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domenica 10 novembre 2024

Dottor Simenon…

Il segreto di Simenon: Scrivo ed è una Terapia
- Fra tutte le professioni, il romanziere avrebbe voluto praticare quella di medico. Chiamato ad un convegno rivelò il perché e l’effetto su di lui della scrittura. Un piccolo gioiello di finezza -
di Edgardo Franzosini

«Mi piace Georges Simenon perché è ricco», disse una volta di lui, con finto candore, il suo amico Jean Renoir. Ricco, Simenon lo era davvero. I lettori dei suoi romanzi, tradotti in più di 40 lingue, erano, e rimangono, milioni. Quando gli venne voglia di ostentare tutta quella ricchezza, si fece costruire a Épalinges, nei dintorni di Losanna, una villa monumentale, dalle linee geometriche e con i muri dipinti di bianco, più imponente che sfarzosa (ma un giorno se ne stancò, licenziò tutta la servitù e andò a vivere in una villetta semplice e dimessa, salvo che per un cedro del Libano piantato in mezzo al giardino).  L’edificio di Épalinges era composto da 26 stanze e, come ammise lui stesso in un’intervista, avrebbe potuto essere trasformato agevolmente in ospedale. In una di quelle stanze lasciò credere – nel senso che non si preoccupò di smentire i giornalisti che  el frattempo alimentavano la leggenda – di aver allestito una sala operatoria, adeguatamente dotata e pronta all’uso. In realtà,  chi ha avuto poi l’occasione di vederla, parla di un locale con un lettino per i massaggi, una lampada abbronzante a raggi ultravioletti e un grande armadio pieno zeppo di prodotti farmaceutici.  Oltre che per la patologica apprensione per lo stato di salute dei suoi figli e suo personale, il diffondersi della leggenda  aveva, forse, la sua vera origine nella stima e nella considerazione che lo scrittore aveva più volte manifestato per la professione medica. In una lettera indirizzata ad André Gide, che lo considerava il più grande romanziere che la letteratura francese potesse vantare all’epoca, Simenon confidava a colui al quale si rivolgeva con la rispettosa espressione «Cher maître» (e i cui libri, per inciso, aveva tentato qualche volta di leggere ma, disse, senza mai riuscirci) che il suo più grande desiderio era poter vivere tutte le vite e praticare tutti i mestieri, tutte le professioni. In quel modo sarebbe potuto sfuggire, diceva, al rischio del «romanzo documentato», che riteneva per un romanziere che si rispetti un pericolo da evitare, accanto a quello, ancora più grave, di voler scrivere in maniera troppo letteraria e, al peggiore di tutti, cioè il pericolo di sembrare troppo intelligente.

Tra tutti i mestieri e le professioni, quella che avrebbe voluto praticare sul serio, e che ai suoi occhi godeva da sempre del prestigio maggiore, era senza dubbio quella di medico (quella di scrittore, per lui, non era una professione, ma piuttosto una vocazione, per essere precisi: «una vocazione all’infelicità»). Di tutto ciò che si diceva e si scriveva dei suoi romanzi,  l’opinione per cui andava più orgoglioso era stata espressa da un celebre chirurgo: «I vostri libri mi piacciono molto perché i personaggi non hanno soltanto una vita romanzesca, intellettuale o animale ma anche un fegato, polmoni, cuore, muscoli, nervi». Anche le lettere che riceveva dai lettori non parlavano quasi mai di questioni come la bellezza del suo stile – quello stile spoglio, dalle frasi rapide, quell’attenzione al particolare esatto – o del fascino delle sue trame. «Sono lettere – raccontò – che un uomo scriverebbe al proprio medico o al proprio psicanalista e che dicono: “Lei mi ha capito. Mi sono ritrovato perfettamente nel suo romanzo”». Non c’è da stupirsi troppo, quindi, se nei 193 romanzi scritti con il suo nome compaiono più di 300 medici. E se un buon numero di essi ha il ruolo del protagonista o dell’antagonista (almeno sette sono assassini). Questa vera e propria “attrazione per la categoria” conobbe la sua piena realizzazione, e una sorta di riconoscimento ufficiale, nel maggio del 1962, allorché Simenon fu invitato a presiedere il IV Congresso della Federazione internazionale dei medici-scrittori. In apertura dei lavori pronunciò un breve discorso che, con il titolo "Se avessi fatto il medico", è stato adesso pubblicato dall’editore Henry Beyle. Un piccolo libro, insolito e prezioso – arricchito da una nota, tanto acuta quanto carica di humor, di Matteo Codignola – che è la  testimonianza di come, ancora una volta, lo scrittore approfittò dell’occasione per dichiarare davanti a una platea di, più o meno, illustri clinici, chirurghi, primari e dentisti, quale profonda invidia provasse per la loro attività.
E del resto, lo stesso Jules Maigret, concordemente ritenuto il suo alter-ego letterario («poco a poco abbiamo finito per assomigliarci un po’. Sarei incapace di dire se è lui che si è avvicinato a me o io a lui», ha detto una volta Simenon con una certa rassegnazione) non ha forse intrapreso in gioventù studi di medicina? E quanto poi al suo metodo d’indagine, non assomiglia forse più a quello di un medico che a quello di un investigatore? È lo stesso commissario divisionale della P.J. parigina a rivelarci nelle sue Memoires quale scarso interesse abbia sempre provato per i cosiddetti “professionisti del crimine”, individui dalla psicologia prevedibile e banale, «che fanno il proprio mestiere punto e basta». E quanto, al contrario, lo appassionino coloro che «un bel giorno finiscono per uccidere senza esservi preparati». Protagonisti di vicende per i quali l’esame «delle impronte digitali e della cenere delle sigarette non serve a nulla». Casi clinici, insomma.

Resta da dire che sugli scaffali della sua libreria erano presenti più opere scientifiche che letterarie, che era abbonato a un discreto numero di riviste mediche e che aveva più amicizie tra i camici bianchi che tra i letterati. In un’intervista raccontò  come, allorché gli capitava di iniziare a sentire dentro di sé un certo sottile malessere, corresse immediatamente a interpellare il suo amico e medico personale, un tale dottor Cruchaud. «Quando pensate di cominciare il vostro prossimo romanzo?», gli domandava questi. «Tra otto giorni». A quel punto Cruchaud lo rassicurava: «Tutto a posto, allora». Per Simenon era come se gli avesse prescritto di scrivere un romanzo, e di scriverlo il più presto possibile. «È quella la mia terapia – conveniva – la cura che ci vuole per me».

- Edgardo Franzosini - Pubblicato su Domenica del 14/1/2024 -

( Georges Simenon. "Se avessi fatto il medico". A cura e con una nota di Matteo Codignola. Henry Beyle, pagg. 36, € 25)

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