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venerdì 31 maggio 2024

Quanta ignoranza sull’ignoranza !!!

Nel corso della storia, ogni età ha creduto di disporre di maggiore conoscenza rispetto alla precedente. Gli umanisti rinascimentali vedevano il Medioevo come un periodo di oscurità; gli illuministi cercarono di spazzare via la superstizione con la ragione; e, nel mondo contemporaneo interconnesso, sembra che su richiesta si possa accedere a un numero illimitato di informazioni. Ma cosa ne è stato della conoscenza perduta nel corso dei secoli? Come possiamo spiegare i negazionisti del cambiamento climatico? Siamo davvero meno ignoranti dei nostri antenati? In questo testo di grande leggibilità, Peter Burke esamina la lunga storia dell'ignoranza dell'umanità attraverso religione e scienza, guerre e catastrofi, affari e politica, e ci rivela storie straordinarie dei promotori e degli avversari dell'ignoranza, dai politici che arbitrariamente ridisegnarono i confini dell'Europa nel 1919 a quanti oggi segnalano illeciti nell'interesse generale. Il risultato è una vivida esplorazione della conoscenza umana attraverso le epoche e dell'importanza di riconoscerne i limiti.

(dal risvolto di copertina di: Peter Burke, "Ignoranza. Una storia globale", Raffaello Cortina, p 384, €25)

L’ignoranza non è mai innocua in politica e religione provoca catastrofi
- Ogni epoca ha ritenuto di avere conoscenze superiori rispetto alla precedente (spesso sbagliando); una “storia mondiale del non sapere”, dal Medioevo all’Ancien Régime alla contemporaneità iperconnessa -
di Massimiliano Panarari

Durante gli ultimi decenni, l'accademia e gli ambienti intellettuali hanno moltiplicato i settori di ricerca. Tra i quali è comparso così anche il filone degli «Studi sull'ignoranza», definita in termini di assenza di conoscenza. A cimentarsi sul tema, con un libro molto interessante (e leggibile), è Peter Burke, uno dei maggiori intellettuali europei, professore emerito di Storia culturale a Cambridge. A lungo, l'ignoranza quale campo di studi è stata «ignorata». Scandagliata unicamente dagli scrittori - da George Eliot (alias Mary Anne Evans) a Henry James - interessati a restituire quel vasto campionario di tratti che è racchiuso nella psicologia umana, e di cui l'ignoranza costituisce una manifestazione. E, al più, da figure come Sigmund Freud ne L'interpretazione dei sogni (1899), George Simmel (che rifletteva intorno alla «nescienza» all'inizio del Novecento), e Friedrich von Hayek (1978). Sull'onda della rivoluzione epistemologica portata dai Women's studies degli studi di genere, i contributi sul tema, inizialmente isolati, di medici, filosofi e psicologi cominciarono a incrociarsi, e alcuni riuscirono a incontrarsi nell'ambito di un congresso dell'American Association for the Advancement of Science nel 1993, dando il via a un approccio finalmente multidisciplinare - dalla sociologia all'antropologia, dall'economia al diritto, dalla letteratura alla politici - all'«agnotologia» (la scienza che si occupa, giustappunto, di spiegare perché così tanti individui si rivelano ignoranti e manipolabili). A spiegare la diffusione di questo campo di ricerca è sicuramente la crescita dell'interesse - a ogni livello - degli studiosi per il dibattito sula «società della conoscenza»; da quello per cui anche ciò che ne costituisce l'antitesi e, per così dire, l'anamorfosi. E, contemporaneamente, anche una serie di preoccupazioni rispetto all'attualità nutrite dagli accademici che hanno deciso di lavorare in questo settore. In primis, le maggiori inquietudini della nostra epoca, e la questione del possesso (o meno) della consapevolezza introno alle tragedie recenti, dagli attentati dell'11 settembre 2001 alla pandemia di Covid. E, ancora, come scrive Burke, «la spettacolare dimostrazione di ignoranza offerta da capi di Stato come Donald Trump e Jair Bolsonaro».

A balzare agli occhi è un dato di fatto : lungo la storia, ciascun epoca ha ritenuto di detenere una conoscenza superiore a quella precedente. Secondo l'umanesimo e il Rinascimento, il Medioevo coincideva con la fase delle tenebre. L'illuminismo innalzava i lumi della ragione contro la superstizione e l'oscurantismo dell'Antico regime. Ma l'ignoranza nelle religioni e quella in politica contribuirono a determinare catastrofi, come durante la Conferenza di pace di Parigi del 1919 dove spopolò quella del primo ministro britannico David Lloyd George, che scambiò Ankara per La Mecca, non sapeva chi fossero gli slovacchi e non aveva idea di quale fosse la composizione dell'Asia orientale. Nella contemporaneità della connessione permanente e del Villaggio globale si ha l'impressione del disporre, su richiesta, di un numero illimitato di informazioni, con la prospettiva della potenziale messa al bando dell'ignoranza. E, difatti, il «so di non sapere» di socratica memoria appare decisamente passato di moda nell'egotica ed egolatrica età postmoderna, che mette spesso gli esperti autentici sul banco degli imputati e tracima di «opinionisti» invariabilmente pronti a pontificare su qualsivoglia campo dello scibile umano (con il correlato trionfo, a ogni piè sospinto, della dox sull'episteme). Ma a dire il vero, sottolinea Burke, ciascuna epoca è un'età dell'ignoranza, e per tre ragioni di fondo. La prima è che la formidabile crescita collettiva della conoscenza di cui ha beneficiato l'umanità nel corso degli ultimi due secoli non è «sgocciolata» in maniera significativa. Ovvero, la gran parte degli individui ha acquisito un numero di conoscenze superiori ai suoi predecessori piuttosto limitato. Il secondo motivo riguarda la constatazione per cui l'allargamento di alcune conoscenze si rivela sovente accompagnato dalla perdita di alcune altre. L'esempio portato dall'autore concerne la riduzione del numero di idiomi parlato nel mondo, che fa da contraltare alla larghissima diffusione di certe lingue come l'inglese, il mandarino e lo spagnolo. Ossia, un caso eclatante di «perdita di Khun»: quando un paradigma si sostituisce a quello precedente, viene a perdersi la capacità di spiegare alcuni processi e fenomeni, perché ogni modello ripone la sua attenzione e facoltà di interpretazione esclusivamente su una porzione limitata della realtà. La terza motivazione investe il fatto che la considerevole espansione dell'informazione verificatasi nel corso degli ultimi anno non coincide con quella della conoscenza (che prevede l'analisi e la classificazione dei dati).

Un'affascinante storia del non sapere, che si apre con una dedica assai emblematica agli «insegnanti di tutto il mondo, eroi ed eroine dei tentativi quotidiani di porre rimedio all'ignoranza».

- Massimiliano Panarari - Pubblicato su TuttoLibri del 25/11/2023 -

giovedì 30 maggio 2024

Le Invarianti di Manchette !!

La pistola? A sinistra!
- di Sébastien Navarro -

La narrativa poliziesca è sempre stata fonte di fraintendimenti. Alcuni limitano il genere al cosiddetto romanzo poliziesco: vale a dire,  al percorso logico-matematico di una tortuosa indagine, una lettura labirintica disseminata di indizi reali e di false piste, in attesa di un epilogo finale in cui il colpevole verrà smascherato; mentre altri, alla ricerca di sensazioni forti, identificano l'esercizio con quello di un thriller in cui un lettore trafelato segue le tracce di un maniaco nella macelleria umana aspettando che egli venga neutralizzato dall'eroe di turno. Insomma, alla fine, il thriller poliziottesco o orrorifico sarebbe sempre questione di avere una felice risoluzione: la promessa, dopo qualche imbroglio più o meno stimolante, di un ritorno all'ordine morale e giudiziario; un proiettile a salve spaventa di più se contiene già nelle pieghe dei suoi sviluppi le chiavi per essere neutralizzato. In contrapposizione a questi Cluedo, riproducibili industrialmente, esiste un altro giallo, un genere che è nato a partire dalle febbri insurrezionali del periodo successivo al maggio '68, che tutto a una base essenziale: la critica sociale. Se l'abito può ingannare, a causa dei suoi artifici romanzeschi, basta grattare un po' la superficie per scoprire il medesimo oscuro schema: quello nel quale i personaggi sono solo i pupazzi di un'epoca spietata e la storia è solo un puro pretesto per evocare la guerra sociale in corso. Un orafo del settore, l'autore Jérôme Leroy spiegò, durante una conferenza tenuta qualche anno fa all'Università di Lille, come fosse il male ciò che distingueva il romanzo poliziesco dalla letteratura poliziesca e da altri sostituti della suspense: il giallo iniziava male, continuava male e finiva male; e questo anche se veniva risolta una trama di circostanza, e lungo la strada veniva ucciso qualche furfante. Un male che non prende in prestito nulla da una qualche metafisica da bacchettoni, ma che si nutre della violenza commessa dai luogotenenti di un'economia - formale o informale che sia - sempre più totale e disumanizzante. La voce logora e astuta degli oppressi, degli schiacciati, dei marginali erranti. Il ripetersi dei cliché tanto disincantati quanto ostinati: investigatori privati cialtroni incollati ai loro ideali e ai loro dubbi, donne guerriere che escono dai bassifondi per prendere per il culo i grassi panzoni, mezze-seghe pronte a tutto pur di sopravvivere nella giungla politico-mafiosa. Il romanzo poliziesco è una geometria labile pronta a sprofondare nei crepacci della nostra amorale modernità. Ed è in questi interstizi che sintetizza ciò che può dei nostri brandelli e delle nostre speranze, che poetizza, addirittura, nel buio, perché questo è il suo colore.

In questo gioco con l'oscuro, Jean-Patrick Manchette (1942-1995) è stato una voce decisiva. Di questo scrittore, etichettato come il “Papa del neo-polar” dalla critica ossessionata dalla moda, pensavamo di aver letto tutto. La sua decina di romanzi, le sue rubriche di cinema e spettacolo, il suo diario, anche la corrispondenza, ed ecco che La Table ronde pubblica ora anche le sue “Interviste”. Perciò… bene... Dai, sorridiamo, e diffidiamo di questo ennesimo oggetto manchettiano, lo sfruttamento del neo-filone sembra essere inesauribile. Nella prefazione, l'editore, Nicolas Le Flahec, ci assicura che in questa nuova raccolta i fan di Manchette potranno trovare “tutto il fascino della sua opera”; quanto ai neofiti, essi potranno trovare “una voce che li accompagnerà a lungo, poiché questo singolare scrittore non ha ancora terminato di parlarci”. Una promessa del genere fa riflettere. Solo che, una volta terminato il libro, è chiaro che Le Flahec non ci stava prendendo in giro. Queste interviste non sono solo da assaporare, ma addirittura da snocciolare. Le si può mandare giù e trarne profitto, perché è un vero piacere confrontarsi ancora una volta con gli arcani letterari dello scrittore. Manchette non è stato un genio, però era un gran lavoratore. Della peggior specie: ossessivo, intelligente, strategico. Un creatore ricco di riferimenti: Flaubert, Marx, il western, il poliziesco hard-boiled nelle versioni di Hammet e di Chandler, l'Internazionale Situazionista, il jazz (però East Coast, piuttosto), insomma ammettiamolo, interessi così disparati messi insieme in una stessa testa non potevano che essere uno spasso, quando ci si metteva. Un gran lavoratore, si diceva. Era capace di ruminare per anni la trama di un romanzo a venire e buttare via a secchiate tutte le bozze che riteneva insoddisfacenti. La sua Bibbia? The Book of Pistols and Revolvers di W.H.B Smith. Un pamphlet di 800 pagine con immagini in 3D. Contiene tutto quello che avreste voluto sapere su “pistole e revolver dalla morte della Regina Vittoria allo scioglimento dei Beatles”. Alcuni, con prudenza e rispetto, si sono presi gioco dell'ossessione di Manchette per le armi, mentre diversi scrittori poco ispirati lo hanno imitato grossolanamente e hanno infarcito i loro testi di “Colt 45 con una capacità di 7 colpi, montata con il calibro 11,43”, tanto per rendere l'idea, ma la verità è che molti non hanno capito nulla per quanto riguarda la relazione tra Manchette e i proiettili. Se citava le marche e le loro caratteristiche tecniche, non era perché avesse una personale passione per le armi (“Non ho mai visto una vera pistola, tranne una Colt 45 automatica fuori uso appartenente a un vignettista” dichiarò nel 1973 in un'intervista per Mystère-Magazine), ma piuttosto proprio perché tutto ciò che lo circondava era diventato una merce: fusti di detersivo, automobili, sigarette, armi, cinema e letteratura. Di conseguenza, se tutto è merce, tanto vale bere il calice fino alla feccia e mostrarne i marchi. Fino alla nausea, fino all'assurdo, fino a che la sovrabbondanza di una realtà fabbricata non tracimi dalle pagine e non sia esibita nella sua più grossolana volgarità. “Cerco nella letteratura la ripercussione della distruzione del reale e della violenza che essa provoca”, spiega lo scrittore a mo' di dichiarazione d'intenti. E questo è il motivo per cui si spara e si sente l'odore inebriante della cordite.

Gabin più lo Slang
Tutte insieme, le ventotto interviste, distribuite nell'arco di vent'anni (dal 1973 al 1993), formano il materiale esplosivo di Derrière les lignes ennemies. Nell'arco di due decenni, Manchette passa da uno stato di euforia rivoluzionaria a un discreto sconforto dovuto all' affermarsi di un “Nuovo Ordine Mondiale”, vale a dire una “economia impazzita” decisa a mettere fine “gradualmente, ma rapidamente e completamente, alla specie umana e alle altre specie viventi a cui eravamo stati abituati per diversi millenni”, come aveva profetizzato nel febbraio 1991. Derrière les lignes ennemies costituisce un prisma attraverso il quale si può entrare nel pieno dell'approccio dello scrittore; a poco a poco scopriamo il suo segreto di fabbrica: “Sono un ex militante di sinistra. Sono politicizzato. Lo ero anche prima del maggio 68. [...]Non intendo raccontare storie di cornuti o di gangster. Io scrivo romanzi d'azione cercando di essere aggressivo e critico", ha ammesso in un'intervista del 1974. Chiaramente, l'obiettivo era quello di allontanarsi dal “romanzo di gangster alla francese, che è basato su una mentalità ‘maschilista’ abbastanza ripugnante: Jean Gabin più l'argot, se vogliamo”. Inevitabilmente, le ventotto interviste sono a tratti un po' ripetitive. Le stesse domande ricorrono: Come è arrivato a scrivere romanzi gialli? Perché la Série-Noire? Qual è la sua fonte di ispirazione? A volte, è innovativo e più breve, e quindi la cosa ci diverte e ci innervosisce: “La sua virtù preferita: La velocità. Qualità preferite negli uomini: L'intelligenza e la bontà. Qualità preferite nelle donne: Le stesse del maschio della specie.  Ma non capisco perché la stessa domanda venga posta due volte. È ovvio che il questionario è opera di un frocio, o di un etero, o di un balbuziente”. Anche perché Manchette, cronista cinematografico per Charlie-Hebdo dal 1979 al 1981, ci parla di un'epoca in cui si poteva ancora parlare senza insaponarsi la bocca per paura di essere messi sulla lista nera dei piccoli moralisti. E l'autore, che detesta i circoli (soprattutto quelli letterari), sa come farlo in maniera brillante: alternando registri espressivi impegnati e popolari. Ha rispetto per la lingua fin nella sua sintassi più impegnativa, giocando al contempo con essa.

La genesi di questo scrittore è ben nota: il giovane Jean-Patrick, che si era appena laureato in inglese, non sentiva di avere la vocazione dell'insegnante. Alla fine degli anni Sessanta, il cinefilo voleva fare ciò che amava: scrivere per il cinema. Inviò alcune sceneggiature e alcune bozze a dei produttori, che le rifiutarono tutte, ammesso che si siano presi la briga di leggerle. Manchette divenne allora uno stratega: visto che era stato respinto alla porta principale, sarebbe passato dalla finestra. Decise pertanto di scrivere dei thriller, scommettendo su un sicuro successo e sull'adattamento per il cinema. In questo frattempo, in quanto giovane padre con una famiglia che deve pur mangiare, traduce massicciamente gialli americani. Nel 1971 viene pubblicato Il caso N'Gustro, un' efficace e cinica ricostruzione del rapimento e dell'assassinio dell'attivista socialista marocchino Ben Barka, cui nel 1972 segue Nada. Nada è una critica del terrorismo e dei suoi vicoli ciechi. L'ex-gauchista sa che l'azione violenta è a tutto vantaggio per “i bastardi al potere”: scredita le idee rivoluzionarie e autorizza lo Stato a tirare fuori l'artiglieria pesante per annientare i militanti. “L'ho scritto perché volevo rivolgermi a degli amici che avevo perso di vista e che sapevo che avrebbero potuto essere tentati da questo genere di attività”, spiega l'autore. Per Manchette, Nada sarà l'inizio di un certo successo: qualche anno dopo Chabrol ne farà un adattamento per un film. Complessivamente, lo scrittore manterrà una cauta distanza tra le sue opere e la loro trasposizione sullo schermo. Il suo giudizio sul Nada di Chabrol è netto: “Un film stalinista. Facendo Nada, lui [Chabrol] ha fatto detonare la carica contro L'Humanité e c'è una linea di dialogo contro la democrazia rappresentativa («Il capitalismo tecno-burocratico ha il culo a forma di urna elettorale»). All'epoca non me ne resi nemmeno conto. E in fondo si trattava di due discorsi precisi: non si prende in giro L'Huma e non si prende in giro la democrazia. Per il resto, ha reso i terroristi completamente ridicoli, e lo ha fatto semplicemente grazie alla sua regia e alla direzione degli attori”.  Ma Chabrol rappresenta solo una piccola civetteria rispetto all'offerta di acquisto lanciata da Alain Delon. L'attore è stato protagonista di tre adattamenti da Manchette: Trois hommes à abattre (1980) tratto da Piccolo Blues(1976), Pour la peau d'un flic (1981) tratto da Piovono Morti (1976) e Le Choc (1982) adattato da Posizione di Tiro (1981). Il fatto che Delon, di estrema destra, avesse una cotta per il sinistrorso Manchette non poteva che eccitare i giornalisti. Il romanziere prende la cosa con filosofia e pragmatismo: in primo luogo, perché sa che alla fine i film non avranno molto a che fare con le sue opere e, in secondo luogo, perché almeno i soldi arrivano e lui potrà “passare sei mesi senza fare niente”. “Ogni tanto, confida, dei lettori mi scrivono per chiedermi come posso ardire di vendermi a Delon. Personalmente, preferirei vendermi a Fritz Lang. Purtroppo è morto e non mi ha mai proposto nulla."

L'arte del contrabbando
Se Manchette si concede una simile distanza critica rispetto alla ricezione della sua produzione letteraria, lo fa perché è consapevole di “pubblicare nell'industria dello spettacolo”. “Quando parlavo di neo-polar, i giornalisti non si rendevano conto che la parola veniva modellata su parole come neo-pane, neo-vino o neo-presidente, con le quali i critici sociali estremisti designano i prodotti surrogati che hanno sostituito ovunque il prodotto originale. Il termine neo-polar è stato ripreso ovunque in modo apologetico. Tuttavia, credo che in certi ambienti la cosa sia stata compresa", spiegava Manchette nel numero di febbraio 1983 della rivista Littérature. In sostanza, Manchette si diverte a mescolare le carte del suo gioco. A seconda del periodo e della persona a cui scriveva, egli adattava il suo stile: produttore di romanzi d'azione senza pretese per alcuni, o seminatore di roghi politici per altri. Nella sua opera, rimangono comunque  Alcune invarianti : la psicologia dei personaggi lo annoia (in tal modo, rispetta il dogma hammettiano della scrittura comportamentista) e “scrivere con pretese artistiche [gli] sembra un'abiezione”, avendo Flaubert portato l'arte del romanzo al suo apice alla fine del XIX secolo. Un'altra grande invariante: lo stilista non ha mai ceduto di un millimetro sulla forma dei suoi testi. La sua scrittura era magistrale, asciutta e incisiva, con un senso dell'umorismo freddo e anticonformista. La meccanica è ben oliata come la canna di un fucile Astra Cadix 22 Long Rifle. Rivoluzionario e fatalista allo stesso tempo, Manchette eccelle in quello che è il ruolo del furfante, per il quale avanzare le proprie pedine implica sempre anche "andare contro sé stesso": "Mi sembra, ma potrebbe anche trattarsi solo di un bla-bla marxista o marxoide, che il mondo sia stato invaso dalle relazioni di mercato, estensivamente, geograficamente, intensivamente; le attività che a priori non ci sembravano più quantificabili, come le attività artistiche, sono state invase. […] Non posso scrivere un libro senza dire a me stesso: «Mi trovo nello stesso sistema in cui si trova un compositore di Hollywood». I miei libri saranno distribuiti in questo e in quel modo, letti in questo e in quel modo, e se avrò qualcosa da trasmettere sulla mia soggettività, sarà solo contrabbandato, e quindi decido di lavorare per la Série Noire, per essere comprato, distribuito, diffuso come una merce, come una storia violenta nella quale ci saranno, come dico sempre, inseguimenti in auto, omicidi e qualche bella ragazza. Innanzitutto, bisogna metterci la salsa [...] e raccontare la mia storia in sottofondo, o in parallelo”. Ossia, qualcosa che può essere inteso solo così: la scrittura sovversiva è un'imboscata "dietro le linee nemiche".

- Sébastien NAVARRO - Pubblicato il 27/5/2024 su A Contretemps

- Jean-Patrick MANCHETTE - DERRIÈRE LES LIGNES ENNEMIES Entretiens 1973-1993 Éditions de la Table Ronde 2023, 298 p. -

martedì 28 maggio 2024

Senza Agenore Incrocci !!

Una mattina qualunque di fine secolo, in una strada di Milano, Giulio Bontempi, «un vecchio decoroso», viene fermato da un signore esuberante, suo coetaneo, che grida entusiasta di essere stato suo commilitone sul fronte greco-albanese, 1941 e seguenti. «Nella notte della memoria» a Giulio sembra di intravedere un nome: «Bordoni Oscar!». È un momento, due Campari soda al bar e si trova rapito in una girandola di ricordi e richieste inevitabili. Un’intrusione duratura dentro la sua vita che lo strappa dalla routine. Ma chi è Bordoni Oscar, è veramente lui o un impostore, un simpatico scroccone, o è un truffatore? Questo a Giulio inconsciamente poco importa, finché il sedicente Oscar «gli restaura la memoria». Oppure, più che restaurarla, gliela costruisce? Così a poco a poco, oltre agli esborsi crescenti di denaro, oltre alle verità dimenticate, si fanno lentamente avanti anche verità che si preferirebbe lasciare sepolte per sempre: «la vergogna non si racconta». Quotidianità e inquietudine, fragilità e fame di vita, astuzia e pietà umana, spensieratezza e malinconia sono mescolate in questi personaggi e in questo intreccio. Furio Scarpelli, assieme ad Agenore Incrocci, ha firmato come Age&Scarpelli le più memorabili sceneggiature dell’epoca d’oro del cinema italiano. E nei suoi libri l’ammaliante realismo si congiunge alla commedia.

(dal risvolto di copertina di: Furio Scarpelli, "Si ricorda di me, signor tenente?", Sellerio, pagg. 176, €14)

Tra le carte di Scarpelli
- Il figlio del grande sceneggiatore ha trovato un racconto nel cassetto del padre. Praticamente un film. Mai realizzato -
Alberto Anile

Si ricorda di me, signor tenente? Il romanzo fino a ieri inedito di Furio Scarpelli, comincia come uno dei cento film scritti con Age, "La marcia su Roma" (regia Dino Risi, annata 1962): un veterano di guerra riconosce un passante per un commilitone e attacca bottone in cerca di pecunia. Lo stesso capita a Giulio Bontempi, abbordato in una via milanese da Oscar Bordoni, entusiasta di avere ritrovato quello che definisce «un fratello». Ma chi è Oscar? Un premio del destino? Un qualsiasi millantatore? Un provvidenziale psicoanalista? Una nemesi del destino? Edito da Sellerio, questo svelto e gustoso romanzo breve è una piccola porzione di quanto giace fra le carte lasciate dal grande sceneggiatore, centosettantasei pagine fra le quali invano si cercherebbero notizie sulla loro origine. Chi sa tutto è Giacomo Scarpelli, figlio di Furio, già suo complice nelle sceneggiature dell'ultimo scorcio di vita e oggi professore di filosofia; è lui ad avere recuperato il manoscritto, ad averlo proposto a Sellerio e ad averlo curato per la pubblicazione. Da lui sappiamo che "Si ricorda di me, signor tenente?" recava questa nota autografa: «Storia inventata sulla base di una testimonianza di Claudio Bonivento e di ricordi personali di guerra dell'autore - ottobre 1999». Claudio Bonivento è il produttore di "Sapore di mare" e di "Mery per sempre",e la testimonianza riguardava il padre Mario, che come il Giulio Bontempi del libro subì traumi di guerra e sposò la sua infermiera. Bonivento figlio raccontò la storia di Bonivento padre a Scarpelli, chiedendogli di prepararci un film. Scarpelli ci mise dentro anche alcuni ricordi personali, situazioni vissute e personaggi conosciuti ma, com'era suo solito, anziché scrivere un semplice trattamento da cui trarre immagini vergò in bell'italiano un racconto che si potesse leggere a prescindere.  «Scriviamo bene questo film», diceva spesso al figlio, «e poi speriamo che non lo facciano, tanto poi lo fanno male».

Si ricorda di me, signor tenente? si gode infatti senza il retro-pensiero del film mancato, e senza i tecnicismi stilistici del copione che deve farsi fotogramma. Quando gli serve, l'autore riassume il pregresso dei personaggi, scherza col lettore, e si permette per inciso osservazioni laterali, sull'istupidimento televisivo («tre figure assistono alla chiassosa trasmissione con occhi e mente spenti dall'entusiasmo. Lo si sarà notato, certe fragorose trasmissioni producono un fervore disattivato, piatto come una lastra funebre»), oppure sul difficile rapporto padre-figlio («di questi tempi ciò che dovrebbe costituire una drammatica eccezione è diventata consuetudine sociale, ironizzabile ormai come il tradizionale conflitto tra suocera e genero»). Oppure questa, bellissima, che sembra paradossalmente negare la grandezza del cinema e invece la celebra: «I fratelli Lumière e il fonico Movietone possono andare a farsi fottere, la televisione buttala nel cassonetto. Come diceva Chaplin? Il prodigio è qui», dice Oscar battendosi il dito sulla testa. «Osserva a occhi aperti, medita e immagina a occhi chiusi. Non a caso Omero era cieco». Il tema del libro è la memoria (compresi gli scherzi che fa), sia privata sia collettiva, e il modo in cui quella privata dovrebbe toccare quella collettiva, col coraggio di considerarla dal proprio punto di vista. «Le cose che ci stiamo dicendo sono sui libri», dice Oscar a Giulio, «sulle cronache, sulle memorie stampate; ma noi stiamo percorrendo un itinerario sotterraneo ala storia. Occulto, intimo, l'itinerario dello spirito, percorso carponi, strisciando sotto gli avvenimenti noti, non stando seduti alla scrivania, non riesumandolo alla televisione con il microfono in mano».

Come già in "Amori nel fragore della metropoli", la raccolta di racconti pubblicati da Sellerio nel 2019, colpisce la lingua sapida e insieme colta, dove la ricercatezza e l'esattezza di alcuni termini si unisce al calembour e all'espressione popolare, e dove l'apparizione della parolaccia è talmente dosata e padroneggiata da apparire anch'essa aulica. Nel toccare temi complessi come l'8 settembre e i traumi donati dalla guerra c'è il rigore morale dell'umorista di razza, che in tutta la sua carriera, dai disegnini per il Marc'Aurelio ai copioni per Scola e Monicelli, ha capito che il dramma della realtà va letto con sfrontata ironia. Non per consolare ma perché, come scrisse in occasione della scomparsa di Alberto Sordi, «sottraendo l'ironia al reale, si commette atto di falsità. Siate soltanto seri e sarete poco seri». Pare che Bonivento sogni ancora di girare il film dalla storia di suo padre. Intanto in casa Scarpelli dormono altri soggetti, altre storie, altre carte, che ci auguriamo escano anch'essi fuori dai cassetti, a farsi leggere da chi magari all'epoca della loro stesura non era neanche nato.

- Alberto Anile - Pubblicato su Robinson del 19/11/2023

lunedì 27 maggio 2024

La fine dell’interregno dell’Accademia Capitalista

Hans-Jürgen Krahl: Autorità e Rivoluzione - Introduzione del traduttore
di J.E. Morain

Questa introduzione sarà breve e, francamente, un po' aggressiva. Le mie ragioni per tradurre questo pezzo qui e ora dovrebbero essere ovvie (basta controllare le notizie). La completa bancarotta morale, politica e teorica – e questa è la parola giusta, perché "fallimento" implicherebbe che hanno fatto uno sforzo – dei decani della teoria critica e "democratica" nel momento presente ricorda la debolezza dei loro antenati (e, nel caso di Habermas, quella del suo stesso passato) nell'era della guerra del Vietnam. la decolonizzazione e la Nuova Sinistra. Gli arconti del sistema accademico sono eticamente inutili e politicamente disumani come sempre; proprio come Talleyrand ha detto dei Borboni, l'accademia capitalista non ha "imparato nulla e non ha dimenticato nulla" dal loro interregno rivoluzionario, la rivolta globale del 1968. Da Manhattan a Berlino, portare l'antimperialismo all'interno dell'università è vietato. Presumibilmente, intellettuali umanisti spendono il loro tempo così prezioso a fare i pignoli sul linguaggio di coloro che protestano contro il genocidio israeliano a Gaza, mentre il Partito Democratico e il suo decrepito nonno Biden gettano tutto il loro peso dietro la polizia e lo Stato fascista dell'apartheid di Israele, facendo così in modo che la "democrazia" americana venga innalzata sul suo stesso vessillo, confermando l'affermazione di Krahl che «uno Stato autoritario significa che la democrazia può essere trasformata in uno stato di eccezione, senza soluzione di continuità nella legittimità giuridica e politica». Chi è Hans-Jürgen Krahl? Un tempo figura di spicco del Sozialistischer Deutscher Studentenbund (SDS), oggi è per lo più dimenticato. (Se volete saperne di più, leggete questo e i testi correlati nel dossier Viewpoint). Più che dimenticato, è stato rimosso e, peggio ancora, i pochi rimasti che non rimuovono il ricordo stesso della sua esistenza, sono per lo più degli "anti-tedeschi" (uno dei fondatori della tendenza, Joachim Bruhn, una volta espresse il suo disprezzo per il movimento marxista-leninista in Germania attraverso l'osservazione secondo cui «nessuno [tra loro] aveva letto nulla di Hans-Jürgen Krahl» [*1]. Lo stesso Krahl, tuttavia, pensava che il fatto che le opere di Che Guevara e di altri rivoluzionari non fossero state studiate da vicino fosse la prova del «declino della coscienza teorica» [*2]). Contro il suo oblio nell'ambito della teoria critica habermasiana mainstream, e per mezzo dello status di culto nella teoria critica della sottocultura sinistra-sinistra tedesca, i suoi testi continuano ancora a testimoniare la possibilità che le cose sarebbero potute andare diversamente. Questo è uno dei motivi per cui vale la pena leggerlo. Allora, le cose sarebbero potute andare diversamente; oggi le cose possono ancora andare diversamente. Krahl voleva passare dall'autocritica teorica della borghesia al suo tradimento pratico, e dal lutto dell'individuo borghese alla nascita di una società socialista. Il problema di come passare dall'uno all'altro costituisce il problema essenziale di tutto il suo progetto, e a tal proposito il suo progetto era personale: era figlio di una famiglia piccolo-borghese di una città di campagna reazionaria e in passato era stato membro di diverse organizzazioni giovanili e studentesche reazionarie. (Detto ciò, i suoi discorsi sul tradimento di classe, e i ripetuti scontri con la legge non hanno impedito ai suoi genitori di finanziarlo [*3]). Allo stesso tempo, però, le concezioni marxiste ortodosse della pratica e dell'organizzazione - che trovavano le loro espressioni più alte nella "Storia e nella coscienza di classe" di Lukács - gli sembravano avessero conservato alcuni presupposti borghesi, e pertanto non rappresentavano una rottura completa con le forme sociali borghesi che esse intendevano rovesciare. In questo testo, il  problema è politico e organizzativo, ma, come Lukács, anche Krahl vedeva le questioni organizzative e teoriche come inestricabilmente legate. Il compito di trasformare la teoria critica in teoria rivoluzionaria, significava affrontare dei problemi organizzativi. Portare a termine questo compito nella realtà della Germania Ovest degli anni '60 e del movimento studentesco, significava per lui confrontarsi con l'accademia e con le sue autorità accademiche, in quella che era la loro esistenza concreta. In questo testo, Krahl critica due autorità accademiche che non sono riuscite a sostenere il movimento studentesco: Habermas e Adorno.

La sua critica a questi due è pungente, ma ciò che rende il testo davvero notevole è il modo in cui Krahl intreccia i problemi organizzativi dell'SDS a delle riflessioni teoriche circa la natura del capitalismo e dello Stato, riattivando alcuni concetti tratti da dei testi decisamente politici di Horkheimer degli anni '40. Lungo tale percorso, egli pone alcune questioni politiche e organizzative cruciali per le quali non abbiamo ancora una risposta convincente. (Ecco un altro motivo per leggerlo: i suoi testi sono il testamento di una mente impegnata in quegli stessi problemi che ancora oggi ci perseguitano). Prima, sopra, ho citato Habermas. La critica che Krahl gli rivolge in questo testo è fondata su una fede nel suo personaggio che oggi non è più possibile sostenere, una fede che in realtà è stata insostenibile per molti anni. La sua affermazione - in un'intervista del 2012 a "Ha'aretz" - secondo cui i tedeschi hanno essenzialmente il dovere di coprire, o quanto meno ignorare, i crimini dell'occupazione israeliana [*4] avrebbe dovuto essere più che sufficiente per porre fine ad "Habermas in quanto Istituzione". E che dire di Adorno, che pur essendo presente alla discussione riceve meno critiche di Habermas? Un po' di dietrologia potrebbe qui essere d'obbligo. Krahl si iscrisse all'Università di Francoforte appositamente per studiare con lui. I due, tuttavia, svilupparono sentimenti contrastanti l'uno per l'altro. Mentre Habermas era più aperto all'impegno pratico in politica, la sua teoria era meno radicale. Adorno era invece più radicale in teoria, ma del tutto riluttante a impegnarsi nella pratica al di là della conversazione occasionale con i membri dell'SDS. Su Krahl e Adorno [*5], ci sono due storie apocrife degne di nota. In una di queste, si racconta che Adorno abbia scritto sulla lavagna dell'Istituto per la Ricerca Sociale, dopo che Ludwig von Friedeburg aveva fatto espellere e arrestare dalla polizia gli studenti che lo occupavano [*6]: «Questo Krahl è abitato dai lupi» ovvero «Sono i lupi che ululano da questo Krahl», un gioco di parole sulla filastrocca Krahl/Saal (sala). Nell'altra, si racconta invece che Adorno avrebbe fatto un sogno in cui Krahl gli puntava un coltello alla gola. E quando Adorno protestava, Krahl gli avrebbe replicato in buon stile adorniano con qualcosa del tipo: «Suvvia professore, non dovrebbe personalizzare». C'è anche un'altra versione di questa storia, in cui Krahl per tutto il sogno è seduto, come in un incubo, sul petto di Adorno: questa versione ha sfumature libidiche assai più chiare. Il senso di quest'ultima storia è che Adorno fosse un po' infastidito dalla capacità di Krahl di distinguere e separare il politico dal personale: Krahl una volta gli si rivolse, dopo un discorso, e bisbigliò qualcosa, al punto che Adorno scrisse a Günter Grass che «sperava che non l'avesse presa male, dal moneto che si trattava puramente di politica e non doveva essere intesa personalmente» [*7]. Per Adorno tutto questo non era ammirevole, ma la prova che nella personalità di Krahl ci fosse «qualcosa di patologico» [*8].

L'insensibilità di Adorno nei confronti di Krahl, le sue accuse – fatte in malafede? – secondo cui il movimento studentesco stava per provocare una restaurazione fascista o si stava rapidamente avvicinando a una forma di "fascismo di sinistra" [*9]: cosa rispondere a tutto questo? Nella sua corrispondenza con Marcuse, Adorno ricorre al ricordo traumatico del fascismo per poter giustificare il suo stanco atteggiamento nei confronti del movimento studentesco [*10], ma gli omosessuali come Krahl oltre a essere state vittime del regime nazista, hanno continuato a essere perseguitati anche sotto la Repubblica Federale. E non c'è forse un che di ironico nell'orrore che gli suscita la capacità che Krahl ha dimostrato di saper separare il politico dal personale, da parte di qualcuno che è perennemente incapace, anzi orgoglioso della sua incapacità, di coniugare il politico e il teorico? (Adorno arrivò persino a criticare Angela Davis, un'altra sua studentessa per un certo periodo, per la sua militanza, dimostrando così che la sua riluttanza nei confronti della pratica non era affatto specificamente legata alle condizioni della Germania [*11]). Adorno aveva fondato la sua critica della prassi sul concetto di “pseudo-attività”, originariamente un concetto critico verso la società tardo-capitalista, e che Adorno in seguito utilizzò per una difesa a rovescio di quella stessa società, utilizzando molti degli stessi stereotipi utilizzati nelle canzoncine anti-sinistra dei reazionari di tutto il mondo. L'accusa, condiscendente e psicologizzante, secondo cui gli “azionisti” dell'SDS o dell'APO erano più preoccupati di fare qualcosa, qualsiasi cosa, e non di fare qualcosa di efficace, è errata. In questo testo e altrove Krahl ha affrontato simili accuse: per lui, le spettacolari azioni di protesta dell'SDS erano “forme di apparenza afflitte da dolori di crescita” (kinderkranken Erscheinungsformen) di un movimento che era ancora in una fase di costituzione, e che avrebbe voluto un giorno essere capace di «una prassi prerivoluzionaria essenzialmente corretta» [*12]. Generalmente, le critiche di Adorno nei confronti della prassi andrebbero accolte con la domanda che Krahl rivolge ad Habermas in questo testo: che funzione hanno tali argomentazioni se non si presuppone che gli SDS sono talmente stupidi da non averle già previste? Si potrebbe criticare Krahl, perché nel suo corpus ci sono, ovviamente, alcuni momenti discutibili, ma non è questo il momento, né il luogo. Il suo progetto è rimasto incompleto, sia dal punto di vista politico che teorico. Dal momento della sua morte, sono passati cinquant'anni e, in linea di massima, ci troviamo ancora nella medesima situazione. Osservazioni banali su questo presupposto errato o su quella ingenua aspettativa risulterebbero essere peggio che inutili, e per questo motivo non me ne sono preoccupato.

Un'ultima cosa: nel testo ho inserito alcune note del traduttore. Sono state inserite in paragrafi a sé stanti e racchiuse tra parentesi quadre. Queste note forniscono informazioni, riassumono lo svolgimento della discussione o indicano interiezioni. Il testo di questa traduzione utilizza il corpo principale e le note di "Costituzione e Lotta di classe", oltre che la trascrizione ristampata nel II volume di "Frankfurter Schule und Studentenbewegung: von der Flaschenpost zum Molotowcocktail 1946-1995" di Wolfgang Kraushaar (1998, pp. 458-470). La traduzione potrebbe sembrare a tratti imbarazzante, ma vi assicuro che la colpa è solo in parte mia: Le frasi di Krahl sono spesso assai ingombranti e grammaticalmente complesse.

- J.E. Morain - Pubblicato il 15/5/2024 su Critical Theory Working Group -

NOTE:

[1] https://www.ca-ira.net/verein/positionen-und-texte/bruhn-who-are-the-anti-germans/

[2] Reinicke, Helmut. Für Krahl. http://www.mxks.de/files/kommunism/Reinecke.FuerKrahlt1.html

[3] Koenen, Gerd. "Der tranzendental Obdachslose — Hans-Jürgen Krahl." p. 4

[4] Limone, Noa. "Il più importante filosofo vivente della Germania lancia un appello urgente per ripristinare la democrazia", Ha'aretz, 2012.

[5] Versioni di entrambe le storie sono raccontate nel saggio di Koenen "Der tranzendental Obdachslose"; la "versione incubus" della storia dell'incubo appare in Adorno: A Political Biography di Jäger, così come nel fumetto che ho incluso.

[6] Contrariamente a quanto può sembrare, sembra che a telefonare non sia stato Adorno, ma che piuttosto lo abbia fatto fare al ministro dell'istruzione dell'Assia Ludwig von Friedeburg dopo che Krahl e soci si erano rifiutati di andarsene «malgrado fosse stato loro chiesto per tre volte di farlo». (Jäger, Adorno: A Political Biography, tr. Spencer. Yale UP, p. 203). In ogni caso, non ha avuto alcun problema con la decisione di chiamare la polizia, e questo ha fatto seguire l'accusa di violazione di domicilio nei confronti di Krahl.

[7] Claussen, Detlev. Theodor W. Adorno: One Last Genius. tr. Livingstone. Harvard UP, 2008, p. 336

[8] Ivi.

[9] Si veda la sua corrispondenza con Marcuse sul movimento studentesco e i testi "Marginalia to Theory and Praxis" e "Resignation" in Critical Models: Interventions and Catchwords.

[10] https://field-journal.com/editorial/theodor-adorno-and-herbert-marcuse-correspondence-on-the-german-student-movement

[11] Angela Davis, "Marcuse's Legacy", in Herbert Marcuse: A Critical Reader, a cura di John Abromeit e W. Mark Cobb (New York: Routledge, 2004), 46-47.

[12] Krahl. "Le contraddizioni politiche nella teoria critica di Adorno". Traduzione modificata. https://cominsitu.wordpress.com/2021/04/20/the-political-contradictions-in-adornos-theory-krahl-1971/#more-10079

Hans-Jürgen Krahl: Autorità e Rivoluzione (Contributo a una discussione tenutasi il 23 settembre 1968)

Autorità e Rivoluzione – di Hans-Jürgen Krahl

[* Prima del discorso di Krahl, Frank Benseler, redattore di Luchterhand e organizzatore di questa discussione, Ludwig von Friedeburg, ministro dell'istruzione dell'Assia e Kurt Lenk, un politologo, danno il loro contributo alla discussione. Krahl, nel suo contributo, non risponderà direttamente a nessuno di loro, e pertanto i loro interventi non verranno qui riassunti.]

Vorrei mettere in relazione [il mio contributo] con quello che è successo negli ultimi tre giorni. In primo luogo, bisognerà spiegare un paradosso: vale a dire, che il movimento studentesco, il quale concepisce sé stesso come antiautoritario, ha bisogno invece di tantissime autorità, sia per quanto riguarda la sua struttura [in Sachhinsicht] sua per quanto riguarda il suo personale. Chiunque abbia seguito l'ultima conferenza dei delegati dell'SDS, ha potuto constatare come la rivolta antiautoritaria sia proseguita, e in una certa misura era anche iniziata attraverso la de-mitizzazione e il disincanto riguardo alle sue stesse autorità. E questo, almeno per un movimento marxista,rappresenta un principio di organizzazione in senso enfatico, oltre che storico-filosofico e teorico-rivoluzionario; significa che un movimento ha un bisogno irrazionale di autorità, nella misura in cui non è organizzato e non ha costruito alcun tipo di struttura di qualificazione basata sulla divisione del lavoro; e che poi, in seguito, questa autorità - come aveva notato in maniera critica Georg Lukács nei confronti di Pannekoek e Luxemburg - si rivolge alla fase della propaganda, all'agitazione. Ed è significativo che gli agitatori dell'SDS, che guidano le discussioni nei teach-in, siano in qualche misura autoritari. L'opposizione extraparlamentare, soprattutto la sua fazione antiautoritaria, non ha ancora realizzato in questo senso una sufficiente divisione del lavoro, vale a dire che, da un lato, non dovrebbe esistere alcunché senza che ciò abbia una funzione qualitativa - un antico principio della divisione comunista del lavoro, il quale richiedeva a tutti una corrispondente pressione autoritaria sulla sua performance - anche oggi, in una società in cui l'abolizione [Abschaffung] del lavoro è uscita così tanto dalla dimensione dell'utopia; dall'altro lato, però, si presume che questa sollecitazione alla performance debba essere compensata dallo sviluppo di collettivi di tipo solidaristico, capaci di sublimare in anticipo quella separazione e atomizzazione degli individui che la società capitalistica promuove sulla base della sua astratta divisione del lavoro. È esattamente questa la questione posta da Georg Lukács nella sua sintesi speculativa del dibattito europeo riguardo l'organizzazione: come è possibile anticipare il regno della libertà all'interno di una forma di organizzazione comunista e assolutamente autoritaria? Oggi questa domanda viene ancora considerata in maniera insufficiente, dal momento che questo tipo di partito leninista soddisfaceva solo le condizioni di un Paese ancora in fase di industrializzazione, in cui la disciplina autoritaria del lavoro doveva, in generale, essere prima costituita, e non avrebbe potuto essere abolita nella società intera, per cui le norme in eccedenza - e quindi il tempo di lavoro in eccedenza - avrebbero dovuto essere interiorizzate.

Oggi il problema si pone in modo rovesciato: queste norme in eccesso, “l'eccedenza di repressione”, come dice Marcuse, in quanto principi autoritari di prestazione, sono diventate superflue. Anche per noi dell'SDS si pone la questione di come sia possibile sviluppare una forma di organizzazione che, in un contesto di coercizione e di violenza, generi degli individui autonomi che allo stesso tempo siano in grado di sottomettersi in modo disciplinato alle esigenze della lotta e alle condizioni della coercizione. Questo problema è completamente irrisolto. Attualmente è in corso la realizzazione di una rivolta antiautoritaria che ha lo stesso stile provocatorio di quella che abbiamo avuto nel nostro stesso liceo. Questa rivolta antiautoritaria ha come obiettivo quello di rendere possibile qualcosa di simile a un processo di apprendimento collettivo. Allo stesso tempo, non si deve consentire in alcun modo che nell'SDS si sviluppi una forma di collettivismo ostile agli individui. Inoltre, voglio discutere il ruolo rappresentato dalle autorità critiche giornalisticamente definibili. Ciò andrebbe discusso in riferimento alle due personalità di spicco presenti in sala, Habermas e Adorno. Ritengo che queste autorità definiscano in maniera falsa la loro relazione con l'opposizione extraparlamentare, soprattutto quella marxista e socialista. Jürgen Habermas, illudendosi che si possa ancora costruire qualcosa di simile a una contro-coalizione liberale che spazia da Brenner ad Augstein, e che attraverso il lavoro nelle istituzioni si possa ancora mobilitare qualcosa di simile a una contro-sfera pubblica liberale, ritiene che, in certe situazioni di azione instabile in cui abbiamo bisogno della sua solidarietà, si debbano prendere tatticamente le distanze. Con la fatale accusa di “fascismo di sinistra” - subito raccolta dalla stampa liberale, secondo la quale qualsiasi movimento plebiscitario-egalitario appare fascista già solo a partire dalla sua stessa forma, astraendo completamente da quello che è il suo contenuto - Habermas ha concretizzato per la prima volta questa sua presa di distanza tattica.  Se ne è reso conto una seconda volta nel momento in cui ci ha lanciato l'accusa di pseudo-rivoluzionarismo. È un'accusa su cui non intendo nemmeno discutere se essa sia giustificata dal punto di vista del contenuto della disputa tra le diverse fazioni dell'opposizione extraparlamentare; ma piuttosto parlare di quale funzione essa abbia in quello che è un preciso momento di instabilità del movimento. Daniel Cohn-Bendit, durante la rivoluzione di maggio, parlando di un sociologo che in Francia svolge un ruolo simile a quello che Habermas ha qui [in Germania], il quale spiegava che: «Sono fortemente in disaccordo con molte delle vostre azioni, specialmente per quanto riguarda la struttura della violenza, ma in questo momento è necessario che io sia solidale con tutti voi».

Perché è necessario che portiamo sul campo con noi queste personalità? Nella società autoritaria, finalizzata alla performance nell''educazione, nella manipolazione e nell'indottrinamento esecutivo, le masse sono talmente ossessionate dalle personalità che inizialmente hanno bisogno di queste autorità - vale a dire, di coloro che si considerano come delle autorità critiche - per il loro essere illuminate. Abbiamo pertanto bisogno della pubblica, dichiarata solidarietà delle autorità critiche; esse possono, in un certo senso, contribuire a distruggere il principio di autorità nella società attraverso l'arma dell'autorità stessa. Credo che fino ad oggi né Habermas né Adorno abbiano dimostrato di avere questo atteggiamento. Con Adorno è diverso. Se ne può discutere piuttosto come una questione di teoria. Qui vorrei solo riassumerlo come un aneddoto: mentre assediavamo il consiglio [universitario] circa sei mesi fa, il signor Adorno si presentò davanti agli studenti nel sit-in come l'unico professore presente. Venne sommerso dalle ovazioni, corse subito al microfono e poi, poco prima di raggiungerlo, ripiegò verso il suo seminario di filosofia; in un attimo, quindi, si allontanò dalla prassi e ritornò nuovamente alla teoria. La situazione della teoria critica oggi è sostanzialmente questa. Razionalizza la sua rassegnata e raffinata paura individuale della prassi, [proclamando] che la prassi è in qualche modo impossibile, e perciò si deve ritornare a casa, alla filosofia. Una terza cosa. Proprio negli ultimi giorni è stato dimostrato qui, o almeno è stato formalmente segnalato, che, pur senza manifestarsi drasticamente e immediatamente nella struttura dello Stato, a partire dalla promulgazione degli atti di emergenza

[**Atti di emergenza (Notstandsgesetze). Il 30 maggio 1968 fu approvata una serie di leggi (il Grundgesetz) che diedero al governo della Repubblica Federale Tedesca il potere di stabilire uno stato di eccezione e di abrogare alcuni diritti garantiti dalla costituzione. I critici videro somiglianze tra queste leggi e le clausole riguardanti i poteri di emergenza nella costituzione della Repubblica di Weimar, che erano state utilizzate dal NSDAP e dal suo maldestro complice Hindenburg per trasformare la Repubblica di Weimar in una dittatura]

 qualcosa è cambiato. Da una fiera del libro - che per definizione è qualcosa di simile al palcoscenico di una sfera pubblica critica, anche se un po' antiquata e deplorevole -  siamo passati a un campo di emergenza. Abbiamo sperimentato il sistematico prendere di mira degli individui per picchiarli, [per esempio] questo è successo ieri, quando le truppe d'assalto della polizia sono uscite dalla sala mensa. In una situazione del genere, in cui la brutalità è diventata altrettanto manifesta quanto lo è il fatto che siamo soli, abbiamo bisogno della solidarietà di queste personalità. La mia tesi è di tipo teorico, riguarda i principi. Che cosa significa se, proprio nella fase finale della nostra lotta contro la promulgazione degli atti di emergenza, ripensiamo continuamente al concetto di Stato autoritario? Con questo [concetto], volevamo portare la problematica degli atti d'emergenza fuori dal quadro di riferimento della tradizionale politica di difesa nei confronti delle tendenze restauratrici in atto negli anni Cinquanta, vale a dire nei confronti della riapprovazione delle corporazioni, del riarmo e degli armamenti atomici, una politica che mirava a salvare la democrazia in senso borghese. Con il concetto di Stato autoritario volevamo proporre un quadro di riferimento diverso, un quadro di teoria rivoluzionaria. A questo proposito, vorrei anche chiedere: cosa significa per la struttura del tardo capitalismo, in termini di principio, [il concetto di] “Stato autoritario” ? Questo concetto è assurto a[lo stato di] dettato teorico, anche grazie alla tradizione della Scuola di Francoforte; mi riferisco a Max Horkheimer e Franz Neumann, ma anche ad Adorno. Nel suo saggio sullo Stato autoritario, Horkheimer non lo ha trattato semplicemente come se fosse un problema isolato dello Stato sociale [sozialstaatliches] e della filosofia del diritto, ma ha voluto intendere con [il concetto di] Stato autoritario come una modifica dell'intera costituzione del sistema stesso. Ciò significa, in linea di massima, che, con il passaggio dal capitalismo competitivo a quello monopolistico, le istanze di mediazione della società borghese, le specifiche forme associative [Verkehrsformen] come i partiti e il parlamento, hanno perso la loro sostanza economicamente portante. Il Parlamento e i partiti avevano come sostanza il libero scambio di merci da parte di proprietari di merci che sono ugualmente valide e ugualmente validanti per un altro. Il Parlamento era pensato come il mercato politico in cui le diverse fazioni della borghesia potevano negoziare politicamente i loro interessi economicamente differenziati senza violenza. Il compromesso, nel concetto di Realpolitik borghese, è la razionalizzazione politica della concorrenza economica.

Con la crescente eclissi del libero scambio da parte delle concentrazioni di mercato oligopolistiche e monopolistiche alla fine del secolo scorso, queste istanze di partiti e di parlamento, le forme di associazione della borghesia, hanno perso la loro sostanza economica; e si verificò un'avanzata dell'autoaffermazione dello Stato al di sopra e contro la società. Per la teoria marxista, la persona giuridica rappresenta la maschera del proprietario di merci; al posto del Rechtsstaat è subentrato lo Stato sociale autoritario [Sozialstaat]. Ciò significa che lo Stato ha fatto di se stesso l'oggetto della riforma sociale al fine di impedire alle masse dipendenti dal salario di organizzarsi e riunirsi. A causa di questa tendenza riformatrice dell'esecutivo autoritario, le grandi forme organizzative della classe operaia nate in passato dalla lotta per il diritto di combinazione, cioè i sindacati e i partiti, sono state progressivamente integrate nella struttura di quello stesso esecutivo autoritario. A questo punto il teorema di Max Horkheimer, secondo cui il capitalismo monopolistico è potenzialmente un fascismo, è più che giustificato. Essenzialmente, il fascismo è il risultato del riformismo sociale dello Stato autoritario. Uno Stato autoritario significa - e questo comincia a manifestarsi con gli atti di emergenza - che la democrazia può essere trasformata in stato di eccezione senza che si verifichi una rottura della legittimità politica e giuridica. Infatti, si possono distruggere le istanze democratiche - ad esempio il Parlamento - con mezzi diversi da quelli terroristici; proprio in virtù di quei presupposti teorici che ho appena citato, essi possono essere integrati in modo manipolativo nell'arsenale dell'esecutivo autoritario. Riassumo tutto questo in tre livelli:
1. Al di là della funzione che il parlamento e i partiti hanno oggi nello Stato, in cui non sono più strumenti di formazione della volontà critica, appare evidente che un'organizzazione rivoluzionaria non può adottare il concetto leninista di disciplina. Al contrario, è necessario coltivare all'interno della propria organizzazione individui autonomi che siano in grado di imporre a se stessi una pressione ad agire in senso rivoluzionario.
2. Vista la situazione attuale del movimento antiautoritario, per l'illuminazione critica abbiamo bisogno di autorità mediatiche [publizistisch-kritischen] critiche e del loro peso autoritario. Occorre la loro solidarietà concreta; la disputa teorica dovrebbe essere giocata come una disputa frammentaria, non come una critica contemplativa proveniente dall'esterno.
3. Lo Stato autoritario potrebbe far sì che la società venga trasformata in uno stato di eccezione senza che questo comporti una rottura della legittimità politica e giuridica. Nelle conclusioni riprenderò la vecchia polemica con Habermas. Egli ci ha accusato di patologia infantile; secondo lui, noi stiamo confondendo quelle che sono solo delle azioni simboliche - costruire barricate, occupare le istituzioni - scambiandole per delle situazioni concrete di lotta per il potere.

Quando qui a Francoforte stavamo occupando l'università, il ministro dell'Assia Rudi Arndt disse in proposito: «Non lasceremo che distruggano questo Stato». In tal modo, ci è stato così suggerito che noi, che siamo ancora una minoranza, saremmo in grado di distruggere immediatamente lo Stato. Lo Stato deve produrre un'ideologia tattica di lotta per il potere e comportarsi come se [la situazione] sia già caratterizzata dalla lotta per il potere politico nell'ambito dello Stato, e questo per due ragioni: la prima è che, a causa del principio di autorità nella società, non è in grado di sopportare nemmeno l' emergere di un movimento di massa. Questo è apparso chiaramente nel momento in cui il movimento studentesco ha superato per la prima volta i limiti dell'accademia e ha mobilitato un movimento di sciopero con gli operai, in particolare con i giovani lavoratori; la seconda, è che deve produrre una tale ideologia di lotta per il potere, in quanto un metodo terroristico e brutale nei confronti dell'opposizione extraparlamentare è legittimabile solo se si suggerisce in qualche modo che potremmo già immediatamente provocare il crollo dello Stato. Per questo motivo ha bisogno di una corrispondente falsificazione: dal 2 luglio conosciamo i noti topoi con cui le autorità statali trasformano i pomodori in coltelli, che si suppone vengano lanciati dai manifestanti. Quindi, signor Habermas, non siamo noi a suggerire una situazione di lotta per il potere sulla base del principio di autorità nella società, ma è lo Stato ad essere costretto a produrre un'ideologia di lotta per il potere al fine di legittimare l'attacco alle opposizioni extraparlamentari fin dall'inizio.

[*** Qui si ferma il discorso iniziale di Krahl. Dopo di lui - prima che Adorno intervenga per difendere la sua mancata tenuta di un discorso al sit-in - Karl-Dietrich Wolff, allora presidente dell'SDS, si baserà brevemente sui punti di Krahl. Adorno dichiara che doveva andare a un esame, e che uno studente lo stava aspettando già da mezz'ora. Nega anche di aver «schivato il microfono», dicendo invece che «non lo avevo nemmeno visto». Afferma la sua fiducia in una protesta non violenta e «immanente», ma rifiuta che le sue azioni possano essere giudicate come giuste o sbagliate. Quando Wolff risponde, chiedendo ad Adorno se piuttosto non sarebbe stato significativo, e simbolicamente potente per lui, marciare insieme a loro contro il divieto di protestare, Adorno chiede retoricamente se i vecchi corpulenti siano davvero quelli giusti per partecipare alle marce. Inoltre, egli afferma, è suo diritto come individuo non partecipare, e l'SDS non è – così come ha appena affermato Krahl – un'organizzazione volgarmente collettivista. Dopo questo scambio di battute, Werner Hofmann – forse lo storico dell'arte, non lo so – critica il modo di agire dell'SDS, accusandola di concepire sé stessa come una «classe sostitutiva», e insiste sul fatto che la cosa più importante è «aprirsi un varco nelle masse lavoratrici». Habermas, rispondendo al discorso di Krahl segue Adorno, definendolo un «capo di partito che richiama all'ordine gli intellettuali insubordinati», accusandolo di essere autoritario. In seguito, il filosofo marxista Hans Heinz Holz pronuncia il suo discorso, al quale Krahl non risponde e che quindi non riassumerò. Lenk poi, prima che Krahl ricominci da capo, mette in discussione il rifiuto, da parte di Krahl, dell'utilità dei partiti politici per i movimenti radicali di opposizione.]

Il signor Hofmann, contro di noi, ha usato il solito argomento: che noi, gli intellettuali e gli studenti, non dovremmo concepirci come una classe sostitutiva, ma piuttosto come un'alleanza dell'intellighenzia e che, come dice lui, ciò che è importante è «la gente che lavora». Questo argomento viene sempre portato avanti in maniera falsa. L'SDS e l'opposizione extraparlamentare, nella misura in cui si definiscono socialiste, non si concepiscono come una classe che agisce in una sostituzione blanquista. Ora, è vero che una volta abbiamo ripreso piuttosto ciecamente la formula volgare-marcusiana secondo cui solo i gruppi ai margini della società [Randgruppen] potevano essere ancora un soggetto rivoluzionario; ma poi, il 1° maggio di quest'anno abbiamo lanciato lo slogan «lotta di classe anziché partenariato sociale». In sostanza, ciò costituisce una grande svolta verso il proletariato. Noi non crediamo più che soltanto i gruppi ai margini della società possano essere un soggetto rivoluzionario di cambiamento. In tutto questo, però, a livello teorico la questione di classe nella società odierna, la questione di come siano cambiate le strutture di classe, rimane del tutto irrisolta. Tutte queste formule non sono altro che un riflesso cieco della nostra pratica, anziché una strategia riflessiva. La seconda questione teoricamente irrisolta è come sia cambiato il ruolo dell'intellighenzia critica in una società in cui la scienza è un fattore di produzione sempre più importante, se non addirittura il principale. Pongo questi interrogativi per non limitarci a formulare che dobbiamo riferirci al “lavoratore”, cosa che è più una formula espressionistica che un termine specifico di classe. Posta in termini di contenuto, la domanda significa questo: è vero che oggi l'intellettuale ha una solidarietà naturale con la borghesia, la quale almeno fenomenologicamente non esiste più, anche se di certo esiste una classe capitalista; è vero che gli intellettuali possono uscire dalla società solo in quanto individui; è vero anche oggi il ruolo che le scienze hanno assunto a livello produttivo? Se ora la relazione dello Stato con l'economia è cambiata, perché lo Stato stesso è diventato anch'esso un fattore di produzione e un regolatore elementare del processo economico, e se è cambiata questa relazione tra politica ed economia, in cui alla fine anche le classi, in quanto condizionate in sé, si costituiscono, come è cambiata la posizione di classe dei capitalisti e dei lavoratori salariati? Tutte queste domande sono teoricamente aperte, e quando si tratta di agitazione, educazione e attivazione per la classe operaia noi procediamo essenzialmente in maniera ortodossa, anche se in maniera pragmatica e con la disposizione di sperimentare le mutate strutture di classe anche nella nostra attività pratica. Il lavoro ortodosso che svolgiamo attualmente procede a tentoni: lavoriamo con un occhio di riguardo per i sindacalisti di sinistra laddove esiste ancora un centro sindacale revisionista, come a Francoforte; lavoriamo insieme ai compagni del Partito Comunista, e questo non è per nulla finito nemmeno con l'espulsione dell'ala del Partito Comunista; cerchiamo di formare le nostre cellule soprattutto con i giovani lavoratori. Tutto questo rappresenta certamente un lavoro molto ortodosso; questo lavoro di cellula corrisponde fondamentalmente alla politica dell'opposizione di ultra-sinistra tra i comunisti tedeschi all'inizio degli anni Venti. Questo lavoro di agitazione educativa va considerato nei termini e con riferimento alla classe operaia e nel contesto della disposizione pragmatica secondo cui noi stessi raccogliamo esperienze qualitativamente nuove durante questo lavoro, esperienze che [tuttavia] solo attraverso la riflessione teorica danno informazioni sulla struttura di classe, sulla costituzione fattuale della struttura di classe nella società. Altrimenti si corre il rischio, come i dogmatici ortodossi, di lavorare sempre e solo con opposizioni reificate e analitiche, per nulla mediate, della classe in sé e per sé. Ora, per quel che riguarda le parole dette dal signor Habermas: egli ha avuto l'impressione che io parlassi come il capo del partito che richiama all'ordine gli intellettuali insubordinati. Non ha affatto giustificato questa impressione, tuttavia potrebbe esserci qualcosa di corretto in essa. Nella misura in cui ci si identifica con certe funzioni presenti nella prassi della SDS e dell'opposizione extraparlamentare, può effettivamente essere relativamente naturale assumere gradualmente la modalità di comportamento reificata del capo del partito. In questo senso, l'osservazione può servire come occasione di auto-riflessione pratica. Habermas ha frainteso la mia richiesta di solidarietà incondizionata. Questo fraintendimento nasce da un approccio teorico specifico della sua stessa concezione. È chiaro ciò che egli ha dichiarato a proposito dell'azione degli ultimi giorni, ossia che essa è stata molto coraggiosa e provocatoria, ma non è stata ben preparata in termini di esplorazione. In effetti è così. Ma vorrei sapere che funzione ha un'argomentazione del genere se non si ritiene che la SDS sia talmente stupida nella sua autocomprensione organizzativa da non saperlo già da sé sola. Se ne deve dedurre che ci si sarebbe dovuti astenere dall'azione?

[Habermas interviene: "Intendo proprio questo!"]

Se intendi questo, allora devo contraddirti. In effetti è stato fatto un pessimo lavoro di preparazione di questa azione, ma il motivo è noto a tutti. Le azioni di massa contro gli atti di emergenza hanno avuto un effetto disintegrativo e caotico sulle strutture organizzative preesistenti dell'SDS. Al momento siamo veramente male organizzati. Le forme organizzative qualitativamente nuove, i quadri informali che sono stati coltivati di recente - e questo vale anche per il collegio durante l'“università politica” e durante lo sciopero in Francia e per il nostro lavoro con i giovani lavoratori - non hanno ancora potuto essere inseriti in un quadro organizzativo coordinato. Ma non è vero che si è creato solo caos organizzativo; abbiamo anche sviluppato nuove forme di organizzazione. Ma se, tenendo conto di questo contesto, prendo sul serio la sua affermazione (di Habermas), cioè che avremmo dovuto rinunciare all'azione, ciò significherebbe che l'opposizione extraparlamentare dovrebbe ritirarsi nel suo guscio di lumaca organizzativo - per così dire - e rinunciare alle azioni finché non si sarà rigenerata organizzativamente. Questo, però, sarebbe fatale per un movimento socialista e antiautoritario che si è costituito e riprodotto così tanto nell'azione e attraverso l'azione. In secondo luogo - e soprattutto per quel che riguarda l'azione contro Senghor - essa è stata mal preparata dal punto di vista dell'informazione per i motivi citati. La domanda che ci si pone è se, nonostante le reazioni fortemente negative che ci si può aspettare da questa azione, non siano proprio queste azioni a poter avviare un processo di chiarificazione. Dobbiamo innanzitutto essere noi stessi a creare il potenziale che ci fornisce questo chiarimento. L'azione stessa può avere un effetto illuminante a posteriori. Abbiamo molti esempi di questo tipo. Informare non significa rivolgersi in astratto alla popolazione, che è una massa statistica astratta, ma piuttosto rivolgersi a determinati strati rilevanti, proprio come l'opposizione extraparlamentare si è sviluppata mobilitando prima gli studenti universitari, poi gli studenti delle scuole superiori e infine i giovani lavoratori.

[Habermas interviene di nuovo: "Signor Krahl, intendevo solo dire che un'azione dev'essere giustificata in modo tale che uno possa essere ragionevolmente convinto che essi..."]


Sì, naturalmente! Se chiedete un minimo di chiarimento, ossia che coloro che agiscono debbano essere a loro volta consapevoli di ciò contro cui agiscono, allora questo è stato completamente soddisfatto. Il minimo di informazione è stato dato. È sufficiente essere informati sui mezzi che un capo di Stato usa nel proprio Paese contro il proletariato (per esempio, i paracadutisti in Francia), informati sui mezzi con cui il prodotto alimentare di base di un Paese - il riso - viene mantenuto a un livello di prezzo difficilmente accessibile per i poveri, cioè i pescatori e i contadini del Paese. Abbiamo cercato, per quanto possibile, di dare questo minimo di informazioni nei nostri teach-in e inoltre di dire qualcosa sull'ideologia che Senghor rappresenta. Credo che questi minimum informativi, per quanto imperfetti, fossero giustificati proprio nel contesto di un'azione del genere, un'azione che non era finalizzata a una campagna precisa, ma era nell'insieme un'azione singola. Nessuno pretende che le autorità critiche scendano in piazza con noi e si uniscano al canto di Ho Chi Minh. Sicuramente, però, dovrebbero essere in grado di dedicare abbastanza tempo di lavoro da essere attivi non solo con le loro penne, ma anche nel contesto delle azioni, anche se solo con un ruolo di consulenza. E poi, signor Habermas, lei avrebbe potuto davvero - e questo è di nuovo il tipico argomento - dirlo prima e non ancora una volta post festum e a posteriori. Bisogna essere decisi a partecipare all'azione in modo organizzato, anche se questa partecipazione organizzata consiste solo nell'illuminazione preventiva. Altrimenti sarete esattamente quel tipo di intellettuale di cui parlava Max Horkheimer quando diceva che la critica è legittima solo se si decide di partecipare all'organizzazione e all'azione, ma che la critica borghese della lotta proletaria è un'impossibilità logica.

[La discussione termina con von Friedeburg che accusa Krahl di demagogia per questa citazione di Horkheimer.]

fonte: Critical Theory Working Group - for collective self-clarification without consolation

sabato 25 maggio 2024

Mia madre stappava le bottiglie stingendole tra le gambe !!

La gestione del rumore e del silenzio nella relazione tra Annie Ernaux e la madre: il volume della voce è un elemento di classe - le sorelle del padre sono socialmente elevate e ciò si riflette anche nel loro modo di parlare (voce bassa, gesti sobri); la madre è l'opposto: energica e rumorosa, «Tutto quello che faceva, lo faceva con frastuono. Non appoggiava gli oggetti, sembrava gettarli» (p. 29). Però, come avviene in una gradualità strutturalista, ben presto la lezione della madre viene rovesciata - bisognava stare zitti quando lei lavorava: «Appena sentiva baccano appariva, mi tirava uno schiaffo senza dire una parola e tornava a servire» (p. 31). Dopo l'infanzia, il binomio rumore/silenzio continua a essere operativo e decisivo: le madri delle sue compagne di classe piccolo-borghesi erano «magre» e «discrete»; «Mia madre mi sembrava appariscente», «Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare» (p. 37); subito dopo aver riflettuto su questa pignoleria, Ernaux coglie un dettaglio sapido: «Distoglievo lo sguardo quando stappava una bottiglia tenendola tra le gambe» (Non è solo la descrizione di una scena, ma la puntuale cristallizzazione di una reazione a una scena che, il lettore intuisce, si ripete da tempo immemorabile: una donna «brusca» che si sistema una bottiglia tra le gambe in modo da poter estrarre meglio il tappo, generando nella figlia la reazione di «distogliere lo sguardo»; come un rifiuto, una dis-identificazione). In tarda età, quando al termine di un periodo trascorso a casa della figlia la madre torna a vivere da sola, il rumore torna a essere protagonista, ricoprendo ora il ruolo di «accompagnatore»: «Il suo televisore era acceso fin dal mattino - a quell'ora non c'erano programmi, soltanto un po’ di musica e il monoscopio sullo schermo - e così rimaneva per tutto il giorno. Lei lo guardava appena, e di sera ci si addormentava davanti» (p. 50). Alla fine, l'unica cosa della madre che rimane è proprio il silenzio - lei non c'è più, non esiste, può solo venire «resuscitata» nella pagina silente del libro della figlia: «Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata.» (p. 61).

- Annie Ernaux, Una donna, L'Orma -

fonte: Um túnel no fim da luz

venerdì 24 maggio 2024

MARX ESSOTERICO E MARX ESOTERICO

Da un articolo di Helmut Reichelt « La figure marxienne du point culminant. Approche psychanalytique », Actuel Marx, n°12, Paris, PUF, 1992:

Negli anni Cinquanta il teorico marxista Roman Rosdolsky, autore del famoso "La genesi del capitale in Marx", è stato il primo a utilizzare questa distinzione tra un Marx essoterico e un Marx esoterico, poi utilizzata da diversi autori; in particolare nel 1977 dal sociologo tedesco Stefan Breuer, il quale aveva dei legami con la Scuola di Francoforte. Attualmente questo concetto viene utilizzato da vari marxologi al di fuori della Critica della dissociazione del valore, come Helmut Reichelt, Ingo Elbe e altri autori associati alla Neue Marx-Lektüre (Nuova lettura di Marx). Il teorico nordamericano Moishe Postone fa essenzialmente riferimento a tale distinzione, senza però fare ricorso a questi due termini. Nel contesto della Critica del valore, questa discussione sul "duplice Marx" è apparsa nei primi anni di Krisis, nel 1990-1991, in vari testi. È stata poi ripresa, in parte, in una recensione critica dell'opera Die Krise der Revolutionstheorie di Stefan Breuer, per poi svilupparsi in Krisis negli anni Novanta: Ernst Lohoff ha criticato Breuer nel numero 10 di Krisis e Robert Kurz è tornato sull'argomento nel numero 15 della rivista, adottando un approccio diverso, mediato dalla critica del soggetto e dalla "politica rivoluzionaria".

Kurz svilupperà e perfezionerà questa teoria del "duplice Marx" in tutta la sua opera, fino al suo ultimo libro, Geld Ohne Wert. Queste denominazioni di esoterico ed essoterico rimandano a un'antica tradizione filosofica, dal momento che, senza risalire all'antichità, si è sempre parlato di un Hegel esoterico e di un Hegel essoterico... Lo stesso Marx ha fatto ricorso a una simile distinzione già nella sua tesi di dottorato sulla "Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro". Come ha sottolineato Helmut Reichelt nel suo articolo, «allorché Marx parla dell'importanza della soggettività dei filosofi, egli si riferisce sempre simultaneamente a sé stesso: ciò che egli percepisce in un altro interlocutore vale anche per lui. [...] Il vero filosofo si caratterizza proprio a partire da una differenza sostanziale tra coscienza fenomenica e coscienza essenziale, tra essoterico ed esoterico» (p. 154-155). La vera teoria, scrive Marx, deve «distinguere in ciascun sistema quelle che sono le determinazioni essenziali, le autentiche cristallizzazioni permanenti, dalle dimostrazioni e le giustificazioni verbali dalla presentazione dei filosofi, sempre che essi conoscano sé stessi; deve distinguere il sapere veramente filosofico, quella talpa che è sempre segretamente e costantemente all'opera, dalla coscienza fenomenologica del soggetto loquace ed essoterico, che assume le più diverse pose, portavoce ed espressione delle evoluzioni di questo sapere» (Karl Marx, Œuvres, tome III: Philosophie, Gallimard, "La Pléiade", 1982, pag. 859 e Marx-Engels-Werke (MEW), Ergänzunsband, Schriften bis 1844, erster Teil, Berlin, 1974, p. 247).

Questa distinzione tra coscienza essoterica ed esoterica, tra conoscenza essenziale e conoscenza fenomenica, Marx la prende in prestito da Heinrich Heine, e Reichelt mostra che «quando rifiuta tale separazione nei confronti di sé stesso, ecco che allo stesso tempo ne respinge anche l'idea. [...] Marx si considera come se fosse un pensatore che si trova seduto nel punto più alto della storia del mondo, da dove ribvolge simultaneamente lo sguardo tanto all'avvenire quanto verso il passato. [...] Così, grazie a questo punto culminante dal quale si può prevedere la storia del mondo, Marx si identifica con il Grande Soggetto, che si tratti del soggetto della specie o di quello della classe operaia, in ogni caso in un super-individuo che, in quanto portatore di un sapere assolutamente cristallino, non solo si trova in possesso di una conoscenza assoluta, ma, in quanto universale, sfugge ai limiti dell'individualità: in questo identificarsi con l'universale, l'eterno e l'immortale, sembra essere garantita anche la sicurezza così tanto agognata. Da questo punto culminante, quello del sapere assoluto, si prospettano, attraverso una serie di tappe successive, le diverse versioni dell'intrecciarsi del sapere essenziale con quello fenomenico, che emergeranno nella loro chiarezza complessiva solo alla fine della storia» (Helmut Reichelt, "La figure marxienne du point culminant. Un approccio psicoanalitico", op. cit. pp. 168-169). 

Reichelt conclude dicendo che, sebbene Marx non abbia mai rinunciato del tutto al proprio intento dialettico, «non ha mai tentato di precisare per iscritto la sua concezione della dialettica. Possiamo pertanto sospettare che egli si sia tirato indietro per il timore di non riuscire a trovare il proprio intreccio di coscienza essoterica ed esoterica» (Ibid., p. 170).

fonte: @Palim Psao

giovedì 23 maggio 2024

Kafka alla lettera ?!!???

Questa edizione di "Un medico di campagna", folgorante e visionaria raccolta di racconti apparsa per la prima volta nel 1919, offre un'anticipazione di quella che, a partire dalla ricorrenza del centenario della morte dell'autore, sarà la nuova edizione integrale in cinque volumi, diretta da Luca Crescenzi, delle opere, dei diari e delle lettere di Franz Kafka (1883-1924) nei «Meridiani». Un'impresa alla quale parteciperanno alcuni fra i maggiori studiosi e traduttori dell'opera di Kafka, e che intende idealmente ricollegarsi a quella, in gran parte dovuta alla perizia traduttiva di Ervino Pocar - con collaboratori d'eccezione come Remo Cantoni e Ferruccio Masini -, realizzata nella medesima collana fra il 1969 e il 1988. La ricerca su Kafka ha assunto dimensioni colossali e ha dato spazio a una Babele di approcci critici dagli esiti assai diversi, di cui tuttavia le attuali edizioni critiche e commentate, compresa quella assai nota pubblicata dall'editore Fischer a partire dai primi anni Ottanta, non rendono conto che in minima parte. Un commento innovativo ha il compito di sintetizzare ed enucleare i contributi più significativi per un inquadramento ragionato dei testi e della loro ricezione nel corso del tempo, pur nella consapevolezza che la selezione di tali contributi deriva necessariamente dalla prospettiva che si intende adottare, al fine di proporre una lettura consapevole e demistificata che restituisca in toto quella visione radicalmente critica delle cose che è la cifra più grande e più saldamente attuale di un autore come Kafka. L'obiettivo fondamentale della nuova edizione che da qui prende avvio è quello di agevolare l'orientamento del lettore all'interno di un'opera composita, costituita da scritti editi e inediti, testi compiuti e frammenti, aforismi, abbozzi e, come mostrano i diari, infiniti spunti e tentativi poetici e poetologici geniali, che istituiscono tra di loro una fitta rete di rimandi assai difficili da ricostruire. L'intento è di rendere perspicue le variazioni, le affinità, le contrapposizioni concettuali e le linee di continuità genetica fra le immagini, i motivi, le strutture formali e persino le soluzioni grammaticali e sintattiche di cui si sostanzia la scrittura kafkiana. Di assoluto rilievo anche le nuove traduzioni, che verranno condotte - fin dove possibile e con poche eccezioni - sui manoscritti conservati presso la Bodleian Library di Oxford, il Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar e la Biblioteca Nazionale Israeliana di Gerusalemme, e presso un numero relativamente ristretto di collezionisti privati.

(dal risvolto di copertina di: FRANZ KAFKA, "Un medico di campagna". Cura e traduzione di Luca Crescenzi. I MERIDIANI MONDADORI. Pagine 192, €20)

C’era un insetto nel letto prima della Metamorfosi
- Un volume in uscita e altri cinque nei prossimi dieci anni, il progetto dei Meridiani affidato al germanista Luca Crescenzi abbraccerà tutta l’opera, culminando con i romanzi -
di  Cristina Taglietti

Sottrarre Franz Kafka al suo mito, liberarlo dalle zavorre di quella che Milan Kundera definiva la kafkologia per leggerlo nella sua compattezza, come uno scrittore che dialoga con la cultura e con il mondo che ha intorno. L’operazione dei Meridiani diretti da Alessandro Piperno su un autore che in vita ha pubblicato così poco e da morto ha prodotto così tanto, può essere sintetizzata in pochi numeri: 5 volumi in 10 anni, a coprire un lasso di tempo compreso tra il centenario della morte, nel 2024, e il centocinquantenario della nascita, nel 2033. Più un volume singolo, in uscita il 28 novembre, una sorta di anticipazione (poi confluirà nei Racconti), che dà il senso e gli strumenti di tutta l’operazione: l’edizione commentata di Un medico di campagna, una delle tre opere edite mentre Kafka era ancora in vita, nel 1919. Una grande squadra di studiosi e traduttori, diretta dal germanista Luca Crescenzi, per quello che Piperno definisce «un grande investimento emotivo, economico, editoriale». L’opera andrà a sostituire l’edizione già esistente, in cinque volumi, dei Meridiani, iniziata nel 1969, agli albori della collana mondadoriana, a cura di Ervino Pocar.

Un’operazione necessaria, spiega Piperno, «intanto perché c’è una cesura tra i Meridiani d’antan, degli inizi, che avevano una struttura succinta, dove il materiale paratestuale era di servizio, e quelli poi usciti con la direzione di Renata Colorni in cui la cronologia, l’introduzione, l’informazione sui testi, le note ricoprono una funzione molto più importante. Tornare su volumi che esistono già con questo nuovo modo di lavorare, è importante». Lo è per un autore centrale come Kafka, anche perché negli ultimi anni in Germania sono usciti molti testi: «Con Luca Crescenzi ci siamo trovati sull’idea di provare a togliere a Kafka quell’aura di mistico, di grande profeta — continua Piperno — per restituirgli la sua essenza di uno dei massimi, se non il massimo, scrittore del Novecento, per affrontarlo non più con i toni oracolari che hanno caratterizzato anche critici e collane importanti, ma con un atteggiamento razionale e laico. Per esempio ricordando il fatto che oltre ad essere un grande scrittore modernista è anche un grande scrittore comico».

Si tratta pure di togliergli quella patina di uomo illibato, di santo, che un po’ gli è stata cucita addosso soprattutto da Max Brod, «per ricordare che Kafka era un uomo incline anche ai piaceri, soprattutto dell’arte della scrittura. Dai suoi diari per esempio si evince la devozione a Gustave Flaubert, e quindi al mito dello scrittore a tempo pieno e a tutto tondo».

Le opere avranno nuove traduzioni, «aspetto fondamentale — dice Piperno — a cui si affianca tutta la parte paratestuale, a cominciare dalla cronologia. Negli ultimi anni sono uscite biografie fondamentali di Kafka, quindi si può fare un lavoro molto più completo, più ricco. Il mio sogno è che, un po’ come è successo con la Recherche, questa diventi l’edizione di riferimento. I Meridiani, per avere un senso, devono candidarsi a questa funzione. Crescenzi, che ha un atteggiamento marziale nel suo lavoro, mi ha promesso che se tutto va bene l’operazione dovrebbe avere una cadenza precisa: ogni due anni e mezzo circa, un volume». I romanzi saranno l’esito finale di questo lungo itinerario: «Mi piaceva il fatto di costruire, è una mia ossessione, quest’opera come la storia di una vocazione. Per questo è interessante partire dall’inizio, la sequenza dovrebbe essere: Diari, Racconti, Lettere, Romanzi». Normalmente, quando ci si accosta a lavori di questo tipo, si inizia dalle opere maggiori per arrivare alle minori: «Con questa scelta — replica Piperno — noi abbiamo deciso due cose. Non esistono opere minori in Kafka. E vogliamo consentire al lettore di arrivare ai romanzi con una grande consapevolezza». Compattezza dell’opera, filologia rigorosa, commento, interpretazioni sono le parole chiave dei nuovi Meridiani: «Negli ultimi anni s’è fatta strada nell’editoria l’illusione di poter offrire al lettore un Kafka tutto nuovo perché basato su scelte filologiche più accurate, su traduzioni più precise o su presunti materiali “inediti”. In realtà nessun nuovo Kafka può prender forma in questo modo», spiega Luca Crescenzi. «I manoscritti di Kafka sono alla Bodleian di Oxford, all’Archivio di Marbach in Germania, alla biblioteca nazionale di Gerusalemme. Intanto ci siamo presi la briga di riscontrare tutti i testi, ci siamo dati criteri di traduzione estremamente letterali, fedeli, cercando di essere tuttavia leggibili, gradevoli». Su questo punto ci sono state diverse novità negli ultimi anni: «È stata studiata la lingua di Kafka con tutti gli influssi praghesi e quindi certi termini che sembrano ovvi, invece, hanno usi diversi. Vorremmo portare alla luce cose finora non note, a partire dai diari. Come sono fatti i diari di Kafka? Sono in un certo senso quaderni di brutta in cui lo scrittore annota aspetti della sua vita trasformandola già in racconto: prova racconti, inizi, soluzioni. È una lettura molto affascinante, finora praticamente ignota». Quest’anno, in previsione del centenario della morte, c’è stata una grande produzione di nuove traduzioni. «Il tratto distintivo di quest’opera — aggiunge Crescenzi — è di voler procedere in modo genetico. Diari e Racconti appariranno uno dopo l’altro in un ordine che dipenderà molto da quello che si riuscirà a fare perché i Diari sono apparsi soltanto per metà e adesso bisogna riscontrarli tutti sui manoscritti, mentre per i Racconti il lavoro è relativamente più facile, ma vanno ordinati in un modo diverso rispetto a come è stato fatto in passato. I testi sono stati studiati in maniera filologicamente perfetta anche perché nell’edizione critica più elaborata sono stati riprodotti in fotografia».

Se la filologia non può illuminare l’opera di Kafka più di quanto abbia già illuminato, un grande lavoro può essere fatto sul commento. «Finora tutta la ricerca si è negata la possibilità di commentare contenutisticamente i testi — dice Crescenzi — ritenendo che ci fossero troppe interpretazioni. Il famoso saggio di Susan Sontag negava addirittura in linea di principio che Kafka sia interpretabile. Però è una scelta al ribasso, perché questa ricerca ha prodotto spesso capolavori. Cito in Italia il saggio di Giuliano Baioni, solo per fare un esempio. Noi, oltre a dare indicazioni sul modo in cui Kafka procede nella sua scrittura, riprenderemo questa letteratura su Kafka, almeno alcuni saggi particolarmente significativi, per spiegare che cosa di importante contengono». Il modo di procedere di Crescenzi e della sua squadra di studiosi è evidente già nella raccolta Un medico di campagna, dove si notano i tre criteri di analisi adottati: «Dare le notizie filologiche essenziali; fornire indicazioni sulla ricerca; ricostruire il filo dei motivi narrativi che, passando di opera in opera, mutano, generano grandi temi o invenzioni e diventano la chiave d’accesso all’opera di Kafka, cosa che aveva già notato Walter Benjamin nel suo saggio del 1934», avverte Crescenzi. Su quest’ultimo punto lo studioso fa un piccolo esempio molto chiaro: «In un racconto del 1906, Preparativi di nozze in campagna, il protagonista non vuole andare a questo matrimonio e, passando davanti alla sua camera da letto, pensa a come sarebbe bello restarsene sotto le coperte come un insetto. Passano sei anni e diventa il tema della Metamorfosi. Questo fa capire come Kafka coltivi i suoi motivi per anni e lentamente questi, per variazioni successive, producono invenzioni».

Che cosa ci dirà di nuovo questa grande opera sulla figura di Kafka scrittore? «Kafka è stato sottoposto a tante interpretazione: teologiche, religiose, allegoriche, esistenziali, psicologiche. Al fondo è sempre rimasta la convinzione che sia così oscuro, così ermetico da non essere analizzabile. Anche interpretazioni raffinatissime si sono spesso arrese di fronte a certe oscurità e il tipico salvataggio era: qui Kafka ironizza, oppure fa dell’assurdo. D’altronde, quando noi diciamo che una certa situazione è kafkiana vogliamo dire che è connotata da un’energia così negativa o paradossale che non ci aspetteremmo dalla realtà. Tutti escamotage per non dire che Kafka deve essere preso alla lettera. Tutte le interpretazioni metaforiche, allegoriche, per quanto suggestive, si scontrano con l’evidenza che Kafka intende sé stesso come un autore che rappresenta una realtà complessa, anche spaventosa. Questa apparente confusione ha a che fare con la possibilità, che solo nella letteratura è data, di gettare sulla realtà una maschera più significativa, che non si limita a rappresentarla, ma le dà una forma diversa. Che dice qualcosa di più profondo che altrimenti non vedremmo».

- Cristina Taglietti - Pubblicato su La Lettura del 19/11/2023 -