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venerdì 20 settembre 2024

I vestiti nuovi del proletariato ?!!???

Scrive su FaceBook @Marcos Barreira il 29/8/2024:

« Ho appena finito di tradurre, per un nuovo progetto di @Consequência Editora, un articolo inedito di Anselm Jappe su "Impero", di Negri e Hardt. Il testo era stato pubblicato, nel 2002 sul n°25 di Krisis, ed è stato tradotto anche in francese, però in una versione fortemente modificata. La tesi centrale:

"Fondamentalmente, il libro [Impero] ci offre solo una nuova versione, postmoderna e raffinata, di quello che è stato l'operaismo italiano degli anni Settanta, il quale, a sua volta, non era altro che una nuova declinazione del vecchio marxismo tradizionale, soprattutto nella sua versione secondo-internazionalista e leninista. Come vedremo, dietro la nuova verbosità, così tanto alla moda, non si nasconde altro che la vecchia idea del lavoro vivo che si affranca dal capitale parassitario”. O ancora: “Alla moltitudine, non rimane che impadronirsi ufficialmente dell'Impero, allo stesso identico modo secondo cui i marxisti della Seconda Internazionale volevano che il proletariato si impadronisse delle grandi imprese e delle società per azioni; che erano già allora intese come i precursori diretti della proprietà sociale. Tuttavia, questo non viene ora più concepito nel senso di una presa di potere, quanto piuttosto come un esodo, come una fuga dalle strutture dell'Impero”. E ancora: "... la 'mobilità, imposta a innumerevoli persone e a interi popoli, soprattutto negli ultimi decenni a causa del crollo della periferia capitalistica, si trasforma in una realizzazione - seppur embrionale - del 'desiderio deterritorializzante della moltitudine'. E questo 'nomadismo', annunciato da Deleuze, è evidentemente una sorta di istinto migratorio ontologico”.»

giovedì 19 settembre 2024

Produttori E/O Parassiti ?!!??

Il filosofo Michel Feher pubblica "Produttori e parassiti": in esso, ci descrive il modo in cui l'estrema destra propone una versione morale e "razzializzata" della lotta di classe, che adotta una visione del mondo descritta come "produttrice", e così facendo mette in luce quali sono le difficoltà strategiche della sinistra. Qual è l'immaginario di quei 10,5 milioni di persone che al primo turno delle elezioni legislative anticipate hanno depositato nell'urna una scheda del Rassemblement National (RN) ? In "Producteurs et parasites", il filosofo Michel Feher va oltre i luoghi comuni che riducono questo elettorato a vittime della globalizzazione accecate dalla rabbia e analizza ciò che rende così attraente, per il “proletariato”, il discorso del partito lepénista.
 
«Con la RN, alle persone viene detto che le cose miglioreranno senza dover cambiare nulla»
Raramente, si ritiene che quello che viene attribuito al "Rassemblement National" sia un voto di sostegno. L'ipotesi viene giudicata troppo scoraggiante, e pertanto i suoi detrattori preferiscono piuttosto evocare la crisi di disconoscimento che colpisce i suoi rivali, insieme alla tossicità dello spazio mediatico, oppure la disgregazione della solidarietà dei lavoratori. "Produttori e parassiti", diversamente, invece esamina e analizza la popolarità dell'estrema destra, guardandola alla luce delle soddisfazioni fornite ai suoi elettori dalla sua visione del mondo: quella secondo cui il partito lepénista divide la società francese in due classi, moralmente contraddittorie: i produttori che aspirano solo a vivere del prodotto dei propri sforzi, e i parassiti, quelli che sono resistenti nei confronti del "valore del lavoro", ma che tuttavia si sono abituati a monopolizzare la ricchezza creata da altri. I primi contribuiscono alla prosperità nazionale attraverso il loro lavoro, gli investimenti e le tasse, mentre i secondi sono, a volte, degli speculatori coinvolti nella circolazione transnazionale del capitale, finanziario o culturale, e altre volte soltanto dei beneficiari illegittimi della redistribuzione del reddito. Radicata in quella che viene vissuta come una critica dei privilegi e delle rendite, l'assimilazione della questione sociale a un antagonismo tra produttori e parassiti non è sempre stata appannaggio solamente dell'estrema destra. La sua lunga storia ci rivela, al contrario, che il desiderio di purificazione cui dà origine comporta sempre una sorta di "razzializzazione" di quelle che sono alcune categorie ritenute parassitarie. Pertanto, per resistere al "Rassemblement National" è necessario sia denunciare il suo immaginario, si riconoscere, simultaneamente, l'attrazione che un simile immaginario esercita.

"Produttori e parassiti. L'immaginazione così desiderabile del Rassemblement National", di Michel Feher, La Decouverte.

mercoledì 18 settembre 2024

Un marchingegno demoniaco…

«Quando, per paura, si trasforma il male minore nella menzogna che si tratta di qualcosa di buono, si finisce per privare gli individui della capacità di distinguere tra bene e male». (Hannah Arendt)

Sebbene io non sia il più grande fan della Arendt, la citazione qui riportata riassume un aspetto della trappola attualmente in atto a livello mondiale, rispetto alla quale il genocidio in Palestina ne rappresenta un chiaro esempio. Quel che sfugge è che in passato, a suo tempo, la campagna di Hillary Clinton diede sostegno materiale e morale a Trump, in quanto lo riteneva allora il candidato più facile da battere. E questo perché le sue stronzate bellicose e i suoi impulsi fascisti avrebbero aiutato a compensare proprio quegli aspetti negativi che la Clinton  stessa presentava. E tuttavia, in questo errore di calcolo quella che sfugge è una prospettiva che mi è venuta in mente questa settimana: la Clinton - e ora Harris - avevano bisogno di Trump per riuscire a dare più spazio, a destra, alle loro campagne. Una campagna contro Rubio, con la medesima piattaforma, non avrebbe consentito alla Clinton di poter avere quel margine di manovra di cui aveva bisogno (e che non ebbe!). E così, anche Biden ha seguito il suo esempio e - rispetto alla Cina - si è schierato, alle ultime elezioni, a destra di Trump; allo stesso modo in cui  - in materia di immigrazione - lo fa ora Harris. Ma questa sbandata bipartisan verso destra, non è solamente una questione di strategia politica, oppure  un fatto di personalità. Con gli Stati Uniti che si  trovano alla fine del loro ciclo di accumulazione, e che vedono l'acuirsi della concorrenza inter-imperiale per accaparrarsi  le risorse in declino; cosa che ha ridotto al minimo la modesta offerta di beni comuni sociali che la classe politica era disposta a offrire al popolo americano. Così, ora la classe dei finanziatori ha bisogno di un governo pronto a imporre uno stato di polizia, a un popolo di lavoratori e di poveri che perde di giorno in giorno e sempre più  la capacità di riprodursi socialmente. Pertanto, tra i liberali - che si avvicinano sempre più, da un lato, ai poveri infuriati, e dall'altro alla prospettiva di essere definitivamente trascinati nella cattiva sorte che vorrebbero fosse riservata solo ai meno abbienti - ora serpeggia la paura.  Così, lo stravolgimento rappresenta come un marchingegno demoniaco che viene messo in atto dalla classe politica proprio in funzione del momento storico.

fonte: Rob Wallace

Ça taxe pour moi !

 

Liberalismo o protezionismo? Mercato europeo o ita (metteteci la sigle del paese europeo che volete!)-exit “decoloniale”, di estrema destra o quello che più vi piace): sempre capitalismo è!!
Un interessantissimo libro dello storico Francis Démier, "La nation, frontière du libéralisme. Libre-échangistes et protectionnistes français"CNRS éditions, 2022.
La nazione, tra protezionismo e libero scambio,una sintesi del processo di costruzione del capitalismo, che ha sempre camminato su due gambe:
«“Libertà all'interno, protezione all'esterno, sono questi gli elementi della rigenerazione”. È con queste parole che, nel 1814, alla caduta dell'Imperatore, Louis Becquey, responsabile della politica commerciale della Francia, traccia la strada per la costruzione di una nazione fondata sulla ricchezza materiale. Il protezionismo era diventato la politica generale della nazione. La sua origine risiede nel patriottismo rivoluzionario ostile all'Ancien Régime, allettato dal libero scambio. Come risposta alla minaccia dell'egemonia inglese, esso richiedeva la “mobilitazione delle armi” e di coniugare senza contraddizioni il culto della libertà e quello dei suoi limiti. Lungi dall'essere un ostacolo al liberalismo, la linea di demarcazione doganale aveva a lungo definito lo spazio entro il quale i produttori erano disposti ad assumersi i rischi del mercato. Nel momento in cui essa è diventata un ostacolo allo sviluppo, lo Stato, convinto che non esistesse alcuna armonia spontanea tra gli interessi privati e l'interesse generale, l'ha “costretta” a cedere il passo favorendo l'apertura dei mercati al mare aperto. Inizialmente, la Terza Repubblica confuse il libero scambio con le nuove libertà. Tuttavia, di fronte alla minaccia del boulangismo e di una nuova forma di globalizzazione, si schierò dietro il “protezionismo razionale” di Jules Méline, che era un prerequisito per la coesione politica del popolo francese e una difesa radicata della Repubblica.»

Ah, le parole in -ismo... come il protezionismo, la dottrina che tende a limitare, o addirittura a vietare le importazioni, e come il liberismo, che propugna invece la libertà di commercio. Queste dottrine economiche hanno subito molti cambiamenti nella loro percezione, accompagnati da ripercussioni politiche che noi abbiamo ereditato. La nazione tra protezionismo e libero scambio, ecco a cosa serve la mia tassa!

Dal protezionismo rivoluzionario alla rinascita liberale:
La nazione rivoluzionaria era protezionista. Segnati dalle conseguenze di un trattato di libero scambio, firmato nel 1786, che metteva in primo piano l'industria inglese, i produttori francesi divennero ferventi sostenitori della Rivoluzione. Questo trattato - che fu subito definito “disastroso” - ebbe un effetto duraturo sulla mente delle persone, e il liberalismo divenne sinonimo di aristocrazia. Il 1° marzo 1793 il divieto di esportazione del grano , così come quello delle materie prime destinate alla manifattura, divenne permanente: protezionismo e patriottismo erano ormai strettamente legati. All'inizio del XIX secolo, questa contrapposizione, tra il liberalismo definito da Adam Smith e il protezionismo dei fisiocratici e dei mercantilisti, ebbe un effetto profondo sulle politiche pubbliche. Solo dopo la Restaurazione emerse un nuovo tipo di libero scambio: “Libertà all'interno, protezione all'esterno, sono questi gli elementi della rigenerazione”, dichiarò nel 1814 Louis Becquey, responsabile della politica commerciale francese. La feroce protezione del mercato interno rimase una priorità, mentre il liberalismo divenne invece più pragmatico e tecnocratico che mai. La scommessa venne premiata: la crescita economica della Francia, sostenuta da un mercato interno di trenta milioni di consumatori, aumentò!

martedì 17 settembre 2024

Verso una «Storia Universale Negativa» ...

Costituisce una straordinaria coincidenza, il fatto che le lezioni di Adorno sulla Storia e sulla Libertà, le quali hanno profondamente influenzato alcune figure emblematiche della critica della dissociazione del valore - tra i quali Robert Kurz, in particolare per il suo "Ragione sanguinosa", e per altre sue ricerche - vengano alla fine tradotte in francese per la casa editrice "Klincksieck". Questa uscita coinciderà quasi perfettamente con la traduzione francese, sul n°7 del mese di novembre della rivista Jaggernaut, del saggio di Kurz, "La storia come aporia. Tesi provvisorie sul dibattito circa la storicità dei rapporti sociali di feticcio", nel quale l'influenza di Adorno appare innegabile.

Dalla quarta di copertina delle lezioni di Adorno:
« Nel semestre invernale 1964-1965, Adorno dedicò ventotto lezioni alla filosofia della storia e alla dottrina della libertà, chiarendo in anticipo le due ultime sequenze della Dialettica negativa (1966), dal titolo, rispettivamente, di ”Spirito del mondo e storia naturale. Digressione su Hegel” e "'Libertà’. Per una metacritica della ragione pratica”. Lungi dal ridursi a essere stato un laboratorio per la “Dialettica negativa,” queste lezioni hanno la consistenza di un libro autonomo, nel quale Adorno si misura in termini molto profondi con le filosofie della storia di Hegel e di Benjamin. Contro Hegel, il filosofo di Francoforte sostiene che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, la pretesa di postulare un senso della storia è diventata perentoria e insostenibile. Contro Benjamin, egli rifiuta di abbandonare la storia alla discontinuità. “Affermare che nella storia si manifesti un piano universale, orientato al meglio, che le dia coerenza, dopo le catastrofi del passato, e quelle che ancora verranno, sarebbe cinico. Ma questo non significa però che si debba negare l'unità che lega tutti i momenti e le fasi della storia nella loro discontinuità e nella loro dispersione caotica”, come enuncerà nella Dialettica Negativa. Le Lezioni sulla storia e sulla libertà si presentano pertanto come se fossero una grande lezione di “dialettica negativa”, opponendosi sia a Hegel (la cui dialettica speculativa rimaneva troppo legata all'identità) sia a Benjamin (la cui concezione discontinuista della storia sarebbe rimasta, al contrario, troppo legata alla non-identità). Mediante questa doppia “spiegazione” rispetto a Hegel e a Benjamin, Adorno apre la strada a una “storia universale negativa” nella quale non è più possibile leggere un senso della storia, ma piuttosto leggere quali sono le “tendenze oggettive” all'opera nella storia. Queste “tendenze oggettive”, governate da causalità multiple ed eterogenee, consentono ad Adorno di rinunciare all'idea di necessità, e  riaprire così la storia alla contingenza, per poter  introdurre le pratiche della libertà. »

Theodor Wiesengrund Adorno, "Leçons sur l'histoire et sur la liberté (1964-1965)". Editions Klincksieck

fonte: @Palim Psao

«Io non so testimoniare…» (cit.)

Attualità di Carlo Levi
- di Giorgio Agamben -

L’apparizione di Paura della libertà nella cultura italiana dell’immediato dopoguerra ha qualcosa di inspiegabile, simile a quei blocchi erratici di granito che i ghiacciai, ritirandosi, abbandonano in posizioni così inaspettate che gli uomini non riescono a considerarle senza sospetto e stupore. Non s’intende certo giustificare, con questo, il silenzio e la stolida ostilità che – con qualche rara ma significativa eccezione – accolsero il libro che, scritto fra il 1939 e 1940 nella solitudine delle spiagge atlantiche di Le Baule a sud del Finistère, fu pubblicato solo nel 1946, un anno dopo il successo di Cristo si è fermato a Eboli. E non è certo un caso se La paura non fu mai ristampata come libro a sé dopo la seconda edizione del 1964, sebbene l’autore avesse esplicitamente dichiarato che questo «poema filosofico» era «il più importante» dei suoi libri e Calvino avesse ricordato che questo «libro raro nella nostra letteratura» era anche quello «da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi». Quando non fu semplicemente ignorato, esso fu usato per denunciare l’“ideologia” di Levi e poi, surrettiziamente, come un’arma per demolire l’altrimenti inattaccabile testimonianza di Cristo si è fermato a Eboli. È difficile leggere oggi senza imbarazzo, ancora in una monografia pubblicata nei primi anni Settanta, che l’opera di Levi «è priva di ogni originalità quanto ad analisi politica» e «tutta condizionata da una visione mistica e decadente… che sceglie, fra le direzioni possibili aperte a un intellettuale borghese, quella di un’opposizione anarcoide e libertaria, un mitico ritorno alla natura e alla spontaneità, nel quale si proietta il bisogno di una redenzione, di fatto individuale e solitaria, dei guasti di una civiltà moderna svalorizzata nella sua globalità». L’imbarazzo diventa disagio, quando si scopre che, già venti anni prima, una delle voci più autorevoli della cultura marxista italiana aveva potuto scrivere che «tutto nel Levi si riduce ad una spiegazione metafisica, misticheggiante, alla ipostatizzazione della “entità” campagna e della “entità” città» e che la sua visione del mondo contadino non è che «l’enunciazione di una serie di tesi senza consistenza teorica, nelle quali si rivela chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale».

Non si sa se sia qui da biasimare l’ignoranza (l’uso degli aggettivi “decadente” e “misticheggiante” come categorie critiche) o, piuttosto, la malafede – cioè l’inaccettabile consapevolezza che il pensiero di Levi era costitutivamente e implacabilmente politico. In ogni caso, è probabilmente a entrambe le ragioni che si deve la mancanza, nella ricezione di Paura della libertà, di ogni indagine filosoficamente e filologicamente attendibile: le fonti sono suggerite a casaccio e senza alcuna documentazione: di volta in volta Jung, Lawrence, Bergson (in genere nella formula stereotipa «vitalismo bergsoniano»), Huizinga, Spengler (cioè il repertorio del fantoccio irrazionalista confezionato dalla cultura italiana progressista) e poi i nomi, più ovvi, di Gobetti, di Salvemini, di Giustino Fortunato, di Gramsci. Non molto più sottile è la lettura di Levi in un libro che fu incautamente salutato come una innovativa rottura rispetto alla tradizione marxista: se l’autore, che non menziona mai Paura della libertà, riconosce al Cristo il merito di «collocare opportunamente dentro una prospettiva sociologicamente estremamente concreta» il mondo contadino, le categorie critiche che orientano l’analisi non sono meno grossolane: «decadente superomismo» e «fortissima carica estetizzante e irrazionale». L’alterità e quasi la ripugnanza (nel significato etimologico del verbo repugnare: resistere combattendo) del pensiero di Levi nella cultura italiana del suo tempo sono, insieme, irrecusabili e difficili da motivare. Un esempio istruttivo: Levi ha dichiarato più volte il suo debito rispetto a Piero Gobetti, che ha frequentato intensamente a Torino, collaborando, in verità molto saltuariamente, alla sua rivista «Rivoluzione liberale». Basta tuttavia sfogliare i primi numeri della rivista per notare che non vi è qui nulla o quasi che sia possibile ritrovare in Paura della libertà o in Cristo si è fermato a Eboli. Un confronto fra i nomi che compaiono nel Manifesto di «Rivoluzione liberale» e quelli sparsi nel testo del poema filosofico di Levi è eloquente: da una parte, nell’ordine, Machiavelli, Alfieri, Luigi Ornato, Santarosa, Balbo, Giovanni Maria Bertini, Bertrando Spaventa, Gioberti, Mazzini, Marx, Lassalle, Giolitti; dall’altra: Dante, Boccaccio, Giotto, Petrarca, San Paolo, Vossler, Cézanne, La Bruyère, Alain, De Maistre, Milton, Cimabue e, citati senza nominarli, Campanella, Lope de Vega, Éluard. Non che non si possano riconoscere in alcuni dei punti programmatici di Gobetti (la critica dell’astrattismo dei demagoghi in nome di un «esame dei problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana» – ma non certo la rivendicazione di una «coscienza moderna dello stato» fondata sulle «formule del liberismo classico all’inglese») e ancor più in quelli certamente più radicali della rivista fondata da Carlo Rosselli a Parigi nel 1929, «Giustizia e libertà», cui Levi collaborò, dei temi per lui sensibili; tuttavia è come se l’autore li guardasse da un altro luogo – remoto e, insieme, vicinissimo, arcaico e tuttavia urgente nel cuore stesso del presente. Questo luogo è la testimonianza. È stato Calvino il primo a segnalarne puntualmente il toponimo: «Levi è il testimone di un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo». Se si lascia da parte la metafora, certamente infelice, dell’ambasciatore, ciò significa che compito preliminare a ogni lettura di Levi è una buona definizione della testimonianza. Che cosa significa testimoniare? E di che cosa e per chi Levi testimonia? Come precisa subito Calvino, di un altro mondo, «di un mondo che vive fuori della storia di fronte al mondo che vive nella storia»; ma il fatto è che, per Levi, tutti i tempi e tutti i mondi sono contemporanei ed egli identifica anzi in questa «contemporaneità dei tempi» il carattere fondamentale della cultura italiana: «la presenza e persistenza in essa, nella sua vita attuale, nel suo più quotidiano e fuggevole presente, di tutti i tempi, di tutta la storia, e di quello che è prima della storia stessa».

È singolare che, negli stessi anni in cui escono i suoi libri, un altro omonimo ebreo torinese, Primo Levi, pubblichi Se questo è un uomo. I due libri, apparentemente lontani, coincidono in un punto essenziale: opera di non letterati (medico e pittore Carlo, chimico Primo), sono entrambi integralmente testimonianze – di un mondo così intimo e interno al nostro mondo da suscitare scandalo e intolleranza (Se questo è un uomo fu rifiutato nel 1946 dall’editore Einaudi, su parere di Natalia Ginzburg). Un anno prima della morte, in un libro che è forse il suo capolavoro, I sommersi e i salvati, Primo Levi torna a interrogarsi sulla sua testimonianza e ne fornisce una definizione paradossale. Il vero testimone, egli scrive, è il musulmano (così si chiamavano, nel gergo di Auschwitz, i deportati che, appena entrati nel campo, avevano perduto ogni umana consapevolezza e ogni capacità di sopravvivere), colui che in nessun caso potrebbe testimoniare è l’unico possibile testimone. Si rifletta sul rigore di questo paradosso: testimoniare, per Levi, può soltanto significare: portare alla parola un’impossibilità di parlare, parlare per coloro che non potevano né possono parlare. Il soggetto della testimonianza è, cioè, costitutivamente scisso: egli deve, come uomo, portarsi al di qua dell’umano, testimoniare di un tempo o di un luogo in cui non era umano.  Non si potrebbe dare una migliore definizione del gesto di Carlo Levi. Le parole, tante volte citate, che egli mette sulle labbra dei contadini di Aliano («Noi non siamo cristiani, non siamo uomini») vanno prese alla lettera: la sua grandezza è che egli, come il suo omonimo a Auschwitz, è riuscito a testimoniare per questi non-uomini, ha toccato quella terra che nemmeno Cristo aveva toccato, ha portato alla memoria e alla lingua un immemorabile mutismo. Anche Paura della libertà è, a suo modo, una testimonianza. È Levi stesso, nella prefazione, a indicarcene l’oggetto: «Fu allora che la crisi che aduggiava la vita d’Europa da decenni, e che si era manifestata in tutte le scissioni, i problemi, le difficoltà, le crudeltà, gli eroismi e la noia del nostro tempo, scoppiò verso la sua soluzione in catastrofe». Sulla spiaggia di Le Baule, mentre le divisioni corazzate tedesche corrono le pianure della Polonia e si preparano a invadere la Francia, l’autore trentasettenne cerca di fissare lo sguardo su una crisi giunta alla sua apocalisse, cioè alla rivelazione estrema e folgorata di una civiltà che sta per scomparire nell’abisso, inghiottita dalle sue stesse contraddizioni. Se riesce così arduo rintracciarne le fonti, è perché il libro ha dovuto innanzitutto farne piazza pulita: esso si situa non alla sorgente, ma alla foce, la sua acqua freatica sgorga e bulica dal nulla e nel nulla. In questo senso occorre prendere sul serio la definizione del libro come un «poema filosofico», che unisce la freschezza e la densità dei frammenti presocratici alla quasi barocca philosophia sensibus demonstrata di Campanella (con Alain, il solo filosofo citato nel testo). Il progetto era ambizioso, inteso a proporre – come suggerisce Calvino – «le grandi linee d’una concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia». «Vi doveva essere» ricorda l’autore nella prefazione «una parte introduttiva, che mostrasse le cause comuni e profonde della crisi, e le ricercasse, più che in questo o quell’avvenimento particolare, nell’animo stesso dell’uomo; e molti capitoli o libri sui singoli argomenti, dalla politica (con un’analisi critica delle ideologie liberali e socialiste) all’arte (con una storia dell’arte moderna), alla scienza, alla filosofia, alla religione, alla tecnica, alla vita sociale, al costume ecc.». Circostanze esterne, tra cui l’invasione tedesca della Francia e la fuga di Levi in Italia nel 1941, impedirono la conclusione del progetto; ma gli otto capitoli portati a termine, all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, anticipano e condensano in una sorta di ricapitolazione sommativa l’intero disegno. Come ricorda l’autore nella prefazione, «c’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato». E tutto questo era scritto “dal di dentro”, in una sorta di discesa all’inferno («avevo cercato di penetrare nell’interno di quel mondo che descrivevo, di immergermi in quell’ambiguo inferno»). Tanto più necessario sarà provarsi a fissare, in questa materia contratta e bruciante, dei picchetti o dei punti di riferimento per orientare il lettore in quella che Calvino ha definito, con una metafora dantesca, «una selva di figure allegoriche, di animali, di simboli». Levi parte, quasi a apertura di pagina, da un’opposizione certamente non scontata: quella fra il sacro e il religioso. «Non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro… né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro». L’opposizione acquista il suo senso solo se la si riconduce a quella, più vasta, fra l’esperienza inesprimibile dell’indifferenziato preindividuale e quella, più astratta e socialmente articolata, del differenziato e dell’individuale. «Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere nel mondo, memoria di ogni tempo del mondo». Se il sacro è «il senso, e il terrore, della trascendenza dell’indistinto», la religione è «la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori dalla coscienza». In essa il sacro si fa legge, l’anarchia diventa organizzazione e tirannide. Con un’intuizione certamente nutrita non dalla lettura di Jung o di Spengler, ma da quella dei grandi sociologi francesi, da Mauss a Durkheim, Levi identifica nel sacrificio il dispositivo fondamentale della religione. «Qual è il processo di ogni religione? Mutare il sacro in sacrificale: togliergli il carattere di inesprimibilità, trasformandolo in fatti e parole: far dei miti, riti; dell’informe turgore, un uccello sacramentale; del desiderio, matrimonio; del suicidio sacro, omicidio consacrato». Come Hubert e Mauss avevano affermato nel loro Essai sur la nature et la fonction du sacrificeNon esiste religione in cui le modalità del sacrificio non siano compresenti»), anche per Levi non vi è religione senza sacrificio: «i due termini potrebbero addirittura considerarsi come equivalenti… poiché sacrificio significa insieme atto sacro e uccisione del sacro».

Attraverso il sacrificio, la religione tende essenzialmente alla creazione di idoli. «Al sacro indistinto la religione sostituisce un nome e una forma divina che ci impediscono di perderci in esso, ci vietano il suicidio e l’anarchia, ci consentono di vivere». Ma il prezzo da pagare è l’uccisione sacramentale, che ci rende il dio estraneo e lontano, lo trasforma in un idolo: «La forma divina e adorata perde, pel fatto stesso dell’adorazione, i suoi contorni e la sua efficacia, e ritorna là donde fu originata. Perché il dio viva, è necessario che il distacco dal sacro avvenga in modo reale; che il dio stesso venga non solo creato e adorato, ma odiato e ucciso. Solo l’uccisione sacramentale del dio permette al dio di esistere: egli sarà tanto più reale quanto meno si confonderà con noi, ma sarà separato, lontano, estraneo, straniero. E non v’è altro modo di renderlo tale, che uccidendolo secondo un rito. Per questo, quando un dio appare in veste umana è sempre sotto quella di uno straniero, di un viandante, di un uomo d’altra terra; per questo gli stranieri sono dèi per quelle genti a cui essi si rivelano per la prima volta. Per questo l’ospite è sacro e non si può chiedere il suo nome, e il nemico, lo straniero, è anche sacro, ma nell’opposto senso, e dev’essere ucciso. Hostis e hostia sono una cosa sola. Tutto è ambiguo in questi atti, perché il rapporto col sacro, da cui essi nascono, è l’ambiguità stessa». È probabile che Levi traesse questa consapevolezza della costitutiva ambiguità del sacro non soltanto da Durkheim (un intero capitolo delle sue Formes élémentaires de la vie religieuse è dedicato alla «ambiguità della nozione di sacro»), ma anche e non meno dalla sua esperienza di etnologo sul campo fra i contadini di Aliano, custodi di una religiosità primigenia. Ma l’impareggiabile attualità di Levi sta nel fatto che i termini delle opposizioni che egli mette in gioco (sacro/sacrificio; indifferenziato/differenziato) non sono per lui sostanze, ma processi, non «entità», come nelle parole del suo malevolo critico, ma correnti che percorrono in senso inverso il campo di tensioni dell’umano. Ciò significa che, in ultima analisi, veramente umani non sono mai gli estremi – o i due poli – dell’opposizione, ma solo ciò che si tiene fra di essi in un precario, decisivo equilibrio. «Ogni uomo nasce dal caos, e può riperdersi nel caos: viene dalla massa per differenziarsi, e può perdere forma e nella massa riassorbirsi. Ma i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione e coesistono nell’atto creatore». Con un termine che egli distingue tanto dalla «natura» indifferenziata che dall’«azione» individuale, Levi definisce «avvenimento» (Diano parlerà qualche anno dopo di «evento») «il prodotto dell’attività umana in quanto creatrice, ricca cioè nello stesso momento di differenziazione e di indifferenziazione, di individualità e di universalità, tanto più universale quanto più singola e intensa, libera insieme e necessaria – comprensibile a tutti per loro comune indistinta natura; trascendente a ciascuno in quanto distinto e individuale – ma a cui tutti, nella loro individuazione, liberamente partecipano e portano a coscienza». E, con un’espressione che ricorda gli affetti spinoziani e anticipa la teoria dell’emozione che Gilbert Simondon avrebbe svolto qualche decennio dopo, egli chiama «passione» il punto di contatto fra l’individuo e l’universale indifferenziato. Per questo «non serve essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni». È di questa appassionata libertà che gli uomini hanno innanzitutto paura, cercando rifugio nell’informe comunità o nell’astratto individualismo, nell’idolatria o nell’ateismo, entrambi mortali. Perfettamente solidale del processo sacrificale che culmina nella creazione degli idoli, è quello che sfocia nella costruzione dell’idolo sociale per eccellenza: lo Stato. A questa critica sono dedicati, oltre a buona parte del primo, due interi capitoli: Schiavitù e Massa. La divinizzazione dello Stato (e la servitù che ne risulta) è «il segno insieme del bisogno di rapporti umani veri, e della incapacità a istituirli liberamente – della natura sacra di questi rapporti e dell’incapacità a differenziarli senza inaridirli: è il segno soprattutto del terrore dell’uomo che è nell’uomo. Terrore di sé, che ne fa la più radicata delle idolatrie, poiché la fonte ne è sempre presente, la più mostruosa perché tutta umana». Per questo l’idolatria statalista «durerà finché non sarà finita l’infanzia sociale, finché ogni uomo, guardando in se stesso, non ritroverà, nella propria complessità, tutto lo Stato, e, nella propria libertà, la sua necessità». Il polo opposto di questa servitù, altrettanto sterile, è quello che Levi chiama l’individualismo astratto, «dove è perso ogni senso di comunità e non solo lo Stato non è deificato, ma neppure esiste, poiché non esistono passioni». La schiavitù, che tanto scandalizza i moderni quando la vedono istituzionalizzata nel mondo antico, non è un episodio nella storia dell’umanità, ma è consustanziale allo Stato e, come tale, continua a esistere ovunque in forme e modalità diverse: «lo Stato-idolo non può esistere se non attraverso un processo di alienazione e di sacrificio sociale, se non attraverso la schiavitù. Schiavitù e divinità dello Stato sono una cosa sola: la divinità dello Stato è schiavitù, e la schiavitù non potrebbe esistere senza divinità dello Stato: poiché il dio e la vittima coincidono».

Ogni movimento di liberazione, che non sia consapevole di questo nesso inscindibile fra idolatria statuale e schiavitù, è condannato al fallimento: «questa» scrive Levi con una intuizione preziosa «è la debolezza vera dei movimenti proletari, che hanno talvolta amato, non senza ragione, intitolarsi, con nome ben poco augurale, spartachiani: e, in genere, di tutti quei movimenti, radicalissimi d’apparenza, ma che non escono dai limiti religiosi della civiltà a cui cercano di contrapporsi». Lo stesso nesso che lega lo Stato alla schiavitù, lo unisce inseparabilmente alla guerra: «Sempre il senso idolatrico dello Stato richiede la guerra, totale e continua, una con lo Stato e la sua esistenza, inscindibile dalla vita del Dio. Solo lo stato di libertà, è stato di pace: dove è la vera pace, là è la vera libertà, perché gli idoli non vivono senza guerra, ma gli uomini vivono soltanto nella pace». Strettamente connessi allo Stato e alla guerra sono due fenomeni che raggiungono il loro estremo sviluppo nella modernità: la massa e le grandi città. Con una consapevolezza che manca nelle ricorrenti critiche della società di massa, Levi vede nella guerra il nucleo originario della massa. «La guerra, opera di uomini, ma staccata dagli uomini e incomprensibilmente divina, sacrificio necessario alla divinità dello stato, non soltanto rompe certi determinati rapporti umani, ma tende a riportare gli uomini alla indifferenziazione che precede tutti i rapporti… Le grandi guerre creano di per sé la massa: riformano massa di quello che già era determinato, e ridanno vita informe a quello che era cristallizzato. Ogni uomo esce dalla sua casa, abbandona un suo mondo unico, si identifica con tutti gli uomini e, perduta ogni personalità, si riduce a quello che è comune e indistinto: il sangue e la morte». A differenza dei paesi e dei comuni che hanno segnato la storia italiana, le grandi agglomerazioni sviluppano e riproducono questa massa senza forma. Simile all’immagine del Leviatano di Hobbes, la grande città «vive di una vita sua, della vita di una persona enorme, con un suo grande corpo dove scorre un sangue fatto di uomini inconsapevoli… Le strade, le case non finiscono, ma confinano con terre altrettanto indefinite: è il luogo di una gente senza storia e senza ricordi, sradicata da ogni determinazione, e dal preciso colore di una particolare speranza». E la massificazione non investe soltanto la forma delle città: «Anche il lavoro si divinizza, in tecnicismo e organizzazione. La fabbrica ingigantita diventa inconoscibile a coloro che ne vivono, fatti, di collaboratori, strumenti. La tecnica, che è l’arte del fare e dell’inventare umano, diventa tecnicismo segreto, non più arte, magia». E, in ultimo, anche la lingua si trasforma: «la massa, di per sé ineffabile e silenziosa, può, in verità, solo esprimersi attraverso lo Stato… in luogo della spontanea lingua politica e poetica, fatta di infiniti gesti e parole, e di rapporti sempre rinnovati, nasce un linguaggio sacro, di manifestazioni di folla, sull’altare delle piazze, sotto le are degli arenghi, dove, come nelle classiche preghiere, la folla adorante si limita alle risposte cadenzate… Dove la massa è veramente anonima, cioè incapace di nominarsi e di parlare, la lingua sacra dello Stato sostituisce ai nomi che hanno perso il loro senso, i suoi nomi religiosi e simbolici: e sono numeri, tessere, bandiere, bracciali, divise, insegne, galloni, decorazioni, carte d’identità, espressioni rituali della fondamentale idolatrata uniformità e della idolatrata uniforme organizzazione». Ciò che i suoi critici non potevano accettare non era tanto la condanna dello Stato-idolo, ma il fatto che Levi contrapponesse a questo un’altra idea di stato, lo «stato di libertà» (scritto significativamente con la minuscola). Che questa non fosse per lui una formula generica, risulta con chiarezza dalle pagine che precedono immediatamente la conclusione del Cristo e in una serie di articoli pubblicati in quegli stessi anni. Qui egli si rende lucidamente conto che, se non si fosse messa in questione l’idea stessa di Stato, l’antifascismo avrebbe ricostruito senza modificarlo quel mondo da cui il fascismo era nato. «In un paese di piccola borghesia come l’Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, e anche le più estreme e rivoluzionarie fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie: ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più, lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano… Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell’idea di Stato: al concetto di individuo che ne è la base; e al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato».

E qui si vede quale fosse la lezione, genuinamente politica e tutt’altro che «misticheggiante», che Levi aveva tratto dalla sua esperienza degli anni di confino in Lucania: «Questo capovolgimento della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l’unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l’insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo… Ma l’autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale». Un articolo pubblicato su «La nazione del popolo» (11 giugno 1945) precisa senza possibile equivoco la radicale trasformazione che Levi ha in mente, il cui modello va cercato nella tradizione dei consigli operai e della democrazia diretta, e non in quella della democrazia rappresentativa. Egli vede nei Comitati di liberazione nazionale, allora, ancora per poco, vivi e funzionanti, lo strumento possibile di questo stato autonomistico: «I Comitati di liberazione nazionale, per essere vitali, devono corrispondere a una collettività umana ben differenziata e limitata: CLN di azienda, di fabbrica, di fattoria, di comune rurale, di comune cittadino, di scuola, di provincia, di regione, su su fino agli organismi centrali: ma in essi non hanno posto o senso altre forme di organizzazione, per sé ottime, a carattere orizzontale o verticale, come i sindacati di categoria, i combattenti, le associazioni dei giovani e delle donne, le associazioni professionali, assistenziali ecc., i cui compiti e la cui natura sono diversi, e non si identificano con una determinata cellula dello Stato, né si legano a un luogo né a un’attività o tradizione collettiva specifica. Sulla molteplicità differenziata dei CLN, rappresentanti della vita reale del popolo nei luoghi stessi della sua attività, si deve costruire organicamente, fin da oggi, lo Stato di domani. Questa è la sola via per risolvere, con la presente crisi di governo, l’antica crisi dello Stato italiano». Dopo la caduta del governo Parri nel dicembre del 1945, puntualmente descritta ne L’Orologio, i partiti politici e il potere economico si mossero in una direzione esattamente opposta a quella proposta da Levi: uno Stato centralizzato e sindacati e associazioni di categoria altrettanto centralizzati. Quanto ai contadini, le cui sorti gli stavano così a cuore, il problema fu risolto nel modo più veloce e violento possibile: non con l’autonomia dei comuni rurali, ma con la loro deportazione in massa verso le fabbriche del Nord. L’Italia, che Levi aveva intravisto e così mirabilmente descritto nelle pagine dei suoi libri, è esistita solo forse per pochi mesi – ma, proprio per questo, essa non ha perso nulla della sua attualità. Negli stessi anni in cui Levi pubblicava le sue riflessioni, in un piccolo paese del Friuli, Casarsa, un giovane ventiduenne fondava una singolarissima istituzione, l’Academiuta di lenga furlana e dava privatamente alle stampe i quattro numeri di uno stroligut (piccolo almanacco o lunarietto) interamente scritto in friulano. Nei testi programmatici in prosa che si alternano alle poesie, il friulano è rivendicato non come un dialetto vernacolare, «non per scrivere due o tre stupidate per far ridere, o per raccontare due o tre vecchie storie del suo paese, ma con l’ambizione di dire cose più alte, magari difficili: se qualcuno, insomma, credesse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte che non la lingua nazionale imparata nei libri (pi nouf, pi fresc, pi fuart si no la lenga nasional imparada tai libris)». Anche l’italiano – continua il manifesto intitolato Dialet, lenga e stil – è stato un tempo un dialetto del latino, fino a quando Dante decise di scrivere in volgare i suoi versi.  Si rifletta alla sobria, incomparabile novità del gesto del giovane Pasolini, che in una regione percorsa dalle armate tedesche in fuga e bombardata dall’aviazione alleata, decide di guardare ostinatamente non alla lingua nazionale, ma al dialetto, non alla politica statuale che cominciava appena a organizzarsi nelle grandi città, ma ai ragazzi e ai contadini di Casarsa. Egli sta facendo sul piano della poesia e della lingua, esattamente quello che Levi propone per la società italiana nel suo insieme. Non stupirà, pertanto, di trovare anche qui la stessa professione di autonomia, intesa come «coincidenza del Friuli con la propria natura»: «al di là di tutti i pretesti economici, geografici, storici, patriottici, ecc. ecc. qui si viene a parlare di civiltà. I fini pratici di un decentramento si rivelano come il mezzo per sfruttare non solo le risorse economiche di ogni regione, ma anche il patrimonio di coscienza che ogni Regione coincidente con una propria civiltà possiede». Di fronte alla cecità di una classe dirigente che, tanto a destra che a sinistra dello schieramento politico, continua a muoversi servilmente nella direzione indicata dallo sviluppo capitalistico, è possibile che le parole di Levi e del giovane Pasolini, allora decisamente intempestive, trovino proprio oggi l’ora della loro leggibilità.

- GIORGIO AGAMBEN - Prefazione a "Paura della libertà", di Carlo Levi, Neri Pozza, 2018

domenica 15 settembre 2024

Oggi, 15 settembre 2024

È stato il primo giorno d'estate, non troppo caldo e non troppo freddo, a consentire una passeggiata. Una lunga camminata fino in piazza indipendenza a dare un'occhiata al mercatino della domenica; quello che uno volta aveva luogo intorno al lago dei cigni nella vicina e oramai quasi irraggiungibile fortezza da basso. Come dire, le cose cambiano! Quella che invece a quanto pare non è cambiata è la vecchia casa dello studente, che vedete nella foto, ed è rimasta aperta e funzionante, come lo era quando mi accolse alla fine di ottobre del 1970. Avrebbe chiuso, per restauri, l'anno successivo, raccontavano senza convincerci però, così quell'anno chi arrivava prima si beccava il posto in una stanza di quel covo di matti.

Così, mi è tornato in mente oggi che è stato lì che io e Firenze abbiamo cominciato a conoscerci, senza mai tuttavia esserci del tutto piaciuti, e in modo che così, poi, alla fine, però ci siamo capiti. È stato qui, in quel palazzo, che ho avuto il mio primo "battesimo di fuoco" [del secondo,avvenuto poche settimane dopo, quello che subimmo dal servizio d’ordine della Galileo, in cui i “fascisti” saremmo stati noi che avevamo occupato la loro Regione per reclamare il nostro Presalario, ve ne parlerò, forse, un altra volta], con i fascisti che ci assaltavano, innervositi dal fatto che da quella stanza all'ultimo piano (quella cerchiata di rosso) c'era un giradischi i cui altoparlanti diffondevano le canzoni di alcuni "dischi del sole” (Do you remember them?) che mi ero portato da Siracusa.

I fascisti, erano arrivati da tutta la Toscana - che allora, a Firenze, non c'è ne sono mai stati abbastanza per le loro "prodezze" - ma la cosa fini con qualche mobile lanciato sulle loro teste senza che riuscissero, per loro fortuna, nemmeno a entrare, e con la nostra occupazione della casa stessa (per protesta!!) della quale alcuni maligni insinuarono che sarebbe stata solo una scusa per scolarsi le prestigiose bottiglie custodite nella cantina del direttore. Un'altra conseguenza di rilievo, fu quella che un inquilino della Casa venne identificato, e il suo nome finì sui giornali, per aver raccomandato di porgere i suoi saluti alla signora del maresciallo che guidava il reparto che avrebbe dovuto difenderci dai fascisti. Fatto sta che ho dovuto passare anni - nei vari incontri di movimento a livello nazionale - a smentire che Bruno Accarino  fosse un fascista fiorentino, per restituirlo a quel suo ruolo di filosofo marxista in erba, che era allora: insomma era successo che, sfogliando i giornali, con faciloneria, la commissione antifascista di L.C. lo aveva aggiunto nell'elenco nazionale di fascisti che poi veniva trasmesso nelle loro sedi, e altrove.

Già, come dicevo, oggi è stata giornata di ricordi! Come quelli che mi hanno fatto sorridere, fotografando su una bancarella quelle giacche western con le frange che così tanto piacevano al mio amico Giorgio Olmoti, nel momento in cui subito dopo averle viste ho realizzato che non avrei più potuto regalargliene una! Oppure, com’è successo poco dopo, più tardi, mentre me ne stavo seduto a bere un birra in un bar in Piazza dei Ciompi, quando non sono riuscito a impedirmi di alzare lo sguardo al balcone di quella che per troppo poco è stata l'ultima casa di Marco Furio Susini; mentre mi dicevo che no, che non è giusto. Era riuscito solo a cominciare appena solo a farsi arrivare le librerie per sistemare i suoi tanti libri. No, non riusciremo mai a farla quella festa che ti avevo proposto di fare, e che una volta tanto non ti era sembrata una cattiva idea. E così ora non so più a chi dirlo, ma non è giusto!

sabato 14 settembre 2024

L'Angelo Nero della Storia Climatica e “l’Asse Palestinese” !!

Andreas Malm e l'antisemitismo verde
- di Sylvaine Bulle - 11 settembre 2024 -

«La prima cosa che abbiamo detto in quelle prime ore non sono state tanto parole quanto grida di giubilo. Quelli di noi che hanno vissuto la loro vita con e attraverso la questione della Palestina non potrebbero reagire altrimenti alle scene di resistenza che hanno preso d'assalto il checkpoint di Erez: questo labirinto di torri di cemento, recinti e sistemi di sorveglianza, questa consumata installazione di cannoni, scanner e telecamere – certamente il più mostruoso monumento al dominio di un altro popolo in cui io sia mai entrato – improvvisamente tra le mani dei combattenti palestinesi che avevano sopraffatto i soldati di occupazione e strappato la loro bandiera. Come non gridare di stupore e di gioia? Lo stesso vale per le scene in cui i palestinesi attraversano la recinzione e il muro e si riversano nella terra da cui sono stati espulsi».[*1]   Queste parole, che celebrano l'atto distruttivo di Hamas del 7 ottobre 2023, sono di Andreas Malm, ricercatore in ecologia umana all'Università di Lund (Svezia). Andreas Malm, di nazionalità svedese, è un autore feticcio dell'eco-marxismo e uno dei pensatori più influenti dell'ecologia politica. Diciamolo chiaramente: per chi è interessato alle tematiche ambientali, il riferimento è diventato imprescindibile negli ultimi dieci anni. Malm è un ricercatore rigoroso e uno dei più visionari sul cambiamento climatico, uno dei più creativi, uno di quelli che ispirano le giovani generazioni di attivisti, ma anche i meno giovani, spesso marxisti o rivoluzionari. In particolare, ha contribuito alla notevole trasformazione del pensiero ecologico grazie al suo approccio metastorico e fondante all'economia fossile globale; ciò mette in luce la responsabilità economica delle industrie e degli imperi nella distruzione dell'ambiente [*2]. Ma Malm, e una nuova generazione di eco-attivisti con lui, collocano "Israele", in una dubbia mossa critica, al centro della scienza del clima e della critica ecologica. Nei suoi libri e soprattutto nelle sue posizioni pubbliche, dopo il massacro del 7 ottobre, Malm descrive ripetutamente i palestinesi come una doppia vittima dello Stato ebraico: da un lato a causa dell'occupazione, dall'altro a causa del ruolo di Israele nella crisi climatica. Perché simili generalizzazioni da parte di un ricercatore altrimenti meticoloso? Che l'autore, un marxista, appartenga al campo dell'antisionismo, le cui ascendenze sono ben identificate [*3], appare ovvio dal momento che la critica di Israele è parte di quella dell'egemonia del Nord globale. Ma collegando "sionismo" e "ambiente", e facendo della Palestina il laboratorio della resistenza climatica, compare un nuovo campo: quello che può essere definito un "antisionismo verde". In che modalità discorsiva ha avuto luogo questa evoluzione? Esaminiamo qui gli argomenti, chiedendoci se un certo movimento di ecologia politica non sia in procinto di acclimatarsi nell'anti-israelismo imperante. In effetti, è necessario cogliere il contenuto dell'inserimento di Israele nella questione ambientale perché, lungi dall'essere un fatto isolato, è indicativo dei potenti movimenti di estensione dell'"antisionismo" e della sua attualizzazione sulla base di percorsi rinnovati.

I contorni dell'antimperialismo verde
Comprendere l'antisionismo verde, o "campismo", presuppone che si riparta dall'ecologia politica. Qui, le recenti posizioni di Andreas Malm appaiono rivelatrici. Ciò perché, a differenza di altre correnti marxiane di ecologia politica, e seguendo le orme di alcuni storici chiave [*4], egli descrive con precisione la responsabilità del capitalismo fossile come strumento di accumulazione e di espropriazione, e ne chiede l'abolizione come forza volta allo sfruttamento della ricchezza e del lavoro umano. Sulla base della sua profonda conoscenza della scienza del clima, Malm dichiara di essere scettico sull'efficacia delle politiche del vivente, dell'abitabilità terrestre, o delle alleanze tra umani e non umani. Né, di certo, per limitare la catastrofe, è più sensibile alle proposte provenienti dalla sfera comunalista alternativa e da altre sfere utopiche, e ancor meno alla transizione verde. Difende coerentemente l'eco-marxismo e un comunismo di guerra, un “leninismo ecologico”[*5] sostenuto (vagamente) da uno Stato forte, se non addirittura autoritario. Qualsiasi lotta per la stabilizzazione del clima deve iniziare con la demolizione dell'economia dei combustibili fossili, e quindi con la resistenza e l'azione contro di essa. Si tratta della tesi vincente del disarmo, detta anche eco-sabotaggio, iscritta nella storia delle rivolte operaie o popolari, particolarmente attualizzata da Malm nel suo "Come sabotare un oleodotto" e ne "Il pipistrello e il Capitale"[*6]. In questo modo, si inverte il significato dato al gesto del disarmo: è l'equipaggiamento energetico a provocare danni che invece devono essere disattivati dall'atto militante di sabotaggio, essendo quest'ultimo un atto di resistenza che presuppone l'abbandono della non-violenza. Questa proposta politica, costituisce il modo di azione portato avanti da alcuni movimenti giovani come le Rivolte della Terra [*7] o Extinction-Rebellion (XR). Tutto ciò, è stato testato nella zad di Notre-Dame-des-Landes e soprattutto nella manifestazione contro il mega-bacino di Sainte-Soline, nella Francia occidentale, nel marzo 2023, che è stata pesantemente repressa [si veda: Sylvaine Bulle: "Irriducibili. Le zone autonome come conquista ecologica" in "Écologies. Il vivere e il sociale", La Découverte, 2023]. Ma come arriva Israele in questo ragionamento coerente?

Un antisionismo verde?
Malm, come storico dell'Antropocene, ha descritto nella sua opera fondamentale, "Capitale Fossile" [*8], le fasi dell'accumulo di energia fossile. Possiamo riassumere molto brevemente la sua dimostrazione relativa al Medio Oriente: a partire dall'industria del carbone, sviluppatasi nel XIX secolo, gli inglesi volevano creare un impero fossile sul territorio del Levante arabo e ottomano (Siria, Iraq, Libano, Palestina, Egitto), facendo affidamento sugli ebrei d'Europa, che, in quanto europei, sarebbero stati in simbiosi con l'impero fossile. E avrebbero fatto questo attraverso l'istituzione di industrie estrattive, attraverso l'istituzione del focolare nazionale ebraico e incoraggiando la partenza degli ebrei, o, in seguito, con il trasporto degli ebrei fuggiti dall'Europa facendo un uso massiccio di barche, e quindi di mezzi di trasporto che consumano molta energia. Non solo questo progetto della modernità imperialista britannica è stato uno dei più inquinanti, ma è stato anche diluito nel progetto sionista dell'yishuv; essendo l'uno al servizio dell'altro, ed entrambi utilizzando le risorse fossili che stanno distruggendo il Mediterraneo e oltre. Al servizio dell'Impero britannico, lo Stato di Israele avrebbe così contribuito al dominio americano del Medio Oriente e all'accesso illimitato del petrolio ad Est, così come ha accelerato l'ecocidio per mezzo della costruzione dei suoi insediamenti e del suo territorio nazionale [*9]. Qui, l'argomento, a differenza della doxa antisionista, non si basa sull'anti-imperialismo e sull'anti-capitalismo (con al centro Israele), ma sul clima. Infatti, come ha spiegato Malm nel 2017 in un articolo intitolato: "I muri del carro armato: sulla resistenza palestinese"[*10]: «il rapporto tra Palestina e cambiamento climatico [...] rappresenta più di un'allegoria o di un'analogia. I combustibili fossili sono stati parte integrante del disastro fin dall'inizio» [*11]. Questo costituisce anche il motivo per cui non basterebbe più, per fermare i disastri ambientali, smantellare gli insediamenti. Ciò perché Israele nel suo complesso, in quanto luogo la cui esistenza rende possibile l'estrazione di combustibili fossili, sarebbe responsabile della crisi climatica per l'intero pianeta [*12]. Il punto di svolta nella corsa ai combustibili fossili è stato, secondo Malm, la seconda Nakba di Gaza – vale a dire, l'attuale guerra di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 – sostenuta dal Nord del mondo, e che fa parte della continuazione della creazione di Israele e del progetto imperiale [*13]. Ecco il ragionamento centrale. Ora, con quali mezzi, Malm riesce davvero a dimostrare la responsabilità specifica di Israele per la distruzione del pianeta? Riconosciamo che Israele ha un progetto discutibile in quella che costituisce l'artificializzazione del suo suolo e la distruzione della sua biodiversità [*14], così come in quella che è l'estrazione delle risorse idriche. Ma Israele non produce petrolio, a differenza dei paesi arabi, che non gli sono affatto favorevoli, se non ostili. Eppure, secondo Malm, il 7 ottobre è stato il risultato della traiettoria della crisi climatica che ha seguito quella di Israele. Secondo lui, questa traiettoria segue una curva: estrazione di risorse naturali, espropriazione di terreni, rifugiati climatici. Il cambiamento climatico, ci dice Malm, sta costringendo «milioni» di persone in tutto il mondo «a seguire l'asse palestinese». «L'intero pianeta sta diventando Palestina», scrive Malm, ad esempio, in "The Destruction of Palestine: Is the Destruction of the Earth".  Fare di Israele il modello precursore attraverso il quale comprendere la crisi climatica globale consente a Malm di presentare la lotta contro Israele come una lotta contro il riscaldamento globale. L'autore, geografo di formazione, raramente fa riferimento a Israele quando elabora la sua storia dell'Antropocene. Preferisce l'"entità sionista" (e talvolta il popolo ebraico), composta da coloni. Questo, senza mai riconoscere l'esistenza dei tanti movimenti utopici sionisti che hanno ispirato l'ecologia sociale [*15]. Questo rifiuto di designare Israele come Stato fa parte di un gesto critico che si identifica chiaramente nell'antisionismo, che consiste nel non riconoscere la possibilità che gli ebrei siano incarnati da una forma di Stato stabilizzata, e nel lasciare il dubbio sul modo di esistere di Israele trattandolo come un'entità astratta. Inoltre, questo vago nome di "entità sionista" ha il vantaggio di non dover menzionare il rapporto con il territorio post-'48 e le sue componenti materiali e ambientali, né le forme sociali dello Stato, o il sociale stesso.

La lotta per salvare il pianeta: l'autentica terra palestinese contro l'astratta entità ebraica
Perché, allora, un autore come Malm, un teorico del materialismo storico così rigoroso nel suo ragionamento, si permette di ignorare il fatto che "l'entità sionista" abbia una tangibilità, riducendola a un'astrazione che si caratterizza solo per la sua natura ecocida e genocida? Si capisce, leggendolo, che uno Stato dai contorni astratti, sovrapposto al territorio palestinese dall'egemonia occidentale, può essere facilmente incolpato di tutti i mali planetari. In questo caso, è facile confondere diverse categorie di critica radicale (anticapitalista, antimperialista ed ecologista) in un'unica logica manichea. È a questo livello che la critica di Malm perde la sua specificità ecologica e la sua rilevanza, diluendosi in un amalgama ideologico nello stesso momento in cui lo Stato israeliano si diluisce nella lobby americana dei combustibili fossili [*16] accusata di distruzione regionale. E' una coincidenza, si chiede Malm, che il "genocidio" di Gaza (senza menzionare i massacri del 7 ottobre in Israele) stia avvenendo in un momento in cui lo Stato di Israele si trova a essere più profondamente che mai «integrato nell'accumulazione primitiva del capitale fossile», anche «grazie agli Accordi di Abramo intesi a introdurre il capitale israeliano nei combustibili fossili», e destinati a normalizzare le relazioni con Israele a favore dell'espansione delle risorse fossili?  Analogamente, da parte sua, l'antisionismo verde attacca semplicisticamente la tecnologia prometeica israeliana, la quale esercita, più del carbone e dei combustibili fossili, un vero e proprio fascino su molti saggisti, tra i quali lo stesso Malm [*17]. Così, ad esempio, Malm descrive il "tecno-genocidio" (o "genocidio ad alta tecnologia") post-7 ottobre e la "macchina di morte israeliana", che commette uccisioni di massa meccanizzate e automatizzate (utilizzando l'intelligenza artificiale), che si combinano con il potere del petrolio. Tuttavia, l'autore non è realmente interessato al costo ambientale della guerra di Gaza, la quale è particolarmente devastante per la biodiversità e per gli esseri viventi nel nord e nel sud di Israele. Questo danno dovrà essere documentato e riparato. Questa omissione si spiega: ciò che importa soprattutto a Malm, per unificare i diversi poli della sua critica manichea, è mettere insieme ecocidio e genocidio; la distruzione della Palestina e della Terra che convergono sul suolo inquinato e avvelenato [*18] da parte dell'appropriazione sionista a Gaza, dove sono impigliati i rifiuti combustibili e i cadaveri delle vittime dell'Impero. Ciò che conta, per questa forma di antisionismo verde, è fare dell'"entità sionista" – descritta come astratta, globalizzata e alienata dalla tecnologia – una minaccia esistenziale per i valori di autenticità di cui i palestinesi sarebbero i portatori esclusivi, in virtù del loro legame con la natura, la terra e il lavoro manuale di sussistenza. Di conseguenza, tutto ciò che è autentico è palestinese. Come Malm sottolinea nel suo testo "The Walls of the Tank", l'unico vero Stato che resiste, contro tutta la Nakbah e contro ogni espropriazione, è quello della Palestina, l'unico vero Stato del vero "popolo" della regione. La Palestina, così feticizzata e fantasticata, è l'unica portatrice di emancipazione; Si tratta di un popolo concreto destinato a ricongiungersi con la sua terra originaria e autentica, contro questa "forza estranea, pericolosa e distruttiva" che minaccia l'intero pianeta. E viceversa, la vera ecologia non può che essere palestinese. Come progetto, Malm propone la Palestina in quanto ultima speranza politica contro la catastrofe planetaria globale. Per questo essa deve rappresentare lo spirito di emancipazione contro tutti gli ecocidi globali, dalla distruzione dell'Amazzonia ai mega-incendi, ecc. «Adottare la posizione palestinese significa, in ultima analisi, scegliere la natura come suo ultimo e più potente alleato», scrive l'autore in "The Walls of the Tank". All'interno di quest'analogia imperfetta volta a realizzare la rivoluzione climatica liberando Gaza e i Territori, è importante che i palestinesi realizzino prima il loro diritto al ritorno sbarazzandosi di un Israele ecocida e inquinante. A questa condizione, la Palestina tornerà ad essere autentica e la concentrazione di CO2 scenderà al di sotto dei livelli degli anni '80. Perché "dal fiume al mare" le emissioni di CO2 devono essere eliminate. Ma allora dobbiamo chiederci: quale concezione del gesto emancipatore può emergere da una simile critica manichea?

L'ascesa in generale: la rivolta della terra e di Hamas
Per molti eco-marxisti e attivisti ambientalisti degli anni 2020, la resistenza palestinese è diventata un modello da seguire in difesa del pianeta [*20]. Ma tutto ciò che tipo di resistenza rappresenta? Bisogna disarmare le infrastrutture, come hanno proposto gli attivisti europei, in particolare nel Regno Unito e in Francia?  Malm appare più concentrato sugli episodi di sabotaggio in atto durante le rivolte arabe del 1936, con i combattenti della resistenza che, dall'Iraq, attaccavano gli oleodotti. L'autore non esita a esplorare strade più recenti, tuttavia, soprattutto quando egli celebra con entusiasmo la lotta armata, incoraggiando gli attivisti per il cambiamento climatico a prendere come esempio i metodi di Hamas. Prima del 7 ottobre, ad esempio, scriveva su "The Walls of the Tank": «Come possiamo non esprimere la nostra ammirazione per gli eroi della resistenza a Gaza, guidati da Mohammed Deif? E come possiamo non imparare le lezioni della resistenza palestinese e applicarle come modello su altri fronti?» [*21]. Dopo il 7 ottobre, è stato lui a cogliere la grandezza di Hamas con il suo esercito di aquiloni lanciati contro il muro di Gaza, un'azione che non ha precedenti nella storia della Palestina. In “La distruzione della Palestina è la distruzione della Terra”, egli esprime la sua visione: «La resistenza è chiusa nei tunnel, ed è per questo che penso che dobbiamo dirlo forte e chiaro: siamo al fianco della resistenza. (...) Izz al-Din al-Qassam, Mohammed Deif e Abu Obeida e i loro compagni d'armi della Jihad, del FdlP e del Fplp sono tuttora nei tunnel, continuando a lanciare un'operazione dopo l'altra – ed è solo grazie a questo che è possibile continuare a vivere un altro giorno». In conclusione, per Malm non ci può essere alcuna emancipazione su un pianeta morto, ma esiste invece la speranza che oggi ci sia una rivoluzione verde, della quale Hamas sarebbe il promotore. Così, gli entusiasmi dell'autore pro-Hamas si concentrano sulla vittoria eroica di quest'ultimo, senza che sia concepibile per Malm credere in un progetto comune e plurale di prendersi cura della terra e, allo stesso tempo, della democrazia, finché esista la presenza di Israele e della sua forma-Stato. Alla fine sorge una domanda. Quando Malm e, insieme a lui, alcuni sostenitori dell'antisionismo verde proclamano il loro amore per la Palestina e la loro ostilità nei confronti di Israele, ci si chiede quale conoscenza della realtà delle due società (che essi si sforzano di costruire in maniera speculare)? Dal momento che è solo un puro manicheismo astratto quello che sembra permettere di estendere l'antisionismo a questo nuovo campo: quello dell'antisionismo verde, in quanto «la lotta palestinese è parte integrante della politica ecologica globale» del XXI secolo. Naturalmente, non si tratta di celebrare il sionismo verde in modo speculare, né di ignorare i danni ambientali a livello territoriale, l'artificializzazione del territorio e il gigantesco dispendio di risorse naturali in Israele, o gli accordi geopolitici assai discutibili sulle riserve di gas nelle acque del Mediterraneo. Ma nel Nord globale, dove così tanti attivisti si concentrano sulla tragedia palestinese [*22], nessuno sembra disposto a riconoscere che anche la società israeliana produce critiche su questi temi. Eppure, per riaprire l'orizzonte della diplomazia tra il vivente e il terrestre, è necessario che una varietà di attori, israeliani e palestinesi, si impegnino nel dialogo. La situazione richiede una pluralità di linguaggi e di pratiche, dalle più anarchiche alle più riformiste, all'interno delle quali “democrazia” e “terra” non siano dissociate. Era questo, ad esempio, il progetto del socialista anarchico Gustav Landauer, oggi celebrato dagli attivisti ecologisti. Il collasso è una via d'uscita: è quanto sembra dire il visionario Malm, l'angelo nero della storia climatica. Come Walter Benjamin, dal quale in “Avis de tempête[*23] ha preso in prestito alcuni riferimenti , egli ci precipita nelle rovine della storia industriale dell'Occidente e del Medio Oriente, per meglio evidenziare l'urgenza di entrambe le situazioni, una climatica e l'altra politica, che si sovrappongono l'una sull'altra e sono altrettanto distruttive. Ma ciò di cui A. Malm probabilmente non si rende conto è che, ritenendo di osservare gli ultimi brandelli di umanità, guardandole dalle rovine palestinesi, precipita i suoi lettori in un ragionamento semplicistico e binario nel quale non si fa altro che accelerare il caos e la tragedia. Non possiamo più ignorare i presupposti di questo catastrofismo accusatorio ma soprattutto fantasmagorico.

- Sylvaine Bulle - 11/9/2024 - Pubblicato su K -

Note
1 - Discorso all'Università Americana di Beirut l'8 aprile 2024.
2 - L’Anthropocène contre l’histoire : le réchauffement climatique à l’ère du capital, La Fabrique 2017.
3 - Si veda, ad esempio, molto recentemente: Julia Christ, "Si può essere antisionisti?"
4 - Ad esempio: Timothy Mitchell: Egypt, Techno-Politics, Modernity, Berkeley, University of California Press. 2002
5 - Si veda l'intervista per Permanent Revolution
6 - Andreas Malm, "Die Fledermaus and Capital", trad.,"Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia". Ponte alle Grazie
7 - Da notare che Les Soulèvements de la Terre nella loro recentissima "Premières secousses" (Parigi, La Fabrique, 2024) non cita mai esplicitamente Malm. Si limitano a citare il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) come se fosse un attore collettivo pioniere nell'eco-sabotaggio contro il sionismo. Nel 1969 il FPLP lanciò una campagna per sabotare gli oleodotti nel Golan, allora occupato da Israele. Al contrario, sulla scia di Malm, le Soulèvements de la Terre attaccano gli oleodotti in quanto strutture che incarnano i legami tra lo Stato di Israele, gli Stati Uniti e i regimi arabi reazionari. Il sabotaggio è quindi, ai loro occhi, uno strumento di liberazione nazionale palestinese.
8 – “Fossil capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming”, Londres,Verso,2016. A. Malm annuncia un secondo volume sull'economia dei combustibili fossilicosì come anche il libro che sarà pubblicato da Verso nel 2024, con Wim Carton: "Overshoot: How the World Surrendered to Climate Breakdown".
9 - Nel suo blog dedicato alla distruzione della Palestina dopo il 7 ottobre, ritorna a lungo sulla storia degli ebrei in Palestina, compresa la Bibbia. https://www.versobooks.com/blogs/news/the-destruction-of-palestine-is-the-destruction-of-the-earth, blog Verso, 8 aprile 2024.
10 - Andreas Malm, “The Walls of the Tank: On Palestinian Resistance”, Salvage, 4/2017
11 - Questo punto è stato particolarmente evidenziato da Mathieu Bolton: Climate catastrophe, the "Zionist Entity" e "The German Guy": An anatomy of the Malm-Jappe dispute" (in The Rebirth of Antisemitism in the 21st Century, a cura di David Hirsh, Routledge, 2023). Bolton è stato uno dei primi a sottolineare le critiche di Malm a Israele e agli ebrei. Pubblicato in francese su Lundi.am nel dicembre 2023
12 - «Dovremmo per prima cosa considerare il ruolo dello Stato di Israele nell'attuale frenesia dei combustibili fossili». (Per Malm, Israele è coinvolto nelle piattaforme di estrazione ed esportazione di gas nel Levante), in "La distruzione della Palestina è la distruzione della Terra", blog aprile 2024.
13 - Ivi
14 - Si veda, ad esempio, Tamar Novick, Milk & Honey: Technologies of Plenty in the Making of a Holy Land, MIT Press, 2023.
15 - Si veda in particolare Martin Buber, Utopie et socialisme, trad., Parigi, L'échappée, 2018; Communité́, Paris, Ed. de l'éclat, così come Gustav Landauer, Appel au socialisme, trad., ed. Lentezza. Vedi anche Sylvaine Bulle, "L'anarchismo ebraico e le sue risorgive ecologiche contemporanee", Revue K, 2023
16 - “The Walls of the tank” et “The Destruction of Palestine Is the Destruction of the Earth”.
17 - Günther Anders denunciava il pericolo di una stretta fascinazione per Prometeo, se la tecnologia non fosse vista prima come uno strumento di socializzazione. Si veda il suo libro "L'uomo è antiquato", voll. 1 e 2, Bollati Boringhieri
18 - Si pensi all'accusa rivolta agli ebrei del Medioevo di avvelenare i pozzi, ricordata da Karsenti et al., in: "Un genocidio a Gaza? Risposta a Didier Fassin", Revue A.O.C.
19 - Moishe Postone ha mostrato chiaramente come una particolare forma di critica del capitalismo, che egli definisce "tronca", si rivolga alla dimensione astratta del capitale in nome di valori "concreti" naturalizzati (l'autenticità della terra o dell'appartenenza etnico/razziale, il gesto manuale del lavoratore sono celebrati in quanto colti come anteriori e contrapposti alla logica astratta del capitalismo). E Postone ha dimostrato il legame intrinseco tra questa critica tronca e l'antisemitismo. Vedi Moishe Postone, "Critique du fétiche capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche", PUF, 2013.
20 - Vedi Malm nel suo blog: Quando torna la lotta, https://www.versobooks.com/blogs/news/5061-when-does-the-fightback-begin (aprile 2021).
21 - In Come sabotare un oleodotto?
22 - Malm, ad esempio, è stato fortemente coinvolto nella lotta pro-palestinese nel Movimento Internazionale di Solidarietà per la Palestina.
23 - Andreas Malm, Avis de tempête, trad., Paris, La Fabrique, 2023.

giovedì 12 settembre 2024

Cercando un altro Egitto…

Anselm Jappe, in questo interessante e lungo testo, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, e ci racconta così la sua a proposito della "Scuola di Norimberga", e di cosa a partire da allora non avrebbe funzionato. Ovviamente, la prima a essere accusata è la "teoria della crisi"(chissà, magari è stato per codesto che Postone il posto nel Pantheon se l'è meritato, e Kurz invece no…) Poi si passa al secondo imputato, a quell'Illuminismo "dialettico" dipinto così male, su cui se ne sono dette troppe; forse bisognerebbe darsi una calmata… Ecco, sembrano soprattutto queste, le cipolle mal digerite, e sulle quali va riconosciuto a Jappe che non le tira fuori ora; ma l'ha sempre pensata così.Manca un punto, a mio avviso; forse il più importante in tutta questa contingenza. E riguarda il problema del "partito", e il fatto che non sembra sia passato per la mente quasi a nessuno (nemmeno a Kurz!) che per codesto bisognerebbe tornare a Marx (non solo a Karl, ma anche a Groucho!!), finendo pertanto una volta per tutte di liberarsi da Lenin e di Lenin, per sempre!

I vivi e i morti nella Critica del Valore
- Alcune tesi superficiali sullo stato della critica del valore oggi -
di Anselm Jappe

 

Sono passati 38 anni, da quando, nel 1986, usciva il primo numero di "Critica marxista" (più tardi ribattezzata Krisis) e aveva inizio lo sviluppo della critica del valore. Dapprima limitata solo a dei piccoli circoli, arrivava poi a una "svolta", anche agli occhi del pubblico, con la pubblicazione de "Il collasso della modernizzazione" (1991) di Robert Kurz. Ben presto, l'interesse crebbe rapidamente, non solo nei paesi di lingua tedesca, ma anche in altri paesi, inizialmente soprattutto in Brasile. Quando nel 1994 pubblicai i primi testi di Kurz su una casa editrice italiana [N.d.T.: "Il manifesto"], non mi sembrò esagerato affermare nella prefazione che quanto prima, in futuro, si sarebbe parlato di una "Scuola di Norimberga", allo stesso modo in cui, da tempo ormai, si parla della "Scuola di Francoforte". La mia previsione si è rivelata sbagliata. La critica del valore, ovvero la critica della scissione-valore, è rimasta ovunque in una situazione settaria, o vi è ritornata, simile a quella che, in Italia, può essere paragonata al “bordighismo”, o, in Germania, al "gruppo marxista". Vediamo che esistono diverse riviste specifiche della critica del valore in Germania, in Austria e in Francia, dove c’è anche una casa editrice che si dedica esclusivamente alla Critica del Valore, con libri e con molte traduzioni, soprattutto degli scritti di Kurz. Ma tuttavia appare ovvio che i "dinosauri marxisti" - della cui imminente estinzione i critici del valore erano già convinti negli anni '90 - continuano a dominare (o sono tornati a farlo) quella parte dello spettro della sinistra radicale che continua ancora a fare riferimento a Marx. A continuare a dominare i dibattiti, le riviste, i corsi universitari e le summer school sono sempre le vecchie glorie: e si parla sempre di Louis Althusser e di Jacques Rancière, di Toni Negri e David Harvey, di Slavoj Žižek e di Alain Badiou, di Operaismo italiano, o addirittura di Rivoluzione Russa; oppure di autori che non venivano considerati, o non si consideravano, marxisti, come Gilles Deleuze, Michel Foucault, Giorgio Agamben o Judith Butler. Perfino Michael Heinrich ha conquistato un suo pubblico internazionale. Così, ad esempio, chiunque sfogli la rispettabile rivista britannica "Historical Materialism" - la quale pretende di dare spazio a tutti i tipi di marxismo - e assista alle sue conferenze annuali, nel corso delle quali si tengono sempre centinaia di lezioni, non troverà quasi mai riferimenti alla Critica del Valore tedesca.Per converso, persino Moishe Postone mantiene lì una sua modesta cittadinanza modesta [*1]; ma non ce l'ha Kurz, né gli altri autori "Krisis" o di "EXIT!". [*2]   Fin dall'inizio, la critica del valore aveva esplicitamente definito sé stessa come un movimento non accademico. Tra i suoi fondatori, e in seguito tra i suoi più importanti esponenti, non c'erano professori universitari (a parte Claus Peter Ortlieb, il quale però insegnava matematica), e non c'erano nemmeno giornalisti, o persone che avevano influenza nei media e, naturalmente, non c'era nessun politico. Come ebbe a dire lo stesso Kurz: i critici del valore erano i "cani randagi" della critica sociale, e volevano esserlo. Ed è stata esattamente proprio questa autoimposta posizione esterna ad avere reso attraente per più di una persona la critica del valore. Quanto ha contribuito l'accademismo alla banalizzazione e all'“aggregazione” della critica sociale nel corso dei decenni! Com'è paradossale permettere allo Stato di pagarti per criticarlo, e costruire in tal modo delle carriere istituzionali basate sulla diffusione di contenuti apparentemente rivoluzionari, e usarli poi per valutare gli studenti in base alla loro comprensione della critica del capitalismo! È di certo un bene il fatto che la natura radicale dei contenuti non abbia nulla a che fare con lo Stato e con i media mainstream; dopo tutto, fino alla prima guerra mondiale e oltre - in quella che è stata la sua "età dell'oro" (Kolakowski) - il marxismo non esisteva affatto nelle università. Un altro esempio di come una teoria critica del capitalismo abbia potuto farsi sentire senza avere alcuna presenza nelle università, nelle istituzioni o nei grandi media, facendolo soprattutto grazie alla qualità delle sue analisi e delle sue eventuali azioni, è stato quello dell'Internazionale Situazionista (1957-1972) e del suo pioniere Guy Debord. Non ci si può costituire un proprio status, costruirci sopra una carriera, o ricevere finanziamenti attraverso una critica di valore, né 38 anni fa né oggi. Gli opportunisti hanno rapidamente voltato le spalle alla critica del valore. Ma per questo atteggiamento assolutamente corretto, la critica del valore ha pagato un prezzo assai alto. Vale a dire che questo ha fatto sì che sia andata perduta un'enorme opportunità di risonanza, a cui quasi nessun'altra corrente del marxismo ha rinunciato. Così, vediamo che nelle università, a difendere il proprio giardino, già in contrazione, e a non permettere alcuna competizione sul loro campo, sono spesso proprio i marxisti e altri "di sinistra"; tanto più che gli attacchi violenti al marxismo tradizionale hanno sempre fatto parte dell'equipaggiamento di base del Partito Democratico. La critica del valore ha di certo il potenziale per riuscire a diventare un nuovo paradigma per le discipline umanistiche; soprattutto in ambiti come la storia sociale, letteraria e culturale, ma anche rispetto alla storia del lavoro e la resistenza ad esso. Ma assai raramente questa possibilità si è concretizzata. Naturalmente, per la critica sociale, esiste una seconda possibilità di risonanza, che dovrebbe quanto meno essere assai più vicina a quelle che sono le sue forme radicali: i movimenti sociali di ogni tipo, l'attivismo, la lotta pratica contro il capitalismo. [*3] Affidare la teoria a delle persone che vogliono davvero fare la differenza era già intenzione di Marx ed Engels, i quali non tenevano seminari all'università, ma fondarono l'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ma fin dall'inizio, la critica del valore ha insistito sul fatto – e questo fa parte della sua essenza – che la teoria non dovrebbe essere la "serva" della prassi. In definitiva, non si tratta di accompagnare i movimenti sociali, e spiegare loro che cosa stiano già facendo, bensì, piuttosto e al contrario, far notare quali sono le loro inadeguatezze, e incoraggiarli a radicalizzarsi e a mettere in discussione tutta la socializzazione del valore, del lavoro e del denaro, per far dimostrare che questo approccio è corretto, importante e coraggioso. Non si può criticare la costituzione del soggetto plasmato dalla merce, se allo stesso tempo si crede di vedere una tendenza rivoluzionaria in ciascuno dei suoi movimenti, come oggi fanno quasi tutti i gruppi della sinistra radicale. Il guadagno narcisistico che quasi tutti i soggetti traggono dall'identificarsi con un "gruppo" - di solito un gruppo che ha subito grandi ingiustizie ma che è predestinato a emanciparsi se solo si impegna adeguatamente - rappresenta di certo un motivo essenziale per impegnarsi nell'attivismo. Permette di riuscire a gonfiare la propria "giustizia" - come la definiva Adorno - rendendola un positivo assoluto, addossando tutto ciò che è negativo sempre agli altri ("la borghesia", "i governanti", "gli imperialisti", "i colonizzatori", "gli omofobi", "i maschi", ecc.). Argomentare contro di loro che il capitale è una relazione alla quale partecipano tutti i soggetti capitalistici, sebbene con ruoli e vantaggi assai diversi, e che ogni critica sociale deve anche includere l'autocritica, ai soggetti capitalistici appare quasi sempre come un'imposizione, un sabotaggio o una provocazione. Riconoscere in anticipo il pericolo di un "populismo trasversale", è una delle conseguenze di questo approccio alla critica del valore. [*4]

Gli attivisti di ogni genere considerano sempre la critica del valore come qualcosa di distante, troppo difficile, troppo intellettuale, lontana dalla pratica, troppo radicale, non comunicabile, una critica da torre d'avorio – ma tutte queste obiezioni testimoniano solamente i limiti di questo genere di attivismo e la motivazione a criticarlo. La critica del valore non solo viene considerata impraticabile, ma anche pessimista, demoralizzante e scoraggiante. Ma il fatto che essa non diffonda illusioni, e non si aggrappi a nessuna goccia di speranza può essere solo ritenuto come un merito della critica del valore. Però resta il fatto che qualcuno deve pur ascoltare la teoria: ci deve essere un pubblico, in modo che non basti che i messaggi in una bottiglia vengano semplicemente inviati. [*5] È bene che la critica del valore non piaccia né al mondo accademico né al mondo del movimento. Ma così va a finire che non ha alcun pubblico. È facile scoprire che, pur condividendo l'analisi categoriale della critica del valore, non c'è davvero bisogno se si vuol parlare contro il nucleare o la chiusura degli ospedali, per difendere la biodiversità o l'accoglienza dei migranti, per sostenere che le piccole case di pietra sono meglio dei grattacieli di cemento, o per criticare lo stato di sorveglianza e la tirannia degli algoritmi. In tutti questi casi, si può sicuramente dimostrare che alla fine, se si va davvero a fondo delle cose, la socializzazione del valore ne è responsabile, e se non ne usciamo non ci sarà una vera soluzione. Ma se non si vuole aspettare, intanto si possono salvare i profughi in mare, oppure bloccare una fabbrica di cemento qui e ora, e questo lo si può fare senza ricorrere alla critica del valore, e farlo insieme a persone che non hanno mai sentito parlare di critica del valore. Nella migliore delle ipotesi, si può cercare di dissipare le loro illusioni circa il significato delle loro azioni, e impedire loro di candidarsi al parlamento... Ma se la teoria non è utile né dal punto di vista accademico né da quello dell'attivismo, essa allora riceve poca attenzione. Solo le persone veramente interessate alla conoscenza, senza alcun uso immediato per sé stesse o per la società, faranno lo sforzo di comprendere veramente la critica del valore. Ma purtroppo queste persone sono rare. Se la critica del valore, in qualsiasi momento del suo sviluppo, si fosse scagliata contro il pubblico accademico o attivista avrebbe tradito sé stessa e il suo carattere distintivo. Ma è proprio per questo che deve accontentarsi di un'eco assai ben lontana dal suo potenziale intellettuale. Non c'è dubbio che gran parte di ciò che la critica del valore ha prodotto, dal 1986 a oggi, rappresenta qualcosa tra le scoperte più importanti del nostro tempo. Ma purtroppo non basta averlo detto. Probabilmente, sarebbe questo il motivo "strategico" più importante che causa l'insufficiente diffusione della critica del valore. [*6] Ma va considerato anche l'aspetto dei contenuti: guardando indietro a quali sono i punti di forza e di debolezza della critica del valore. A tal proposito, si può dire che tutti i commenti sono necessariamente estremamente superficiali e meriterebbero un lungo libro! Quella che è stata la notevole importanza che ha avuto la riformulazione, fatta da Kurz, della critica dell'economia politica, vale a dire del suo rinnovamento delle idee di Marx, probabilmente non ha bisogno di essere spiegata in maniera più dettagliata. Da "Lavoro astratto e socialismo"(1987) a "Leggere Marx" (2000) e "La sostanza del Capitale"(2004)[*7], e fino alla sua ultima opera "Denaro senza valore" (2012) Kurz ha fornito una nuova lettura delle categorie di Marx che tutti gli altri approcci dell'ultimo mezzo secolo - compresa quella di Moishe Postone, che a lui è legata - non sono riusciti a fornire. I suoi studi sulle origini, sulla storia e sull'attuale situazione capitalismo, sviluppati in "Guerra di ordinamento mondiale" (1999), "Libro nero del capitalismo" (1991), "Ruolo del Soggetto nel Collasso della Modernizzazione" (1993) hanno delineato un enorme programma di ricerca. La sua critica del marxismo tradizionale e, soprattutto, quella riferita alla lotta di classe e al feticcio del lavoro, oltre che al suo ruolo storico che ha avuto in quanto aiuto allo sviluppo del capitalismo, costituisce un modello rispetto al quale ogni e qualsiasi forma di pensiero marxista deve – o meglio, "dovrebbe" – essere oggi valutata, dal momento che è stato proprio il bersaglio delle sue critiche ad aver organizzato un'efficace "congiura del silenzio" contro di lui. [*8] Ma esistono molti altri punti sui quali una revisione della critica del valore sembra essere assolutamente necessaria: vale a dire, delle due l'una, o l'approccio ha avuto fin dall'inizio dei punti deboli, oppure lo sviluppo progressivo della società di mercato richiedeva una modifica della teoria. Questo vale soprattutto per la teoria della crisi. È questo, il punto che di gran lunga ha attirato maggiormente l'attenzione, soprattutto nel momento in cui la Critica del Valore è stata ricevuta da un pubblico più ampio. Ciò è avvenuto dopo il collasso del blocco orientale e la "riunificazione" tedesca"; attenzione che si è poi riattivata ad ogni crisi. Così, negli anni '90, quando la situazione economica in Brasile rimaneva assai incerta, Kurz cominciava a godere di grande popolarità sui media brasiliani, e veniva visto come il "profeta dell'apocalisse", e non appena diceva che il mercato azionario o la valuta erano scesi di nuovo, il suo telefono squillava e all'atro capo c'era un media brasiliano che voleva un commento. Quando in Brasile, durante la prima presidenza di Lula (2003-2011) c'era stata una temporanea ascesa e si era diffusa la sensazione di "farcela", e di non essere più un paese del terzo mondo, l'interesse per la critica del valore era di nuovo aumentata, e alcuni dei rimanenti gruppi critici del valore avevano preso esplicitamente le distanze dalla teoria della crisi, la quale semplicemente non poteva più essere "comunicata", pena essere ridicolizzati (ma questo, dopo pochi anni, è poi cambiato di nuovo!). La teoria della crisi costituisce – anche se ciò avviene in modi diversi secondo le diverse direzioni della critica del valore (in EXIT! è, ovviamente, particolarmente "breve-ortodossa") – una base della Critica del Valore tedesca e delle sue ramificazioni internazionali; contrariamente alla critica del valore di Postone, la quale manca di una teoria della crisi, e a quasi tutte le correnti del marxismo. La concorrenza intra-capitalistica spinge costantemente a sostituire il lavoro vivo con il lavoro morto, e pertanto riduce la massa di valore, la quale viene creata solamente dal lavoro vivo. Questo processo, storicamente progressivo, avrebbe portato già da tempo al collasso della produzione di valore, e della società basata su di essa, se, a partire dagli anni '70 non fosse stato sempre più tenuto nascosto grazie all'espansione del "capitale fittizio", e da montagne di debiti sempre più giganteschi. È questa è la tesi di fondo che possiamo trovare già nei contributi a "Critica marxista". Negli anni '90, pertanto, "Krisis" considerava ormai imminente il crollo del capitalismo. In testi come "Rache" (1991) di Honecker, si sosteneva che l'annessione della DDR avrebbe completamente travolto il capitalismo della Germania Ovest, e alla fine lo avrebbe trascinato nell'abisso; cosa che, a sua volta, avrebbe causato il collasso dell'intera economia mondiale. Ne "Il collasso della modernizzazione", di quello stesso anno, Kurz affermava che c'era da aspettarsi che la società di mercato «prima della fine del XX secolo, sarebbe entrata in un'epoca oscura di caos e di disintegrazione delle strutture sociali, come non era mai stato visto prima [!] nella storia del mondo». [*9] Non si vorrebbero necessariamente attribuire simili affermazioni a Kurz, ma va notato che inizialmente la critica del valore aveva sovrastimato in modo significativo il ritmo della crisi finale. Invece, come risultato, si sono verificate tutta una serie di crisi che potrebbero essere viste come dei segni a partire dai quali il capitalismo stava effettivamente raggiungendo i suoi limiti interni: le crisi finanziarie in Messico nel 1994, nel sud-est asiatico nel 1997, in Russia nel 1998, in Brasile nel 1999, lo scoppio della bolla delle dot-com nel 2000, la crisi argentina nel 2002, la crisi globale dei subprime del 2008, la crisi greca del 2010. In ciascuna di queste crisi, il debito pubblico e privato è stato portato a dei livelli che prima venivano considerati inimmaginabili. Non c'erano altre alternative, poiché i problemi di fondo erano irrisolvibili, così come sosteneva la teoria della crisi della critica del valore, e quasi nessun altro, nemmeno a sinistra. Attribuire le crisi finanziarie al fatto che l'accumulazione del capitale era diventata impossibile, e la conseguente diminuzione della massa del valore, era un assunto di fondo del tutto corretto, che, come già detto, per la critica del valore costituiva l'unica base.  Ma il capitalismo non ha collassato. Inoltre, ciascuna di queste crisi si è fermata, almeno apparentemente, o quanto meno la sua intensità è diminuita. La Russia, contro ogni previsione, è tornata ad essere una potenza mondiale. Non si è sviluppata una spirale di crisi sempre più esacerbate. La crisi globale del Covid, almeno all'inizio, sembrava davvero l'occasione giusta per una crisi definitiva del debito: prima attraverso le severe restrizioni alla produzione e al commercio mondiale, e poi attraverso i giganteschi "pacchetti di salvataggio" finanziati dal credito. Ma anche questa volta non c'è stato alcun crollo. Nessun problema è stato risolto, ma tuttavia tutto continua.

E bisogna che tutto questo venga spiegato teoricamente. La teoria della crisi, in quanto tale, è corretta, ma tuttavia non riesce a spiegare perché non ci sia ancora stata una crisi finale. Continuare sempre a dire: «Se la grande crisi non arriva questa volta, allora la vedrai l'anno prossimo», diventa in realtà qualcosa che assomiglia alle profezie apocalittiche per mezzo delle quali i tuoi avversari hanno sempre voluto identificare i critici del valore. È vero che nei centri capitalistici, nella sua forma pura, il modello fordista di accumulazione è morto da decenni, che non è mai stato veramente esportato alla periferia, e che nessun altro modello di accumulazione è praticabile. La combinazione di economia di mercato e democrazia, piena occupazione e prosperità, compromesso di classe (cioè una riduzione dei divari di reddito) e bilanci in pareggio, vale a dire, il cosiddetto "miracolo economico", nel migliore dei casi ha dovuto richiedere alcuni decenni, e anche allora solamente in pochi paesi. Questa società, si considerava come se fosse una sorta di punto finale della storia, come la soluzione perfetta che era stata finalmente trovata, e che doveva solo essere estesa a tutto il resto del mondo. Può essere che sia apparso così anche a coloro che sono cresciuti in tutto questo (ivi compresi i fondatori della critica del valore!): come se si trattasse del capitalismo "reale", contro il quale  tutte le altre forme di capitalismo rappresentano solamente o dei precursori o delle forme di declino. Ma è davvero così? Piuttosto che ripetere costantemente che a un certo punto la barriera verrà raggiunta, forse sarebbe il caso che la critica del valore esaminasse quei numerosi modi, "non ortodossi", secondo i quali la società globale delle merci si muove, passando da una soluzione di emergenza alla successiva soluzione provvisoria. Il ruolo della Cina e delle altre "economie emergenti", da un lato, e il ruolo della digitalizzazione dall'altro, sono stati presi sufficientemente in considerazione? Di certo, non si tratta semplicemente - come sostiene l'economia borghese e quasi tutti i marxisti - di nuovi modelli che sostituiscono i vecchi centri capitalistici ("il secolo del Pacifico"!) o che sostituiscono la vecchia industria. Sembrano dare nuovamente un po' di respiro allo sfruttamento globale del valore, e, in ogni caso, il capitalismo non ha mai "chiesto" nient'altro. Lohoff e Trenkle, ne "La Grande svalorizzazione" (2012), hanno tentato di spiegare l'andamento della crisi finale per mezzo di categorie politico-economiche. Ma la loro complicata analisi sembra non abbia convinto nessuno. Ciò che è importante è che la critica del valore, in tutte le sue sfumature, ha dimostrato che le crisi finanziarie sono il risultato di una crisi di accumulazione reale, e non il contrario. Pertanto, è stata in grado di classificare qualsiasi critica unilaterale dei mercati finanziari, delle banche e della speculazione, vedendola come una critica stenografica del capitalismo che porta al populismo e al nuovo antisemitismo.  L'insistenza sul "limite interno" del Capitale, così caratteristica della critica del valore, e in particolare di Kurz, e che era quasi sempre estranea al marxismo tradizionale, è stata sempre diretta, in modo subliminale, contro l'assunto secondo il quale il capitalismo stesse mirando principalmente alle sue "barriere esterne". Questo ha significato, almeno dagli anni '70, principalmente alle barriere naturali, vale a dire, ai limiti ecologici. Fin dall'inizio, la critica del valore si è sviluppata esplicitamente in contrasto con il discorso ambientalista che si era diffuso in Germania negli anni '80 – "Commenti critici sulla nuova critica del potere produttivo e sull'ideologia della desocializzazione", era questo il sottotitolo del principale articolo di Kurz, "Il ruolo delle cose morte", su Marxist Critique No. 2 and No. 3 (1986-1987). Inizialmente, durante la crisi, c'era stata una vera e propria euforia nei confronti della tecnologia: lo sviluppo sempre crescente di tecnologie che risparmiavano lavoro, avrebbe privato il capitalismo delle sue fondamenta, e liberato così gli individui dal lavoro. Come questa ideologia del progresso – che fondamentalmente era solo una variante della tradizionale idea marxista delle forze produttive che fanno esplodere i rapporti di produzione – sia stata in seguito parzialmente corretta non verrà qui discusso più dettagliatamente (vedi il mio articolo "Sui Rimescolatori e sui darwinisti sociali"). Ma la questione della barriera esterna continuava ad essere in gran parte ignorata. Sebbene il raggiungimento del limite interno della valorizzazione del capitale richieda molto più tempo di quanto credessero i critici del valore, e venga interrotto da numerosi movimenti contrari, il movimento verso il limite naturale è praticamente inarrestabile, e sta accelerando costantemente senza alcun significativo momento di ritardo. Ci sono molte indicazioni che la barriera naturale verrà raggiunta più rapidamente di quella interna e pertanto, di fatto, innescherà una crisi globale fondamentale. Questo significa che - oggi, dopo quarant'anni - la critica del potere produttivo sia giusta rispetto alla critica del valore?  Non necessariamente. Solo la descrizione della logica della valorizzazione del valore - così come viene fornita dalla critica del valore - rimane in grado di rivelare quali sono le cause interne della folle coazione capitalistica a crescere. Nessuna varietà di discorso ecologico ha mai realmente affrontato questo problema, e anche quegli ecologisti che si classificano come radicalmente critici del capitalismo hanno sempre un'idea assai superficiale del rapporto esistente tra capitalismo e crisi ambientale (i ricchi, o le multinazionali, o le lobby sono sempre da biasimare per tutto). Uno dei contributi più importanti che la critica del valore può dare oggi è quello di mostrare che dalla catastrofe ambientale non c'è salvezza, a meno che la società mondiale non si ritiri dal lavoro astratto e dalla produzione di merci, dal denaro e dal valore. Ma questo tema ha ricevuto uno scarso trattamento nella critica del valore. E neppure l'autonomia delle tecnologie. Il feticismo moderno – il mondo che l'uomo stesso costruisce ma dal quale si trova a essere dominato – consiste essenzialmente di quelle che sono le due metà: il valore generato dal lato astratto del lavoro e la mega-macchina tecnologica. Storicamente, esse sono emerse insieme, senza che sia stata definita una chiara priorità. Per la ricerca futura, pertanto, esiste un ampio campo, che allo stesso tempo sarà anche di grande rilevanza per le azioni attuali. Citiamo brevemente alcune altre aree rispetto alle quali la critica del valore deve essere ulteriormente sviluppata, anziché rimanere pietrificata come un dogma.

La critica dell'Illuminismo, sviluppata dalla critica del valore a partire dalla fine degli anni '90, ha rappresentato anch’essa un duro colpo per “la piscina delle rane”. In pratica, tutta la sinistra si era sempre vista come l'erede di un Illuminismo che doveva essere completato, oppure che, al massimo, aveva accettato la "Dialettica dell'Illuminismo" come se fosse una spiegazione. L'alternativa all'Illuminismo non poteva essere altro che il contro-illuminismo, la reazione, il Romanticismo, con tutto ciò che ne era emerso, specialmente in Germania. Kurz e gli altri hanno dimostrato invece che, per molti aspetti, l'Illuminismo non aveva significato il superamento del dominio, quanto piuttosto l'interiorizzazione di esso, e costituiva pertanto un'affermazione delle categorie capitaliste. L'Illuminismo non era stato - come spesso si sostiene - in seguito pervertito nel suo opposto, ma semmai, proprio a partire dalle sue stesse fondamenta, aveva significato un'intensificazione del dominio; come dimostra il Panopticon di Bentham. Ma sebbene quest'ultimo fosse già stato denunciato come repressivo da altri autori, come Michel Foucault, la critica del valore ha scoperto un nucleo repressivo anche nel Santo dell'Illuminismo, in Immanuel Kant. Le citazioni di Kant, riportate nei corrispondenti scritti di critica del valore sono effettivamente in grado di farci riflettere sull'immagine diffusa del "filosofo della libertà", per il quale l'illuminismo significava l'uscita dell'uomo dalla sua immaturità autoinflitta. Sono state citate anche numerose dichiarazioni razziste, antisemite e misogine da parte di rinomati pensatori illuministi, e si è concluso che l'oppressione delle donne, degli ebrei e dei non bianchi – vale a dire il dominio del soggetto maschile bianco-occidentale (MWW, Male, White, Western), come lo ha descritto Kurz – c’è davvero stata. Solo che si è realmente affermata nella seconda metà del Settecento, nel momento in cui si è "basata" su delle forme più antiche. Ma qui è stato superato il limite. Questo ha di certo potuto essere giusto, ma all'inizio, quando serviva a distinguere una nuova teoria, rispetto alla solita confusione di considerazioni fatte di "entrambi/e", per mezzo di affermazioni drastiche in modo da evitare che ci si perdesse nel solito mercato di irrilevanti opinioni quotidiane. Ma in una fase successiva si sarebbe invece reso assolutamente necessario il passaggio a un approccio più sfumato. La lettura dell'Illuminismo, fatta da Kurz è – e questo è il minimo che si possa dire – altamente selettiva. Nella sua opera, i pensatori illuministi francesi non vengono menzionati, sebbene Denis Diderot, ad esempio, fosse decisamente un anticolonialista e un antirazzista (Addendum al "Viaggio di Bougainville", 1772). Il fatto che la Rivoluzione francese, tra le altre sue conquiste, abbia proclamato l'emancipazione degli ebrei e abolito la schiavitù nelle colonie non viene menzionato. E neppure l'abolizione della tortura e della pena di morte in alcuni paesi. Kurz, in realtà (così come fanno Lohoff e Lewed nei loro corrispondenti articoli sulla Crisi [*10]) si occupa solo di Kant. Le sue tendenze repressive vengono giustamente sottolineate. Ma Kant scriveva anche che: «Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Tutto ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos'altro, come equivalente; ciò che, invece, è al di sopra di ogni prezzo, e quindi non ha equivalenti, ha una dignità»; e questo viene volutamente ignorato. La mia obiezione non significa affatto che Kant fosse un filosofo della libertà, ma piuttosto che egli era ambivalente, come lo era in generale l'Illuminismo. Altre parti della critica illuminista risultano ancora meno convincenti. L'antisemitismo, il razzismo e il patriarcato dovrebbero essere una mera conseguenza dell'Illuminismo? Nella modernità capitalistica, questi fenomeni hanno assunto nuove forme, e sono stati spesso innestati su forme più antiche, ma non sono pure invenzioni della modernità. L'Illuminismo ha fornito sia le munizioni per la riforma, e spesso ha così esacerbato il razzismo, l'antisemitismo e il patriarcato, sia anche gli argomenti contro tutto questo. Una tale dialettica va sempre rammentata. Vent'anni dopo la Rivoluzione francese, nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale gli ebrei vennero formalmente emancipati. Nelle colonie, la schiavitù fu sempre più criticata e rapidamente abolita, e i diritti delle donne aumentarono (ad esempio, l'introduzione del divorzio durante la Rivoluzione francese). Certo, è vero che tutte queste libertà sono state accompagnate da nuove forme di schiavitù interiorizzata, come l'etica del lavoro. Ma ciò è sufficiente a farci vedere l'Illuminismo come se fosse solo uno slancio per l'affermazione della società dei valori, piuttosto che come un campo di battaglia? Anche la critica dell'Illuminismo ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e spesso prese la forma del contro-illuminismo, vale  a dire del romanticismo, del tradizionalismo, dell'irrazionalismo e del ritorno alla religione. È chiaro che la critica del valore non ha assolutamente niente a che fare con ciò. L'Illuminismo e il Contro-Illuminismo sono stati trattati, un po' prematuramente, come fratelli nemici, come due poli dialettici che vanno superati insieme. Ma su quali basi? È questa la domanda che posi a Kurz nel 2003, nel mio articolo sulla crisi "Una questione di punti di vista. Commenti sulle critiche dell'Illuminismo". Se tanto il pre-moderno quanto il moderno non possono servire quale punto di partenza, su che cosa dovrebbe realmente basarsi la promessa di una "anti-modernità emancipatrice"? Non sembra del tutto sospeso in aria tutto ciò? Il focus sulla critica dell'Illuminismo, è andato di pari passo con Krisis, e poi, ben presto, con EXIT!, con un'attenzione sempre maggiore alla scissione-valore. In EXIT!, non si può più usare il termine "critica del valore"; bisogna che sia "critica della scissione del valore", e dacché questa parola è così difficile da gestire, ne è stata tratta l'abbreviazione WAK, nel più bel stile GDR. È difficile accettare un testo di EXIT! che non menzioni più volte la scissione-valore in ogni pagina [*11], e chi non lo fa appartiene senza dubbio a una "lega maschile".

E tuttavia, all'inizio, la scissione-valore era un'idea estremamente importante: il valore non comprende tutto; né ogni attività crea valore. La produzione di valore può avvenire solo perché numerose attività, soprattutto nel campo della riproduzione, si svolgono in modo non commerciale. Esse non rappresentano il "lavoro" nel senso capitalistico, ma non sono affatto esenti dalla forma merce. Costituiscono come un "lato oscuro" della produzione di valore, un prerequisito silenzioso. Coloro che lo fanno sono generalmente inferiori ed esclusi da quei "diritti" che la partecipazione alla produzione di valore fornisce, ad esempio, al lavoratore classico. Tutte queste attività vengono in gran parte svolte da delle donne, e nella società moderna la subordinazione delle donne si basa principalmente sul fatto che, finché sono attive nel settore riproduttivo, non svolgono "lavoro" e non producono "valore". La scissione-valore è stata presentata in diversi articoli chiave in Krisis (1992). [*12] Di conseguenza, questa idea non è stata sviluppata e differenziata, ad esempio, attraverso studi storici, ma piuttosto, nella sua versione originale, è diventata un dogma che è stato arbitrariamente supportato con dati empirici solo quando era appropriato. In tale forma, è stato poi utilizzato in scambi banali nelle controversie nell'ambito della critica del valore, passando spesso direttamente dall'apice dell'astrazione categoriale alle ostilità personali, e alle meschine lotte di potere. Soprattutto, però, è stata evitata la discussione di un punto di vista importante: sotto il capitalismo ci deve essere una produzione di plusvalore (livello categoriale), ma questa non deve necessariamente essere effettuata da un proletariato industriale impoverito, come è stato al suo inizio (a livello empirico), ma può verificarsi anche altrove, ad esempio con i lavoratori ad alta tecnologia (e questo è esattamente ciò che la critica del valore ha sempre sostenuto contro i marxisti tradizionali, che erano tutti alla ricerca di un successore del vecchio proletariato). Allo stesso modo, il valore ha bisogno di un'ampia sfera di attività senza valore per funzionare, ma questa sfera non è limitata all'attività delle donne in casa e in famiglia. Se da un lato tutto ciò continua a giocare un ruolo molto importante, dall'altro ci sono anche altre sfere prive di valore, senza le quali la produzione di valore collasserebbe. Ciò include, da un lato, l'addomesticamento (di entrambi i sessi), che ha continuato a essere diffuso fino alla metà del XX secolo, e, dall'altro, tutto ciò che la sociologia chiama "economia del dono", che include l'amicizia, l'amore e l'aiuto del vicinato, le associazioni, ecc.: tutte attività che non sempre sono del tutto "disinteressate", ma che comunque non sono basate su uno scambio di equivalenti (se invitiamo dei conoscenti a cena, speriamo che ci invitino di nuovo, ma non siamo "sicuri" di farlo – non è uno scambio). Spesso, questo "lato oscuro" della società dei valori ha una connotazione di genere – ma non sempre, e necessariamente. E avviene sempre meno. Sono poche le cose cambiate così tanto negli ultimi decenni, come la posizione delle donne nella società, soprattutto grazie alla loro libertà di non essere più vincolate dal ruolo di madre. La funzione categoriale di "donna", così come la funzione categoriale di "lavoratrice", è stata in gran parte staccata dai supporti empirici. Le numerose donne nello Stato e nel mondo degli affari non possono più essere definite come delle semplici "eccezioni". I termini "selvaggità del patriarcato" (come il titolo di un articolo di Scholz del 1998) e "casalinga degli uomini" riconoscono la discrepanza tra teoria ed empirismo, ma non affrontano realmente l'allontanamento della logica feticistica dai suoi portatori storici come una delle caratteristiche principali dell'ultima fase della socializzazione dei valori – come i marxisti che non riescono a dire addio al proletariato, e puntano trionfalmente ai "veri" proletari che riescono ancora a trovare da qualche parte. In questo modo, WAK riesce a definirsi, contemporaneamente, femminista mentre si pone al di sopra di tutte le femministe ordinarie che non raggiungono il livello di astrazione di WAK. Le polemiche sono rivolte in particolare ad autori come Silvia Federici o Maria Mies, che a volte suggeriscono comportamenti competitivi. In cambio, vengono presentate intuizioni rivoluzionarie, come la scoperta che esiste anche un "livello meso" tra il livello astratto delle categorie e il livello empirico. Chi l'avrebbe mai immaginato! Anche qui sono state soffocate le opportunità di diffondere idee di valore critico, e questo al di là dello stagno delle rane della sinistra radicale. Ci si potrebbe anche chiedere cosa Kurz pensasse veramente della WAK, non importa quanto ferocemente lo abbia difeso esternamente. È sorprendente come nel suo primo scritto significativo dopo la scissione di Krisis (che si suppone si basasse essenzialmente sul rifiuto della WAK da parte degli altri membri di Krisis), vale a dire "La sostanza del capitale", così come ne "Il Capitale mondo" (2005), pubblicato poco dopo, e infine nel suo ultimo lavoro, "Denaro senza valore", scritto otto anni dopo, la separazione dei valori non abbia quasi alcun ruolo. In questi scritti, in cui Kurz è senza dubbio nel suo elemento, e dà il meglio di sé, fa bene a fare a meno di questa categoria. In altri scritti, sembra quasi costringersi a metterla costantemente in gioco. C'è forse un corto tra essoterico ed esoterico?

Affrontiamo brevemente un altro problema: la questione del rapporto tra l'universalismo del valore e le particolarità delle singole culture (in senso lato). Come in particolare, Kurz ha più volte spiegato, oggi il valore prevale negli angoli più remoti del mondo e determina – direttamente o indirettamente - le azioni di tutti. Che uno sia un beduino nel deserto o un broker a New York, ormai la sua è solo come una "verniciatura" esteriore. Il valore ha creato un mondo unico. Ma è davvero così? Anche se la logica del valore ha avuto un impatto dalle montagne afghane alla giungla amazzonica, ci sono delle differenze significative nel modo in cui le singole culture reagiscono a essa. Sembra anche dubbio se davvero in realtà - come suggeriscono le analisi dell'Islam presentate principalmente da Rest-Krisis [*13] - le attuali manifestazioni di quelle che sono le vecchie ideologie, come l'Islam, vengano largamente influenzate dagli standard occidentali; o che rappresentino quanto meno una reazione ad essi. O che, per esempio, Ernst Jünger o Carl Schmitt abbiano più responsabilità per l'Islam politico, di quanto ce l'abbiano i wahhabiti o il testo del Corano. Tutto ciò, ricordando che dire, per esempio, quando si tratta di critica del valore, che la Cina di oggi può, in qualche modo, avere più cose in comune con la Cina del periodo T'ang, piuttosto che con gli Stati Uniti di oggi, viene subito considerato "culturalismo". Inizialmente, questo anti-culturalismo aveva anche delle buone ragioni. Nel suo importante libro, "La terza via alla guerra civile" (1996), Lohoff dimostrò in maniere convincente che il collasso della Jugoslavia e la crudele guerra civile che ne seguì non era stato - come le pagine tedesche ritraevano allegramente - una sorta di "guerra tribale", che andava avanti da secoli, tra popoli nemici l'uno dell'altro, alcuni dei quali erano civilizzati mentre altri erano "barbari". Lohoff ha mostrato quali sono state tutte le fasi del fallimento della "modernizzazione della ripresa" in Jugoslavia, e come le tensioni tra le diverse culture e lingue del paese - che avrebbero potuto esistere al livello pacifico della Svizzera - si siano intensificate fino al punto di assassinio. Ma anche in questo caso, l'enfasi, su un fattore che in precedenza era stato ampiamente ignorato dal pubblico, era necessariamente troppo unilaterale per poter essere ascoltata. Più tardi, nella sua "Guerra per l'ordine mondiale", Kurz ha certamente riconosciuto alle ideologie e alle religioni il loro peso; ma forse non abbastanza, soprattutto per quel che riguarda la forma concreta di barbarie e di decadenza legata alla crisi. Una certa sottovalutazione della sfera simbolico-culturale, potrebbe rappresentare un residuo invincibile del vecchio "materialismo" marxista. Così, se da un lato sopravvaluta l'omogeneità dei temi odierni legati alla merce, dall'altro lato, la critica del valore forse ne esagera l'assoluta differenza rispetto all'epoca premoderna. Un altro dogma da mettere in discussione è quello del rifiuto totale di tutti i cosiddetti concetti “ontologizzanti” o “antropologizzanti”. Questo finisce per mettere in discussione l'esistenza di costanti nella storia dell'uomo. Così come il corpo umano rimane sempre essenzialmente lo stesso a livello biologico, non esiste forse anche una struttura pulsionale, uno stato psicologico dell'essere umano che pur essendo molto plastico, lo è solo entro certi limiti? Come fare altrimenti a spiegare che praticamente, quelle che sono caratteristiche tra di esse simili appaiono ripetutamente in tutte le società (per esempio, le gerarchie sociali, le gerarchie di genere, le forme di religione, le forme indipendenti di mediazione (il feticismo, la guerra, la xenofobia)? E perciò, il rifiuto dell'ipotesi di un “fondamento della natura” - che viene condannato come “essenzialismo” - non è forse parte dell'illusione moderna secondo la quale l'uomo potrebbe creare sé stesso senza alcun limite, mentre invece egli trova i suoi limiti nella natura esterna o interna? Non è forse questa la famosa “illusione della vitalità”, così strettamente legata alla società di mercato? Ad esempio, l'aggressività e la distruttività, ivi compreso "l'istinto di morte", sono sempre e solo le conseguenze di una società repressiva - di per sé evitabile - oppure in parte nascono invece da un conflitto tra la struttura pulsionale istintuale individuale e la società in generale? Ed ecco che così, dopo 38 anni, sorge spontanea la domanda: la Critica del Valore ha costituito un approccio che, dopo un inizio brillante, è quasi scomparso dalla scena, e che alla fine ha avuto ben poca influenza sulla storia, oppure è proprio la Critica del Valore, dopo aver avuto alcuni limiti, come se fosse cresciuta troppo a causa di una malattia infantile, ora può finalmente sviluppare tutto il suo potenziale e occupare un posto saldo e duraturo nell'analisi critica della società?

- Anselm Jappe - Settembre 2024 -

NOTE:

1 -  Nel 2004 gli è stato dedicato un intero numero di "Historical Materialism".

2 - Per caso, ho appreso che Kurz non è "degno di citazione" neanche in una tesi di abilitazione tedesca in linguistica, quindi non è considerato serio; ma Postone ed io lo siamo! Si può solo invidiare il ruolo di "convitato di pietra" che è toccato Kurz, una non-persona a cui nessun accademico serio vuole stringere la mano!

3 - Molti pensatori della sinistra radicale, così come le loro scuole, cercano di coniugare questi due approcci, come faceva Michel Foucault, il quale si vantava di essere simultaneamente un «attivista politico e un professore al Collège de France». O Toni Negri, che insegnava "Dottrina dello Stato" all'Università di Padova mentre lottava contro lo Stato. Si tratta di una saggezza strategica per sfruttare ogni opportunità, o di uno sforzo opportunistico per giocare su tutti i campi? Il giudizio spetta a ciascuno di noi!

4 - Anche se a volte, quanto meno con "EXIT!" residuale, è questa che diventa quasi l'unica attività critica; denigrare costantemente qualsiasi attività pratica degli altri, dal momento che non corrisponde esattamente alla purezza della critica del valore – e nessuna attività lo è, né può esserlo – rappresenta un conforto narcisistico per il fatto di saperlo meglio di tutti gli altri, ma poi questo finisce per completare la propria emarginazione.

5 -  Assai spesso, la metafora del messaggio nella bottiglia viene associata alla teoria critica, soprattutto in relazione ad Adorno. Serve come consolazione a coloro i quali, per le loro idee, non vedono altra opzione se non quella di diffonderle come se fossero un messaggio in una bottiglia. Ma per Adorno - almeno in parte, e soprattutto nei suoi ultimi anni - si trattò come di una forma di flirt: fu lui stesso a far di tutto per dare alla sua teoria la massima risonanza possibile, e per decenni è stato uno degli autori socialmente critici più letti al mondo; e qui pertanto non si può più parlare di messaggi in bottiglia! Possiamo dire che, più che altro, è stato proprio il carattere "assai poco praticabile" della teoria critica a spingere i suoi protagonisti ad aver fiducia, in ultima analisi, proprio nell'università (o, come avvenne nel caso di Marcuse, nell'università e nell'attivismo).

6 - Tuttavia, non è affatto certo che  aver impedito la diffusione della critica del valore siano state le divisioni, le esclusioni, le controversie interne e le maledizioni; dal momento che abbiamo degli esempi storici di movimenti che invece hanno tratto forza proprio da tali pratiche.

7 - Articolo in due parti apparso sui numeri n. 1 (2004) e n. 2 (2005) di "EXIT!".

8 - La morte relativamente prematura di Kurz, avvenuta nel 2012 a causa di un errore medico, ha di certo contribuito anche al declino della diffusione della critica del valore, dato che - visibilmente - non c'era nessuno che in seguito sarebbe stato in grado di continuare la critica allo stesso livello. Soprattutto sul campo della critica dell'economia politica, e della sua applicazione all'analisi delle forme contemporanee della crisi del capitalismo, nessuno ha prodotto qualcosa di notevole. Questo ha portato a criticare a livello di apparenza, in maniera sempre più moralizzante e superficiale, i soggetti capitalistici. Il suo ultimo libro dimostra che il potere creativo di Kurz non conosceva sosta, e che avrebbe avuto sicuramente molto altro da dire. Ma i problemi qui menzionati erano già sorti molto tempo fa, ed essenzialmente erano inerenti ai punti di partenza della critica del valore. Gli aspetti discutibili della critica del valore che ho evidenziato nel resto di questo articolo, sono sempre stati esposti e portati avanti con particolare zelo da Kurz, in tutte le fasi del suo sviluppo.

9 -  Robert Kurz (1994): "Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale" Mimesis

10 - Si veda, Robert Kurz (2003): "ONTOLOGIA NEGATIVA. Gli oscurantisti dell'Illuminismo e la metafisica storica della Modernità" in: Krisis 26; si può leggere, in italiano in:
     https://francosenia.blogspot.com/2015/02/individui-identici.html e segg.

11 - Ho omesso di menzionare l'intraducibilità della parola in altre lingue.

12 - Roswitha Scholz (1992): "Il valore è l'uomo. Tesi sulla socializzazione dei valori e delle relazioni di genere", in: Krisis 12;
Robert Kurz (1992): "Feticismo di genere. Cenni sulla logica della femminilità e della mascolinità", in: Krisis 12


13 - Ad esempio, Norbert Trenkle (2015): Damn Modern. Perché l'Islam non può essere spiegato con la religione", Krisis


fonte: UTOPIAS pòsCAPITALISTAS