore della democrazia capitalistica, e sul modo in cui l'autoritarismo tende a riemergere sotto forma di una risposta potente, sebbene falsa, e nel contesto di una carenza di alternative praticabili, ivi compresa quella che Marcuse chiamava società unidimensionale. La condizione oggettiva cui si lega l'ostinata persistenza dell'autoritarismo, è la contraddizione, al cuore della società liberal-democratica, tra il principio democratico dell'egualitarismo, da un lato, e la concezione liberale della libertà negativa, dall'altro lato. [Nota*: il soggetto assoggettato - vale a dire la personificazione della merce - che vive nel modo di produzione capitalistico si trova sottoposto a due esigenze contraddittorie, entrambe inscritte nello scambio di merci: deve perseguire il suo interesse personale come agente economico, ma allo stesso tempo deve comportarsi come un cittadino che rispetta le leggi e i contratti, che costituiscono l'interesse generale]. La forma neoliberista e finanziarizzata del capitalismo - in atto da circa la metà degli anni '70 - ha drammaticamente acuito questa contraddizione, e lo ha fatto nella misura in cui il cittadino (l'homo politicus di Wendy Brown) è stato eclissato dall'homo oeconomicus; ora inteso come un "soggetto" "auto-imprenditore". Questi è costretto ad assumersi maggiori responsabilità rispetto a prima, ma allo stesso tempo ha accesso a sempre meno risorse con cui poter realizzare tale responsabilità in maniera significativa. Inoltre, in media, i tassi di crescita nei paesi ad alto reddito, dagli anni '60 sono diminuiti precipitosamente (4,3% annuo), scendendo al 2,8% negli anni '70, al 2,3% negli anni '80, all'1,8% negli anni '90, e all'1,2% negli anni 2000. Conseguentemente, dagli anni '70, i salari della stragrande maggioranza dei lavoratori sono rimasti stagnanti. A volte, non hanno nemmeno tenuto il passo con l'inflazione, mentre le prestazioni dello stato sociale sono diminuite considerevolmente, e i servizi sociali, così come l'istruzione superiore, sono diventati più costosi. Come è noto, ciò che in parte colmò questa lacuna fu il crescente indebitamento dei lavoratori. Così, gli individui in tal modo socializzati venivano costantemente meno agli ideali del loro Io [che a loro sembravano essere i loro propri, ma che invece venivano loro instillati in quanto esigenze dalla socievolezza capitalistica]; come risultato di tutta questa situazione, si è arrivati a una corrispondente proliferazione di tutti i sensi di colpa, ansia, frustrazione e, infine, rabbia.  Ironia della sorte - piuttosto che prevenire le tendenze autoritarie, com'era stato previsto dall'ordo-liberismo della Germania Ovest, l'avvento del neoliberismo si rivelò invece essere un terreno particolarmente fertile per la germinazione dei movimenti politici neofascisti e postfascisti. In un modo che riecheggia l'analisi fatta da Moishe Postone di quello che è l'antisemitismo implicito che si trova al centro delle critiche unilaterali del capitale finanziario (visto come fosse una manifestazione fittizia del lavoro astratto) svolte dal punto di vista della classe operaia (la quale, in linea di principio, produrrebbe lavoro concreto). Come sostiene il sociologo Phil A. Neel in "Hinterland: America's New Landscape of Class and Conflict": « Dato che siamo una delle generazioni più povere della storia recente, il debito e il pagamento degli interessi sono diventate le caratteristiche distintive della nostra vita. È stato questo fatto ad aver reso l'attuale rinascita dell'estrema destra una minaccia reale. Infatti, tutto ciò, aumenta la probabilità che una qualche variante dell'attuale politica "patriottica" possa effettivamente trovare una base di massa. Quello che vediamo, è un programma specificamente formulato per opporsi all'estrazione di reddito da quella che è una popolazione insoddisfatta e sottopagata. L'opposizione più generale al pagamento degli interessi diventa così politicamente motivante, dalmomento che essa è una forma primaria di sfruttamento nel capitalismo contemporaneo».

Così, quella che è la contraddizione tra l'autonomia nell'ambito "politico", o nelle strutture formali della democrazia rappresentativa, e la crescente eteronomia all'interno dell'ambito "economico" diventa sempre più insopportabile. Come afferma Adorno in "Che cosa significa elaborare il passato" [https://www.marxists.org/portugues/adorno/ano/mes/passado.htm ]: «In sostanza, il fascismo non può scaturire da disposizioni soggettive. L'ordine economico e, in larga misura, l'organizzazione economica modellata su di esso, rendono la grande maggioranza delle persone dipendenti da delle condizioni che sfuggono al loro controllo, in un modo che le mantiene in uno stato di immaturità politica». Nello stesso scritto, egli sostiene anche: « Se vogliono vivere, allora non hanno altra via d'uscita se non quella di adattarsi, sottomettersi a quelle che sono le condizioni date. Per farlo, hanno bisogno di negare proprio quella soggettività autonoma a cui fa appello l'idea di democrazia. In altre parole, possono sopravvivere solo se rinunciano alla loro autonomia... La necessità di un tale adattamento - di identificarsi con ciò che è dato, con lo status quo, con il potere in quanto tale - crea il potenziale per il totalitarismo». Di fronte a questa situazione contraddittoria, l'idealizzazione e l'identificazione con l'aggressore dovrebbero essere considerate come una (falsa) soluzione. Proiettandosi sul "piccolo-grande-uomo", il seguace viene ipnotizzato da un'immagine ingrandita di sé, da un ideale di sé davanti al quale si inchina. Il populismo emerge in quanto risposta all'attuale crisi di legittimità dell'ordine neoliberista. Piuttosto che liquidare e denigrare tout court questa formazione politica [il populismo], vale invece la pena distinguere tra la versione di sinistra e quella di destra del populismo. Adorno ci aiuta ad arrivare a dei criteri i quali ci permettono di fare proprio questo. Nel sottolineare come comprendere il processo attraverso il quale «il popolo diventa massa» sia di vitale importanza, ci porta – come si è visto nella discussione precedente – a capire bene quale sia il ruolo dell'agitatore di destra, visto in contrapposizione al riformatore o al rivoluzionario. I populisti di sinistra contemporanei - come Jeremy Corbyn e Bernie Sanders - cercano di delineare obiettivi politici concreti sinceramente, e quindi, facendolo, di rispondere alle richieste democratiche dei loro seguaci, prendendo di mira, nel farlo, in particolare la disuguaglianza socioeconomica. Al contrario, gli agitatori di destra evitano invece di affrontare tali interessi; e fanno appelli emotivi a concezioni razziste ed escludenti volte a trasformare il popolo in una massa. L'esposizione che fa Adorno, del meccanismo di identificazione attraverso l'idealizzazione, è particolarmente utile per aiutarci a comprendere tutta una serie di leader populisti di destra che sembrano incarnare la figura ossimorica di un «piccolo grande uomo». Esempi di questo tipo, sono l'ex presidente filippino Rodrigo Duterte, il primo ministro indiano Narendra Modi, l'ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e l'ex primo ministro britannico Boris Johnson. Tuttavia, nessuno ha incarnato più chiaramente questo ossimoro di quanto abbia fatto un noto ex presidente degli Stati Uniti: Donald J. Trump nell'esemplificare bene il «piccolo grande uomo», poiché egli viene considerato dai suoi sostenitori come se fosse una versione vivente più grande e migliore di loro. Tuttavia, potremmo davvero dire che i suoi seguaci abbiano interiorizzato la logica del sacrificio di sé, o della rinuncia? Sembrerebbe di no dal momento che essi si stanno sollevando aggressivamente contro le “élite” che li hanno sacrificati sull'altare della globalizzazione. Forse Trump non richiede un esplicito sacrificio di sé, ma sostenendolo, la maggior parte dei suoi sostenitori, anche se forse non tutti, sacrificano i propri interessi. Ad esempio, scambiano i meccanismi di protezione sociale con la religione MAGA ["Make America Great Again"] che vuole rendere l'America di nuovo grande. È anche certo, ad esempio, che l'enorme taglio delle tasse per i molto ricchi operato dall'amministrazione Trump li danneggerà materialmente. A questo si può aggiungere la crisi degli oppioidi che continua ad aggravarsi tra i bianchi poveri, e che ha prodotto una rapida diminuzione della loro aspettativa di vita. Attraverso tutti questi esempi, possiamo vedere come i sostenitori di Trump potrebbero essere considerati come se letteralmente si stessero sacrificando. Tuttavia, quando l'establishment politico lo attacca a causa della sua scarsa padronanza della lingua inglese, delle sue gaffe in materia di abbigliamento, dei suoi errori di gusto, per i suoi capelli finti, ecc., la cosa gli si ritorce contro. Tutte queste critiche non fanno altro che rafforzare l'idea del disprezzo che l'establishment non coltiva solo per il presidente, ma anche nei confronti della popolazione povera - o benestante che sia - che lo accompagna. Ora, le persone che lo idealizzano si identificano con lui; ma offendendolo, tali élite rafforzano la loro identificazione con l'aggressore. Anche quando sono stato presentate le prove che la sua presidenza li aveva danneggiati materialmente, il sostegno nei suoi confronti è rimasto più o meno incrollabile. Analogamente, l'amore dei sostenitori di Trump per il presidente è pari solo all'odio e alla violenza occasionale che essi rivolgono contro "l'altro" che viene dal Messico, per esempio. Nel farlo, infatti, seguono lo slogan nazista già citato: «Verantwortung nach oben, Autorität nach unten! (…)» [Responsabilità verso l'alto, autorità verso il basso!]. Eventualmente, in maniera più lungimirante, Adorno (insieme a Horkheimer) attira l'attenzione sull'affinità elettiva tra la personalità autoritaria e l'industria culturale. La condizione per cui diventa possibile che le persone vengano trasformate in massa, è la passività che deriva dal graduale ma costante indebolimento della funzione critica dell'Io. Nel loro resoconto sull'industria culturale, Horkheimer e Adorno mostrano il modo in cui la prima sostituisca quello che Kant chiamava lo «schema trascendentale». Ricordandoci che, secondo tale concezione, la molteplicità sensibile viene organizzata concettualmente attraverso l'attività dell'immaginazione, essi scrivono: «[L'industria culturale fornisce] modelli di pensiero già pronti, vale a dire quei termini tecnici che dopo la decadenza del linguaggio appaiono come se fossero rocce. Così, nel processo di percezione l'osservatore non è più presente. Egli diventa incapace di quella passività attiva che è insita nella cognizione, e nella quale gli elementi categoriali sono opportunamente rimodellati da degli schemi convenzionali preformati; e in modo che, viceversa, venga resa giustizia all'oggetto percepito». Tutto questo, oggi lo vediamo nel processo di digitalizzazione portato avanti dall'industria culturale negli ultimi decenni. Nell'organizzazione del molteplice, l'algoritmo è arrivato a sostituire lo schema trascendentale  grazie all'intuizione sensibile. Al posto della produzione di massa e della standardizzazione fordista, oggi si genera differenza ed eterogeneità su misura per i capricci e per i gusti di ogni individuo. Tuttavia, l'algoritmo è un codice che fissa una logica di ripetizione e uno stereotipo, che spesso conferma, approfondisce e rafforza proprio quei pregiudizi soggettivi già citati, e lo fa attraverso la creazione delle cosiddette "camere dell'eco", ovvero manifestazioni inconsce di bias di conferma.

È stato così che i fascisti del XX secolo hanno usato la radio e il cinema per diffondere la loro propaganda. Oggi, gli agitatori contemporanei dimostrano una predilezione per l'uso di Twitter, Facebook, Instagram e WhatsApp; tutte cose che, tra l'altro, consente loro di eludere efficacemente il presunto controllo razionale e critico di giornalisti, intellettuali e accademici seri, riuscendo così a comunicare  direttamente ai propri seguaci desideri spesso inconsci. Ma mentre i social media sono stati adottati anche dalle forze progressiste, per organizzare e mobilitare le persone contro i regimi autoritari – per esempio, in Iran nel 2009, nella primavera araba e nel movimento "Occupy Wall Street" – essi sono anche diventati il mezzo con cui l'estrema destra ha manipolato con successo gli elettori. Come è stato dimostrato dallo scandalo Cambridge Analytica, una società di consulenza britannica che ha effettuato l'estrazione di dati di informazioni personali accedendo a milioni di profili Facebook, a loro insaputa, a fini di pubblicità politica, come ha dimostrato il rapporto Mueller, attraverso il rilascio di e-mail hackerate da Wiki-Leaks nella fase finale delle elezioni statunitensi del 2016, non irrilevante per il loro esito. I social media forniscono anche l'infrastruttura per i partiti e i movimenti populisti di destra per diffondere fake news e disinformazione. Si potrebbe dire che creano così tipi di quelli che Freud chiamava “gruppi artificiali”, che minano la capacità di mettere in discussione la realtà e quindi la capacità critica dell'Io. Questi gruppi sono sia un mezzo per formare l'inconscio sia un modo per rivolgerlo verso l'esterno. Inoltre, le bacheche online (...) permettono proprio di "cortocircuitare" quella che è la relazione tra le "emozioni violente" e le "azioni violente". Traendo ispirazione dagli assassini di massa di estrema destra (...), i suprematisti bianchi in Europa e in Nord America, in particolare negli Stati Uniti, hanno discusso e pianificato i loro attacchi su queste bacheche, prima di eseguirli nel mondo reale.(…) L'esame che Adorno fa, dell'ostinata persistenza nel dopoguerra del tipo di personalità autoritaria, era orientato ad articolare «un nuovo imperativo categorico, dopo Auschwitz», vale a dire che l'Olocausto non avrebbe mai più potuto ripetersi. La chiave di tutto ciò, per Adorno, avrebbe dovuto essere l'idea kantiana di illuminismo, inteso come Mündigkeit, un termine il cui significato potrebbe essere tradotto con "maturità", in senso politico, cioè costituisce l'idea secondo cui il cittadino dev'essere messo in grado di parlare per sé stesso, in quanto soggetto autonomo. Questa maturità, inoltre, implica la rottura della compulsione a ripetere, insita nell'industria culturale. Secondo Adorno, il cittadino deve poter parlare da sé solo, «perché ha pensato con la propria testa e non si limita a copiare qualche altra persona e diventa così libero da qualsiasi tutore». La Mündigkeit è vitale, inoltre, proprio per la capacità che ha il cittadino di resistere a conformarsi all'opinione prevalente, ed essa si pone in stretta relazione con ciò che Kant chiamava giudizio riflessivo. Allo stesso tempo, Adorno sottolinea, con Nietzsche, allora (e, più tardi, con Kristeva), che siamo tutti «estranei a noi stessi». Ciò significa che certi aspetti della nostra esperienza, ad esempio il dolore, il trauma e la sofferenza, non potranno mai essere resi totalmente trasparenti, non potranno mai diventare concetti senza che qualche eccesso o residuo sfugga alla loro percezione. Per questo motivo, lo psicoanalista Christopher Bollas ha suggerito che l'autentica pluralità della democrazia dovrebbe riecheggiare in una pluralità esistente all'interno della propria mente. Tale pluralità, tuttavia, non diventerà mai veramente propria, se non fino a che la contrapposizione tra homo oeconomicus e homo politicus, tra liberalismo e democrazia, non verrà trascesa e superata.

- Samir Gandesha -

Testo da “Un mix tra King Kong e un barbiere di periferia - la teoria freudiana di Adorno e il modello della propaganda fascista”. In: "Specters of Fascism: Historical, Theoretical and International Perspectives". Londres: Pluto Press, 2020.

fonte: Economia e Complexidade

domenica 27 ottobre 2024

Guerre per Bande !!

Le minoranze rivoluzionarie sapevano che le migliori armi della rivoluzione sono i princìpi. Il peggior incubo della burocrazia cenetista consisteva nella possibilità di stabilire un legame tra opposizione rivoluzionaria interna e critica anarchica internazionale, come quella curata da Révisión, da L'Espagne Nouvelle e da Terre Libre. Il congresso straordinario dell'AIT, riunitosi a Parigi nel dicembre 1937, si svolse sotto la minaccia - per mano della delegazione spagnola della CNT - della costituzione di una nuova Internazionale a margine dell'AIT. Il congresso del 1938, avrebbe poi approvato una nota aggiuntiva ai principi fondamentali dell'anarco-sindalismo, proposta da Horacio Martinez Prieto per conto della CNT, che avrebbe significato la liquidazione morale e organizzativa dell'AIT.

Il libro di Agustin Guillamòn descrive i dibattiti, che vennero affrontati dai comitati superiori della CNT, con le diverse sezioni dell'AIT nell'estate e nell'autunno 1937, e racconta come il tedesco Augustin Souchy - ambasciatore ufficiale della CNT - minacciò di abbandonare l'AIT da parte della CNT, valutando in tal modo le possibilità, da parte della CNT di creare una nuova Internazionale, la Quinta, a immagine e somiglianza della CNT, riducendo così l'AIT u una struttura debole, scaduta e inutile. Le buffonate, i dibattiti e le invettive espresse nel corso di questo straordinario Congresso, vengono qui raccontate e spiegate in maniera approfondita e dettagliata.

La delegazione spagnola era venuta per insultare, sminuire e offendere il resto delle sezioni dell'AIT, dal momento che non tollerava alcuna critica rivolta alle loro tattiche ministeriali, e temeva che l'opposizione rivoluzionaria interna (Amici di Durruti, i comitati di difesa, Merino e il sindacato dei trasporti, i capçaleres come L'Amic del Poble, Alerta, Anarquia-FAI, ecc. ) confluisse e si unisse all'anarchismo critico internazionale (per lo più francese), rappresentato dai leader di Terre Lliure, Espagne nouvelle e Le Combat Syndicaliste, dietro i quali c'era la CGT-SR, la FAF e personaggi come Besnard, Volin, Prudhommeaux, Shapiro, ecc. Nel corso del Congresso ordinario del novembre 1938 la CNT assassinò l' AIT, approvando una nota aggiuntiva che modificava i principi fondamentali dell'anarcosindacalismo, già soggetti al capriccio e alle esigenze dei comitati superiori. Il libro si conclude evidenziando la fondazione del Gruppo franco-spagnolo degli Amici di Durruti, che mise in luce l'esistenza di un anarchismo rivoluzionario organizzato, brillante e pieno di speranze, incarnato tra gli altri da Balius, Ridel e Prudhommeaux, il quale però non riuscì a sopravvivere allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

NT Vs AIT 1936-1939: Los comités superiores cenetistas contra la oposición revolucionaria interna e internacional, di Agustí Guillamón

fonte: @Lluis Guix Moren

sabato 26 ottobre 2024

Il Secolo del Barone di Münchhausen

Denaro senza valore !!

«(…) ... dopo tutto, la bolla immobiliare non è altro che un aspetto di una problematica assai più ampia e generale, che poi è quella dell'economia capitalista del deficit globale; così come essa si è formata a partire dal dilemma costituito dall'insufficiente creazione di sostanza di valore, e a causa dell'aumento storico sia dei pre-costi che della riduzione della domanda regolare. Quello che, a livello di economia interna, si è manifestato come il nesso tra la bolla immobiliare e l'attività di costruzione edilizia, ora si sta manifestando, sul mercato mondiale, sotto forma di circuiti transnazionali del deficit tra i vari paesi e regioni del globo. Senza poter affrontare nei dettagli tale piano in questa sede (compito che deve essere riservato a un'analisi specifica dei movimenti del mercato mondiale a partire dalla Seconda Guerra Mondiale), è possibile affermare che, principalmente, si tratta del circuito deficitario del Pacifico tra l'Asia (soprattutto la Cina) e gli Stati Uniti, nonché del circuito deficitario europeo tra la Repubblica Federale Tedesca e il resto dell' Unione Europea, o meglio della Zona euro. In entrambi i casi, i famigerati “squilibri” - che si fanno beffe di tutti i libri di testo e che sono stati accumulati per lunghi periodi di tempo - includono, da una parte il finanziamento in deficit dei consumi, e dall'altra quello della produzione; deficit, che alla fine però non può più essere onorato, e quindi si riflette nei flussi unilaterali di esportazioni e importazioni.

Ora, in questo caso, l'impresa - degna del barone di Münchhausen - consiste nel fatto che alcuni finanziano la loro produzione in eccesso attraverso i debiti di altri, mentre, allo stesso tempo, acquistano i prodotti della controparte, e per farlo, utilizzano i medesimi debiti. Insomma, si finanziano a vicenda, senza che però, in realtà, nessuno dei due abbia un centesimo reale. Naturalmente, tutto questo funziona solamente fino a che il denaro contabilizzato e privo di sostanza - nella forma dei titoli di debito – e finché non verrà reclamato nella sua forma di mezzo di memorizzazione di valore. Così, proprio allo stesso modo in cui la bolla immobiliare ha generato una produzione di plusvalore apparentemente reale nell'industria delle costruzioni, verdiamo che anche i circuiti del deficit generano una produzione di plusvalore apparentemente reale nelle industrie di esportazione dei Paesi in surplus.

E  ancora una volta, il pensiero positivista prende sul serio questa mega-illusione. Tutti i discorsi fatti sull'ascesa dei cosiddetti Paesi emergenti, o sulla Cina come presunta nuova potenza mondiale, sul “secolo del Pacifico”, ecc., alla fine, sono tutti dovuti esclusivamente a questo errore di quella che è una percezione altrettanto deficitaria di quanto lo sia il suo oggetto. Così, esattamente allo stesso modo in cui la mobilitazione della forza lavoro nelle industrie edilizie - ad esempio negli Stati Uniti, in Spagna e in altri paesi - alimentata da dei buchi neri di non-valore, è svanita insieme all'improvvisa svalutazione di quella stessa forza lavoro e dei suoi mezzi di produzione, e anche dei suoi prodotti, ecco che sarà proprio quella stessa svalutazione che inevitabilmente finirà per affliggere tutti gli enormi settori di esportazione dei paesi in eccedenza.

Se il credito keynesiano, contratto dallo Stato, si era già coperto di vergogna, molto meno poteva farlo la presunta prosperità neoliberista, alimentata com’era dal debito e dalle bolle finanziarie transnazionali. In pratica, il programma neoliberale di deregolamentazione si è tradotto in un keynesianesimo dei mercati finanziari su scala globale, e lo ha fatto nella misura in cui, ora, quello stesso futuro consumo capitalistico è stato semplicemente "spostato" verso un ordine di grandezza maggiore; da quello dello Stato a quello del finanziamento, calcolato sulla base dei crediti e delle bolle del capitale individuale, e anche dei consumatori. Quello che sta succedendo, più o meno, è come se un'officina transnazionale di falsari avesse distribuito una massa gigantesca di banconote false ai diversi soggetti economici di tutto il mondo, i quali poi - sulla base dello standard di produttività raggiunto (che in realtà non era più consentito) - hanno iniziato a produrre e a consumare selvaggiamente, come se non ci fosse un domani (cosa che, per questo genere di vita, è davvero così). La valanga di svalutazioni che a partire dall'autunno del 2008 si è abbattuta sull'economia mondiale, non ha più rappresentato solo un grave avvertimento per l'economia in deficit, ma piuttosto l'inizio della sua fine e, insieme a essa, il segno che il limite interno assoluto del capitale era stato ormai così raggiunto.

Se poteva essere ancora possibile arrestare temporaneamente il precipitare di questa valanga, ciò poteva essere fatto solo al prezzo di un ritorno a quell'economia statale in deficit che, qualche decennio prima, era già fallita una volta; con l'unica differenza che ora la portata del problema è molto più grande. La crisi del debito sovrano - non più solo nella periferia, ma nei centri capitalistici, negli Stati Uniti e ora soprattutto nell'UE, o meglio nell'Eurozona - dimostra che l'intero sistema monetario mondiale si trova sull'orlo del collasso. Infatti, negli anni di crisi, successivi al fallimento di Lehman Brothers, le banche centrali emittenti si sono liberate da ogni inibizione. Hanno inondato l'economia con del denaro privo di ogni sostanza, ricevendo in cambio, come "garanzia", dei certificati spazzatura; così facendo, hanno acquistato in massa dei titoli di Stato, senza mai preoccuparsi di dirottarli attraverso il sistema bancario e gli investitori privati, e diventando così la discarica finale per tutti quei crediti putridi, del valore di molte migliaia di miliardi di unità monetarie. I pacchetti di salvataggio e i programmi di ripresa economica avviati con l'aiuto delle banche emittenti, hanno già raggiunto e superato l'ordine di grandezza delle economie di guerra.

Non appena scadranno le garanzie che sono ancora confinate alla carta su cui sono scritte, e non appena le banche emittenti - con le loro emissioni, al di là della presunta salvezza dei mercati finanziari e della raccolta di crediti inesigibili - finanzieranno la produzione direttamente dal nulla, così come la domanda (cosa che avevano già cominciato a fare), non solo ricomincerà la svalorizzazione (temporaneamente congelata per quel che riguarda tutte le componenti del capitale) continuerà, ma anche la svalutazione del denaro - in quanto mezzo come fine in sé - assumerà una qualità completamente nuova. Il keynesismo dei mercati finanziari, che aveva già accumulato un enorme potenziale inflazionistico, il quale ha cominciato a manifestarsi nel 2008, ma a cui, per il momento, è stato risparmiato lo shock della svalutazione del capitale monetario. Ora, in maniera classica, è di nuovo lo Stato quello che si prepara a portare a termine l'inflazione secolare. Così, nell'economia globalizzata, l'inflazione dei rispettivi mezzi monetari può anche passare – o peggiorare – attraverso la brusca caduta del valore esterno della moneta, o attraverso la svalutazione delle riserve valutarie dei paesi in surplus (la Cina è il caso più grave). …»

- Robert Kurz - da "Denaro senza Valore" - pagg.307-309 - 2012

venerdì 25 ottobre 2024

Teoria sulle Teorie del Complotto

«Sarà il futuro a dire se la teoria contiene più follia di quanto vorrei, o se la follia contiene più verità di quanto gli altri siano ora disposti a credere» - Sigmund Freud, "Le Président Schreber. Cinq psychanalyses", PUF, 1954, p. 321 -

«Insieme, i due estremi - “la pandemia è una cosa inventata” dei teorici della cospirazione, e “la pandemia è l'emergenza assoluta” della direzione sanitaria - esprimono la contraddizione reale in cui stiamo scivolando. In questa contraddizione, i governanti hanno navigato, destreggiandosi fino all'assurdo fra questi due termini. In teoria, non esiste alcun modo per poter decidere tra questi due estremi e, in pratica, tra le due cose, è tutta quanta una questione di… aggiustamenti. Perché un virus, che ha avuto inizio a Wuhan alla fine del 2019, e che è riuscito a uccidere quasi 7 milioni di persone in tutto il mondo (secondo la stima più bassa, ma quasi 15 milioni secondo la stima più alta dell'OMS), ha ricevuto quel trattamento politico che ha ricevuto; e che cosa ha a che fare in tutto questo la teorizzazione della cospirazione? Un trattamento, il quale non è affatto scontato, soprattutto se si considera la proliferazione di tutti gli altri rischi che nessuna politica è poi in grado di arginare; e che non è necessario elencare in questa sede. Piuttosto, in questo modo, la politica sanitaria ha rappresentato il manifestarsi di un'impotenza radicale, che viene infine risolta dalla vaccinazione di massa, svolta sotto forma di una parvenza di capacità di agire. Ragion per cui, questo caso, pertanto, potrebbe servire da lezione anche per tutte le altre crisi.»

- da: Sandrine Aumercier - "Réflexions à l’occasion de l’éditorial 2023 de la revue Exit!", 10/3/2023 -

fonte: @Palim Psao

Corbynismo !!

Il Corbynismo, come movimento politico, ora è in ascesa e, plausibilmente, arriverà anche al potere. Questo libro ci fornisce una panoramica critica di ciò che è il Corbynismo, al di là di Jeremy Corbyn stesso, collocandolo nel contesto dei movimenti populisti di destra e di sinistra che hanno oramai preso piede in tutto il mondo.

Sinossi dei capitoli del libro:
Capitolo 1 - Spiegare il 2017: l'ascesa e la caduta del populismo dell'austerità
Nel 1° capitolo, spieghiamo il perché della sorprendente performance dei laburisti alle elezioni generali del 2017, con il partito che guadagna 30 seggi, privando Theresa May della sua maggioranza: un risultato, questo, che è andato contro quasi tutte le previsioni. Suggeriamo che la chiave per comprendere questa straordinaria svolta risieda nel processo attraverso il quale il “deficit” è diventato un tema tabù nella politica britannica, e come  questo abbia concesso la possibilità, al Partito Laburista di progredire in base alla sua agenda corbynista. Ripercorrere la storia dell'ascesa e del declino del deficit, porta alla luce tutta una serie di importanti intuizioni su quale siano le origini, e il carattere, dell'attuale turbolenza politica nel Regno Unito, e su quale sia la posizione del Corbynismo in tale turbolenza. In particolare, viene rivelato il ruolo cruciale svolto dalla stessa narrazione iniziale dell'austerità, che mostra come, tanto il crudo produttivismo del suo “siamo tutti coinvolti”, quanto la sua opposizione basata sull'anti-austerità, abbiano agito da apripista per le correnti populiste che ne avrebbero seguito la scia e che, alla fine, l'avrebbero sussunta.

Capitolo 2 - I presupposti del Corbynismo: sul bicameralismo
Il capitolo 2° si concentra sul ruolo che, nello sviluppo del corbynismo nel suo complesso, ha svolto la reputazione personale di Corbyn, fatta di incrollabile integrità morale e di preveggenza politica; la reputazione di un uomo che sarebbe sempre stato “dalla parte giusta della storia”.  Ciò mostra come la mitologia morale che circonda Corbyn, in quanto individuo, sia radicata nel collasso della tradizione della “sinistra dura” dei laburisti, all'inizio degli anni Novanta e nel successivo processo della romanticizzazione di tale tradizione, insieme alla romanticizzazione dello stesso Tony Benn, che ne è seguita, in particolare sulla scia della leadership di questa sinistra dura nell' opporsi all'invasione dell'Iraq nel 2003.

Capitolo 3 - Dalla parte giusta della storia: la Mitologia Morale del Corbynismo
Nel 3° capitolo, mostriamo in che modo Corbyn sia stato il beneficiario di questo processo di de-storicizzazione e de-politicizzazione, che ha alimentato la narrazione di un “Anno Zero” costruita intorno alla sua candidatura alla leadership laburista, protrattasi fino alle elezioni generali.  In questo capitolo si sostiene che la fiducia nell'integrità personale di Corbyn è tale che il contenuto effettivo del suo programma - una piattaforma nazional-populista di protezionismo economico, abbinata a una cruda politica estera isolazionista basata sui “due campi” - è rimasto a lungo inascoltato dai suoi critici e dalla più ampia sinistra liberale. Questa assenza di approfondimento, accompagnata da un processo nel quale alcune scene della lunga carriera politica di Corbyn sono state trasformate in moderne parabole, è stata cruciale sia per comporre una coalizione elettorale, sia per evitare che alcune tensioni e contraddizioni all'interno del movimento stesso venissero a galla.

Capitolo 4 -  Riprendere il controllo: il Corbynismo in un Paese solo
Nel quarto capitolo, cerchiamo di contrastare questa interpretazione romantica e storicamente revisionista del Corbynismo, esaminando le premesse teoriche della tradizione di Tony Benn che sono state riprese dal suo successore. Lo facciamo confrontando la “Strategia economica alternativa”, proposta da Benn come soluzione alla crisi del capitalismo britannico a metà degli anni Settanta con il documento “Modelli alternativi di proprietà”, commissionato da John McDonnell nel 2017. Questo raffronto getta una luce sull'ambivalenza mostrata dalla leadership laburista nei confronti della prospettiva di una “hard Brexit” ; l'uscita dal mercato unico europeo e dall'unione doganale. Il capitolo si colloca in relazione alle visioni contemporanee dello Stato, e in particolare dello Stato-nazione, che si sono allontanate dalle tradizioni di sinistra di solidarietà transnazionale. Il capitolo contrappone la teoria del capitalismo, che sta alla base della visione di Benn-Corbyn del “socialismo in un solo Paese”, a una comprensione critica marxiana del capitalismo visto come un sistema globale storicamente specifico, costituito dal “lavoro socialmente mediato”. Suggeriamo che il mancato riconoscimento delle forme astratte di dominio sociale prodotte da tale sistema, sia alla base della recente svolta del Corbynismo verso delle soluzioni protezionistiche sposate dai movimenti nazionalisti sia di destra che di sinistra. Il capitolo indica alcune delle possibili conseguenze negative di tale svolta.

Capitolo 5  - «Le cose possono cambiare e cambieranno»: Classe, Postcapitalismo e Populismo di sinistra
Nel V capitolo, analizziamo criticamente la mobilitazione che il Corbynismo opera attraverso la nozione populista di “popolo”, e gli aspetti nei quali questa si contrappone a una mancanza di analisi di classe in cui si elidono le relazioni antagonistiche a favore di una concettualizzazione, priva di contraddizioni, del modo in cui il potere inevitabilmente andrà a vantaggio del soggetto popolare. Suggeriamo che una comprensione marxista ortodossa della classe, del valore e della storia induce il corbynismo - sia nella sua forma più tradizionale, qui rappresentata dal lavoro di Ralph Miliband, sia nella sua più fresca iterazione postcapitalista - a calcolare strategicamente male le possibilità di un'incipiente liberazione presente nell'attuale stato di cose. Il mancato riconoscimento del carattere negativo, mediato e intrinsecamente contraddittorio della società di classe - nella quale l'attività intrapresa dai lavoratori per garantire la loro sopravvivenza quotidiana produce le forme che poi arrivano a dominarli - porta alla falsa presunzione per cui l'antagonismo sociale possa essere risolto con la creazione di un “popolo” non contraddittorio, protetto dalle pressioni del mercato mondiale dallo Stato-nazione e dalle misure tecnocratiche.

Capitolo 6 - Il sistema truccato: Corbynismo e teoria del complotto
Nel capitolo 6°, esploriamo in che modo il Corbynismo si sia strutturato intorno a una critica tronca della società capitalista, vista come un “sistema truccato”; e come la cosa possa facilmente scadere in una sorta di complottismo teorico. Nel capitolo, si sostiene che la facilità con cui il tropo del “sistema truccato” sia passato lungo tutto lo spettro politico - da Bernie Sanders, a Donald Trump e poi a Corbyn – e ci indica una preoccupante ambivalenza politica. Tanto nelle sue formulazioni di destra, quanto in quelle di sinistra, il concetto di “sistema truccato” non coglie né la classe né il capitalismo in quanto forme sociali antagoniste, mediate e contraddittorie; ma presenta la società capitalistica come se fosse un processo di produzione relativamente semplice e naturale, il quale sarebbe stato dirottato dall'intervento illegittimo degli “estrattori di ricchezza”, della finanza internazionale, e del settore bancario. Mostriamo, in questo capitolo, in che modo questa critica tronca del “sistema truccato” si colleghi a idee simili a quelle che circolano intorno all'ascesa di Trump e della Brexit: ad esempio, l'opposizione al “globalismo” e il ripiegamento sullo Stato-nazione, assunto come orizzonte dell'attività politica. Mostriamo come tutto questo possa sfociare in teorie cospirative antisemite, soprattutto se combinate con il “campismo” riflessivo di quelle che sono delle forme contemporanee di “antimperialismo”.

- Corbynism: A Critical Approach, by Matt Bolton and Frederick Harry Pitts, Emerald Publishing, RRP£14.99/$24, 368 pages -

giovedì 24 ottobre 2024

Le “guerre culturali” nella “Fortezza Europa” !!

Una guerra ne nasconde sempre un'altra!
  di Nedjib SIDI MOUSSA

Guardando alla Francia, è difficile non citare l'Algeria, dal momento che i due paesi sono collegati tra di loro da storia, geografia, economia, cultura... Questa "relazione speciale" viene ancor più sottolineata dal fatto che la principale comunità di stranieri in Francia è composta da centinaia di migliaia di cittadini algerini; senza contare i cittadini francesi e i cittadini con doppia cittadinanza, dove uno o più parenti provengono dall'ex colonia. Per quanto questi individui alimentino molte fantasie - spesso contro la loro volontà - essi per lo più rimangono dei capri espiatori a disposizione della vendetta reazionaria.. Nell'ambito di quella che fu allora la sua crociata xenofoba, la destra e l'estrema destra denunciò regolarmente l'accordo franco-algerino del 27 dicembre 1968, il quale avrebbe dovuto allora regolare il soggiorno dei lavoratori algerini in Francia. Quegli attacchi ricorrenti non avevano altro scopo se non quello di mettere in discussione la legittimità della presenza dei cittadini algerini e dei loro figli; una componente dinamica delle classi lavoratrici. Come se i reazionari non avessero ancora digerito l'indipendenza del loro precedente possedimento nel 1962. Oggi, il nuovo ministro dell'Interno - l'estremista di destra Bruno Retailleau - si pone decisamente in linea con questa tradizione, avendo dichiarato, il 29 settembre, che questo trattato bilaterale è «squilibrato, estremamente vantaggioso per l'Algeria e molto svantaggioso per la Francia». Il che equivale a dire che secondo lui non solo ci sono troppi immigrati in Francia, ma ci sono soprattutto troppi algerini... Pertanto, non sorprende che il portavoce del governo abbia annunciato il 13 ottobre che nel 2025 si sarebbe resa necessaria una nuova legge sull'immigrazione. Ricordiamo che nel settembre 2023 Bruno Retailleau – allora senatore – aveva evocato i «bei tempi» della colonizzazione, criticando al contempo lo «spirito di pentimento». Oggi, il ministro sostiene «una politica di fermezza nei confronti dell'immigrazione», cosa che per questo segmento di proletariato non è certo di buon auspicio; ma che non lo é nemmeno, più in generale, per l'intera popolazione lavoratrice, alla quale il governo di Michel Barnier non ha da offrire nient'altro che la repressione e l'austerità. Assai spesso, le "guerre culturali" francesi hanno avuto come sfondo la relazione con l'Algeria, con l'obiettivo - esplicito o implicito - di stigmatizzare quello che viene ritenuto un "nemico interno". Un esempio, ci viene fornito dalla campagna promozionale del romanzo di Kamel Daoud, Houris (Gallimard, 2024). Questo giornalista franco-algerino che, nelle sue colonne pubblicate su Le Quotidien d'Oran, aveva un tempo affascinato un vasto pubblico di lettori in Algeria – grazie alla sua verve liberale diretta contro il dogma nazionale – è diventato, negli ultimi anni, uno dei portavoce del conservatorismo francese. In effetti, i suoi editoriali pubblicati sul settimanale parigino Le Point hanno accompagnato la deriva a destra del potere di Macron e, più in generale, delle élite francesi. Nelle sue interviste concesse durante questa nuova stagione letteraria, il romanziere contrappone quelle che sono due sequenze della storia algerina: la guerra di liberazione e la guerra civile. Nel farlo, gioca sulle fratture della società algerina e su quelle della sinistra francese. Come nel caso della sua intervista a France Inter del 28 agosto: «L'Algeria offre due storie, una delle quali rimane nascosta. La prima storia riguarda la narrazione mitizzata della decolonizzazione di cui tutti parlano. L'Algeria è un po' come il paese della battaglia di Algeri, in bianco e nero, ecc. Ma la seconda lezione che abbiamo sempre voluto ignorare ci proviene dal costo dell'islamismo armato, con cui si paga questa illusione, questa utopia devastante che massacra».

In effetti, i progressisti sono più inclini a evocare il momento coloniale proprio per mettere in discussione la sua eredità, in particolare la persistenza del razzismo nella società francese. Le date chiave della guerra di liberazione algerina – o della rivoluzione anticoloniale, che tra il 1954 e il 1962 si concretizzò in una lotta armata contro il colonialismo per ottenere l'indipendenza – sono oggetto di commemorazioni, come quella del 17 ottobre 1961, sostenuta da intellettuali e da attivisti di sinistra, al fine di ricordare il massacro di algerini perpetrato dalla polizia di Parigi, e per chiederne il riconoscimento da parte delle autorità francesi. Questo approccio è del tutto comprensibile e lodevole. Ma tuttavia, per alcuni, si accompagna ad un'idealizzazione del nazionalismo algerino, il cui carattere autoritario viene offuscato, mantenuto lontano dalle analisi dialettiche che potevano ancora essere ascoltate nel corso dell'ultimo secolo, tra gli anticolonialisti o i loro eredi (libertari, marxisti, ecc.). Inoltre, la rinascita di un "terzomondismo 2.0" (nel quale l'originaria prospettiva "socialista" è stata sostituita da un discorso identitario) il più delle volte ostacola le critiche alla dittatura algerina, come è stato dimostrato, il 7 settembre, dal silenzio quasi generale di fronte alla rielezione di Abdel Madjid Tebboune, avvenuta al primo turno con il "punteggio sovietico" dell'84,3%. Un esempio, stereotipato ma significativo di tale tendenza, ci viene fornito dall'eurodeputata di origine palestinese Rima Hassan. Dopo un soggiorno ad Algeri, la rappresentante eletta per La France Insoumise (LFI) ha risposto al saggista filo-israeliano Raphaël Enthoven scrivendo il 9 luglio su X: «La Mecca dei rivoluzionari e della libertà, è e rimarrà l'Algeria. Tel Aviv è la capitale di un regime fascista e di uno stato di apartheid». Al contrario, la guerra civile algerina – che negli anni '90 aveva contrapposto i gruppi islamisti armati alla polizia, al costo di diverse centinaia di migliaia di vittime – è diventato un argomento molto più delicato da affrontare all'interno della sinistra francese. Ciò probabilmente anche perché gli eventi sono ancora troppo vicini. Inoltre, molti algerini, protagonisti o vittime di quegli eventi, si sono stabiliti in Francia, portando con sé i loro traumi e la loro percezione di quella tragedia. Infine, questo conflitto "algerino-algerino" – in origine, poiché gli attentati sono stati perpetrati sul suolo francese – ha anche opposto varie fazioni francesi (intellettuali, attivisti, di destra e di sinistra, ma anche settori dell'apparato statale) nella discussione volta a designare il "nemico principale": era il regime militare-poliziesco, o erano gli insorti islamisti? Ciò ha avuto la conseguenza di sostenere più o meno incondizionatamente una parte rispetto all'altra, e di rendersi ciechi tanto di fronte agli abusi del primo (torture, rapimenti, repressione, ecc.) quanto alle atrocità deli secondi (attentati, massacri, stupri, ecc.). Le lezioni provenienti dal "decennio nero" non sono state apprese. Tuttavia, le spaccature dovute alla guerra civile algerina sono servite, in larga misura, da matrice per le controversie francesi sulla questione musulmana, mobilitando pertanto gli stessi attori (o i loro discepoli); ciò sebbene alcuni "disertori" hanno piuttosto preferito cambiare schieramento; alcuni con un approccio sincero, altri per puro opportunismo. Ma la volontà di contrapporre, in modo indiretto o presunto, queste due sequenze algerine nei dibattiti francesi la dice lunga sul rapporto strumentale con la storia, e sull'evoluzione dei rapporti di forza tra destra e sinistra. Questo approccio indica quale sia la priorità per i conservatori, che danno il tono sui media, sia dell'editoria che della politica. Secondo loro, infatti, si tratta di affermare che l'emergenza non è costituita né dai crimini coloniali né dal problema del razzismo - e tanto meno dalla questione sociale – quanto piuttosto dalla "minaccia islamista" e, a causa della sua capillarità, dal "problema musulmano", dalla "crisi migratoria", ecc. Tutto questo, ai loro occhi, dovrebbe portare alla difesa, per mezzo di una "fortezza Europa", oltre che all'affermazione di una "identità nazionale", all'espulsione degli stranieri – che viene da loro chiamata "re-migrazione" – e alla negazione di ogni discriminazione subita da intere fasce della popolazione relativa all'accesso alla casa, allo studio, al lavoro, al tempo libero... Certo, è vero che alcuni rappresentanti della sinistra francese non sempre mostrano chiarezza o coerenza su molti di questi argomenti delicati. Tuttavia, non bisogna farsi il nemico sbagliato. Soprattutto quando l'estrema destra si trova ormai davanti alle porte del potere... È ancora necessario attribuire le responsabilità e non cedere al disfattismo. Questo significa anche porsi quelle domande che fanno arrabbiare le persone, per quanto esse non ripaghino mai a breve termine; uscendo in tal modo da quelli che sono i sentieri battuti dove camminano gli spettatori del disastro. In queste "guerre culturali" - che per il contesto francese si basano su controversie elaborate a livello internazionale, ma che alla fine sono solo un avatar della guerra di classe che la borghesia francese sta conducendo con ferocia - vediamo molte personalità di origine algerina che si trovano collocate sia da una parte che dall'altra della barricata. Ma è da questo punto di vista che devono essere comprese le ricorrenti controversie. Infatti, la propaganda, quando non crea fratture nella società, e più in particolare all'interno degli strati svantaggiati, allora le aggrava, e lo fa spostando l'attenzione su delle questioni che sono sconcertanti e servono a creare la massima confusione. In una tale configurazione, i giornalisti, gli scrittori e gli intellettuali al soldo del governo fanno la loro parte, assai visibilmente.

Kamel Daoud, nato a Mostaganem nel 1970 e naturalizzato francese nel 2020, è pertanto una figura di questa "diversità" reazionaria, che denuncia regolarmente "la propaganda islamista, woke o decoloniale". Possiamo citare anche Boualem Sansal, autore de "Il giuramento dei barbari" (Gallimard, 1999). Lo scrittore - nato a Theniet el Had nel 1949 e recentemente naturalizzato francese - è entrato a far parte del comitato strategico del media identitario Livre noir/Frontières. Questo amico di Kamel Daoud castiga "l'islamismo, il wokismo e il consumismo", riprendendo la retorica catastrofista e declinista di Eric Zemmour. Anche Mohammed Sifaoui, è una delle voci preferite dai conservatori per affrontare l'islamismo. Nato nella periferia di Algeri nel 1967, un giornalista naturalizzato francese, si è specializzato in questo campo sin dalla guerra civile algerina, prendendo di mira in particolare la cosiddetta "islamo-sinistra", senza rigori o sfumature... Questi tre testimoni del “decennio nero” semplificano le questioni in gioco in una sequenza traumatica per offrire una narrazione compatibile con quella dello “scontro di civiltà”. Anche le donne non sono da meno. Va ricordata Malika Sorel, che era al secondo posto nella lista del Rassemblement National per le elezioni europee del giugno 2024. Questa saggista, nata Halima Mayouf nel 1960 a Marsiglia, si è laureata - come Boualem Sansal - alla Scuola Politecnica Nazionale di Algeri. La lista potrebbe continuare con Lydia Guirous, nata nel 1984 a Tizi Hibel ed ex portavoce del partito repubblicano, o con Fatiha Agag-Boudjahlat, nata nel 1979 a Montbéliard e co-fondatrice di Viv(r)e la République. Si sarebbe quasi tentati di ridurli al ruolo di "informatori autoctoni" o di "garanti esotici", permettendo così alla (estrema) destra francese di liberarsi dall'accusa di razzismo per mezzo della loro origine, ciò nel mentre veicolano nei media un discorso ostile all'islamismo o, attraverso successive amalgama, all'islam, ai musulmani o agli immigrati... Tuttavia, ciò impedirebbe di pensare che la loro sola presenza manifesti soprattutto l'attrattiva del "French way of life" – in contrasto con il loro paese d'origine – nella misura in cui questi individui hanno fatto la loro scelta a livello nazionale, avendo optato per la cittadinanza francese (almeno tra i nati in Algeria), o facendosi presunti vettori dello sciovinismo francese. In effetti, il loro discorso, spesso caricaturale, sposa valori conservatori (autorità, gerarchia, merito, sicurezza, ecc.), portati avanti anche da alcuni elementi della diaspora algerina; che è ben lungi dal costituire un blocco omogeneo. Inoltre, abusando di concetti fuorvianti o ideologicamente carichi (assimilazione, laicità, universalismo, ecc.), contribuiscono a interpretare i "valori della Repubblica" come se fossero altrettante ragioni per escludere i proletari immigrati o i loro discendenti, piuttosto che includerli su un piano di parità con le altre componenti della società. Eppure, nonostante il loro "successo" personale, questi individui - che lo vogliano o no -  fanno parte della lunga storia della gestione imperiale delle minoranze, dal momento che rimangono subordinati e confinati in un campo specifico. A causa dell'influenza della divisione editoriale e mediatica dei conservatori – il gruppo Bolloré ne è l'esempio più noto, ma non è l'unico – pertanto, in Francia, i progressisti impallidiscono, soprattutto perché i temi promossi dai loro avversari sono raramente quelli che loro preferiscono. Del resto – in quanto stratagemma della ragione inclusiva – la "diversità" e la "parità", paradossalmente incarnate dai reazionari franco-algerini, contribuiscono a disarmare la sinistra, la quale da parte sua sostiene l'antirazzismo e il femminismo, mentre però allo stesso tempo trascina, come fosse una macina da mulino, una vecchia disputa con la diaspora algerina. Questa storia secolare di disprezzo o di incomprensioni, nasconde tuttavia degli incontri fruttuosi, anche se le direzioni delle principali organizzazioni del vecchio movimento operaio – impigliate come sono nella burocrazia, nel clientelismo e nel nazionalismo – raramente sono state all'altezza del compito di affrontare le questioni relative alla lotta contro l'imperialismo o la discriminazione. Questo passato, può aver indotto i riformisti o i rivoluzionari, ormai indeboliti, a evitare dei temi divisivi, e a promuovere figure più caricaturali di quelle decantate nel cielo dalla destra, pur posizionandosi su un piano analogo – quello dell'identità o della "razza" – e nonostante la loro simmetrica contrapposizione. Di conseguenza, questi "nemici complementari" ostacolano, volontariamente o meno, l'emergere di discorsi o pratiche che fanno parte di una prospettiva libertaria, rendendoli impercettibili, soprattutto quando provengono da individui che ora vengono definiti "razzializzati". E questa rappresenta una doppia penalità. Il disagio della sinistra francese dinanzi al ricordo della guerra civile algerina riflette l'ambiguità, per usare un eufemismo, di alcuni suoi elementi nei confronti dell'Islam politico, che hanno strizzato l'occhio al Fronte Islamico di Salvezza (FIS) algerino, ad Hamas palestinese, agli Hezbollah libanesi e al predicatore Tariq Ramadan, nipote di Hassan el-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto.

Un esempio recente è stato quello del sostegno, a settembre, dato dalla deputata di LFI Ersilia Soudais all'influencer salafita El Yeah Zarelli alias Elias d'Imzalène, ex compagno del fascista Alain Soral, il quale si è proposto di «guidare l'intifada a Parigi». Va notato che questo approccio non è stato unanime, tutt'altro. Ma, per buona misura, vale la pena ricordare l'ambivalenza – per non andare oltre – di alcuni dei suoi rappresentanti nei confronti del regime militare-poliziesco algerino. Infatti, durante il periodo del partito unico (dal 1962 all'insurrezione dell'ottobre 1988), le nuove autorità indipendenti poterono contare sull'appoggio delle organizzazioni e delle pubblicazioni francesi che il più delle volte - disinteressate o meno - si astennero dal denunciare la repressione, o dal criticare il governo algerino, di cui condividevano le opinioni "antimperialiste". È il caso del Partito Comunista Francese (PCF), del Partito Socialista Unificato (PSU), del Centro per gli Studi e le Iniziative di Solidarietà Internazionale (CEDETIM), del quotidiano maoista "L'Humanité rouge" e di altri organismi del Terzo Mondo. La collusione di alcune frazioni della sinistra autoritaria con i regimi dispotici – "l'anti-imperialismo degli sciocchi" – si è poi manifestata anche nei casi della Siria e dell'Iran. Oscurare il gioco degli Stati – algerini e francesi, per cominciare – non ci consentirebbe di rendere pienamente conto di questa "relazione speciale" e delle sue conseguenze. Ma ciò richiederebbe un ulteriore sviluppo per evitare i pregiudizi cospirativi dei detrattori della "Françialgeria". Al massimo, possiamo qui sottolineare quale sia il peso di quelle amministrazioni che alimentano un nazionalismo esclusivo, ponendo le doppie nazionalità come un conflitto di legittimità, portando a cambi di fedeltà a seconda del contesto, ponendo in certe occasioni alcuni individui in una situazione favorevole, per meglio abbandonare la maggioranza al suo triste destino. Se la scelta dei colori da sventolare è di scarsa consolazione per gli strati sfruttati - nella misura in cui non risponde in alcun modo alle loro aspirazioni fondamentali - lo sciovinismo resta comunque un'arma decisiva nelle mani della classe proprietaria, che ha i mezzi per arruolare i servizi di mercenari della penna, franco-algerini o meno, motivati dall'idea di distillare il loro veleno nelle coscienze, in cambio di denaro, potere e successo. Così facendo, i dignitari dell'intellighenzia reazionaria si comportano come convertiti o zelanti funzionari pubblici, sempre pronti a obbedire alla ragion di Stato - così come i burocrati si sottomettono alla ragion di partito, che non può essere sbagliata - anche a costo di vendersi al miglior offerente e di tradire nel processo le convinzioni che avevano affermato di difendere su altri campi di battaglia.

Tuttavia, per concludere, torniamo al ruolo delle forze che si sono associate, per buone o cattive ragioni, alla "sinistra". Dato che, in attesa della prossima catastrofe, i riformisti e i rivoluzionari non sono condannati a ripetere per sempre gli stessi errori. In maniera analoga, i fallimenti o le divagazioni di pochi non devono in alcun modo servire da pretesto per squalificare, in blocco, le forze progressiste, al fine di contrastare meglio il campo reazionario, fomentando sterili polemiche – dato che esse non propongono né il superamento dialettico, in teoria, né la prospettiva emancipatrice, in pratica – oppure per alimentare la passività che porta a un identico risultato: la sconfitta nel risentimento. Si tratta di un percorso senza alcuna possibilità di ritorno, e questo indipendentemente dalla vernice con cui potrebbe essere ricoperto... Nel corso delle lotte contro il colonialismo, contro la dittatura monopartitica, contro il razzismo, durante la guerra civile, dopo l'ultima ondata di attentati in Francia, così come dopo la crisi aperta il 7 ottobre scorso, ci sono sempre stati elementi, anche isolati, che, su entrambe le sponde del Mediterraneo – e ben oltre – hanno lucidamente respinto il fondamentalismo, il nazionalismo e il sessismo, al fine di dare vita all'internazionalismo, al pluralismo e alla solidarietà, nel pieno senso del termine. Sta quindi a noi attingere al meglio della nostra storia per immaginare con ottimismo futuri desiderabili. Questa è la sfida del nostro tempo. Infine, in un momento in cui le popolazioni libanesi, palestinesi, sudanesi e ucraine vengono bombardate quotidianamente, è impossibile distogliere lo sguardo e dire che non ci riguarda. Contro il colonialismo e contro la guerra, laggiù, contro lo sfruttamento e il razzismo, qui, è lo stesso slancio umanista e rivoluzionario quello che deve portare a condannare con la massima forza gli abomini che ci degraderebbero definitivamente, se osassimo banalizzarli ricorrendo a una retorica intrisa di cinismo e pregiudizio o, peggio ancora, appoggiarli, per qualsiasi motivo, perché ciò comporterebbe la consacrazione del trionfo delle crociate reazionarie nella loro impresa di disumanizzare l'Altro, ai fini del puro e semplice sradicamento. Allora come oggi, «non c'è scelta: tra le vittime!» È anche una questione di principio, soprattutto per coloro che non disperano di vedere che il mondo cambi le sue basi.

- Nedjib SIDI MOUSSA - Parigi, 15 ottobre 2024 -

fonte: liberté ouvrière - anarcho-syndicalisme

mercoledì 23 ottobre 2024

Il peccato del deficit !!

Il consumo del futuro
-di Robert Kurz -

La crisi - che, al momento, sia contenuta oppure che stia già peggiorando - rimane essenzialmente quella che può essere vista come una cosiddetta crisi del debito. Ma cosa significa questo?
Il capitale produttivo viene ottenuto grazie al denaro proveniente dal sistema bancario. E pertanto bisogna condividere il profitto del capitale produttivo con quello del capitale finanziario; che addebita gli interessi, vale a dire, il prezzo del denaro preso in prestito. Ma se il capitale produttivo non fa abbastanza profitto, si verifica una crisi, tanto per il debitore quanto per il creditore. Il "pregiudizio popolare" (Marx), ama incolpare il capitale finanziario in quanto "avido" di volersi arricchire in maniera improduttiva. E qui la domanda diventa chiedere perché il capitale produttivo ha bisogno di prendere in prestito denaro, al fine di essere in grado di pagare i mezzi di produzione? Il problema sta qui, e non nel "male" del capitale finanziario. A costringere all'aumento incessante della produttività, è la concorrenza; e questo aumento incessante si rende possibile solo attraverso l'uso di un aggregato scientifico e tecnico sempre più crescente. Marx ha dimostrato che ciò che aumenta sempre più, è tutto ciò che è costituito su quella parte del capitale reale morto, la quale non crea nuovo valore, come invece fa quella parte che viene prodotta dalla forza-lavoro, che è l'unica che produce valore aggiuntivo. Anche le statistiche borghesi dicono la stessa cosa, nel momento in ci scoprono che, con l'aumentare dell'intensità di capitale, anche i costi di un lavoro aumentano costantemente. In altre parole, i pre-costi morti necessari alla produzione di capitale non possono più essere finanziati dai profitti correnti. Da qui l'uso del credito, al fine di poter essere così in grado di pagare il capitale reale in crescita. Nel XX secolo, il problema del debito si è esteso, dal capitale produttivo, anche ai bilanci statali e privati. Così, anche la spesa pubblica per le infrastrutture, e per i consumi privati, non è più finanziabile solo attraverso le entrate correnti reali, e può essere finanziata solo a credito. Tuttavia, il mega-indebitamento a tutti i livelli non è altro che l'anticipazione di quelli che saranno i profitti futuri, l'anticipazione dei salari e delle tasse sui processi di produzione reali. Pertanto, quando tutto ciò viene spinto troppo oltre, e rompe le catene del credito, questo "consumo del futuro" si trasforma in una crisi generale. Ciò vale per tutti gli attori, compreso lo Stato. Oggi si parla di "peccatori in deficit" e di comportamenti finanziari dubbi. Si dice che non dovremmo vivere a spese delle generazioni future, che servirebbe una nuova "morale del padre di famiglia" con una volontà di ferro. In realtà, però, quel che viene consumato non sono il cibo, il vestiario, l'alloggio e le attrezzature del futuro, ma soltanto dei redditi futuri che diventano sempre più illusori, in modo da poter così continuare a utilizzare le risorse materiali che attualmente sono disponibili in abbondanza. È questa assurdità, a rendere chiaro che il capitalismo non è altro che un fine in sé volto ad aumentare il denaro in maniera astratta, e che esso non ha nulla a che fare con l'efficiente soddisfazione dei bisogni, come sostengono i suoi apologeti. Il denaro non è una risorsa reale, ma rappresenta la forma feticistica delle risorse reali. E la crisi globale del debito è il risultato del disperato tentativo di mantenere entro i limiti del fine in sé capitalistico quelle vaste forze produttive - facendolo attraverso il "consumo del futuro" alimentato da delle entrate monetarie che non arriveranno mai - anche se da tempo queste forze sono cresciute ben oltre quei limiti. Ora, si sostiene che dovremmo vivere in condizioni peggiori, e disattivare le risorse - lasciandole intatte - ivi comprese le cure mediche, e questo perché il capitalismo ha ormai già consumato tutto il proprio futuro. La soglia del dolore è oramai già stata raggiunta. Ma la coscienza sociale non ha ancora imparato a utilizzare le risorse "inutilizzate", facendolo secondo una logica diversa.

- Robert Kurz - Originale su Neues Deutschland, il 10.01.2011

martedì 22 ottobre 2024

Lambertisti ?!!???

Il trotskismo ha ancora un passato?
- di Nedjib Sidi Moussa -

«Ci sono degli elementi coraggiosi a cui non piace seguire la corrente: questo è il loro carattere. Ci sono persone intelligenti che hanno un brutto carattere, non sono mai state disciplinate e hanno sempre cercato una tendenza più radicale o più indipendente: hanno trovato la nostra. Tuttavia entrambe queste persone sono ancora più o meno estranee, a parte la corrente generale del movimento operaio. Il loro grande valore ha ovviamente il suo lato negativo, dal momento che chi nuota controcorrente non può essere legato alle masse.» (Leon Trotsky, aprile 1939.)

Questo libro di Laurent Mauduit, co-fondatore di Mediapart, e di Denis Sieffert, ex direttore di Politis, accende ii riflettori su una corrente politica poco nota al grande pubblico che viene definita "Lambertismo"; da Pierre Boussel dit Lambert (1920-2008), il suo principale leader. Combinando testimonianze e indagini, questo libro, pubblicato pochi mesi fa, si inserisce nei dibattiti della sinistra francese in un momento in cui la preminenza – dichiaratamente relativa – de La France Insoumise (LFI) e del suo leader carismatico, Jean-Luc Mélenchon; egli stesso militante lambertista tra il 1972 e il 1976 a Besançon, e poi passato al Partito Socialista (PS) di François Mitterrand che ha lasciato nel 2008 per fondare il Partito della Sinistra seguendo il modello inaugurato da Die Linke in Germania. Come indicato nella quarta di copertina, questo libro a quattro mani si propone di fornire delle «chiavi di lettura della crisi che la sinistra sta attraversando oggi», e più specificamente quella che sta destabilizzando LFI, ricondotta non a caso alla personalità di Jean-Luc Mélenchon - il quale si dice abbia «anticipato l'eredità lambertista» la quale «riproduce culturalmente i tratti più caratteristici di questa corrente del trotskismo: un rapporto problematico con la democrazia, l'ostilità verso i media, un immaginario geopolitico legato alla Guerra Fredda». A questa tesi, a dir poco discutibile – le cui falle citate sono condivise da tante altre figure o organizzazioni della sinistra – viene affiancato un appello riformista, che nell'introduzione afferma: «Piuttosto che una rivoluzione, che non si è dimostrata valida nel nostro vasto mondo, se non per aver portato a disastri e a promuovere dittatori, non dovremmo piuttosto pensare a un riformismo radicale, sociale ed ecologico? Un "riformismo rivoluzionario", come ha detto Jaurès. Non dovremmo rivolgerci ad altri orizzonti, per esempio quelli dei "beni comuni", che hanno il vantaggio di tracciare percorsi che vanno oltre la proprietà e invitano a rifondare la democrazia?» 

Gli specialisti del movimento operaio e del trotskismo, non impareranno molto leggendo le quasi 500 pagine di questa storia raccontata in termini negativi, e nella quale la stigmatizzazione di certi protagonisti – come Jean-Christophe Cambadélis, passato dal lambertismo al PS, di cui è diventato Primo Segretario – ne risparmia tuttavia altri, le cui azioni e traiettorie rimangono comunque discutibili. Più di vent'anni dopo un "affare Lionel Jospin", insieme alla frenesia mediatica che lo ha accompagnato, si vede che probabilmente era necessario tornare a questi singolari eredi di Lev Davidovich Bronstein - noto come Leon Trotsky (1879-1940); questo "Stalin fallito", come lo definisce Willy Huhn. Abbiamo così potuto assistere alla comparsa di un sottogenere letterario, con le memorie di ex-lambertisti come Patrick Gofman, "Cœur-de-cuir" (Flammarion, 1998); Philippe Campinchi, "Les Lambertistes" (Balland, 2000); Benjamin Stora, "L'ultima generazione dell'ottobre" (Stock, 2003); Boris Fraenkel, "Profession: révolutionnaire" (Le Bord de l'eau, 2004); Michel Lequenne, "Il trotskismo, una storia nuda e cruda" (Syllepse, 2005)... Da allora, con l'eccezione della tesi di Jean Henztgen – discussa nel 2019 con il titolo "Dal trotskismo alla socialdemocrazia: la corrente lambertista in Francia fino al 1963" – sono stati ben pochi i lavori che hanno avuto come soggetto questa famiglia atipica, le cui vicissitudini hanno fatto luce su alcune parti della vita politica, e non solo alla periferia ma anche al centro, al di là del divario riforma/rivoluzione. Il primo capitolo del libro sorvola "l’età dell'oro" di questa corrente, spesso ridotta a uno dei suoi tanti nomi, l'Organizzazione Comunista Internazionalista, o, più semplicemente, al suo acronimo – l'OCI – in vigore tra il 1965 e il 1981, e la cui eredità viene oggi contestata dai membri del Partito Operaio Indipendente e da quelli del Partito Operaio. Questa matrice comune, la cui origine ha origine nell'Opposizione di Sinistra del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, rimane segnata - nel contesto francese - dalla scissione del Partito Comunista Internazionalista, avvenuta nel 1952, e che ha portato all'esistenza di due organizzazioni che si distinguono per il nome del loro organo: "La Vérité" del gruppo (maggioranza) di Pierre Lambert, circa 150 militanti, e "La Vérité des Travailleurs" della (minoranza) guidata da Pierre Frank (1905-1986), circa 50 militanti, che però ha il sostegno del Segretariato Internazionale della Quarta Internazionale, guidato da Mikhalis Raptis noto come Pablo (1911-1996). Nel contesto della guerra fredda, e alla vigilia di un'ipotetica conflagrazione del terzo mondo, il 14 gennaio 1952 essa sostenne «l'entrismo sui generis nei confronti delle organizzazioni e dei lavoratori influenzati dagli stalinisti». Per i trotskisti, si trattava quindi di entrare discretamente nel Partito Comunista Francese (PCF), e di accompagnare la "deformazione" del principale polo di attrazione operaia – tra i 200.000 e i 300.000 iscritti – al fine di promuovere la costruzione del "partito mondiale della rivoluzione socialista". Questo orientamento, venne sostenuto dai militanti che erano con  Pierre Frank, ma osteggiato dai militanti raggruppati intorno a Pierre Lambert – impegnato a sostenere la Jugoslavia di Tito e che, intorno al giornale L'Unité, aveva un'alleanza con i riformisti di Force Ouvrière . Resta il fatto che entrambi nutrivano la medesima ammirazione per il leader dell'Armata Rossa – responsabile della sanguinosa repressione dei marinai di Kronstadt nel 1921 – e condividevano quelle stesse basi teoriche che erano condensate nel Programma di transizione, risalente al 1938 e che definiva l'Unione Sovietica come uno "Stato operaio degenerato" piuttosto che come capitalismo di Stato. Il libro "Trotskismo, Storie segrete" affronta, in particolare, i legami tra Lambertismo e socialdemocrazia, attraverso i capitoli dedicati a quella che costituisce la "polena" di questa corrente. vale a dire, all'entrismo che ci porta ad esplorare sia il periodo tra le due guerre che la seconda metà del XX secolo. In effetti, la nota biografica di Pierre Lambert per "le Maitron", scritta da Pierre Broué (1926-2005) – anche lui "ex" – ci racconta la natura sinuosa di questa relazione: «Non aveva quindici anni, quando si unì alla Gioventù Comunista di Montreuil, e non aveva molti più anni quando venne espulso a causa delle domande che aveva formulato circa l'abbandono da parte del PC delle sue posizioni antimilitariste all'indomani del Patto Franco-Sovietica. Contattato dai trotskisti, si convinse ad aderire allo "Entente des Jeunesses socialistes de la Seine" che perseguiva, sotto la guida di Fred Zeller, la difesa dell'internazionalismo e dell'antimilitarismo, ma che non seguì allorché i suoi dirigenti furono espulsi alla conferenza di Lille nel luglio 1935: rimase pertanto, pur sostenendo posizioni "formalmente trotskiste", nelle file del JS ricostituito in seno al Partito Socialista SFIO, e, nella SFIO, si unì alla Sinistra Rivoluzionaria». Qui, è d’obbligo un breve promemoria: la Lega dei Comunisti, la prima organizzazione trotskista in Francia, era stata creata nell'aprile del 1930 da dei militanti espulsi dal PCF, che distribuivano il settimanale La Vérité, il cui direttore era Pierre Frank, nonché la rivista La Lutte de classes, diretta da Pierre Naville (1904-1993). In una situazione segnata dal 6 febbraio 1934, e dagli appelli per un "fronte unico" contro le minacce del fascismo e della guerra, i sostenitori di Lev Trotsky, una quarantina, entrarono nella Sezione francese dell'Internazionale operaia (SFIO) – che contava più di 100.000 membri – per fondare, in agosto, il Gruppo bolscevico-leninista (GBL).

Nonostante l'iniziale riluttanza di alcuni militanti, i trotskisti videro crescere il loro pubblico, in particolare tra i giovani e nella regione di Parigi, ma il GBL fu però espulso dalla SFIO l'anno successivo. Un nuovo ciclo di scissione/fusione continuò fino alla vittoria del "Rassemblement populaire" nel 1936, seguita dalla creazione, in giugno, del Partito Operaio Internazionalista (POI), che unì i trotskisti attorno al giornale "La Lutte ouvrière". In questa fase, Pierre Lambert era allora un membro della tendenza della Sinistra Rivoluzionaria della SFIO guidata da Marceau Pivert (1895-1958). Dovette aspettare qualche anno prima di poter entrare effettivamente a far parte di un gruppo trotskista, come indicato nella sua nota biografica: «Del resto, seguì la nuova direzione guidata da Lucien Weitz quando il JS della Senna, all'indomani della sparatoria di Clichy nell'aprile 1937, ruppe con la SFIO, allora al governo, e divenne la Gioventù Socialista Autonoma. […] Quando la JSA si unì alla nuova formazione del Partito Socialista dei Lavoratori e dei Contadini (PSOP) guidato da Marceau Pivert nel giugno 1938, fu essa che formò il nucleo della sua organizzazione giovanile, la JSOP. Pierre Boussel incontrò poi i militanti trotskisti del PCI di Raymond Molinier e di Pierre Frank, che si erano uniti individualmente al PSOP, e che poi si unirono al loro gruppo nel dicembre 1938». Anche in questo caso, un altro promemoria è d'obbligo. Gli scioperi dei sit-in che seguirono l'avvento del Fronte Popolare convinsero i trotskisti che "la Rivoluzione francese era iniziata"; la lotta operaia del 19 giugno 1936 chiamò gli operai a formare soviet dappertutto... Tuttavia, Raymond Molinier (1904-1994) – creatore del Partito Comunista Internazionalista (PCI) a marzo, a luglio fu escluso da un Partito Operaio Internazionalista a cui aveva aderito nell'interesse dell'unità. Dopo aver rilanciato il PCI e il suo giornale La Commune in ottobre, i suoi militanti presero atto, due anni dopo, della "sconfitta operaia" avvenuta nel novembre 1938 – la repressione da parte del governo di Édouard Daladier dello sciopero contro i decreti legge – e decisero, in dicembre, di aderire al PSOP. Questo nuovo partito, che contava tra i 7.000 e gli 8.000 membri, era stato fondato in giugno da membri della Sinistra Rivoluzionaria della SFIO riuniti intorno a Marceau Pivert. Quest'ultimo rifiutò la fusione tra la sua giovane organizzazione e il POI propugnato da Lev Trotsky: il "socialista di sinistra" preferiva un fronte unico. Ciò non impedì a una minoranza del POI – contro il parere della direzione ma con l'appoggio della Quarta Internazionale – di aderire al PSOP nel febbraio 1939. Guidata da Yvan Craipeau (1911-2001) e Jean Rous (1908-1985), questa tendenza, che si espresse nella rivista La Voie de Lénine, lanciata in aprile, portò avanti un "lavoro frazionato" che Marceau Pivert esortò a fermare in giugno. Fu in questo contesto di crescenti tensioni tra i sostenitori di Leon Trotsky e la direzione del Pivertista che Pierre Lambert – membro della direzione federale dell'organizzazione giovanile PSOP della Senna – fu escluso, prima di diventare un attivista del PCI clandestino durante la seconda guerra mondiale. Nel capitolo "I due entrismi", Laurent Mauduit e Denis Sieffert cercano di distinguere tra un entrismo "con la bandiera dispiegata" – sostenuto da Lev Trotsky nel 1934 – e un entrismo sui generis, assimilato a "un lavoro 'frazionario' volto a collocare 'sottomarini' in organizzazioni nemiche o rivali", o addirittura a un'"infiltrazione". Tuttavia, la storia del movimento trotskista – e ancor più quella della corrente lambertiana – ci insegna fino a che punto le due tattiche siano inseparabili ma anche consustanziali a questa famiglia politica la cui connivenza con la socialdemocrazia è diventata proverbiale. Queste pratiche – umanamente costose, politicamente sterili, tranne che per la sopravvivenza dell'apparato – si sono ripetute con l'Unione della Sinistra Socialista Autonoma o con il Partito Socialista Autonomo – rompendo con la SFIO – e, più tardi, con il PS del congresso di Épinay o delle sue diramazioni. All'interno del LFI, i lambertisti – quelli del Partito Operaio Indipendente (POI), da non confondere con il Partito Operaio (PT), che ufficialmente disapprovava questo orientamento – costituivano probabilmente la corrente più strutturata, comprendente i loro militanti e quadri (noti o meno), il loro ufficio parigino (87, rue du Faubourg-Saint-Denis) e il loro giornale Informations Ouvrières al servizio del partito di Jean-Luc Mélenchon, che è riformista; come Jeremy Corbyn, Bernie Sanders o Alexis Tsipras. Questa alleanza al vertice si colloca sulla scia delle connessioni sopra menzionate, che portano tutte il sigillo dell'opportunismo, a testimonianza della impossibilità, o piuttosto della rinuncia di un pugno di burocrati permanenti – cinici, manipolatori e settari – di costruire una forza rivoluzionaria.

Tutto il resto è solo letteratura. Solo che siamo più vicini alle disavventure di Julien Sorel piuttosto che alle imprese di Jan Valtin; il dogmatismo prende il posto della teoria, la demagogia della strategia, la manipolazione della tattica e la mitologia della storia, usando o abusando di sfuggita dell'entusiasmo di giovani pronti a sferrare un assalto al cielo ma che finiscono per cadere, per loro grande disgrazia, sugli epigoni di O'Brien. Certamente, per parafrasare Sonia Combe – anche lei "ex" – i trotskisti volevano combattere lo stalinismo con i metodi dello stalinismo; Bisogna anche aggiungere che questo crimine è stato commesso in nome della socialdemocrazia, e quindi della borghesia. Questo dovrebbe anche portarci a mettere in discussione le dimensioni autoritarie, manichee e nazionaliste della cultura politica francese – a destra come a sinistra – di cui il lambertismo è solo un povero avatar. Avvicinandosi superficialmente alla sequenza della rivoluzione algerina, durante la quale il gruppo di Pierre Lambert si impegnò a sostenere incondizionatamente il Movimento Nazionale Algerino (MNA) di Messali Hadj – mentre il gruppo di Pierre Frank sosteneva, altrettanto incondizionatamente, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) – gli autori riprendono alcuni luoghi comuni, basandosi principalmente sulla testimonianza di Michel Lequenne (1921-2020), che però non coglie il punto. In effetti, la "guerra d'Algeria" ha rappresentato un test importante per la sinistra francese – o piuttosto un fallimento per la maggior parte delle correnti che la compongono e il cui sciovinismo non ha più bisogno di essere dimostrato. Il problema dell'impegno lambertista in questo periodo risiede soprattutto, come le altre tendenze, nel "equivoco operativo" causato dalla lotta anticolonialista, perché se gli internazionalisti di Francia vedevano nell'indipendenza un preludio alla rivoluzione proletaria, i nazionalisti algerini combattevano prima di tutto per la creazione di uno Stato borghese, utilizzando allo stesso tempo l'influenza della lotta anticolonialista, usando, a seconda della situazione, una fraseologia che potesse suonare piacevole alle orecchie dei loro interlocutori stranieri. Questo "errore" non è stato riconosciuto - in Informations ouvrières - fino a dopo il colpo di Stato guidato da Houari Boumedienne, il 19 giugno 1965 – ; va notato che pochi anni dopo, "errori" simili furono ammessi dai loro concorrenti della Quarta Internazionale.Ma questi difetti, rivelatisi tardivamente, si basavano sulla nozione di "classe del popolo", presa in prestito dagli appunti di Abraham Léon circa "La concezione materialista della questione ebraica". Legata a un'Algeria colonizzata, che pochi anticolonialisti francesi conoscevano veramente, questa teoria portò alla negazione dell'esistenza di una borghesia autoctona, o alla minimizzazione della sua influenza, per meglio assimilare i colonizzati – vale a dire, tutte le classi messe insieme – ai proletari. Questa interpretazione permise quindi l'appoggio incondizionato dei marxisti – isolati nel loro paese di fronte all'egemonia degli apparati stalinisti e socialdemocratici – ai partiti nazionalisti in nome di un movimento comune contro l'imperialismo, senza tuttavia cercare di formare raggruppamenti su basi rivoluzionarie. Anche in questo caso, è stato solo con l'opuscolo "Alcune lezioni della nostra storia" – ripubblicato più volte dal 1970 in poi – che l'OCI ha fatto il suo mea culpa, anche se, in "Come il revisionismo", Stéphane Just si è spinto oltre accusando Pierre Lambert di aver ridotto i militanti trotskisti al semplice ruolo di "portatori di borse". Infine, per concludere con la questione algerina – che rimanda a considerazioni più ampie – Laurent Mauduit e Denis Sieffert tacciono su un altro aspetto di questa storia che, pur avendo Parigi come centro nevralgico, ha tuttavia alcune ramificazioni al di fuori della Francia. Dopo tutto, l'unico ramo lambertista che ha prosperato all'estero non è forse quello del Partito dei Lavoratori di Louisa Hanoune, in Algeria? A costo di molti compromessi con il regime militare-poliziesco, l'Unione Generale dei Lavoratori Algerini – l'ex sindacato unico, integrato nello Stato –, il Fronte Islamico di Salvezza, ecc. Tutto questo a spese di militanti sinceri ma scoraggiati – quando non sono stati odiosamente sacrificati – da tanti capovolgimenti imposti e collusioni dubbie. Questo opportunismo, senza dubbio disinteressato a un paese che esporta i suoi idrocarburi, è stato illustrato dallo svolgimento di "conferenze mondiali aperte" ad Algeri – dove le libertà democratiche sono calpestate – nel novembre 2010 e nell'ottobre 2017, su iniziativa dell'Accordo Internazionale dei Lavoratori e dei Popoli. Con la benedizione delle autorità. Detto questo, per essere del tutto onesti, dovremmo avere a che fare con quelli di sinistra – e sono molti – che hanno scambiato la dittatura del proletariato con quella dei mercenari. Nella loro conclusione, gli autori fanno la seguente osservazione: «La sintesi Lamberto-Mélenchoniana sta ora portando a un disastro: una malcelata simpatia per dei dittatori che provengono più o meno direttamente dallo spazio post-comunista, russi, cinesi o latinoamericani. Tutto ciò è giustificato da un antiamericanismo che agisce in modo pavloviano». Certo, questa descrizione, che corrisponde a una visione "campista" del mondo, vale anche per altre tendenze: non è quindi appannaggio né dei lambertisti né di Jean-Luc Mélenchon, anche se questa inclinazione ha indubbiamente favorito questo riavvicinamento denunciato nel libro, in un contesto di calpestamento delle libertà democratiche, di visione paranoica delle relazioni internazionali ma anche di disprezzo – venato di pregiudizi cognitivi, per non dire altro – per quanto riguarda gli spazi extraeuropei. Basterebbe riesumare gli articoli di Informations ouvrières, pubblicato nel 1978, durante la rivoluzione iraniana, in cui le masse "indotte a fare affidamento sull'atteggiamento di opposizione adottato dalla gerarchia religiosa" (12-19 aprile) sono visti con favore. Quanti altri sono caduti nelle stesse trappole? Nella galassia marxista, il lambertismo è solo una stella moribonda – ma così dannosa – su cui è meglio non soffermarsi molto per non perdere la propria anima, nonostante l'esistenza, al suo interno, di "pochi personaggi sgargianti" che non hanno avuto molto peso di fronte al regno dei "combinardi". Ma l'universo rivoluzionario è molto più ampio. Chi vuole vedere il mondo cambiare le sue basi, "con gli occhi veramente aperti", e non fare i conti con l'ordine esistente, esplorerà costellazioni più stimolanti – spesso rompendo con la tradizione leninista – e, per esempio, scoprirà la galassia libertaria che custodisce molti tesori.

- Nedjib SIDI MOUSSA - Pubblicato il 4/10/2024 su A Contretemps -

Laurent MAUDUIT et Denis SIEFFERT, "TROTSKISME, HISTOIRES SECRÈTES, DE LAMBERT À MÉLENCHON". Les Petits Matins, 2024, 464 p.