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martedì 12 novembre 2024

La parola è l'esperienza del mondo !!

Ascoltiamo l'urlo di Ecuba
- La regina troiana, simbolo di ogni guerra, parla ancora nei versi di Euripide -
di Alberto Manguel

La consapevolezza che il linguaggio è uno strumento debole per dare un nome alla nostra esperienza è antica quanto il linguaggio stesso. Ma altrettanto antica, come il linguaggio, è anche la fede che crede che, se si ci sforziamo abbastanza (e se le stelle sono benevole), l'ineffabile esperienza del mondo sarà tradotta, e avrà un nome. Nonostante consistenti prove del contrario, continuiamo a credere che, sebbene sembri impossibile, arriverà il giorno in cui la parola esatta evocherà l'esperienza reale, e sia chi la pronuncia sia chi la riceve scopriranno e capiranno di che cosa si tratta. Secondo i bestiari cinesi, non sappiamo nulla dell'unicorno, perché l'unicorno è un animale schivo che non si lascia vedere: le parole esatte condividono questa timidezza con la ritrosa creatura. Tutte le nostre letterature sono il vasto catalogo del nostro speranzoso tentativo di afferrare entrambi. E i lettori, più che gli scrittori, sembrano talvolta sul punto di percepire il mondo reale attraverso il suo rispecchiamento nelle parole, Forse proprio perché l'unico punto che deve rimanere invisibile per noi è quello su cui ci troviamo, raramente gli scrittori sono gli spettatori più attenti del proprio lavoro. Sono i lettori, dall'altra parte della pagina, a ricevere talvolta l'illuminazione miracolosa. Questo, è il paradosso del linguaggio: la lettura ci permette di allontanarci dal mondo e, allo stesso tempo, di addentrarsi in esso: di esistere, per così dire, nella transitorietà di diventare costantemente ciò che siamo nel mondo, e anche di esistere al di fuori di esso, osservando noi stessi e il mondo come Eraclito osservava il suo fiume. Per i lettori, quello di Amleto è un falso dilemma: i lettori sono, e allo stesso tempo non sono, nel flusso del testo. C'è però una differenza importante tra questi due stati esistenziali della lettura. Coesistendo con il testo, ed essendone osservatore esterno, il lettore vive in due tempi diversi che, misteriosamente, si sovrappongono. Uno è l'eterno presente del testo stesso, fissato nelle parole, visibili in qualsiasi pagina si scelga, in un atteggiamento di costante tentazione. L'altro è il confluire dei tempi che i lettori portano al testo, trattenendo le parole nel passato della loro memoria e anticipando o interpretando il testo che seguirà, e persino il proprio futuro alla luce di nuove epifanie. Leggiamo una parola, o una frase alla volta, ma nella nostra mente ricomponiamo anche il testo dai fogli sciolti. «Ciò che per l'universo si squaderna, ora legato con amore in un volume».

  Il tempo di ogni esperienza è il presente: anche la nostalgia per le cose passate, o il desiderio di quelle future, dev'essere attuato nel qui e ora. La sofferenza ne è forse uno degli esempi più forti, rilevante per noi oggi come lo era per gli scrittori e i lettori di tanto tempo fa. Il tempo in cui si prova la sofferenza, è un eterno presente che il Medioevo considerava saggiamente come una descrizione dell'Inferno. Per le vittime di una guerra, non esiste l'esperienza di un passato, o di un futuro di pace. È ora, proprio in questo momento, che l'edificio si sgretola, l'esplosione scuote le pareti, i corpi dei figli e delle figlie, dei vecchi e dei giovani, cadono, gridano e sanguinano. E i lettori si librano, come avvoltoi sui cadaveri, sulla pagina, alla ricerca delle parole che rispecchieranno l'orrore ineffabile, colando poi a pagine precedenti lette molto tempo prima, e poi sfogliando in avanti, fino all'ultima, scegliendo qua e là un'immagine sanguinosa, alla ricerca de "le mot juste" tra le macerie già scavate dai poeti. E quando la trovano, i lettori, ne traggono una serie di associazioni letterarie di ieri, e fantomatiche associazioni future, e a volte pensano, forse a ragione, di aver capito. Può darsi che questo duplice stato esistenziale dei lettori si rifletta storicamente nella nostra specie, sia nell'impulso a sopravvivere che a quello di non esserci più, nei nostri sforzi di costruire e di distruggere, di dare la vita e di esercitare la violenza. Desideriamo essere immortali, eppure, fin dai tempi più remoti, abbiamo perfezionato strumenti mortali per abbreviare i nostri giorni sulla Terra. I periodi pace sembrano beatamente definitivi finché durano, il che non è a lungo, e poi la guerra che inevitabilmente segue sembra non finire mai. Sorprendentemente, siamo consapevoli di entrambe queste false eternità. La felice vita domestica a Itaca, doveva sembrare eterna a Ulisse, anche se, da soldato, doveva sapere che un domani la aspettava la guerra con tutte le sue azioni infami, e poi di nuovo l'amata Itaca, e dopo, se fosse vissuto abbastanza a lungo, un'altra sanguinosa Troia. Col tempo, ogni poesia d'amore diventa un'elegia. Ora, ancora una volta, siamo sulle pianure di Troia. Oggi, quasi ovunque nel mondo, stiamo distruggendo ciò che abbiamo impiegato tanto tempo a costruire. Ciò che curiamo con una mano - debellando malattie mortali, promuovendo l'uguaglianza e l'istruzione, cercando modi per ridurre la nostra devastazione del pianeta - lo cancelliamo con l'altra - permettendo forme di tirannia e di censura, giustificando lo sfruttamento di persone e di luoghi, commettendo genocidi irredimibili. Tuttavia, questo presente infernale forse non è ineluttabile. Le parole ci hanno dimostrato, e ci dimostreranno ancora, che possiamo non solo affrontare il fuoco, ma anche trasformarlo in discorso. Un attimo prima che l'ultimo muro di Troia cada sotto l'assalto dei Greci, l'anziana regina Ecuba, il cui marito, ii cui figli e nipoti sono stati uccisi, violentati o tratti in schiavitù, e che in tutta l'opera di Euripide ha dato voce alla terribile condizione dei vinti, chiede questo nei secoli: «Che cosa dovrebbe incidere un poeta sulla lapide, per raccontare la vera storia?». Ed è Ecuba stessa che risponde, come una nonna che piange il nipote ucciso, parlando alla polvere su cui è stato versato il suo sangue: «O terra. Terra dei miei figli, ascolta! O figli miei! Abbiate cuore e non dimenticate, voi che giacete nelle tenebre!» Non dimenticare: questo è il fine ultimo di ogni storia vera. Euripide, il greco, parlando dei Troiani che il suo popolo ha massacrato, ha capito, dal profondo della sua arte di poeta, che la condizione di vittima non ha nazionalità, che la sofferenza umana è una sola, umana, e non concede confini. E riconoscendo, come poeta, l'impossibilità di descrivere il dolore indicibile, Euripide dà a Ecuba le parole per riflettere su sé stessa, oltre che su sé stesso e su di noi, in questo agonizzante ventunesimo secolo, la rappresentazione vera, e ammonitrice, del nostro sfuggente unicorno: «Siamo noi» - dice Ecuba - «noi stessi a sognare. Noi vivi compiaciuti della nostra vanità». E ancora: noi che crediamo e, speriamo oltre ogni speranza, nel potere delle parole.

- Alberto Manguel, Lisbona, gennaio 2024 -

- Ecuba e Polissene, di Merry Joseph Brondel   -

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