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sabato 30 maggio 2020

Malfattori!!

Fine Ottocento. Una storia che si dipana tra Pisa, Milano, Lugano, Livorno, Rosignano, l’Isola d’Elba, ma anche l’America, sulle tracce di una celebre canzone che dà il titolo al libro, e del suo autore, Pietro Gori: un avvocato, un poeta, un anarchico «socialmente pericoloso», che si trova a vivere una delle stagioni più tormentate della nazione. Un’epoca in cui l’antropologia criminale di Cesare Lombroso – col consenso di psichiatri, giuristi e funzionari di polizia – aveva il compito di costruire una sistematica rete di controllo per ogni tipo di devianza, anche la devianza politica. E soprattutto quella che proclamava patria «il mondo intero» e unica legge la libertà.
«Il libro prende spunto da questa canzone e dall’immagine che gli fa da sfondo: una fredda e nevosa sera d’inverno a Lugano, dove s’intravede in strada un drappello di uomini ammanettati e avvolti nei loro mantelli neri che procedono in fila, stretti l’uno all’altro, a passo spedito. Ad accompagnarli c’è un gruppo di agenti di polizia. Il loro compito è di scortarli fino alla stazione ferroviaria, e da lì controllare che salgano sul treno diretto a nord, a Basilea, al confine con la frontiera tedesca. E che nessuno di loro abbia la malaugurata idea di tornare indietro. Arrestati e sbattuti in carcere come malfattori, su di loro pende come unica accusa quella di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili: una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città. Sono italiani, in gran parte giovani, dei quali non resteranno che un nome e un cognome, senza anima né corpo. Tranne di uno, nato a Messina ma da padre e madre toscani, che da alcuni anni è personalità di rilievo, non ancora trentenne ma già segnalato per la sua pericolosità di agitatore nei dispacci delle prefetture d’Italia e Francia. È Pietro Gori, anarchico, conferenziere di grido, dirigente politico ma anche poeta e drammaturgo, penalista e sociologo. Ed è proprio mentre è rinchiuso nelle carceri ticinesi, alla fine di gennaio del 1895, che compone una delle sue canzoni più celebri: Il canto degli anarchici espulsi, meglio nota come Addio Lugano bella».

(dal risvolto di copertina di: Massimo Bucciantini, "Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani". Einaudi)

L'anarchia a suon di musica
- Storia e retroscena della famosa "Addio Lugano bella" -
- di Massimo Bucciantini -

In via Luigi Lavizzari, a Lugano, è raffigurato un uomo in bicicletta. Te lo trovi di fronte all'improvviso, grande e grosso, in gilet, pantaloni e cappello neri, su una bici piccola piccola. Con la mano sinistra poggiata sul manubrio e l'altra che tiene tra le dita una sigaretta accesa, Pietro è intento a pedalare. Ma la luce che fuoriesce dai fanali non illumina la strada. È un raggio di colore rosso che segue una strana traiettoria ondulatoria che finisce per accecarlo. Il ciclista se ne sta andando, sta lasciando la città, ma il suo cammino è cieco. Ovviamente, quel Pietro non è un Pietro qualunque. Anche dalla sua fisionomia, la somiglianza appare subito evidente. Nonostante Agostino Iacurci - l'artista foggiano che nel 2012 lo ha dipinto - preferisca non rivelare troppi dettagli, alla fine, è costretto ad ammettere che in «Pietro non torna indietro c'è Pietro Gori», l'autore di "Addio Lugano bella".
Cantata fin dai primi del Novecento, è stata riscoperta nel secondo Dopoguerra, tanto da diventare uno dei pezzi più noti del repertorio di tanti cantautori nostrani. Per rendersene conto è sufficiente scorrere la voce in Wikipedia, che comprende un elenco delle incisioni e interpretazioni più famose: da Giovanna Marini e Francesco De Gregori a Daniele Sepe, da Caterina Bueno a Maria Carte, da Milva ai 99 Posse a Vinicio Capossela, e una notissima canzone di Ivan Graziani, dove viene citata. Da non perdere poi il video vintage di cinque distintissimi signori in abito scuro, giacca e cravatta, che comodamente seduti su divani e poltrone e accompagnati dalle loro chitarre intonano quei versi rivoluzionari. Al centro della scena si riconosce un Giorgio Gaber giovanissimo, e accanto a lui un quasi irriconoscibile Enzo Jannacci, insieme a Lino Toffolo, Otello Profazio e Silverio Pisu. Erano i primi anni Sessanta, quando i cantautori non si chiamavano ancora cantautori e quando la canzone di protesta non era ancora diventata di moda. Poco meno di un decennio più tardi sarà uno dei protagonisti di quella felice stagione musicale a richiamarne stilemi e moduli. E lo avrebbe fatto cantando le gesta di un macchinista ferroviere che tutti i giorni vedeva passare per la sua stazione «un treno di lusso», «un treno pieno di signori». La locomotiva è stata scritta «alla maniera di Pietro Gori», ha detto Francesco Guccini, rendendo così omaggio all'autore di "Addio Lugano bella". E non gli occorse molto tempo. In poco più di mezz'ora il testo era già pronto.
Il libro prende spunto da questa canzone e dall'immagine che gli fa da sfondo: una fredda e nevosa sera d'inverno a Lugano, dove si intravvede in strada un drappello di uomini ammanettati e avvolti nei loro mantelli neri che procedono in fila, stretti l'uno all'altro, a passo spedito. Ad accompagnarli c'è un gruppo di agenti di polizia. Il loro compito è di scortarli fino alla stazione ferroviaria, e da lì controllare che salgano sul treno diretto a Nord, a Basilea, al confine con la frontiera tedesca. E che nessuno di loro abbia la malaugurata intenzione di tornare indietro. Arrestati e sbattuti in carcere come malfattori, su di loro pende come unica accusa quella di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili: una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città. Sono italiani, in gran parte giovani, dei quali non resterà che un nome e un cognome, senza anima né corpo. Tranne di uno, nato a Messina ma da padre e madre toscani, che da alcuni anni è personalità di rilievo, non ancora trentenne ma già segnalato per la sua pericolosità di agitatore nei dispacci delle prefetture d'Italia e Francia. È Pietro Gori, anarchico, conferenziere di grido, dirigente politico ma anche poeta e drammaturgo, penalista e sociologo. Ed è proprio mentre è rinchiuso nelle carceri ticinesi, alla fine di gennaio del 1895, che compone una delle sue canzoni più celebri: "Il canto degli anarchici espulsi", meglio nota come "Addio Lugano bella".
Il libro narra le vicende della sua vita, che condussero alla creazione di quella canzone, e al tempo stesso intendono ricostruire una delle stagioni più tormentate e drammatiche della nazione. Inseguire le storie di una generazione di intransigenti in un periodo segnato da una grave crisi economica e da forti conflitti sociali, da scioperi e scontri di piazza, da attentati terroristici e leggi liberticide, sarà un degli scopi di questo lavoro. Ed è anche un modo per tornare a riflettere sulle passioni che li animavano, così come sulle loro illusioni e sconfitte. Ma c'è dell'altro. A un certo punto il lettore forse si sorprenderà di incontrare vite che a prima vista sembrano appartenere a mondi separati - quello della politica e quello della scienza - ma che invece, a ben guardare, finiscono per lambirsi e a volte, come in questo caso, incrociarsi.
Già all'indomani dell'Unità i governi del nascente Stato italiano si erano dati il compito di tracciare nuovi confini tra legalità e sovversione. E non potevano certo assomigliare a quelli assai mobili e incerti presenti durante la lotta per l'indipendenza contro la nemica Austria o quelli dell'epoca garibaldina. Il motivo è semplice: il quadro da allora era cambiato radicalmente. Un nuovo ordine si stava costruendo. Zone di turbolenza e di degenerazione non erano più tollerate, tanto da mettere a rischio le normali regole della convivenza civile e da essere da ostacolo alla fondazione della nazione. All'interno di queste nuove coordinate, spettò a una nuova scienza delineare altre linee di demarcazione. Una scienza - e va subito detto - che non si dimostrò tale, fondata da scienziati che alla fine si rivelarono anch'essi pericolosi perché costruttori di stereotipi di successo più che di teorie scientifiche provate sperimentalmente. Ma che a lungo esercitarono un grande fascino. Per la loro capacità di segnare frontiere invalicabili tra comportamenti giudicati conformi ai nuovi vincoli giuridici e sociali e modi di agire e di pensare ritenuti eccentrici e manifestatamente assurdi. Per la loro capacità di separare biologicamente i buoni dai cattivi, i delinquenti nati o d’occasione, i ribelli fanatici, i pazzi, i semipazzi da uomini e donne dalla condotta morale e sociale segnata da abitudini, tendenze, passioni, pensieri comunemente accettati.
L'antropologia criminale di Cesare Lombroso e della sua «eletta» scuola di medici, psichiatri, giuristi, sociologi ebbe il compito di disegnare queste barriere difensive. Molte di queste vennero fatte proprie da una fitta schiera di governanti e funzionari dello Stato, di magistrati, prefetti, questori che si prodigò a costruire una sistematica rete di controllo e di repressione per ogni tipo di devianza. Rispetto alla parte della società abitata da menti e comportamenti normalmente organizzati, la nuova scienza lombrosiana si occupò dell'altra parte, della società malata, catalogando e classificando un vastissimo campionario delle umane degenerazioni. O considerate tali. Tra le quali rientrò anche il «morbo» anarchico, che colpiva i «malfattori» di nuovo conio, i refrattari ai valori attorno a cui la società borghese stava prendendo forma e che trovavano nelle idee di una rivoluzione sociale il loro nutrimento e la loro ragione di esistere. Sono loro i nuovi barbari, come vennero chiamati. Socialmente pericolosi, com'era appunto Pietro Gori, il cui nome finirà in un album fotografico di oltre duecento anarchici ricercati in tutti i Paesi d'Europa: un antagonista dell'ordine costituito, un ribelle irriducibile e sentimentale che in tutta la sua vita non si accontentò mai del «cattivo presente».

- Massimo Bucciantini - Pubblicato sul Sole del 24/5/2020 -

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