Orson Welles
di Tullio Kezich
Se la professione di genio comporta notevoli difficoltà, come dimostra l'esistenza testé conclusa di Orson Welles, la condizione di contemporanei del genio non è indenne da rischi. Per esempio quello di chiedersi, accanto al tumulo dell'artista: abbiamo davvero fatto tutto ciò che si poteva per essere all'altezza di un simile interlocutore? Oppure abbiamo troppo spesso privilegiato l'ombra sulla sostanza, la chiacchiera sull'opera, il pettegolezzo sulla realtà?
Sotto i riflettori del successo fin da ragazzo, Welles è subito diventato uno dei grandi dimenticati della storia del cinema. Come von Stroheim, al quale nell'ultimo quarto di secolo della vita non fu più dato di dirigere un film. Come Buster Keaton, che vedemmo precipitare dall'olimpo hollywoodiano in un varietà in corso Buenos Aires a Milano. Come Carl Th. Dreyer, che si vide respingere il Gesù perfino dalla Rai. La filmografia orsoniana include film incompleti (da It's All True a Don Quixote, da Dead Reckoning a The Other Side of the Wind) e numerosi altri film che gli furono tolti di mano e montati contro la sua volontà. Si dice che fosse intrattabile, impossibile, inaffidabile. Le compagnie non lo assicuravano più; e in assenza della garanzia di buon fine, nemmeno come attore poteva affrontare impegni lunghi, solo partecipazioni e "cameo". Talvolta gustosi, più spesso indegni.
Eppure Welles si dichiarava sempre disposto a vendere la propria immagine al miglior offerente per finanziare i film lasciati a metà anche se la vicenda artistica degli ultimi due o tre lustri non fu per lui gratificante. Intanto si susseguivano saggi e monografie da formare un'intera biblioteca, rassegne dei suoi film in ogni parte del mondo, premi innumerevoli: tutte cose che non lo interessavano più. Due anni fa, per venire a ritirare il Premio Visconti assegnatogli dai critici italiani, chiese una cifra enorme: non gliela diedero e non venne. Il nostro fu uno dei primi Paesi dove il "genius" fu risospinto dall'ostracismo americano frutto di un'azione combinata della stampa Hearst (il magnate non gli perdonò mai la presunta parodia di Citizen Kane, senza capire che era anche un omaggio), dei produttori irritati, dell'ufficio delle tasse e del nascente maccartismo che gli rimproverava un passato rooseveltiano. Con l'Italia strinse vincoli profondi: qui trovò una nuova moglie, diventò cliente ingordo della Cesarina e serafico abitatore della Pineta di Fregene. Si mormora che lasciò debiti ovunque, ma, se autentico, questo tratto non farebbe che confermare la dimensione regale del personaggio. Lo guardavamo con interesse, divertimento e curiosità.
Ma all'origine del suo rapporto con gli italiani c'era stato qualche equivoco, qualche fraintendimento. Dovuto al fatto, prima di tutto, che quando nei primi mesi del '41 Citizen Kane aveva fatto sobbalzare l'America, noi eravamo già tagliati fuori dalla guerra. Sicché il film, come ricorda Pietro Bianchi in "L'occhio di vetro", uscì a Milano nel luglio '49, "per soli tre giorni, in piena canicola". E quando anch'io protestai per l' analogo trattamento subito da "Quarto potere" a Trieste, l'agente della Rko mi rispose stupito: "Ma è un ferialone" (intendendo un film da smaltire nei giorni feriali, non adatto ai pingui incassi di fine settimana).
Ufficialmente considerato come la data di nascita del cinema moderno e universalmente piazzato nelle primissime posizioni in tutti gli elenchi dei migliori d'ogni tempo (a Bruxelles nell' agosto '78 fu addirittura proclamato il più bel film americano su 2327 concorrenti), il capolavoro di Welles da noi arrivò nel mucchio. Forse anche per questo il primo incontro fra Welles e la stampa italiana, che ricordo benissimo alla Mostra di Venezia del '48, fu piuttosto uno scontro. Il regista non capiva ancora la lingua e forse conservava qualche pregiudizio elisabettiano sulla patria di Machiavelli. Più tardi leggemmo che Sciuscià era uno dei suoi film preferiti, ma allora si guardò bene dal dirlo. Nell'anno di "Ladri di biciclette" e di "La terra trema", lui che presentava alla Mostra un Macbeth iperteatrale si dilungò a esaltare come unico possibile il cinema fatto in studio, con attori professionisti e copione di ferro. A chi lo contraddiceva diede risposte secche e quasi sgarbate, mettendo in imbarazzo Luigi Barzini jr che traduceva. A chi gli chiese un'opinione su "Anime ferite" di Dmytryk, delicato film sui reduci allora da noi prediletto, rispose con un ringhio di scherno. Si sentì circondato dall'antipatia, o per lo meno dall'incomprensione e, avendo capito che i favori andavano all'Amleto di Olivier, ritirò addirittura il suo film dal concorso. Tutt'altra atmosfera si respirò, ancora a Venezia, e a tu per tu con Orson Welles, nel settembre '51. Non che il clima fosse tranquillo, anzi la mancata proiezione dell'annunciato Otello aveva addirittura provocato un'aggressione al direttore Petrucci da parte di uno spettatore deluso sulle scalinate del Palazzo con intervento dei carabinieri. Ma quando Welles si presentò sul palcoscenico a spiegare le sue ragioni, non era più l'uomo di tre anni prima. Anche fisicamente era cambiato: più grosso, il viso un po' paonazzo, una disponibilità da "showman" al posto della grinta. Aveva perfino imparato l'italiano: si esprimeva con cura, come chi ha studiato una lingua assimilando i classici. "Gli altri cineasti vanno avanti" esordì "e io solo resto fermo. Perché?". Ci parlò dei guai passati con il film, si scusò di non averne ancora una copia presentabile. Un giornalista britannico gli suggerì di fare la proiezione a porte chiuse, dietro la promessa dei giornalisti di non parlarne. "In questo caso sareste dei cattivi giornalisti" ribatté deciso. "Fra qualche settimana Otello sarà pronto, allora potrete dirne ciò che vi pare. Ma per ora io ho ancora questa fortezza". E disegnò nell'aria, con un ampio gesto, un muro invisibile fra noi e lui, attraverso il quale ci guardò col sorriso ambiguo di Harry Lime.
Ho spesso pensato a quella "fortezza" di Orson Welles e a quanto ci abbiamo messo per penetrare nella sua cittadella di creatore d'immagini. Ci ho ripensato anche poche settimane fa, assistendo su RaiTre con infinita ammirazione al suo critofilm "Filmando Otello". Dove invecchiato ma non bolso, lucidissimo, acuto come può esserlo un grande critico letterario, Orson parlava con i suoi attori, con gli studenti di un college, con noi che stavamo a casa, di che cosa significa mettere in scena Shakespeare. E, nel tratto, il vecchio filibustiere, vera schiuma dei sette mari cinematografici, scopriva la qualità del ragazzo prodigio che era stato. In una specie di sovrapposizione dei due protagonisti di L'isola del tesoro, vedevamo il pirata Silver come se in mezzo al faccione barbuto gli fossero stati trapiantati gli occhi incantati del fanciullo Jim Hawkins. "Filmando Otello" dovrebbe diventare un libro di testo in ogni scuola di cinema. Vi si imparano cose a non finire su Shakespeare come pietra angolare di ogni educazione teatrale, sulla moderna fatalità di tradurre le idee in fatti visivi ed eventi drammatici sul "primato della prima persona" (attore, autore, demiurgo) che è la chiave della personalità di Welles. Insomma il testamento poetico di colui che è stato, oltre che un sublime "performer", uno fra i massimi scienziati dello spettacolo moderno. Con un paradossale risvolto di umiltà, quando affermava: "Ci sono infiniti Otelli nell'Otello di Shakespeare e nessuno di noi potrà mai presumere di inscenarli tutti".
- Tullio Kezich - da “la Repubblica”, 12 ottobre 1985 -
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