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domenica 9 marzo 2025

Anche se hai sparato a un uomo a Reno…

Al Ward ha sessantacinque anni e vive isolato nella concessione mineraria nel Nevada lasciatagli dal prozio. Ormai da mesi si sostiene solo con zuppe in scatola, caffè istantaneo e ricordi della sua vita da musicista. Una mattina, fuori dal suo rifugio, appare un vecchio cavallo, derelitto e accecato da una malattia agli occhi, incapace di difendersi dagli attacchi dei coyote. A 1800 metri di altitudine, a cinquanta chilometri dal ranch più vicino, tormentato dall’alcolismo e dall’ansia, Al deve decidere cosa fare per se stesso e per l’esausto animale che si è presentato alla sua porta, mentre i ricordi della sua vita da cantautore e chitarrista si fanno sempre più insistenti, dai primi passi sulle pedane dei bar e dei casinò e poi oltre, in un crescendo di piccoli successi e occasioni mancate. Perché convivere con una band e trascorrere gran parte del tempo in tour può essere logorante, e molti dei suoi amici e compagni non ce l’hanno fatta a tenere il passo. A loro, a tutti gli sconosciuti musicisti che rendono più gioiosa la nostra vita, è dedicato il romanzo. E la storia di Al, come quella di tutti i personaggi di Willy Vlautin, ha il ritmo di una canzone triste che si trasforma in una toccante riflessione sulla solitudine, sulla forza d’animo e sulla musica come salvezza.

(dal risvolto di copertina di: Willy Vlautin, "Il cavallo". Jimenez. Traduzione di Gianluca Testani, pagg.192, € 18)

L'anima punk del cowboy
- di Piero Melati -

L'affermazione dividerà i fan. Ma può darsi che dopo sei romanzi (Motel Life, Verso Nord, La ballata di Charley Thompson, The Free, Io sarò qualcuno, La notte arriva sempre), con Il cavallo, Willy Vlautin abbia scritto il suo capolavoro. Quantomeno ha chiuso un cerchio. Prima di essere uno scrittore, va ricordato che Vlautin è un musicista e un compositore: ha scritto centinaia di note e testi per due band di culto della scena americana di cui egli è il leader (Richmond Fontaine and the Delines). E nel suo ultimo libro il protagonista, Al Ward, è un musicista proprio come l'autore. Ma attenzione, che tipo di musicista ? A questo punto si deve spulciare la nota biografica dello stesso Vautlin: nato in Nevada, a Reno, la stessa città la cui nera epopea di violenza è stata cantata dall'icona del country Johnny Cash. Il 3 gennaio 1968, in un concerto nel carcere di massima sicurezza di Folsom: «Ma ho sparato a un uomo a Reno, solo per vederlo morire». Quei versi inquietanti si pianteranno tanto a fondo nel cuore dei valori biblici dell'America profonda (peccato e senso di colpa, redenzione e seconda opportunità) da essere poi ripresi da artisti di diverse epoche (Bob Dylan, Merle Haggard, Keb' Mo' tra gli altri) e diventeranno anche il titolo di  di uno dei primi racconti di Charles Bukowsky. Quindi sì, nella prosa di Vautlin ci sono certamente John Steinbeck e «gli individui la cui esistenza è un campo di battaglia senza premi»), c'è la scrittura secca di RaymondCarver e una compassione senza sentimentalismo. Ma qual è  la particolarità di questo autore? Come ha coniugato in una letteratura originale il canone - negli Stati Uniti molto amato - di essere «nato nel deserto» e «cresciuto nel contesto di chi fa tre turni di lavoro per sopravvivere»? La risposta è nel romanzo. Il protagonista, Al Ward, 65 anni, vive isolato in una miniera dismessa nel Nevada, a 1800 metri di altitudine e a 50 chilometri dal ranch più vicino. Di inverno si gela, d'estate si squaglia. L'uomo è tormentato dall'alcolismo e dall'ansia, da mesi sopravvive con zuppe in scatola, caffè istantaneo e una stufa mal funzionante. Una notte appare un cavallo, derelitto e accecato da una malattia agli occhi, incapace di difendersi dai coyote. Nel tentativo di assisterlo, riparte in Ward la macchina della memoria: le chitarre rotte, i concerti nei bar, i lunghi tour, l'alcol, le centinaia di canzoni scritte, il ricordo di coloro che non ce l'hanno fatta. Insomma, il contesto di una vita intera, che ha il sapore di un'oscura ballata: «But I shot a man in Reno, just to watch him die». Tanti musicisti hanno provato a scrivere. Molte autobiografie, a dire il vero, ma poca letteratura. Vlautin, invece, non è soltanto un compositore che si è scoperto un valido scrittore. La sua ricetta più originale è un'altra. Il musicista di Reno ha portato dentro la letteratura l'effetto che solo certe canzoni suscitano, la capacità quasi ontologica della musica di evocare senza spiegare, di farti sentire qualcosa senza farci troppi ragionamenti o descrizioni. Vlautin appartiene a una corrente musicale che è stata definita "insurgent country" oppure "cow punk". Negli anni Novanta, parallelamente al fenomeno grunge dei Nirvana, tanti giovani musicisti provenienti dal mondo dell'indie rock trassero il country di Nashville dal suo contesto tipicamente wasp, aggiungendo alla tradizionale steel guitar un graffio punk e storie da loser (la band pilota del fenomeno si chiamava Whiskeytown, una delle etichette madri la berlinese Glitterhouse). Fu una piccola rivoluzione culturale che riportò una certa America alle radici. Il punto più alto si raggiunse quando il produttore Rick Rubin rilanciò un'icona del country ormai dismessa, proprio il già citato Johnny Cash, e lo ripropose come padre di questo nuovo genere. Tornò alla ribalta così un modo di comunicare (Dylan ne è il massimo esempio, non a caso verrà insignito del Nobel per la letteratura nel 2016) dove la poetica dei testi, anziché essere ermetica o non comprensibile, al contrario serva a evocare la condizione umana come le parole ordinarie non riescono a fare. Siamo, in sostanza, a un passo dalla poesia, ma con un'arma di supporto in più: la musica. È come se Willy Vlautin ci dicesse: una chitarra non dice né nasconde, ma come l'oracolo accenna. E avesse trasposto questo metodo in scrittura. Ma c'è di più: Vlautin racconta di essersi ispirato a un episodio reale, l'incontro con un cavallo solitario quasi cieco (che ha fatto poi soccorrere) nel deserto del Nevada, e di avere nei giorni successivi fatto un bilancio della sua vita. Per chiedersi alla fine: perché il mio protagonista, Al Ward, scrive canzoni che non sentirà quasi nessuno? Perché alla fine di una canzone c’è una speranza. Anche se hai sparato a un uomo a Reno.

- Piero Melato - Pubblicato su Robin del 19/5/2024 -

Il cavallo: perché ho scritto questo libro
- di Willy Vlautin - pubblicato su minima&moralia il 15 Maggio 2024 -  (la traduzione è di Valentina Zucca) -

Ho sempre avuto una lista di argomenti di cui avrei voluto scrivere. La cosa strana è che la musica non è mai stata in cima a quell’elenco. La verità è che è entrata a malapena nella lista, anche se ho fatto parte di band in tour per trent’anni e ho scritto centinaia e centinaia di canzoni da quando avevo undici anni. I miei libri menzionano appena la musica e in essi i musicisti sono più simili a santi che a suonatori. Willie Nelson (Motel Life) perché volevo che proteggesse i fratelli Flannigan e Amália Rodrigues (The Free) perché se una voce potesse salvarvi sarebbe la sua. Otto anni fa mi trovavo in una strada sterrata nel centro del Nevada con un vecchio amico, Brian Foster. Eravamo a cinquanta chilometri da Tonopah e si avvicinava il crepuscolo quando ci imbattemmo in un cavallo selvaggio nel bel mezzo del deserto. Era una cosa talmente strana vedere un cavallo nel deserto che ci fermammo e uscimmo dal pick-up. Non c’era acqua, né erba, né ombra per chilometri e il cavallo era immobile, sembrava una statua. Appena ci avvicinammo, notammo che era cieco. Entrambi gli occhi erano gonfi e da una delle orbite pendeva un rametto d’artemisia. È la cosa più triste che abbia visto in vita mia. L’idea che si possa vivere tutta una vita per poi ritrovarsi cieco e solo in mezzo al deserto mi ha paralizzato. Quella notte ci siamo accampati e siamo tornati in città la mattina dopo. Abbiamo contattato l’ufficio per la gestione del territorio di Tonopah e sono andati a prendere il cavallo. Cosa gli sia successo dopo, non lo so. Ma le notti seguenti non riuscivo a dormire. Durante il giorno tutto ciò di cui parlavamo era il cavallo. Guidavamo, ascoltavamo musica, bevevamo e parlavamo. Quando arrivammo a un vecchio sito minerario, ancora più lontano, e vedemmo una baracca di legno con una sola stanza, un ufficio del saggiatore abbandonato, dissi al mio amico che era lì che avrei voluto vivere il resto della mia vita. Dico un sacco di stronzate, ma quella volta non stavo scherzando. Gli ho detto che non ero più tagliato per la brutalità e lo strazio della vita. Che non ero mai stato abbastanza forte e che con l’età mi ero sempre più abbattuto, per giunta. La mia pelle era diventata più sottile, non più spessa. Mi conosce da trentacinque anni ed è sempre stata la stessa storia con me: musica, scrittura, alcol, tenebre e fuga. Gli ho detto che avrei vissuto da solo e che così facendo avrei abbandonato la mia lotta con l’alcol, con la scrittura di canzoni, con i romanzi e con la mia incapacità di fermare cose come un cavallo cieco nel mezzo del deserto. Il mio amico ha semplicemente riso. «Sei sempre il solito vecchio figlio di puttana. In una settimana finiresti le scorte di tequila e birra, ti mancherebbero tua moglie e le tue colonne sonore da spaghetti western, e Criterion Channel. Finiresti per trovare lavoro a Las Vegas, per cercare di rimetterti in sesto e sistemare le cose con tua moglie, rivorresti indietro la tua chitarra e la possibilità di comprare una bottiglia di tequila decente. E una volta ottenuto tutto questo, vorresti un posto dignitoso in cui vivere, una macchina e un cane. Ricomincerebbe tutto daccapo.»
Ho avuto a che fare con autori di canzoni per gran parte della mia vita. Solo un paio ci hanno guadagnato da vivere. E allora perché tutti loro continuano a farlo? Perché Al Ward scrive canzoni sapendo che nessuno le ascolterà mai? Tutto ciò che posso dire è che c’è una specie di sollievo che arriva quando finisci per la prima volta una canzone che pensi sia buona. Una canzone che nessun altro ha sentito. C’è della speranza. È come essere innamorati ma essere gli unici a sapere come ci si sente. O forse è proprio come un drink, come quel momentaneo sentore di paradiso, cavolo se è difficile da abbandonare. Ma come con un drink, l’euforia per una nuova canzone se ne va non appena te ne accorgi, e tutto ciò che puoi fare è cercare di inciampare in un’altra per sentirti di nuovo così. Al Ward ha vissuto la sua vita sul filo del rasoio, sempre in bilico e, purtroppo, sempre nel tentativo di riprendere fiato. Ma non ha mai mollato, e lo amo per questo. E proprio perché non ha mai mollato, ha salvato il cavallo e, con lui, ha salvato se stesso. So che il libro è solo frutto dei miei sogni, ma mi rincuora pensare che il cavallo stia bene, almeno in qualche mondo. Nel mio, è al sicuro con Lonnie, in un pascolo con altri cavalli. Può vedere quanto basta per andare avanti, e non è solo.

La playlist
C’è una malinconia che vive in questo libro, come una canzone triste che sta sempre in sottofondo. In qualche modo, il libro stesso è come una canzone. Al Ward ha attraversato la sua vita scomparendo nella musica, così Amy Baker e io abbiamo messo insieme un elenco di artisti, gruppi e canzoni che compaiono nel libro. Alcuni sono brani che Al ha dovuto suonare nei casinò, altri sono quelli che lo hanno ispirato e altri ancora danno un’idea del suo stile come autore, dagli inizi come musicista da casinò con Bobbi Blue and the Bonnevilles fino agli anni del cowpunk con i Sanchez Brothers. Speriamo che queste canzoni aiutino a descrivere il mondo della musica all’interno di Il cavallo.

Willy Vlautin

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