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giovedì 24 ottobre 2024

Le “guerre culturali” nella “Fortezza Europa” !!

Una guerra ne nasconde sempre un'altra!
  di Nedjib SIDI MOUSSA

Guardando alla Francia, è difficile non citare l'Algeria, dal momento che i due paesi sono collegati tra di loro da storia, geografia, economia, cultura... Questa "relazione speciale" viene ancor più sottolineata dal fatto che la principale comunità di stranieri in Francia è composta da centinaia di migliaia di cittadini algerini; senza contare i cittadini francesi e i cittadini con doppia cittadinanza, dove uno o più parenti provengono dall'ex colonia. Per quanto questi individui alimentino molte fantasie - spesso contro la loro volontà - essi per lo più rimangono dei capri espiatori a disposizione della vendetta reazionaria.. Nell'ambito di quella che fu allora la sua crociata xenofoba, la destra e l'estrema destra denunciò regolarmente l'accordo franco-algerino del 27 dicembre 1968, il quale avrebbe dovuto allora regolare il soggiorno dei lavoratori algerini in Francia. Quegli attacchi ricorrenti non avevano altro scopo se non quello di mettere in discussione la legittimità della presenza dei cittadini algerini e dei loro figli; una componente dinamica delle classi lavoratrici. Come se i reazionari non avessero ancora digerito l'indipendenza del loro precedente possedimento nel 1962. Oggi, il nuovo ministro dell'Interno - l'estremista di destra Bruno Retailleau - si pone decisamente in linea con questa tradizione, avendo dichiarato, il 29 settembre, che questo trattato bilaterale è «squilibrato, estremamente vantaggioso per l'Algeria e molto svantaggioso per la Francia». Il che equivale a dire che secondo lui non solo ci sono troppi immigrati in Francia, ma ci sono soprattutto troppi algerini... Pertanto, non sorprende che il portavoce del governo abbia annunciato il 13 ottobre che nel 2025 si sarebbe resa necessaria una nuova legge sull'immigrazione. Ricordiamo che nel settembre 2023 Bruno Retailleau – allora senatore – aveva evocato i «bei tempi» della colonizzazione, criticando al contempo lo «spirito di pentimento». Oggi, il ministro sostiene «una politica di fermezza nei confronti dell'immigrazione», cosa che per questo segmento di proletariato non è certo di buon auspicio; ma che non lo é nemmeno, più in generale, per l'intera popolazione lavoratrice, alla quale il governo di Michel Barnier non ha da offrire nient'altro che la repressione e l'austerità. Assai spesso, le "guerre culturali" francesi hanno avuto come sfondo la relazione con l'Algeria, con l'obiettivo - esplicito o implicito - di stigmatizzare quello che viene ritenuto un "nemico interno". Un esempio, ci viene fornito dalla campagna promozionale del romanzo di Kamel Daoud, Houris (Gallimard, 2024). Questo giornalista franco-algerino che, nelle sue colonne pubblicate su Le Quotidien d'Oran, aveva un tempo affascinato un vasto pubblico di lettori in Algeria – grazie alla sua verve liberale diretta contro il dogma nazionale – è diventato, negli ultimi anni, uno dei portavoce del conservatorismo francese. In effetti, i suoi editoriali pubblicati sul settimanale parigino Le Point hanno accompagnato la deriva a destra del potere di Macron e, più in generale, delle élite francesi. Nelle sue interviste concesse durante questa nuova stagione letteraria, il romanziere contrappone quelle che sono due sequenze della storia algerina: la guerra di liberazione e la guerra civile. Nel farlo, gioca sulle fratture della società algerina e su quelle della sinistra francese. Come nel caso della sua intervista a France Inter del 28 agosto: «L'Algeria offre due storie, una delle quali rimane nascosta. La prima storia riguarda la narrazione mitizzata della decolonizzazione di cui tutti parlano. L'Algeria è un po' come il paese della battaglia di Algeri, in bianco e nero, ecc. Ma la seconda lezione che abbiamo sempre voluto ignorare ci proviene dal costo dell'islamismo armato, con cui si paga questa illusione, questa utopia devastante che massacra».

In effetti, i progressisti sono più inclini a evocare il momento coloniale proprio per mettere in discussione la sua eredità, in particolare la persistenza del razzismo nella società francese. Le date chiave della guerra di liberazione algerina – o della rivoluzione anticoloniale, che tra il 1954 e il 1962 si concretizzò in una lotta armata contro il colonialismo per ottenere l'indipendenza – sono oggetto di commemorazioni, come quella del 17 ottobre 1961, sostenuta da intellettuali e da attivisti di sinistra, al fine di ricordare il massacro di algerini perpetrato dalla polizia di Parigi, e per chiederne il riconoscimento da parte delle autorità francesi. Questo approccio è del tutto comprensibile e lodevole. Ma tuttavia, per alcuni, si accompagna ad un'idealizzazione del nazionalismo algerino, il cui carattere autoritario viene offuscato, mantenuto lontano dalle analisi dialettiche che potevano ancora essere ascoltate nel corso dell'ultimo secolo, tra gli anticolonialisti o i loro eredi (libertari, marxisti, ecc.). Inoltre, la rinascita di un "terzomondismo 2.0" (nel quale l'originaria prospettiva "socialista" è stata sostituita da un discorso identitario) il più delle volte ostacola le critiche alla dittatura algerina, come è stato dimostrato, il 7 settembre, dal silenzio quasi generale di fronte alla rielezione di Abdel Madjid Tebboune, avvenuta al primo turno con il "punteggio sovietico" dell'84,3%. Un esempio, stereotipato ma significativo di tale tendenza, ci viene fornito dall'eurodeputata di origine palestinese Rima Hassan. Dopo un soggiorno ad Algeri, la rappresentante eletta per La France Insoumise (LFI) ha risposto al saggista filo-israeliano Raphaël Enthoven scrivendo il 9 luglio su X: «La Mecca dei rivoluzionari e della libertà, è e rimarrà l'Algeria. Tel Aviv è la capitale di un regime fascista e di uno stato di apartheid». Al contrario, la guerra civile algerina – che negli anni '90 aveva contrapposto i gruppi islamisti armati alla polizia, al costo di diverse centinaia di migliaia di vittime – è diventato un argomento molto più delicato da affrontare all'interno della sinistra francese. Ciò probabilmente anche perché gli eventi sono ancora troppo vicini. Inoltre, molti algerini, protagonisti o vittime di quegli eventi, si sono stabiliti in Francia, portando con sé i loro traumi e la loro percezione di quella tragedia. Infine, questo conflitto "algerino-algerino" – in origine, poiché gli attentati sono stati perpetrati sul suolo francese – ha anche opposto varie fazioni francesi (intellettuali, attivisti, di destra e di sinistra, ma anche settori dell'apparato statale) nella discussione volta a designare il "nemico principale": era il regime militare-poliziesco, o erano gli insorti islamisti? Ciò ha avuto la conseguenza di sostenere più o meno incondizionatamente una parte rispetto all'altra, e di rendersi ciechi tanto di fronte agli abusi del primo (torture, rapimenti, repressione, ecc.) quanto alle atrocità deli secondi (attentati, massacri, stupri, ecc.). Le lezioni provenienti dal "decennio nero" non sono state apprese. Tuttavia, le spaccature dovute alla guerra civile algerina sono servite, in larga misura, da matrice per le controversie francesi sulla questione musulmana, mobilitando pertanto gli stessi attori (o i loro discepoli); ciò sebbene alcuni "disertori" hanno piuttosto preferito cambiare schieramento; alcuni con un approccio sincero, altri per puro opportunismo. Ma la volontà di contrapporre, in modo indiretto o presunto, queste due sequenze algerine nei dibattiti francesi la dice lunga sul rapporto strumentale con la storia, e sull'evoluzione dei rapporti di forza tra destra e sinistra. Questo approccio indica quale sia la priorità per i conservatori, che danno il tono sui media, sia dell'editoria che della politica. Secondo loro, infatti, si tratta di affermare che l'emergenza non è costituita né dai crimini coloniali né dal problema del razzismo - e tanto meno dalla questione sociale – quanto piuttosto dalla "minaccia islamista" e, a causa della sua capillarità, dal "problema musulmano", dalla "crisi migratoria", ecc. Tutto questo, ai loro occhi, dovrebbe portare alla difesa, per mezzo di una "fortezza Europa", oltre che all'affermazione di una "identità nazionale", all'espulsione degli stranieri – che viene da loro chiamata "re-migrazione" – e alla negazione di ogni discriminazione subita da intere fasce della popolazione relativa all'accesso alla casa, allo studio, al lavoro, al tempo libero... Certo, è vero che alcuni rappresentanti della sinistra francese non sempre mostrano chiarezza o coerenza su molti di questi argomenti delicati. Tuttavia, non bisogna farsi il nemico sbagliato. Soprattutto quando l'estrema destra si trova ormai davanti alle porte del potere... È ancora necessario attribuire le responsabilità e non cedere al disfattismo. Questo significa anche porsi quelle domande che fanno arrabbiare le persone, per quanto esse non ripaghino mai a breve termine; uscendo in tal modo da quelli che sono i sentieri battuti dove camminano gli spettatori del disastro. In queste "guerre culturali" - che per il contesto francese si basano su controversie elaborate a livello internazionale, ma che alla fine sono solo un avatar della guerra di classe che la borghesia francese sta conducendo con ferocia - vediamo molte personalità di origine algerina che si trovano collocate sia da una parte che dall'altra della barricata. Ma è da questo punto di vista che devono essere comprese le ricorrenti controversie. Infatti, la propaganda, quando non crea fratture nella società, e più in particolare all'interno degli strati svantaggiati, allora le aggrava, e lo fa spostando l'attenzione su delle questioni che sono sconcertanti e servono a creare la massima confusione. In una tale configurazione, i giornalisti, gli scrittori e gli intellettuali al soldo del governo fanno la loro parte, assai visibilmente.

Kamel Daoud, nato a Mostaganem nel 1970 e naturalizzato francese nel 2020, è pertanto una figura di questa "diversità" reazionaria, che denuncia regolarmente "la propaganda islamista, woke o decoloniale". Possiamo citare anche Boualem Sansal, autore de "Il giuramento dei barbari" (Gallimard, 1999). Lo scrittore - nato a Theniet el Had nel 1949 e recentemente naturalizzato francese - è entrato a far parte del comitato strategico del media identitario Livre noir/Frontières. Questo amico di Kamel Daoud castiga "l'islamismo, il wokismo e il consumismo", riprendendo la retorica catastrofista e declinista di Eric Zemmour. Anche Mohammed Sifaoui, è una delle voci preferite dai conservatori per affrontare l'islamismo. Nato nella periferia di Algeri nel 1967, un giornalista naturalizzato francese, si è specializzato in questo campo sin dalla guerra civile algerina, prendendo di mira in particolare la cosiddetta "islamo-sinistra", senza rigori o sfumature... Questi tre testimoni del “decennio nero” semplificano le questioni in gioco in una sequenza traumatica per offrire una narrazione compatibile con quella dello “scontro di civiltà”. Anche le donne non sono da meno. Va ricordata Malika Sorel, che era al secondo posto nella lista del Rassemblement National per le elezioni europee del giugno 2024. Questa saggista, nata Halima Mayouf nel 1960 a Marsiglia, si è laureata - come Boualem Sansal - alla Scuola Politecnica Nazionale di Algeri. La lista potrebbe continuare con Lydia Guirous, nata nel 1984 a Tizi Hibel ed ex portavoce del partito repubblicano, o con Fatiha Agag-Boudjahlat, nata nel 1979 a Montbéliard e co-fondatrice di Viv(r)e la République. Si sarebbe quasi tentati di ridurli al ruolo di "informatori autoctoni" o di "garanti esotici", permettendo così alla (estrema) destra francese di liberarsi dall'accusa di razzismo per mezzo della loro origine, ciò nel mentre veicolano nei media un discorso ostile all'islamismo o, attraverso successive amalgama, all'islam, ai musulmani o agli immigrati... Tuttavia, ciò impedirebbe di pensare che la loro sola presenza manifesti soprattutto l'attrattiva del "French way of life" – in contrasto con il loro paese d'origine – nella misura in cui questi individui hanno fatto la loro scelta a livello nazionale, avendo optato per la cittadinanza francese (almeno tra i nati in Algeria), o facendosi presunti vettori dello sciovinismo francese. In effetti, il loro discorso, spesso caricaturale, sposa valori conservatori (autorità, gerarchia, merito, sicurezza, ecc.), portati avanti anche da alcuni elementi della diaspora algerina; che è ben lungi dal costituire un blocco omogeneo. Inoltre, abusando di concetti fuorvianti o ideologicamente carichi (assimilazione, laicità, universalismo, ecc.), contribuiscono a interpretare i "valori della Repubblica" come se fossero altrettante ragioni per escludere i proletari immigrati o i loro discendenti, piuttosto che includerli su un piano di parità con le altre componenti della società. Eppure, nonostante il loro "successo" personale, questi individui - che lo vogliano o no -  fanno parte della lunga storia della gestione imperiale delle minoranze, dal momento che rimangono subordinati e confinati in un campo specifico. A causa dell'influenza della divisione editoriale e mediatica dei conservatori – il gruppo Bolloré ne è l'esempio più noto, ma non è l'unico – pertanto, in Francia, i progressisti impallidiscono, soprattutto perché i temi promossi dai loro avversari sono raramente quelli che loro preferiscono. Del resto – in quanto stratagemma della ragione inclusiva – la "diversità" e la "parità", paradossalmente incarnate dai reazionari franco-algerini, contribuiscono a disarmare la sinistra, la quale da parte sua sostiene l'antirazzismo e il femminismo, mentre però allo stesso tempo trascina, come fosse una macina da mulino, una vecchia disputa con la diaspora algerina. Questa storia secolare di disprezzo o di incomprensioni, nasconde tuttavia degli incontri fruttuosi, anche se le direzioni delle principali organizzazioni del vecchio movimento operaio – impigliate come sono nella burocrazia, nel clientelismo e nel nazionalismo – raramente sono state all'altezza del compito di affrontare le questioni relative alla lotta contro l'imperialismo o la discriminazione. Questo passato, può aver indotto i riformisti o i rivoluzionari, ormai indeboliti, a evitare dei temi divisivi, e a promuovere figure più caricaturali di quelle decantate nel cielo dalla destra, pur posizionandosi su un piano analogo – quello dell'identità o della "razza" – e nonostante la loro simmetrica contrapposizione. Di conseguenza, questi "nemici complementari" ostacolano, volontariamente o meno, l'emergere di discorsi o pratiche che fanno parte di una prospettiva libertaria, rendendoli impercettibili, soprattutto quando provengono da individui che ora vengono definiti "razzializzati". E questa rappresenta una doppia penalità. Il disagio della sinistra francese dinanzi al ricordo della guerra civile algerina riflette l'ambiguità, per usare un eufemismo, di alcuni suoi elementi nei confronti dell'Islam politico, che hanno strizzato l'occhio al Fronte Islamico di Salvezza (FIS) algerino, ad Hamas palestinese, agli Hezbollah libanesi e al predicatore Tariq Ramadan, nipote di Hassan el-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto.

Un esempio recente è stato quello del sostegno, a settembre, dato dalla deputata di LFI Ersilia Soudais all'influencer salafita El Yeah Zarelli alias Elias d'Imzalène, ex compagno del fascista Alain Soral, il quale si è proposto di «guidare l'intifada a Parigi». Va notato che questo approccio non è stato unanime, tutt'altro. Ma, per buona misura, vale la pena ricordare l'ambivalenza – per non andare oltre – di alcuni dei suoi rappresentanti nei confronti del regime militare-poliziesco algerino. Infatti, durante il periodo del partito unico (dal 1962 all'insurrezione dell'ottobre 1988), le nuove autorità indipendenti poterono contare sull'appoggio delle organizzazioni e delle pubblicazioni francesi che il più delle volte - disinteressate o meno - si astennero dal denunciare la repressione, o dal criticare il governo algerino, di cui condividevano le opinioni "antimperialiste". È il caso del Partito Comunista Francese (PCF), del Partito Socialista Unificato (PSU), del Centro per gli Studi e le Iniziative di Solidarietà Internazionale (CEDETIM), del quotidiano maoista "L'Humanité rouge" e di altri organismi del Terzo Mondo. La collusione di alcune frazioni della sinistra autoritaria con i regimi dispotici – "l'anti-imperialismo degli sciocchi" – si è poi manifestata anche nei casi della Siria e dell'Iran. Oscurare il gioco degli Stati – algerini e francesi, per cominciare – non ci consentirebbe di rendere pienamente conto di questa "relazione speciale" e delle sue conseguenze. Ma ciò richiederebbe un ulteriore sviluppo per evitare i pregiudizi cospirativi dei detrattori della "Françialgeria". Al massimo, possiamo qui sottolineare quale sia il peso di quelle amministrazioni che alimentano un nazionalismo esclusivo, ponendo le doppie nazionalità come un conflitto di legittimità, portando a cambi di fedeltà a seconda del contesto, ponendo in certe occasioni alcuni individui in una situazione favorevole, per meglio abbandonare la maggioranza al suo triste destino. Se la scelta dei colori da sventolare è di scarsa consolazione per gli strati sfruttati - nella misura in cui non risponde in alcun modo alle loro aspirazioni fondamentali - lo sciovinismo resta comunque un'arma decisiva nelle mani della classe proprietaria, che ha i mezzi per arruolare i servizi di mercenari della penna, franco-algerini o meno, motivati dall'idea di distillare il loro veleno nelle coscienze, in cambio di denaro, potere e successo. Così facendo, i dignitari dell'intellighenzia reazionaria si comportano come convertiti o zelanti funzionari pubblici, sempre pronti a obbedire alla ragion di Stato - così come i burocrati si sottomettono alla ragion di partito, che non può essere sbagliata - anche a costo di vendersi al miglior offerente e di tradire nel processo le convinzioni che avevano affermato di difendere su altri campi di battaglia.

Tuttavia, per concludere, torniamo al ruolo delle forze che si sono associate, per buone o cattive ragioni, alla "sinistra". Dato che, in attesa della prossima catastrofe, i riformisti e i rivoluzionari non sono condannati a ripetere per sempre gli stessi errori. In maniera analoga, i fallimenti o le divagazioni di pochi non devono in alcun modo servire da pretesto per squalificare, in blocco, le forze progressiste, al fine di contrastare meglio il campo reazionario, fomentando sterili polemiche – dato che esse non propongono né il superamento dialettico, in teoria, né la prospettiva emancipatrice, in pratica – oppure per alimentare la passività che porta a un identico risultato: la sconfitta nel risentimento. Si tratta di un percorso senza alcuna possibilità di ritorno, e questo indipendentemente dalla vernice con cui potrebbe essere ricoperto... Nel corso delle lotte contro il colonialismo, contro la dittatura monopartitica, contro il razzismo, durante la guerra civile, dopo l'ultima ondata di attentati in Francia, così come dopo la crisi aperta il 7 ottobre scorso, ci sono sempre stati elementi, anche isolati, che, su entrambe le sponde del Mediterraneo – e ben oltre – hanno lucidamente respinto il fondamentalismo, il nazionalismo e il sessismo, al fine di dare vita all'internazionalismo, al pluralismo e alla solidarietà, nel pieno senso del termine. Sta quindi a noi attingere al meglio della nostra storia per immaginare con ottimismo futuri desiderabili. Questa è la sfida del nostro tempo. Infine, in un momento in cui le popolazioni libanesi, palestinesi, sudanesi e ucraine vengono bombardate quotidianamente, è impossibile distogliere lo sguardo e dire che non ci riguarda. Contro il colonialismo e contro la guerra, laggiù, contro lo sfruttamento e il razzismo, qui, è lo stesso slancio umanista e rivoluzionario quello che deve portare a condannare con la massima forza gli abomini che ci degraderebbero definitivamente, se osassimo banalizzarli ricorrendo a una retorica intrisa di cinismo e pregiudizio o, peggio ancora, appoggiarli, per qualsiasi motivo, perché ciò comporterebbe la consacrazione del trionfo delle crociate reazionarie nella loro impresa di disumanizzare l'Altro, ai fini del puro e semplice sradicamento. Allora come oggi, «non c'è scelta: tra le vittime!» È anche una questione di principio, soprattutto per coloro che non disperano di vedere che il mondo cambi le sue basi.

- Nedjib SIDI MOUSSA - Parigi, 15 ottobre 2024 -

fonte: liberté ouvrière - anarcho-syndicalisme

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