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martedì 29 aprile 2025

Spiritismi…

«Tutto ciò che lo riguardava, poteva sempre avere un doppio significato, poteva essere vero e falso allo stesso tempo. Era come un personaggio di Shakespeare: un ambivalente e un inaffidabile. Un traditore, probabilmente, nel senso che un doppiogiochista non può non essere un traditore. Forse era questa la vera modernità del suo personaggio» (Alan Pauls)

Malgrado il perentorio verdetto sulla ciarlataneria, emesso nelle relazioni ufficiali dagli uomini di scienza a proposito degli intermediari tra il mondo dei vivi e quello dei morti, lo Spiritismo, fino al primo decennio del XX secolo, ha avuto degli adepti, e persino l'appoggio della stampa. Leskov, lo ha sempre visto come se esso fosse solo una fra le tante forme di misticismo. Dev'essergli molto piaciuto quel passo di William Shakespeare, nell'Enrico IV, in cui due personaggi dialogano tra di loro: « - "Io posso invocare gli spiriti dell'abisso". - "E anch'io posso farlo, chiunque può farlo, l'unica questione è se verranno."» Così, "Lo spirito della signora Genlis" - un racconto pubblicato da Nikolai Leskov nel 1882 - reca come epigrafe una frase di Antoine Augustin Calmet: «A volte, è più facile invocare uno spirito, che liberarsene». La frase è abbastanza appropriata al tono ironico della narrazione, la quale ha come sottotitolo: "un caso di spiritismo". Il narratore ci informa che la storia si svolge in un inverno del 1860, al culmine di quella che viene ricordata come la "febbre dei tavoli rotanti" e di altri fenomeni simili. A questo punto, possiamo ricordare anche la citazione relativa a quel che dice Kittler circa il rapporto che Balzac e Poe avevano con la fotografia; la quale, proprio in quello stesso periodo, stava attraversando un forte rinnovamento, e veniva pertanto messa al centro della curiosità relativa al soprannaturale: «Balzac, con le sue tendenze mistiche, non poteva non immaginare l'essere umano come se fosse un essere costituito da molti strati ottici - come una cipolla - da quali ogni fotografia rimuoveva e archiviava lo strato superiore, staccandolo così dalla persona fotografata». È possibile ricordare anche Mesmer, insieme a tutte le possibili relazioni tra Mesmer, Freud e Charcot. Ma l'elemento che conferisce eccezionalità al racconto di Leskov, consisteva nel fatto che lo spirito della signora Genlis (personaggio storico: scrittrice ed educatrice francese nata nel 1746 e morta nel 1830) si manifestasse attraverso i suoi libri (non metaforicamente, ma materialmente: lo spirito risiedeva proprio in quei "libretti blu" che la principessa russa, con la quale il narratore di Leskov entra in contatto, conserva nella propria libreria. Ed è proprio la principessa che, tra le altre cose, spiega che: «sono convinta che il delicato fluido di Félicité, abbia scelto per sé un posticino ameno, proprio sotto il marocchino felice che abbraccia le foglie su cui i suoi pensieri hanno dormito, e se non siete totalmente increduli, spero che allora riuscirete a capirlo». (da Leskov: "Um pequeno engano e outras histórias", trad. Noé Polli, Ed. 34, 2024, p. 9).

Sempre nel "caso di spiritismo" di Leskov, ciò che attira subito l'attenzione è che si tratta di una narrazione incentrata proprio sull'attività della lettura: la principessa,  ogni volta che ha bisogno di una risposta, o di una direzione per la vita,  fa ricorso alle opere della signora Genlis; azione che lei consiglia anche ad altri, come, ad esempio, fa col narratore (ed è proprio a questo punto specifico - quello in cui il futuro della vita viene cercato nella lettura di un frammento testuale scelto a caso - che Leskov trova un'eco latinoamericana in "Prigione perpetua", di Ricardo Piglia, dove vediamo un personaggio che consulta l'I-Ching per sapere se egli ha bisogno di consultare l'I-Ching). La procedura viene messa in atto e funziona un paio di volte: quel che avviene è che, quando un personaggio va verso i libri, ne prende uno e lo apre a caso, ecco che viene fuori una frase la quale, con un bel po' di buona volontà, finisce per servire alla situazione. Il punto centrale del racconto, però, risiede invece proprio nel momento in cui la procedura non funziona: la figlia della principessa, una cosiddetta innocente, sempre molto protetta e tenuta in casa, viene chiamata a dimostrare l'affidabilità della procedura. Il passaggio che le capita, però, non è affatto innocente: si tratta di un estratto dalle memorie della signora Genlis, nel quale lei descrive il suo incontro con uno storico (1737-1794), noto per la sua grassezza:
«Gibbon è piccolo di statura, straordinariamente grasso e ha un viso molto ammirevole. In questo non mi è stato possibile distinguere alcuna traccia. Non si vedeva un naso, non si vedevano gli occhi, non si vedeva la bocca; Due guance unte, grasse, simili a chissà che cosa diavolo, assorbivano tutto... Erano talmente gonfi da essersi allontanati da qualsiasi senso di proporzionalità minimamente dignitosa nei confronti delle guance più grandi del mondo; Chiunque le abbia viste dovrebbe chiedersi: perché questa cosa non è stata messa al suo posto? Se potessi, caratterizzerei il volto di Gibbon con una sola parola, se solo potessi dirla, una parola del genere. Il duca di Losanna, che era intimo di Gibbon, una volta lo condusse a casa di Madame Dudeffand. La signora era già cieca e aveva l'abitudine di palpeggiare con le mani i volti dei personaggi illustri che le venivano presentati. In questo modo, ella acquisiva un'idea molto fedele dei tratti della nuova conoscenza. Volle applicare lo stesso metodo tattile a Gibbon, e questa fu una vergogna. L'inglese si avvicinò alla poltrona e con tutta bontà offrì il suo viso ammirevole al tocco della padrona di casa. La signora Dudeffand gli tese le mani e passò le dita su quel viso sferico. Stava cercando intensamente qualcosa su cui fermarsi, ma non era possibile. Allora il viso della signora cieca espresse prima stupore, poi rabbia, e infine, ritirando bruscamente le mani per il disgusto, gridò: "Che scherzo infame!"» (pagg. 21-22)

Così, il momento in cui l'anziana cieca percorre con le mani il viso di Gibbon, diventa il culmine del racconto di Leskov: il momento delle risate e dell'umorismo (indubbiamente, una dimensione di quella "incontinenza" meticolosamente pensata da Leskov: le risate si scatenarono allo stesso modo in cui potrebbe fare la merda su un viso che sembra un ano) e, inoltre, costituisce anche il momento in cui la credenza nel soprannaturale da parte della principessa crolla: la signora Genlis ha fallito, non le è stato offerto quell'oracolo che avrebbe voluto. Tutta la scena è allo stesso tempo anche una lezione di umiltà; simile a quella che Montaigne traccia nel suo saggio sull'esperienza, e anch'essa articolata intorno a un riferimento alla merda e al culo, allorché scrive che, anche sul trono più alto, ci troviamo sempre seduti sul nostro culo («Et au plus eslevé throne du monde si ne sommes assis que sus nostre cul»). E questo diventa anche una riflessione su in che cosa consistano i più bassi piaceri, oltre che sull'onnipresenza dell'escatologico nei nostri processi psicologici; come Freud mostrerà qualche decennio dopo la pubblicazione del racconto di Leskov: dalla "Psicopatologia del quotidiano" alla "dreckologia" (o anche, la "merdologia" di cui parla Freud nelle sue lettere a Fliess) egli precede addirittura "l'Interpretazione dei sogni", visto che il testo risale al 1897. La scena di Leskov, in cui un volto si trasforma in uno stronzo, può essere vista anche come una sorta di anticipazione artistica (lo stesso Freud non diceva forse che era nei poeti del passato che potevamo trovare la dottrina psicoanalitica?!??) e anche di quella che poi sarà la critica alle procedure di controllo e standardizzazione dei corpi e dei volti; fatte soprattutto a scopo di operazioni di polizia: non solo la fisiognomica di Lavater (e anche di Goethe), ma anche le impronte digitali di Francis Galton (o persino la frenologia di Cesare Lombroso; ed esse sono tutte assolutamente contemporanee, dal momento che Leskov è nato nel 1931 e Lombroso, nel 1935). Ecco allora che  tutto questo viene evidentemente legato narrativamente da Carlo Ginzburg ((Carlo Ginzburg, “Radici di un paradigma indiziario”, in “Miti, emblemi, spie” Einaudi).

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 28 aprile 2025

Calkowita Anarchia !!

Anversa: Anarchia Totale, 22 anni dopo
- di Roberto Bolaño -

«Ho scritto questo libro per me stesso, e tuttavia anche di questo non ne sono troppo sicuro. Per molto tempo sono solo state pagine sciolte che poi rileggevo e forse correggevo convinto com'ero di non avere tempo. Ma tempo per che cosa? Non ero capace di spiegarlo con precisione. Ho scritto questo libro per i fantasmi, i quali sono gli unici ad avere tempo poiché si trovano fuori del tempo. Dopo l'ultima rilettura (proprio ora) mi sono reso conto che a importare non è solo il tempo, perché il tempo non è l'unico a essere motivo di terrore. Anche il piacere può terrorizzare, anche il coraggio può terrorizzare. In quegli anni, se non ricordo male, ero esposto alle intemperie e vivevo senza un permesso di soggiorno allo stesso modo in cui altri vivono in un castello. Ovviamente, non ho mai portato questo romanzo a qualche editore. Mi avrebbero sbattuto la porta in faccia e avrei perso la mia copia. Non gli ho nemmeno mai dato, come si suol dire, una ripulita. Il manoscritto originale ha più pagine: il testo tendeva a moltiplicarsi, a riprodursi come se fosse una malattia. Insomma la mia malattia, che poi era orgoglio, rabbia e violenza. Queste cose (rabbia, violenza)erano estenuanti e pertanto passavo le mie giornate inutilmente stanco. La notte lavoravo. Durante il giorno scrivevo e leggevo. Non dormivo mai. Mi mantenevo sveglio bevendo caffè e fumando. Naturalmente, ho conosciuto gente interessante, alcuni di loro sono stati il prodotto delle mie proprie allucinazioni. Credo che quello sia stato il mio ultimo anno a Barcellona. Il disprezzo che nutrivo nei confronti della cosiddetta letteratura ufficiale era enorme, sebbene fosse solo appena un po' più grande di quello che avevo per la letteratura marginale. Però credevo nella letteratura: come dire, non credevo nell'arrivismo o nell'opportunismo, o nei mormorii di corte. Ma credevo nei gesti inutili, credevo nel destino. Non avevo ancora figli. Leggevo ancora più poesia che prosa. In quegli anni (o in quei mesi), avevo una predilezione per certi scrittori di fantascienza e per certi pornografi, a volte autori antinomici, contraddittori e in contrasto tra di loro, allo stesso modo in cui la caverna e la luce elettrica si escludono a vicenda. Lessi Norman Spinrad, James Tiptree, Jr. (che in realtà si chiamava Alice Sheldon), Restif de la Bretonne e Sade. Anche Cervantes e i poeti greci arcaici. Quando mi ammalai, rilessi Manrique. Una notte escogitai un sistema per fare soldi al di fuori della legge. Una piccola impresa criminale. In fondo si trattava di non diventare ricchi tutto in una volta. Il mio primo complice, o candidato a complice, un amico argentino tristissimo, mi rispose con un adagio che sottintendeva più o meno che quando si è in prigione, o in ospedale, è meglio trovarsi nel proprio Paese, suppongo sia per le visite. La sua risposta non mi spostò di una virgola, poiché mi sentivo equidistante da tutti i paesi del mondo. In seguito ho poi abbandonato il mio piano quando ho scoperto che sarebbe stato peggio che lavorare in una fabbrica di mattoni. Sulla testiera del mio letto avevo affisso un foglio di carta che diceva, in polacco, Anarchia Totale, scritta per me da un amico di questa nazionalità. Non ritenevo che sarei riuscito a vivere oltre i trentacinque anni. Ero felice. Poi arrivò il 1981 e, senza che me ne accorgessi, cambiò tutto.»

- Roberto Bolaño -

domenica 27 aprile 2025

Piuttosto la vita…

Il capitalismo è guerra
- di Alain Lecomte -

In un testo scritto nel 2006 [*1], Moishe Postone affrontava il problema dell'imperialismo europeo il quale, secondo lui, era buono quanto quello americano, o quello russo o quello cinese. Scrivendo dell'inizio del XX secolo: «Il ruolo egemonico della Gran Bretagna e l'ordine mondiale liberale sono stati messi in discussione dall'ascesa di un certo numero di Stati-nazione, in particolare la Germania. Queste rivalità, che culminarono in due guerre mondiali, vennero spiegate a partire dalle rivalità imperialiste. Forse oggi stiamo guardando l'inizio di un ritorno a un'era di rivalità imperialiste, a un livello senza precedenti e allargato. Uno dei punti di tensione che sta emergendo è quello che oppone le potenze atlantiche a un'Europa organizzata attorno a un condominio franco-tedesco». Dopo aver tracciato un'analogia tra la situazione esistente prima del 1914 e quella dei primi anni 2000 (non senza aver dichiarato ottimisticamente che eravamo lontani da una situazione di minaccia di guerra come nel 1914!), Postone avvertiva la sinistra di non lasciarsi trasportare, schierandosi dalla parte di un imperialismo piuttosto che di un altro. La cosa mi aveva un po' sconcertato quando l'avevo letta, poiché avevo ancora in mente il vecchio riflesso della lotta contro l'imperialismo americano. Ne "Il Ministero del Futuro", di Kim Stanley Robinson viene sostenuta una posizione assai simile. Come Postone, anche Kim Stanley Robinson attacca la Germania, la quale ha fatto bene dopo la Seconda Guerra Mondiale: aveva conquistato l'Europa con la finanza, se non con le armi: «Perché la Germania se l’era cavata egregiamente come Stato cliente dell’America durante la Guerra fredda. Ora che la Guerra fredda era finita e la Germania, dal punto di vista economico, era più potente della Russia, poteva staccarsi dagli Stati Uniti, fingendo con astuzia di essere un cliente quando conveniva, ma seguendo, in linea di massima, i propri interessi. La cosa era ovvia per chiunque in Europa, ma la miopia narcisistica dell’America nei confronti del resto del mondo non le permise di rendersene conto.» (p. 260). Di nuovo, questo mi ha sorpreso! A quanto pare, sembrava così che per certi intellettuali americani, classificati come di sinistra, l'America potrebbe apparire come se fosse una vittima, e per di più, una vittima... dell'Europa!

Robinson ha scritto il suo libro molto prima che Trump salisse al potere per il suo secondo mandato. Così, se confrontiamo questi passaggi con tutto ciò che è accaduto da allora in poi - in particolare gli attacchi particolarmente aggressivi del presidente americano contro l'Europa - mostriamo di essere sensibili a simili ricordi. Non vuol essere certo questo – tutt'altro – un modo per giustificare Trump, il quale si comporta a immagine dei tiranni totalitari del XX secolo, e anche a quelli prima, se dobbiamo credere ai suoi riferimenti ai presidenti dell'Ottocento (come McKinley), ed egli non cerca tanto di correggere quella che potrebbe apparire a posteriori come un'anomalia della storia, quanto piuttosto di riaffermare violentemente la forza e la potenza dell'unico imperialismo che vale ai suoi occhi: il proprio. Ciò vuole essere solo un promemoria di una realtà assai semplice, per cui nessuno è innocente, e si deve valutare la situazione di questo momento non solo dal punto di vista del proprio sentimento naturale e spontaneo, ma anche da quello di un contesto storico. E' nei momenti di crisi che vediamo meglio qual è il vero fondamento della storia, la sua sorgente spogliata di ogni sentimentalismo, di ogni anima culturale: la storia non è neanche - come diceva Marx - «la storia della lotta di classe», poiché la lotta di classe è un effetto, e non una causa [*2]; si tratta piuttosto della storia... delle distorsioni, degli urti e dei confronti tra le diverse tendenze del capitalismo.. In questo rassomiglia alla tettonica a placche, laddove qui e placche vengono sostituite dalle diverse "regioni" del Capitale, le quali, inevitabilmente, prima o poi, arrivano a collidere per scontrarsi o... per fondersi. Avremmo tutti preferito che questi inevitabili conflitti si risolvessero pacificamente, lo abbiamo sognato per questi ottant'anni e invece eccoci qui: la base del capitalismo è la guerra. E forse è anche alla base di tutti i diversi sistemi di capitalismo, forse persino anche di ogni sistema. Se così fosse, allora dovremmo forse scagionarlo, il capitalismo? No di certo, visto che in questo momento è il capitalismo quello che ci preoccupa. Oltretutto, non è possibile riuscire a ragionare a prescindere, dato che non abbiamo alcuna idea di quale sarebbe la forma-soggetto di un interlocutore al di fuori di esso. Per meglio chiarire, diciamo che quindi la base del capitalismo è la guerra capitalistica, poiché è questo ciò che ci preoccupa.
 
Allo stesso modo in cui la nozione di lavoro non è trans-storica, nemmeno quella di guerra può esserlo. La guerra capitalista inizia proprio a partire dagli sforzi mostruosi che sono stati da subito compiuti per perpetuare il meccanismo di (ri)produzione del valore. Dal momento che il Capitale non è capace di operare al di fuori delle contraddizioni e dei conflitti che lo generano, esso si presenta fenomenicamente sotto forma di zone di espansione, che il più delle volte coincidono con delle zone geografiche. Si tratta di un valore che è specifico di un sistema nazionale, o imperiale, che cerca di accrescersi e di espandersi, ovviamente a scapito degli altri. È questo il motivo per cui la pace universale non esiste, e non esisterà mai, quanto meno fino a quando esisterà il capitalismo (per quel che riguarda la guerra capitalista, ovviamente, perché dopo...). Il conflitto avviene in modo più o meno violento, ma può aver luogo anche in periodi apparentemente non violenti, in cui tuttavia esiste ancora, e la sua violenza è latente. La violenza aperta compare quando i conflitti si inaspriscono, e i conflitti si acuiscono quando si intensifica la crisi della valorizzazione. Oggi, il capitale, messo all'angolo, trova modo di creare il valore solo per mezzo di quella che viene chiamata "innovazione tecnologica" e che, in realtà, include quelli che sono gli ultimi tentativi di aumentare la produttività del lavoro [*3]; cosa che, di certo, porterà in futuro solo alla perdita di ancora più valore (poiché qualsiasi aumento della produttività porta a una svalorizzazione delle merci emesse sul mercato), ma la cosa non finisce qui, dal momento che continuano a esserci ancora profitti da realizzare, c'è da fare soldi grazie a queste nuove merci. Ma il problema è che esse richiedono risorse minerarie che non tutti posseggono. Per questo motivo la parte più progredita del capitalismo è disposta a fare di tutto pur di acquisirli. [*4].

La Russia aveva già l'obiettivo di invadere il Donbass, per monopolizzarne le sue risorse; e ora, qualche anno dopo, Trump è pronto a mettersi d'accordo con Putin - come fratelli nemici - per spartirsi le risorse dell'Ucraina a spese del bestiame, cioè del suo popolo. Assomiglia parecchio al patto tra Hitler e Stalin, quando provarono a espandere i rispettivi imperi, accaparrandosi la maggior quantità possibile di terreni coltivati a grano (allora non c'erano le terre rare...). Dall'altra parte del pianeta, il gigante cinese brontola, non vuole che gli Stati Uniti abbiano accesso alle terre rare, al litio, al coltan, al titanio (e cos'altro?), pertanto tiene per il pizzetto il pseudo-alleato russo, non me lo farai, vero? Un tango terribile che si balla intorno a qualche migliaio di tonnellate di minerale (di cui a volte si dubita persino dell'esistenza) che, in ogni caso, si esaurirà nel giro di pochi anni. Il mostro americano è arrivato persino al punto di distruggere quella base transnazionale sulla quale era rimasto  seduto fino ad ora (dal momento che, per quanto, durante la Guerra Fredda “l'impero europeo” possa anche essere partito bene, rimane il fatto che anche gli Stati Uniti hanno beneficiato di un enorme mercato in grado di assorbire la loro produzione in ogni settore.), tradendo i partner europei che ora lo ostacolano nel loro accordo con la Russia, e minacciando così di attaccare... la piccola Danimarca e stabilirsi in Groenlandia. Sempre per raccogliere qualche tonnellata di minerale. L'altra fonte di valore sono i media e le reti sociali, attraverso i quali i poteri imperiali possono esercitare il loro potere su popolazioni alienate al fine di sfruttare l'opportunità di commerciare in soggettività, sfruttate alla stregua delle miniere di metalli rari, dal momento che sono loro stessi che consumano e si trovano, in un certo senso, all'altro estremo della filiera. Il valore si ottiene sia attraverso la produzione che mediante il consumo, e le due cose cooperano tra loro. Pertanto, l'impero cercherà di plasmare - senza che ci sia alcuna resistenza - il soggetto-forma che esso impone, in modo che si accontenti solo del consumo di quei prodotti che gli offre. Per fare questo, sarà necessario abolire gli ostacoli che la scienza e la ragione gli oppongono. Per cui, niente più scienza o ragione, perché contrastano con gli interessi del Capitale, i quali si basano sull'emotività, sulla transitorietà e sulla credenza nella magia.

Contrariamente - e questo detto per inciso - alla teoria di coloro che ancora incolpano la ragione e la scienza per l'espansione del capitalismo. Sì certo, i loro interessi hanno coinciso in certi momenti, ma ormai è passato molto tempo. Ciò che resta della coincidenza tra gli obiettivi della scienza e quelli del capitalismo rimane confinato a una frangia tecnofila che non ha più nulla a che fare con la scienza in senso stretto e che è ben contenta di assecondare la convinzione che la terra sia piatta. Nel complesso, la scienza rimane relativamente autonoma dal Capitale, e oggi il suo sviluppo è addirittura in contrapposizione a esso: le azioni anti-scienza di Trump sono sufficientemente eloquenti a tal riguardo (nomina di un agente anti-vax al Dipartimento della Salute, controllo delle agenzie scientifiche vietando loro di pubblicare risultati non conformi ai suoi piani, licenziamento di ricercatori, asservimento dei servizi meteorologici, ecc. È vero, ma è anche la prova che persino l'imbecillità dimostra qualcosa riguardo al capitalismo, o almeno alla forma di imbecillità che è specifica di questo sistema.

Certo, il capitalismo è un caos frammentato di continenti che si scontrano, ma non dobbiamo dedurne che in un dato momento storico tutti gli imperi si equivalgano, né dobbiamo permetterci di “cercare delle scusanti” per questa o per quella azione contro l'Europa pensando che anche l'Europa è, in fondo, imperialista. Non ha senso schierarsi - come tende a fare una certa “estrema sinistra campista” - con un altro impero, pensando che forse ce ne sarà grato e ci risparmierà, giacché la loro logica è impermeabile a questo tipo di soggettivismo: nella migliore delle ipotesi, l'impero rivale se ne servirà solo per aumentare la propria efficacia e la propria violenza. Quando un soggetto che vive all'interno di un impero si schiera con un altro impero con cui il proprio impero è in conflitto, spesso questo maschera delle manovre per mettere a segno alcuni colpi nel gioco globale del terrore. Queste mosse sono finalizzate a ottenere delle conquiste locali di potere che, in ultima analisi, sono sempre a vantaggio degli invasori reali o potenziali (il petainismo, il “populismo” del "Rassemblement National" francese, o quello dei leader dell'Ungheria, della Slovacchia, persino dell'Italia). Anche se mi sento profondamente europeo, non farò un appello per l'Europa. Dopotutto, come detto sopra, ha prodotto anche quella che è stata la sua peggiore epoca imperiale, il colonialismo: un crimine spaventoso commesso contro l'umanità. Ma è anche il luogo in cui viviamo, e dove le persone hanno lottato per garantire la prevalenza di molti diritti e per cacciare, un tempo, gli occupanti indesiderati. Proprio come tributo alle loro azioni, merita di essere difesa contro potenziali nuovi invasori che sono altrettanto indesiderabili. Ho amici che non la pensano così, e che vorrebbero addirittura che si ponesse fine alla "ideologia dell'Illuminismo", in quanto terreno fertile su cui la forma-soggetto del capitalismo ha potuto svilupparsi. Ma non si torna indietro, nella storia, non si cancella nulla, e al limite si va oltre le situazioni, ma non si fa mai tabula rasa. Al di sotto o al di là - o forse sia al di sotto che al di là della logica del capitalismo e dei suoi imperi - si impone al cuore degli esseri umani un desiderio di emancipazione che rifiuta l'asservimento agli imperi esterni. Un desiderio di praticarne il suo linguaggio e di declinarne le sue bellezze, uno slancio verso l'esaltazione della sua cultura e delle sue creazioni, che legittimano lo sforzo di resistenza nel momento in cui un impero (o anche due) cerca di controllarne un altro. Questo è quello che sentivano i poeti della Resistenza, scienziati e filosofi che non hanno esitato a fare il grande passo, non dimentichiamoli. E per tornare a Postone, il filosofo americano scomparso nel 2018, il testo succitato concludeva con le seguenti parole: «per quanto difficile possa essere il compito di comprendere e di confrontarsi con il capitale globale, il recupero e la riformulazione di un internazionalismo globale sono di vitale importanza.» Ci piacerebbe che fosse così, ma ahimè all'orizzonte non vediamo quasi nessun movimento in questa direzione...

L'altra fonte di valore (sempre in senso capitalista) è semplicemente... la Vita. Marx ci ha mostrato come la forza lavoro sotto il capitalismo sia una merce, e che in un certo senso il sistema stesso si basa su questa capacità di trasformare la forza lavoro in una merce. Con la Russia di Putin si va ancora oltre, non è la forza lavoro, ma è la vita stessa che diventa una merce, allorché la popolazione russa - la quale non ha più nulla da dare, e vive nella miseria più spaventosa - mette in vendita i propri figli e mariti per ricevere, in cambio della loro morte ( qualora avvenga), un “salario” che eccede tutto ciò che si può guadagnare in diversi anni di lavoro. In tempi ordinari, la forza lavoro alimenta la macchina del capitale, la vita, mentre io direi, nonostante quello che pensano alcuni “materialisti” un po' troppo dogmatici per i miei gusti, che in tempi di guerra ad alimentarla sono le anime delle persone, per essere trasformate in salario . In altre parole, in un prodotto di valore che verrà poi utilizzato per acquistare altri valori, altri beni, mantenendo in tal modo, artificialmente, la macchina in funzione, solo per far sì che il rublo regga e che la Russia eviti, almeno per un po', il fallimento. Come avvenne con l'Unione Sovietica. Della quale, ci sono alcune persone, anche in Europa, che continuano a perpetuarne il ricordo, in particolare attraverso una serie di partiti comunisti piuttosto grotteschi. Mentre viviamo in attesa del Gogol', o del Dostoevskij del futuro, i quali, in un romanzo, dipingeranno il volto rozzo di una società ridotta a vendere sul mercato di guerra le anime dei propri membri .

- Alain Lecomte - Pubblicato il 18/3/2025 su Rumeur d'espace -

NOTE:

1 - "Histoire et impuissance. Mobilisations de masse et formes contemporaines d’anticapitalisme", saggio pubblicato in Public Culture, vol. 18, n°1, ristampato in "Critique du fétiche capital, Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche", tradotto da Olivier Galtier e Luc Mercier, PUF, 2013.

2 -  A questo proposito, si veda il libro di Robert Kurz e Ernst Lohoff: "Le fétiche de la lutte des classes – thèses pour une démythologisation du marxisme", pubblicato da Crise et Critique nel 2021

3 -  E sfruttare le risorse minerarie dell'Universo: l'ambizione di Musk è quella di estrarre minerali dagli asteroidi.

4 -  Compreso, come detto nella nota precedente, pronto ad intensificare la conquista dello spazio in questa direzione.

sabato 26 aprile 2025

Infiltrati…

«Antisemitismo e antisionismo nella Germania Ovest degli anni '70: lezioni per il presente»
- di Martin Jander -

In Germania Ovest, nel decennio 1970, una nuova generazione di terroristi ha fabbricato, a partire dalle ideologie, un mondo parallelo, nel quale gli Stati Uniti venivano dipinti come se, con l'aiuto di due principali alleati (Germania e Israele), fossero il più grande nemico del mondo. Tutti e tre, questi paesi, venivano allora rappresentati come impegnati a combattere contro i rivoluzionari e contro le nazioni che si battevano per la libertà. Il fascismo tedesco e il sionismo, sembravano fossero una medesima cosa. Così, i terroristi che dirottarono l'aereo della Lufthansa "Landshut" il 13 ottobre del 1977, dominati da questa ideologia, informarono il mondo che: «Questa operazione mira a liberare i nostri compagni dalle prigioni dell'alleanza imperialista-reazionaria-sionista [...] i rivoluzionari e i combattenti per la libertà di tutto il mondo si trovano di fronte al mostro dell'imperialismo globale. In questa barbara guerra, condotta  sotto l'egemonia degli Stati Uniti contro le nazioni del mondo, i sotto-centri imperialisti come Israele e la Repubblica Federale di Germania svolgono la funzione esecutiva di sopprimere e liquidare, nei loro specifici territori, tutti i movimenti rivoluzionari. Nella nostra terra occupata, il nemico imperialista-sionista-reazionario dimostra il più alto livello della sua sanguinosa ostilità e aggressività contro il nostro popolo e la nostra rivoluzione, contro tutte le masse arabe e le loro forze patriottiche e progressiste. La natura espansionistica e razzista di Israele è – con Menachem Begin a capo di questo prodotto degli interessi imperialisti – più chiara che mai. Nel 1945 la Germania Ovest è stata istituita sullo stesso modello imperialista come base degli Stati Uniti.» [*1] In questa dichiarazione, si trovavano mescolati nazionalismo e anticapitalismo, antimperialismo, antisionismo e antisemitismo. E nonostante i terroristi rifiutassero l'idea di essere antisemiti, miravano tuttavia a distruggere Israele. [*2]

La guerra contro Israele e l'Occidente
Per gli israeliani, lo Stato comunista tedesco, la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), era un modello ben noto. Aveva già perseguito una politica ostile a Israele, sin dalle purghe antiebraiche nell'Europa orientale dei primi anni '50, e aveva condotto una guerra non dichiarata contro Israele, già fin dalla Guerra dei Sei Giorni nel 1967. [*3] Pertanto, non fu una sorpresa quando la DDR, a Berlino Est nel 1973, aprì un ufficio dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) . Ma tuttavia quelli che furono piuttosto inaspettati, riguardarono tutta una serie di sviluppi in Germania Ovest: i cancellieri Willy Brandt e Helmut Schmidt, entrambi membri del Partito Socialdemocratico (SPD), iniziarono a perseguire una politica mediorientale che essi descrivevano come "neutrale", e arrivarono ad avere buoni rapporti con Yasser Arafat, e questo mentre altri settori della società della Germania Ovest, compresi i terroristi di sinistra e di destra, si unirono alla lotta dell'OLP per distruggere Israele. Negli anni '50, l'SPD della Germania Ovest spinse perché ci fossero buone relazioni tra la Repubblica Federale di Germania (RFT) e Israele. Senza l'SPD, il parlamento tedesco non avrebbe approvato quello che sarebbe stato il primo accordo tra Israele e Germania dopo la Shoah: il "Trattato di Lussemburgo" del 1953. Tuttavia, durante la guerra dello Yom Kippur del 1973, la Repubblica Federale Tedesca, sotto Willy Brandt, non permise all'esercito statunitense di utilizzare le sue basi militari nel paese per fornire armi a Israele. Alle navi israeliane venne vietato di arrivare nel porto di Bremerhaven, per raccogliere armi dalle navi della Marina degli Stati Uniti. Sebbene il governo della RFT considerasse il suo rifiuto una politica di "neutralità", la maggior parte degli israeliani la considerò un avallo per chi era impegnato nella sua distruzione. La Germania Ovest non era riuscita a capire, e a combattere, la vera minaccia che i terroristi tedeschi e palestinesi rappresentavano per Israele e l'Occidente negli anni '70. Inoltre, non capiva il ruolo svolto dagli Stati arabi nel fomentare questa guerra. Negli anni '50 e '60, i paesi arabi, che cercavano una seconda guerra contro Israele, si opposero al sostegno dato dalla Repubblica Federale di Germania a Israele, e iniziarono a fare uso di minacce in modo da avviare così delle relazioni diplomatiche con la DDR, e a mobilitare pressioni all'interno della Germania Ovest in modo da costringere il governo federale a prendere le distanze da Israele. Ad esempio, nel 1964 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser invitò Walter Ulbricht in Egitto, e successivamente rilasciò un'intervista al settimanale Spiegel - che venne pubblicata nel febbraio 1965 -  dal titolo rivelatore «Non potete lasciarvi ricattare per sempre».[*4] Si dice che Nasser avesse letto «che l'ex cancelliere federale, Adenauer, aveva accettato le armi fornite a Israele sotto la pressione di una potenza straniera». E lui, Nasser, «non riusciva a capire questa dipendenza». In ogni caso, egli «avrebbe accolto con favore una grande nazione come quella tedesca» in modo che essa svolgesse «il proprio ruolo indipendente nel mondo» anziché essere «uno strumento nelle mani di potenze straniere, come, ad esempio, gli americani e gli israeliani». Nasser rilasciò anche un'intervista a Gerhard Frey, direttore del giornale di destra radicale "Deutsche National und Soldaten-Zeitung" (Giornale nazionale e tedesco dei soldati), in cui dichiarò che la cifra di sei milioni di ebrei uccisi era una «bugia».[*5] Durante l'intervista, Frey sostenne la lettura revisionista di Nasser, osservando che, sebbene nessuno contestasse il «fatto che gli ebrei siano stati uccisi [...] la maggior parte dei tedeschi aveva capito da tempo che qualcuno stesse giocando con i numeri, qui». Parlando con toni diversi e a pubblici diversi, Nasser faceva appello a più filoni di ostilità politica verso le buone relazioni tedesco-israeliane presenti sia nella DDR che nella Repubblica Federale Tedesca. I suoi commenti riecheggiano la critica “di sinistra” alle presunte restrizioni imposte dagli Stati Uniti e da Israele alla sovranità tedesca, mentre allo stesso tempo lasciano simultaneamente spazio all'idea “di destra” secondo cui i tedeschi sarebbero stati ricattati moralmente; mobilitando anche sentimenti antisemiti grazie alla sua banalizzazione dell'Olocausto. Queste parole di Nasser (e di altri leader arabi) avevano lo scopo di alimentare e rafforzare degli atteggiamenti che già esistevano in Germania. Ad esempio, quando la Germania Ovest discusse "l'Accordo di Lussemburgo", i politici radicali di destra e di sinistra espressero le loro obiezioni. L'unico membro del parlamento che rappresentava il partito di destra radicale - Sozialistische Reichspartei (Partito Socialista del Reich) - votò contro "l'Accordo di Lussemburgo", affermando che il numero di ebrei assassinati in Europa era stato solo di un milione di persone. E continuava sostenendo che non avrebbero dovuto esserci negoziati con Israele, che aveva espulso gli arabi dalla loro terra.[*6] Nel 1953, il gruppo comunista del Bundestag, controllato dalla DDR, si rifiutò di votare a favore dell'accordo. I membri del Parlamento comunista sostennero che il trattato non aveva nulla a che fare con le "riparazioni" e che gli unici beneficiari erano gli industriali israeliani e l'alta finanza americana [*7]. In breve, la maggior parte dei tedeschi non riusciva a capire come i terroristi palestinesi, sostenuti dai regimi arabi e dall'Unione Sovietica, stessero globalizzando la loro guerra volta alla distruzione di Israele. Il presidente Nasser, Yasser Arafat, Abu Iyad e Wadi Haddad – leader dell'OLP, di Fatah e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) – cercarono di mobilitare tutto il sostegno che riuscirono a trovare per potersi opporre alle relazioni amichevoli tra Germania e Israele. Vennero anche forniti basi di addestramento, armi, false identità, case sicure e altro ancora. Nel complesso, i leader palestinesi avevano creato un esercito di combattenti irregolari. E anche l'OLP non fece mistero dei suoi obiettivi. Le memorie dell'ex attivista di destra Willi Voss (ora scrittore di romanzi gialli) raccontano di un incontro nel 1972 con Abu Iyad, capo dei servizi di sicurezza dell'OLP e uno dei principali organizzatori del terrorismo palestinese nell'Europa occidentale. Nell'incontro, Abu Iyad aveva esposto ciò che sperava di ottenere cooperando con i sostenitori della Repubblica Federale, spiegando che la resistenza degli israeliani si basava sul loro "morale", il quale secondo lui veniva tenuto alto dalle rassicurazioni fornite dai paesi occidentali, in particolare dagli Stati Uniti e dalla Repubblica Federale di Germania. Secondo Abu Iyad, se si riusciva a cambiare l'opinione pubblica nel mondo occidentale, il rovesciamento del sionismo sarebbe stato solo una questione di tempo.[*8]

La destra, la sinistra e Fatah
Per l'OLP e le sue reti, non fu difficile trovare partner nell'estrema destra: quella parte dello spettro politico tedesco che proveniva dal vecchio movimento nazista. Nonostante il bando degli Alleati riguardo il NSDAP (Partito Nazista) e il bando al "Sozialistische Reichspartei" (Partito Socialista del Reich), nei primi anni '50, le reti e le organizzazioni che aiutavano gli ex quadri del partito non erano completamente scomparse dalla Repubblica Federale. Le attività e le reti terroristiche erano rimaste in letargo per lungo tempo all'interno di queste strutture nazionalsocialiste dormienti, anche se non abbiamo ancora una descrizione veramente dettagliata di quale sia stato il loro sviluppo. [*9] All'inizio degli anni '70, strutture terroristiche di destra emersero anche all'interno del Partito Nazionaldemocratico di Germania (NPD). Una delle organizzazioni più conosciute era un gruppo di arti marziali e paramilitari, il Wehrsportgruppe (gruppo sportivo militare) Hoffmann.[*10] L'alleanza tra i terroristi palestinesi e la sinistra della Germania Ovest, si sviluppò rapidamente dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967.[*11] Molti membri dell'Unione degli Studenti Socialisti Tedeschi (SDS) cominciarono a usare contro Israele gli stessi argomenti dei comunisti della Germania dell'Est. Israele e la sua politica, venivano così equiparati al nazionalsocialismo tedesco e ai suoi crimini. Molti degli organizzatori della lotta armata contro Israele e della cooperazione con l'OLP sono nati nell'SDS. Emersero strutture - come la Frazione dell'Armata Rossa (RAF), le Cellule Rivoluzionarie e il Movimento 2 giugno - che cooperarono con le formazioni armate palestinesi.[*12] Nella Repubblica Federale, oltre a questi due grandi gruppi politici di sinistra e di destra, esisteva una terza forza. Fatah aveva schierato i propri membri in entrambe le parti della Germania già dalla fine degli anni '60, e questi rappresentanti avrebbero svolto un ruolo importante nell'organizzazione del terrorismo politico.[*13] La cosa venne notata pubblicamente, per la prima volta, nell'estate del 1969, allorché l'ambasciatore israeliano, Asher Ben Natan, diede inizio a un tour nella Repubblica Federale di Germania, tenendo conferenze a Francoforte, Amburgo, Berlino Ovest, Norimberga, Colonia e Monaco, venendo spesso accolto da studenti che scandivano slogan come «Il sionismo è fascismo». In alcuni di questi eventi, sia membri dell'SDS che gruppi arabi cercarono di imporsi con la violenza fisica. Un ruolo importante, era già stato assunto dal rappresentante dell'OLP nella Repubblica Federale di Germania, Abdallah Frangi. Nelle sue memorie, egli descrive l'addestramento militare che aveva ricevuto, sebbene neghi qualsiasi partecipazione ad attività terroristiche nella Repubblica Federale di Germania.[*14] Con l'espulsione di diversi rappresentanti di Fatah, dopo l'attacco del 1972 alla squadra olimpica israeliana a Monaco, la capacità di agire di queste strutture si trovò a essere limitata. Ma dal momento che la DDR accoglieva gli espulsi, e Frangi fu in grado di tornare nella Repubblica Federale dopo il 1974, tutte queste strutture palestinesi rimasero assai più influenti di quanto veniva indicato da delle ricerche precedenti.

   Per riassumere la situazione: 1) la politica estera della Germania Ovest ha preso le distanze da Israele; 2) La politica della Germania dell'Est ha attaccato Israele e ha sostenuto i suoi nemici; 3) la sinistra della Germania Ovest si è opposta alle relazioni amichevoli tra Germania e Israele; e alcuni si unirono a gruppi terroristici che parteciparono alla guerra contro Israele; 4) ampi settori della stampa liberale hanno criticato duramente Israele, mostrando nel contempo grande empatia per i palestinesi, o addirittura legittimando la loro lotta armata in quanto "resistenza"; 5) I neonazisti della Germania Ovest hanno continuato a perseguire le vecchie idee antisemite e razziste; 6) Gli studenti arabi che vivevano in entrambi gli stati tedeschi, ed erano membri di Fatah o di altri gruppi militanti, si unirono alla guerra contro Israele; 7) la DDR, dal 1967, combatteva una guerra non dichiarata contro Israele; 8) tutte e quattro le parti della rete anti-israeliana presente in Germania, hanno demonizzato Israele e gli israeliani, equiparando la politica israeliana a quella della Germania nazista: il paragone serve a delegittimare Israele e viene usato come preludio alla sua distruzione.[*15]

   Raramente, questa minaccia multiforme è stata vista in maniera chiara nella Germania Ovest dell'epoca. Un documento del Ministero degli Esteri, scritto da un assistente segretario il 14 settembre 1976 [*16] affermava che: «La Repubblica federale [...] è particolarmente colpita dal terrorismo, sia in termini di politica estera che interna. Quantitativamente, come autori del terrorismo internazionale, i tedeschi sono sovra-rappresentati, e si distinguono per la loro particolare pericolosità. Questo fatto risveglia le associazioni storiche. Tocca quelle che sono delle ferite mal rimarginate, e quindi disturba la nostra politica di riconciliazione.» Il funzionario del Ministero degli Esteri proseguiva dicendo che la partecipazione dei terroristi tedeschi poneva la Repubblica Federale «in relazione alle conseguenze (ad esempio i tentativi di estradizione) in gravi conflitti di interesse con terzi, ad esempio con governi e con popoli amici», e questi conflitti venivano «spesso aggravati nella forma, dal modo in cui sono stati reciprocamente sfruttati dai mass media, al punto che così anche le misure governative sono state intensificate». In altre parole, questo rapporto considerava il problema del terrorismo tedesco di sinistra e di destra, e la sua cooperazione con la guerra palestinese contro Israele, come se fosse una questione di danno inflitto alla buona reputazione della Repubblica Federale. Le vere vittime di questo terrore, così come i civili israeliani e arabi che erano interessati invece a una pace negoziata, o i soldati americani e i funzionari governativi, non compaiono in questa analisi.

Terrore e memoria
Così, al posto della chiarezza intellettuale e morale, nella Repubblica Federale Tedesca quello che ha preso piede è un discorso antisionista, il quale ha rovesciato la realtà, screditando Israele in quanto fascista e glorificando i terroristi come autentici combattenti della resistenza contro l'oppressione coloniale e la dominazione imperiale. Ciò che ha reso possibile questo discorso antisionista, e la partecipazione di terroristi tedeschi di sinistra e di destra alla guerra contro Israele, è stata la superficialità con cui la Germania del dopoguerra si è confrontata con il proprio passato nazionalsocialista. Contrariamente a come viene raccontato questo aspetto dell'attuale storia tedesca il confronto con il passato nazista non si è sviluppato in maniera così profonda, o diffusa, come si sperava. L'antisemitismo e il razzismo, per quanto in una forma un po' trasmutata, durante gli anni 1970 hanno avuto un'influenza reale in Germania. Oggi, per quanto il terrorismo di sinistra non esista più, da dei settori della società viene ancora sostenuto un discorso antisemita e antisionista.E ciò che è emerso in maniera ancora più forte rispetto agli anni '70, è stato un populismo di destra ampiamente sostenuto che ha ramificazioni nel terrorismo di destra. Solo nel 2016, ci sono stati più di 1.800 attacchi ai rifugiati e ai loro alloggi, mentre in alcuni stati federali il partito populista di destra Alternativa per la Germania (AfD) ha ottenuto fino al 24%. E oggi, quanto sono diffuse e pericolose le strutture terroristiche legate all'Islam politico? La questione è controversa, così come lo è  la questione della sua influenza tra gli immigrati e i rifugiati provenienti dai paesi arabi, e che sono arrivati di recente nella Repubblica Federale, o che sono già residenti in Germania da lungo tempo. Si tratta di questioni controverse, soprattutto perché alcuni degli avvertimenti lanciati contro i pericoli dell'Islam e le reti terroristiche basate sull'Islam politico, sono diventati parte della propaganda razzista contro i musulmani in Europa. Tuttavia, gli attentati di Parigi, Bruxelles, Würzburg, Nizza, Berlino, Manchester e Londra, così come gli attentati in Israele, dimostrano la grave minaccia che il terrorismo islamico rappresenta per l'intero mondo democratico. Proprio come negli anni '70, oggi l'ISIS, l'Iran, Hezbollah e Hamas non lasciano dubbi sul fatto che il loro obiettivo sia la distruzione di Israele e delle democrazie dell'Occidente. Il governo federale dovrebbe imparare dagli errori degli anni '70 per non ripeterli: mancanza di curiosità intellettuale, spirito conciliante e ingenuità razionalistica, si sono combinati in modo da garantire l'incapacità di comprendere quale sia la natura della minaccia.

- Martin Jander - Pubblicato il 16/4/2025 su História e Desamparo *** - 

*** Questo articolo è una versione condensata di una conferenza dal titolo "Open Secrets", presentata alla Conferenza "Da Entebbe a Mogadiscio: il terrorismo negli anni '70 e la sua storia, memoria ed eredità" (16 e 17 gennaio 2017, Gerusalemme, Università Ebraica). Desidero ringraziare quattro persone, senza le quali non sarei stato in grado di capire ciò che so oggi su questo argomento. Il primo è Martin Kloke, autore del superbo libro "Israel und die deutsche Linke" (1990). In questo lavoro, Kloke ha analizzato la svolta della sinistra radicale della Germania Ovest verso l'antisionismo. Il secondo autore che vorrei ringraziare è il mio collega Wolfgang Kraushaar, che mi ha invitato a partecipare al suo progetto di ricerca su "Die RAF und der internationale Terrorismus". Il progetto si tradurrà nella pubblicazione di storie quotidiane che narrano la storia del terrorismo di sinistra tedesco dopo il 1945. Il mio terzo ringraziamento va a Inge Deutschkron, reporter di lunga data del quotidiano israeliano Maariv. Il suo libro rivoluzionario, Israel und die Deutschen, pubblicato per la prima volta nel 1970, è stato rivisto due volte, nel 1983 e nel 1991. È una delle migliori analisi che conosco delle relazioni israelo-tedesche. Ultimo ma non meno importante, ho imparato la maggior parte di ciò che so sull'argomento da diversi libri del professor Jeffrey Herf, verso il quale ho un enorme debito di gratitudine. Senza queste persone, non sarei stato in grado di capire l'argomento di questo articolo, la storia della collaborazione tra terroristi tedeschi e palestinesi.

NOTE:

[1] Citato in "Kommuniqué Kofr Kaddum", Frankfurter Rundschau, 15 ottobre 1977. Il documento originale è in lettere minuscole.

[2] Sui diversi motivi utilizzati dai terroristi nelle reti internazionali negli anni '70 e oltre, si veda quello che è ancora il lavoro pionieristico di Walter Laqueur, Krieg dem Westen (Berlino: Ullstein Verlag, 2004).

[3] Vedi Inge Deutschkron, Israel und die Deutschen, 3a edizione riveduta. (Colonia: Verlag Wissenschaft und Politik, 1991).

[4] Citato in "Sie können sich doch nicht ewig erpressen lassen", Der Spiegel, 24 febbraio 1965, p. 36.

[5] Citato in Gerhard Frey, "Krieg mit Israel unvermeidbar", Deutsche National-Zeitung und Soldaten-Zeitung, 1 maggio 1964, 3, riprodotto in Gilbert Achcar, Die Araber und der Holocaust (Hamburg: Nautilus, 2012), p. 207.

[6] Vedi Deutschkron, Israel und die Deutschen, p. 64.

[7] Vedi Deutschkron, Israel und die Deutschen, p. 64.

[8] Citato in E. W. Pless (pseudonimo di Willi Pohl o Willi Voss) Geblendet: Aus den authentischen Papieren eines Terroristen (Zurigo: Schweizer Verlagshaus, 1979), pp. Nell'estate del 1972, Voss fu notato dalla polizia tedesca per aver contattato il terrorista palestinese Abu Daud, che in seguito agì come la mente dell'attacco agli atleti israeliani durante le Olimpiadi estive di Monaco del 1972. Sei settimane dopo gli omicidi di Monaco, Voss e un complice furono arrestati a casa di un ex membro delle Waffen-SS. Nel suo bagaglio c'erano armi militari ed esplosivi provenienti dalle forniture dell'OLP, oltre a schizzi di attacchi terroristici e rapimenti a Colonia e Vienna. Nel 1974, Voss fu condannato a 26 mesi di carcere per aver violato la legge sul controllo delle armi di guerra; a dicembre ha ricevuto una condanna con sospensione condizionale della pena ed è partito per Beirut. Pochi mesi dopo, Abu Iyad, capo dei servizi segreti dell'OLP, e Abu Daud chiesero al loro complice tedesco di unirsi alla sua allora fidanzata nel trasporto di un'auto a Belgrado. Quello che Voss non sapeva: pistole ed esplosivi con accenditori al mercurio completamente assemblati erano stati avvolti nella plastica in una buca di carico. Quando le pattuglie di frontiera rumene hanno trovato le merci di contrabbando durante un'ispezione, Voss si è reso conto che i palestinesi erano disposti a sopprimerlo se necessario. Indignato per il tradimento, offrì i suoi servizi all'ambasciata americana a Belgrado. Il suo nuovo datore di lavoro, la CIA, fece in modo che il procedimento giudiziario contro di lui in Germania fosse interrotto. Alla fine degli anni '70, Voss tornò nella Repubblica Federale e da allora ha lavorato come scrittore di romanzi polizieschi e soap opera, tra cui le serie TV "Tatort" e "Großstadtrevier". (Vedi "Ein Mann, drei Leben", Der Spiegel, 31 dicembre 2012, vol. 67, par. 1:34 ss.)

[9] Su questo, si veda Daniel Koehler, Right-Wing Terrorism in the 21st Century: The 'National Socialist Underground' and the History of Terror from the Far-Right in Germany (Routledge, 2017) e Bernhard Rabert, Links- und Rechts-Terrorismus in der Bundesrepublik Deutschland von 1970 bis heute (Bonn: Bernard & Graefe Verlag, 1995).

[10] Diversi attivisti di questi gruppi hanno reso le loro attività terroristiche una questione di dominio pubblico. Vedi la biografia di Odfried Hepp: Jury Winterberg e Jan Peter, Odfried Hepp: Neonazi, Terrorist, Aussteiger (Monaco, Lübbe Verlag, 2004).

[11] Un ostacolo era la lunga storia di buoni rapporti tra i membri dell'SPD e gli ebrei. Molti ebrei erano membri del partito prima che Hitler salisse al potere. Questa affinità è stata una ragione importante per cui, dopo la Shoah, l'SPD poteva essere considerato uno dei gruppi più importanti della società tedesca, contribuendo a stabilire buoni rapporti con Israele. Per molti anni, questo atteggiamento filo-israeliano è stato anche la politica dell'organizzazione studentesca del partito, l'SDS (Unione Socialista degli Studenti Tedeschi). Israele era visto come un paradiso socialista. Agli occhi di molti giovani socialisti, il movimento dei kibbutz era un modello per uno stato socialista. Su questo si veda Martin Kloke, Israel und die deutsche Linke (Francoforte: HAAG und HERCHEN Verlag, 1990, 2a ed. 1994).

[12] Si veda Anton Maegerle e Heribert Schiedel, "Krude Allianz: Das arabisch-islamistische Bündnis mit deutschen und österreichischen Rechtsextremisten" (Vienna: manoscritto, 2001, http://www.doew.at/cms/download/b3cc7/re_maegerle_schiedel_allianz.pdf – consultato il 2 dicembre 2016). Vedi anche Samuel Salzborn, "Die Stasi und der westdeutsche Rechtsterrorismus. Drei Fallstudien (Teil I)", Deutschland Archiv, 15 aprile 2016 (Link: http://www.bpb.de/224836); "Die Stasi und der westdeutsche Rechtsterrorismus. Drei Fallstudien (Teil II)", Deutschland Archiv, 19 aprile 2016 (Link: http://www.bpb.de/224934).

[13] Vedi Wolfgang Kraushaar, "Wann endlich startt bei Euch der Kampf gegen die heilige Kuh Israel?" (Reinbek: Rowohlt Verlag, 2013).

[14] Cfr. Abdallah Franghi, Der Gesandte: Mein Leben für Palästina (Monaco di Baviera: Heyne Verlag, 2011), p. 104 e segg.

[15] Interessante a questo proposito è uno degli organizzatori del terrore in Europa, Abu Iyad. Nelle sue memorie – Abu Ijad, Heimat oder Tod (Düsseldorf e Vienna: Econ Verlag, 1979) – afferma esplicitamente che il Mufti di Gerusalemme, Amin El-Husseini, era stato un modello per Fatah. Al Mufti si potrebbe attribuire il merito di "aver unito cristiani e musulmani nella lotta comune contro il nemico comune, l'imperialismo" (Ijad, 55). Abu Iyad non menziona che il Mufti di Gerusalemme cooperò con Hitler in questa lotta e che egli non solo stava conducendo una guerra contro l'"imperialismo", ma desiderava anche espellere gli ebrei dalla Palestina. Sulla connessione tra nazionalsocialismo e antisionismo, e sul ruolo di Amin El-Husseini, si veda Jeffrey Herf, Nazi Propaganda for the Arab World (Londra: Yale University Press, 2009).

[16] Cfr. "Aufzeichnung Ministerialdirigent Pfeffer, 14 settembre 1976, 201-530.36-2893/76 VS-vertraulich" [«Nota confidenziale del sottosegretario Pfeffer, 14 settembre 1976»], in Institut für Zeitgeschichte (a cura di), Akten zur Auswärtigen Politik der Bundesrepublik Deutschland, 1976, vol. II: 1 luglio-31 dicembre 1976, doc. 285 (Monaco di Baviera: R. Oldenbourg, 2007), 1316-1319.

giovedì 24 aprile 2025

Teoria della Decadenza ?!!???

Potere e declino
La fragile sintesi trumpiana

- di Jacques Wajnsztejn -

Se raramente gli autori postmoderni - a parte Michel Onfray [*1] - rivendicano esplicitamente una "teoria della decadenza", ci sono tuttavia molti di loro che si riferiscono a Nietzsche, il grande uccisore di una dialettica che - attaccando nell'Ecce Homo il suo primo rappresentante (Socrate e la sua maieutica) – egli percepì in quanto sintomo di decadenza . Per Nietzsche, ciò che conta è quel capovolgimento dei valori, che poi un pre-postmoderno come Baudrillard avrebbe assunto già negli anni '70 e '80 come distruzione del significato. Jean-François Lyotard, più politico, ha invece invocato una radicalizzazione della decadenza: «Ecco una linea politica: indurire, aggravare, accelerare la decadenza. Assumere la prospettiva del nichilismo attivo, e non rimanere alla semplice osservazione, depressa o ammirata, della distruzione dei valori; mettere mano alla distruzione, andare sempre più lontano nell'incredulità, lottare contro la restaurazione dei valori [...] accettare, ad esempio, di distruggere la fede nella verità, in tutte le sue forme.»[*2]. Questo è un esempio di quell'estetizzazione della politica che, per 50 anni e su questa base,  si è radicata. E che, nella misura in cui sono state abbandonate la teoria critica e la dialettica, non dovrebbe sorprendere che la sinistra abbia perso la battaglia per l'egemonia culturale. Del resto, Oswald Spengler, da parte sua, in modo più classico, percepiva Il declino dell'Occidente (1918) come qualcosa di oggettivo, il cui principale esempio storico era quello del declino dell'Impero Romano. Per lui, ogni civiltà ha dapprima il suo movimento apollineo di sviluppo (un altro riferimento a Nietzsche!), e poi un movimento faustiano di declino che, nella modernità, verrebbe caratterizzato da uno sviluppo scientifico e tecnico paradossalmente illimitato, ma in ultima analisi entropico, vale a dire, creatore di disordine. Questa dimensione oggettiva, che caratterizzerà la visione del declino di Spengler, si differenzia dalla critica più soggettiva e morale espressa da Valéry e dalla sua celebre formula: «Noi, civiltà, sappiamo ormai di essere mortali» (ne "La crisi dello spirito", 1933). Questo linguaggio del primo Novecento, rifiuta la visione teleologica del progressismo, e propone un relativismo che i nostri avversari postmoderni, delle grandi narrazioni, non avrebbero rinnegato [*3]. Questa tendenza sarebbe stata rafforzata, negli anni '20 e '30, in una fase storica punteggiata dalla prima guerra mondiale e dalle reazioni che essa produsse, sia rivoluzionarie che controrivoluzionarie, con la crisi economica che la superò, questa volta a sinistra, seguendo l'idea di una crisi finale del capitalismo. Da parte sua, Victor Serge aveva scritto, a proposito degli anni '30, che si trattava della "mezzanotte del secolo" [*4], e questo mentre i gruppi comunisti di sinistra (Munis, Damen) riprendevano invece l'idea della decadenza del capitalismo. Tutte queste interpretazioni sono più soggettiviste, o politiche, di quelle di Spengler, e da qui la tendenza a parlare in termini di decadenza piuttosto che di declino. Entrambi gli approcci prendevano atto di una decadenza della classe dominante, nella sua forma borghese, nella misura in cui essa non avrebbe più svolto la sua missione di civiltà, per alcuni, né il suo obiettivo di progresso, per altri. Tali posizioni si manifestarono nelle lotte politiche dell'epoca, e videro, da un lato, lo sviluppo di una controrivoluzione tedesca dopo la sconfitta degli spartachisti e la rivoluzione dei consigli; e, dall'altro lato, la tattica stalinista di classe contro classe, che designava la socialdemocrazia tedesca, e non il partito nazista, come il suo principale nemico. Le posizioni, abbastanza vicine sia ai nazisti che agli stalinisti, sull'arte decadente, o sull'atteggiamento moralistico nei confronti della norma sociale (ad esempio in relazione all'omosessualità) ci mostrano come la nozione di decadenza si riferisse all'ordine politico, economico, sociale e culturale visto nel suo complesso, mettendo in discussione i regimi politici in atto e soprattutto la forma democratica, principalmente in quei paesi che non avevano una lunga esperienza di democrazia (Germania, Austria e Italia). Per comprendere questo paradosso - rappresentato da un lato dall'estensione della forma democratica, ad esempio nella giovane Repubblica di Weimar o nei suoi vicini austriaci e cecoslovacchi, e dall'altro dalla sua crisi - ci sono alcuni che sostengono ( seguendo Norbert Elias) che ogni sistema politico generi una particolare psiche, e che la democrazia liberale crei uno spirito di insoddisfazione e di stanchezza. Come disse Tocqueville molto tempo prima: «Quando la disuguaglianza è la legge comune di una società, le più grandi disuguaglianze non colpiscono l'occhio; quando tutto è più o meno livellato, sono le più piccole a ferirlo. Ecco perché con il crescere dell'uguaglianza il desiderio di uguaglianza diventa sempre più insaziabile». E nel maggio 1935, Edmund Husserl scriveva, nella conclusione de "La crisi dell'umanità europea e la filosofia": «Il pericolo più grande per l'Europa è la stanchezza. Combattiamo con tutto il nostro zelo contro questo pericolo dei pericoli, da buoni europei che non si lasciano spaventare nemmeno da una lotta infinita».

QUI E ORA
Oggi, molti pensano, come faceva Spengler ieri, che sia l'eccesso di formalismo giuridico, democratico e morale (prima il "politicamente corretto", e poi il "benpensantismo" in generale) a impedire agli occidentali di osare impegnarsi in una politica di potenza in cui la sovranità, compresa la sovranità fondata sul popolo e ratificata in un modo o nell'altro dal voto, si imporrebbe sullo stato di diritto perché verrebbe espressa dal "paese reale". Questa contrapposizione tra "paese reale" e "paese legale" - inaugurata da Charles Maurras e ripresa da Jean-Marie Le Pen all'inizio degli anni '80 -  è stata ora attualizzata e messa in pratica negli Stati Uniti nel corso dell'attentato al Campidoglio, "legittimato" a posteriori dalla vittoria elettorale delle categorie sociali da cui provenivano gli attentatori. Gli attentatori del Campidoglio erano 6.000, mentre gli elettori di Trump sono stati 76,8 milioni. Per questo Trump e quelli che gli sono vicini invocano ora un'ondata di «impulsi vitali e di buon senso» contro lo Stato di diritto, che sotto l'etichetta di “Stato profondo” diventa così il nemico [*5]. Mentre l'idea di universalismo, sviluppata all'interno del mondo occidentale, e che dovrebbe simboleggiare la libertà e la tolleranza, diventa per Trump, per Milei, per Bolsonaro, per Erdogan e per Orbán, il simbolo della burocrazia e della regolamentazione. Paradossalmente, dopo aver attaccato quella che un tempo veniva chiamata giustizia borghese e Stato dei padroni, oggi la sinistra postmoderna legittima lo Stato di diritto [* 6]. Ma questo non avviene nel nome di ciò che era alla base della Rivoluzione francese, ossia un legame tra la Costituzione il diritto e una legge che garantisca che lo “Stato di diritto” non rimanga completamente associato allo Stato (cfr. l'articolo 35 della Costituzione del 1793 sul diritto alla rivolta), bensì nel nome della legalità, e non più della rivoluzione. Questo è il suo ultimo valore politico universale da brandire, dal momento che l'universalismo della classe operaia (precedentemente in lotta) è passato anima e corpo al Rassemblement National. Avviene così un ripiegamento nel campo dello Stato legale, dove si spera di conquistare il potere all'interno di uno Stato, ristrutturato nella rete e nella forma critica di un universalismo "astratto" e "occidentale", sotto le spoglie dell'apertura e dell'inclusione.

L'AMERICANITÀ DEGLI STATI UNITI
È dubbio che un potere come quello di Trump si consideri ancora “occidentale”. Forse questo è solo un indizio significativo, ma molti dei membri del clan Trump provengono dalla West Coast (Los Angeles e Silicon Valley), la quale è orientata verso il Pacifico e l'Asia, mentre tradizionalmente le élite americane provenivano dal Nord-Est (New York e Wall Street), che è orientato verso l'Europa. F. J. Turner, uno storico dell'inizio del secolo precedente, promuoveva già l'America come una terra eccezionale, quasi fuori dal mondo: elastica ed estensibile, e in un discorso del 1896 dichiarava: «l'Occidente è una magica fonte di giovinezza nella quale l'America si bagna, e che la ringiovanisce». È su questo che costruirà la sua teoria della “frontiera”. [*7] Successivamente, nel XX secolo, questo riferimento è stato usato dai leader politici come una metafora della crescita e dello sviluppo; con la "nuova frontiera" e la conquista dello spazio per John Kennedy; la globalizzazione come attraversamento dei confini, per Clinton; oggi Marte e Star Wars, per Musk. Il Canale di Panama, il "Golfo d'America" e la Groenlandia, tutte nel mirino di Trump, testimoniano di questa caratteristica americana, che lo allontana sempre più dalle sue origini europee e lo spinge verso l'idea di un prolungamento del confine, insieme alla memoria della "conquista dell'Occidente". Per la sociologa americana Olena Leipnik, Trump prende in prestito il costume dell'eroe fuorilegge [*8]. Né dobbiamo dimenticare che all'altra estremità dello spettro politico, un autore anarchico e ambientalista come Murray Bookchin ha detto che negli Stati Uniti - perfino in "un'altra società", sarebbe impossibile abbandonare questo spirito pionieristico; e oggi, il Seasteading Institute, finanziato da Peter Thiel (PayPal), promette di «aprire le frontiere dell'umanità». (ibid.). Probabilmente, per Trump, i groenlandesi sono un po' come dei nuovi indiani.

SUL CAPITALISMO AMERICANO
- Produzione e circolazione nella formazione, e nell'accumulazione del capitale negli Stati Uniti -

La storiografia marxista rimproverava alla scuola delle "Annales débutante" (1929) di mettere al primo posto la circolazione, piuttosto che la produzione, nel momento in cui lo stalinismo glorificava la produzione per la produzione. Sembrerebbe pertanto che tutto concorra a definire il capitalismo come un modo di produzione, laddove invece, per Fernand Braudel, il capitalismo era soltanto una delle forme che erano state assunte da un'economia di mercato che in gran parte lo precedeva [*9]. Così, per lui, l'esistenza di fabbriche come quelle del tempo di Colbert non poteva essere considerata come l'inizio dell'industrializzazione, visto che per quel genere di prodotti non esisteva ancora un mercato. Inoltre, egli classifica le innovazioni definendole come beni culturali circolanti, e non come formazione di capitale fisso, come vengono invece considerate dai sistemi di contabilità nazionale. Innovazioni che circolano e che si diffondono, ma che lo fanno solo quando esiste già una domanda, e persino una pressione sulla domanda. Braudel, inoltre, ha anche sottolineato il ruolo importante svolto dal capitale finanziario nello sviluppo del capitale in generale, e che in maniera chiara si riflette nell'ideale così come viene rappresentato dal futuro capitalistico degli Stati Uniti. Il primo punto notevole, è che le imprese si sviluppano in una forma che non è quella del singolo imprenditore, sebbene siano comunque nutrite dall'idea dell'America vista come patria della libertà individuale di impresa. Tuttavia, nel 1812, quando negli Stati Uniti c'erano allora solo 7,5 milioni di abitanti, esistevano più di 1000 società per azioni registrate, mentre la Francia ne aveva 13, la Prussia 8 e l'Inghilterra (nel 1824) 156 [*10]. I due ricercatori americani, avanzano una tesi che rivede in qualche modo lo schema classico della cronologia delle imprese: al capitalismo "mercantile" – quello degli armatori e del commercio coloniale – del XVII e XVIII secolo sarebbe succeduto il capitalismo "industriale" delle ferrovie e delle fabbriche a metà dell'Ottocento, e poi il capitalismo "finanziario" delle banche, delle borse valori e degli hedge fund nei primi anni '80. Ma a causa delle 500 maggiori capitalizzazioni del 1812 negli Stati Uniti, 130 (ovvero il 26%) sono banche (comprese le 5 più grandi, e anche 9 delle 10 più grandi). Queste 130 banche da sole rappresentano il 72% del capitale totale di queste 500 capitalizzazioni. Tra la fine della guerra civile (1861-1867) e la fine del XIX secolo, gli Stati Uniti divennero la più grande potenza industriale e agricola del mondo, e nel 1913 la prima potenza esportatrice, detronizzando la Gran Bretagna. Ma sono stati gli investimenti delle grandi banche, fondate tra il 1791 e il 1812, a finanziare questo boom. Il capitalismo americano è prima di tutto un capitalismo finanziario, che prosciuga i profitti dei mercanti, delle banche stesse e dei proprietari terrieri. Ma è nel nord-est degli Stati Uniti, non nel sud, che si concentra la "Fortune 500" del 1812: gli stati di New York, Massachusetts e Pennsylvania rappresentano il 63% delle aziende e il 56% del capitale. Negli anni '10, quando il Congresso si rese conto – a seguito di inchieste della stampa – che una manciata di banche controllava da sola i consigli di amministrazione delle più grandi società industriali e di trasporto, nello stesso momento in cui emettevano moneta, legiferò per limitare le partecipazioni azionarie delle banche, e nel 1913 creò la Federal Reserve che oggi monopolizza l'emissione di banconote. Nel 1933, il Glass-Steagall Act imponeva alle banche di separare le loro attività di investimento da quelle che erano le loro attività di deposito dei risparmi degli americani. Una battuta d'arresto per il capitalismo finanziario.

DALLA PRODUZIONE AL CONSUMO/CIRCOLAZIONE, NEGLI ANNI KEYNESIANI
L'uscita dalla crisi degli anni '30, non avvenne attraverso l'imperialismo e per mezzo della guerra, ma grazie a un'estensione, per ciascuno, del mercato interno attraverso le politiche di welfare keynesiane che trionfarono nei paesi vincitori potenziate dal Piano Marshall (1948). Vennero così gettate le basi della società dei consumi, la quale si spingerà fino al punto di invertire  la vecchia catena fordista che legava produzione e consumo, attraverso l'applicazione dei principi toyotisti del flusso just-in-time tra domanda e offerta. I grandi perdenti della Seconda Guerra Mondiale - la Germania e il Giappone - così come quella potenza emergente che poi sarebbe diventata la Cina, cercarono di compensare la mancanza di un mercato interno (questi sarebbero stati i paesi che avrebbero sviluppato il più alto risparmio privato) per mezzo di una politica di sviluppo del mercato esterno (una politica che favorisse le esportazioni attraverso la qualità, le sovvenzioni e i sussidi). A partire dagli anni '70 si assistette a un'accentuazione della divisione internazionale del lavoro, e a un'internazionalizzazione degli scambi (crescita delle multinazionali, Mercato Comune Europeo) che confermano l'importanza primordiale della circolazione: globalizzazione e capitalizzazione. Questo cambiamento può essere simboleggiato dal passaggio dalla forma D-M-D' (Denaro - Merce - +Denaro) alla forma D-D', nel corso del quale la velocità di rotazione del ciclo del capitale (D: denaro) virtualizza la produzione (M: la merce), che non è più la forza motrice del ciclo. Quella che abbiamo chiamato la "rivoluzione del capitale" produrrà una nuova fase di ottimismo - quella di una "globalizzazione felice" - che non proietta più in primo piano i paesi in via di sviluppo (e i paesi meno sviluppati dell'epoca precedente, ma i grandi paesi emergenti. Un periodo di appena 50 anni, durante il quale quella che veniva tradizionalmente chiamata "politica industriale", svolta  su iniziativa degli Stati, sembrava fosse stata dimenticata a favore di una nuova divisione internazionale del lavoro volta a ottimizzare gli scambi commerciali nel contesto di un implicito ritorno della teoria dei vantaggi assoluti comparativi di Adam Smith [*11]. Questa "globalizzazione felice" (in cui tutti guadagnano) si è scontrata sia con il ritorno dei sovranismi che con le cosiddette contraddizioni esterne, come quelle legate al clima e all'ambiente, o detto in altre parole, con la relazione con la natura esterna. Trump non vede così lontano; per lui, che ragiona in termini malthusiani, il protezionismo mirato non è altro che un modo per assicurarsi la posizione di "vincitore". Tuttavia, e anche da questo punto di vista, le sue misure protezionistiche sono paradossali poiché esse si applicherebbero al paese meno globalizzato del mondo, dove le importazioni di beni e di servizi rappresentano solo il 14% del PIL, contro il 18% della Cina e il 22% dell'UE. Lo stesso vale per le esportazioni; 11% per gli Stati Uniti, contro il 20% e il 23% (fonte: Les Echos, 11 marzo 2025). Quindi, un ambito limitato, ad eccezione dei settori industriali in declino, come ad esempio l'industria automobilistica, che dipende parecchio dalle importazioni messicane e canadesi.

TENTATIVI DI MODELLIZZAZIONE
Sebbene - come fa Arnaud Orain nel suo libro "Le Monde confisqué. Essai sur le capitalisme de la finitude (XVIe-XXIe siècle)", (Flammarion, 2025) - alcuni cerchino, con riferimento a Braudel, di fare la storia di lunga durata, la maggior parte di loro opta per una soluzione facile, tipo quella di fissare una forma attuale e di eternarla, per non dire essenzializzarla, facendone la forma preferenziale del capitale, o la sua tendenza permanente, mentre il capitale non ha una forma preferenziale. Capitalismo della finitudine (Orain), capitalismo della predazione (Da Empoli), capitalismo cannibale (Nancy Fraser), capitalismo dell'apocalisse (Quinn Slobodian), capitalismo oligarchico per altri ancora. Tutte queste semplificazioni che cercano di creare un modello, o un sistema, sono simultaneamente immediatiste, antidialettiche e nominaliste, dal momento che creano un proprio immaginario del capitale, anziché cercare una sintesi, come quando, alla fine della sua vita, Marx riconobbe finalmente che il capitalismo era un sistema, e cominciò a usare il termine “sistema capitalistico”. Partendo da questo presupposto, Marx ha riconosciuto l'esistenza di controtendenze e contraddizioni nello svolgersi determinato dei processi. Al loro posto, abbiamo invece diritto a interpretazioni che, partendo da un fatto o da una verità parziale, pensino di poter identificare una teoria generale che sia originale. Tutti questi autori cercano di dare un nome al capitalismo odierno, come se si trattasse di fissarlo in una forma particolare che così lo distingua dai precedenti, mentre invece una delle sue caratteristiche è proprio quella di non essere riducibile alle forme. Avevamo già assistito a questo procedimento, con la sua qualificazione come neoliberista, ma che rimaneva una critica economica che voleva essere sintetica e obiettiva; e sulla quale è stato raggiunto un consenso intorno a quella che rimaneva una nozione vaga, per non dire di peggio. Ora, tutte le nuove qualificazioni appaiono intrise di critica morale, con pretese spettacolari, o addirittura performative. È come se tutti tirassero fuori un filo, da un gomitolo di spago, e lo scorressero senza fare alcuno sforzo di sintesi. Ma al di là della loro particolarità, ciò che li accomuna rimane il loro, implicito o esplicito,  soggettivismo declinista [*12], il quale ora ha sostituito l'oggettivismo marxista della crisi. Il vantaggio che c'è nel nostro concetto di rivoluzione del capitale, è che esso analizza il capitale nel suo movimento, e non come uno status. Almeno André Gorz, da buon dialettico, aveva dedotto, dalla sua analisi del ritorno del capitalismo alle forme di servitù, salariata o meno, che il capitalismo non superava un bel niente, dal momento che riciclava il vecchio, facendolo coesistere con il nuovo. Varoufakis cerca di fare lo stesso con il suo "tecno-feudalesimo", ma lo rende una caratteristica dogmaticamente dominante, e un processo quasi irreversibile, o da combattere o da subire.

LA POTENZA AMERICANA
Quel che è certo è che se ciò che ieri si chiamava ancora NTIC (Nouvelles Techniques d'Information et de Communication ) ha avuto un impatto sull'organizzazione non solo della produzione, ma di tutte le condizioni di vita, oggi l'intelligenza artificiale, e soprattutto il suo ramo generativo, ci fornisce una massa di potere fine a sé stesso [*13]; e il che solleva la questione se esistano, o meno, limiti e controllo sul processo. Questo potere si trova ora a essere raddoppiato dal ritorno delle grandi potenze alla ribalta della scena, oltre che anche a quello delle potenze intermedie e regionali, per le quali l'economia di mercato non è la preoccupazione primaria. Il che contrasta con il precedente periodo di "globalizzazione felice", durante il quale le multinazionali e la finanza hanno potuto dare libero sfogo alla loro natura estroversa. A differenza degli anni '70 e '80, durante i quali della globalizzazione hanno beneficiato enormemente la Germania e il Giappone (i grandi perdenti della seconda guerra mondiale), poiché il loro potere di esportazione era frutto di aziende nazionali, l'80% delle esportazioni cinesi oggi è fatto da aziende di proprietà straniera, principalmente americane. È questa è la conseguenza del ruolo degli investimenti esteri diretti (IED), un asse essenziale della globalizzazione. Quella che è la quota di un paese nei profitti globali totali, è quindi diventata un criterio più probante per valutare il potere rispetto al PIL. Léo Panitch [*14] parlava della teoria dello Stato impoverito, e lo faceva con il corollario dell'idea secondo cui, a partire dalla globalizzazione, le multinazionali sono state in grado di sfuggire allo Stato-nazione nel quale erano domiciliate. Per Panitch, l'imperialismo non è una risposta alle contraddizioni dell'accumulazione del capitale (Bukharin), o a una crisi di sbocchi (Rosa Luxemburg), né lo è al fatto che la politica del capitale finanziario porterebbe alla divisione economica del mondo, a vantaggio delle potenze imperialiste (Hilferding, e poi Lenin); esso nasce dalla volontà di potenza degli Stati. La sua teoria dell'imperialismo, è quindi più un'estensione della teoria dello Stato, piuttosto che un'altra estensione della teoria di Hilferding [*15]. Quello che ci interessa qui è che - rispetto ad Arrighi, Brenner, Hardt e Harvey - egli è l'unico teorico marxista di lingua inglese, con un profilo mediatico, che si oppone all'idea del declino americano, e concepisce un legame tra globalizzazione e politica statale. Ma non si tratta di un legame dialettico, come nella nostra esposizione della rivoluzione del capitale, con la nostra articolazione su tre livelli. Infatti, per lui, esiste solo la coesistenza dei due movimenti, perché nel capitalismo maturo ci sarebbe sempre più autonomia della sfera economica e di quella politica, mentre per noi l'unità delle due sfere è, al contrario, più importante nel processo di totalizzazione del capitale. I teorici della globalizzazione credono che i proprietari delle multinazionali siano sparsi in tutto il mondo, formando così una classe capitalista transnazionale. Questo non è sbagliato, ma tuttavia non impedisce che ci sia un aumento e un'estensione globale della proprietà americana delle aziende più importanti. I capitalisti statunitensi possiedono in media l'81% delle società transnazionali statunitensi (dati del 2021) e il 46% delle azioni in circolazione delle 500 maggiori società del mondo, mentre solo il 35% di esse è domiciliato negli Stati Uniti. Infatti, finché queste imprese transnazionali opereranno su un modello di crescita basato sull'export (Cina, Giappone, Germania, Arabia Saudita, ecc.), i loro paesi di origine saranno strutturalmente obbligati a dare denaro gratuito agli Stati Uniti, e gli Stati Uniti sono, di fatto, certi che il dollaro rimarrà la valuta delle transazioni internazionali. Mentre le banche centrali accumulano dollari intascati dagli esportatori dei loro paesi, devono depositare questi dollari nel bene rifugio per eccellenza, i titoli del Tesoro degli Stati Uniti; e così facendo, iniettano dollari negli Stati Uniti gratuitamente.

CONTRO UNA LETTURA ATTUALISTA DELLA POLITICA AMERICANA
La stampa e l'ambito intellettuale sono per principio talmente orientati in senso anti-Trump che a volte tendono perfino a farlo sembrare un pazzo. Ma Varoufakis [*16] non è però di questa opinione, dal momento che gli concede una certa logica, e gli concede un piano. Tuttavia, i livelli di razionalità non vanno confusi. Il fatto che il piano di Trump possa avere una sua logica, se vista dal punto di vista di alcune frazioni di capitale, e che egli vi aggiunga a questo un decisionismo politico autoritario, ciò non significa che il suo piano sia razionale... e a prescindere da questo punto di vista, che esso sia razionale nel senso corrente del termine. Di questo dubita Thomas Piketty, il cui ultimo articolo, “Il nazional-capitalismo trumpista ama mostrare i muscoli, ma esso in realtà è fragile e in difficoltà” (Le Monde, 15 febbraio 2025), fa uso di termini alla moda, tipo “estrattivismo”, come se quest'ultimo caratterizzasse in modo particolare il capitalismo, quando il “socialismo realmente esistente” era almeno altrettanto “estrattivista” del capitalismo occidentale, e persino più distruttivo dell'ambiente. Ne consegue che il capitalismo non viene più percepito come se fosse il primo modo di produzione basato sulla creazione, sulla trasformazione e sull'innovazione, ma che è stato fin dall'inizio un regime di saccheggio, con prima la schiavitù e poi la colonizzazione a giocare un ruolo preponderante nell'accumulazione primitiva, mentre il marxismo riteneva che quest'ultima fosse avvenuta principalmente attraverso l'agricoltura. Pertanto, dalla colonizzazione fino ai giorni nostri, avremmo avuto a che fare con nient'altro che un sistema parassitario e decadente basato esclusivamente sulla conquista della ricchezza; in breve, con un regime di predazione. Lungi da noi pensare che non ci sia stato dominio e sfruttamento, nell'accumulazione del capitale, ma questa visione elimina ogni possibilità di riconoscere un aspetto progressivo nel capitale e nei suoi rapporti sociali di produzione, i quali hanno tuttavia permesso di porre, storicamente, questioni sociali e societarie in termini di rivoluzione ed emancipazione. Da questo punto di vista, non sorprende che questi saggisti siano pronti a raccogliere, senza fare storie, il nuovo trito cliché del termine “oligarca”, usato per descrivere tanto Musk quanto uno dei quattordici oligarchi russi misteriosamente scomparsi nel 2022, o anche Bao Fan, in Cina, che, a quanto si apprende, deve rendere conto al Partito Comunista Cinese. Resta un mistero, relativo all'uso del vocabolario ideologico, il fatto che i boss russi in esilio, che criticano i nuovi canali di finanziamento russi per aggirare i blocchi, siano stati definiti “uomini d'affari” dal quotidiano Le Monde il 4 marzo 2025, sfuggendo così all'infamante etichetta di “oligarca”. Varianti di tale atteggiamento intellettuale si ritrovano sia tra i sostenitori del passato di una plutocrazia mai veramente definita, sia tra i post-moderni della cosiddetta “broligarchia [*17]. Questo uso indeterminato del termine, soprattutto a sinistra, porta all'omogeneizzazione del gruppo che si muove intorno a Trump e alla fabbricazione di questo "piano del capitale" che in assenza di una vera analisi della trasformazione del capitalismo e delle contraddizioni interne di questi gruppi, serve loro da mantra. Il metodo è sempre lo stesso: si individua un trend, e si pronuncia, anticipandolo, una sorta di completamento del trend. Ciò non sorprende, dal momento che tutti loro hanno abbandonato la dialettica a favore di un pensiero in bianco e nero. Perché si possa lanciare l'allarme, il 31 gennaio 2025, sulla possibile manipolazione di tutti i tassi (interessi e cambi), e per definire la guerra commerciale di Trump  come «la più stupida della storia», ci vuole il Wall Street Journal. Andrew Wilson, vice segretario generale della Camera di commercio internazionale, che rappresenta migliaia di aziende in 130 paesi, avverte: «La nostra profonda preoccupazione è che tutto ciò possa essere l'inizio di una spirale distruttiva che ci riporterebbe alla guerra commerciale degli anni '30» (su Le Monde, 11 marzo 2025). Sullo stesso genere, si può leggere un editoriale su "Les Echos" del 10 marzo che menziona un dirigente di uno dei più grandi gruppi del CAC40 che ha appena dichiarato: «Ci piacciono le politiche pro-business, ma ciò che ci piace ancora di più è lo stato di diritto e la stabilità giuridica». Dall'inizio di aprile, non si contano più i lanciatori di allarme di un tipo piuttosto particolare che danno di "temerario" a Trump, e la cui lettura immediatista/attualista risulta essere in errore.

LOTTE TRA FRAZIONI DEL CAPITALE E DECISIONISMO POLITICO
Se pensiamo che non ci sia alcun piano per il capitale [*18], ciò tuttavia non significa che in Trump e nei suoi consiglieri non ci sia un'idea di "governance"; e un metodo. Così uno degli influencer di questo clan, il blogger Curtis Yarvin, può affermare che Trump deve diventare dittatore allo stesso modo in cui lo fu F.D. Roosevelt, in modo da poter così attuare il suo programma. In ogni caso, il suo gruppo di cervelli non dovrebbe essere amministrativo-tecnocratico, come ai vecchi tempi, ma tecnofilo, con al timone degli smanettoni che trasformino lo Stato in una start-up. Yarvin, in primo luogo, qui ignora le profonde differenze con una situazione di grave crisi economica all'epoca degli anni '30, che oggi non ha corrispondenti; così come una Corte Suprema, che non sembra pronta a mettere i bastoni tra le ruote. E quindi non c'è bisogno di forzare la questione. Perciò, i controlli e gli equilibri non sono gli stessi; qui non è la Corte Suprema ad opporsi al presidente, quanto piuttosto una Wall Street a dir poco diffidente, se non ostile, e che sta all'erta in modo da poter reagire rapidamente in caso di necessità, cosa che sta iniziando a fare in seguito al crollo dei prezzi di borsa; così come non c'è un Warren Buffet seduto su un enorme forziere di guerra e che non ha paura della tassazione fiscale, ma piuttosto degli effetti delle misure di Trump sulla politica monetaria e delle ripercussioni sul mercato azionario; infine, abbiamo una Fed più indipendente, rispetto agli anni '30 quando era una creazione recente, di fatto guidata dalla banca Morgan e altri, al fine di stabilizzare l'inizio del panico degli anni '20 trovando di conseguenza un prestatore di ultima istanza reso istituzionale, per migliori garanzie. Senza dimenticare che al vertice di Davos del gennaio 2025 il fondo finanziario più grande, Blackrock, ha sostenuto l'idea dell' Unità europea, un' Unità attaccata sia da Trump che dai nazionalisti europei i quali la vedono come un'opportunità per un'alleanza tattica. Siamo quindi lontani da un'unità del "grande capitale", visto che ci sono ancora molti venti contrari. Varoufakis, così come altri (Piketty), non sembra tener conto dei vantaggi che gli Stati Uniti traggono dalla divisione internazionale del lavoro. Sembra che prendano per oro colato ciò che si dice sui disavanzi commerciali, senza tener alcun conto degli scambi all'interno di uno stesso gruppo, dell'aspetto multinazionale delle grandi imprese, dei legami di subappalto, ecc. Inoltre, il disavanzo commerciale americano non è sorprendente, dato l'enorme peso dei servizi in relazione all'industria. Questo deficit americano sancisce - così come avviene con il dollaro in quanto moneta di transazione e di riserva - l'eccezionalità della tesi americana, la quale consiste nel trasformare una debolezza in un punto di forza, catturando parte della ricchezza mondiale senza dover aver bisogno di passare attraverso l'imperialismo. Tuttavia, la malafede di Trump e del suo entourage non dovrebbe farci dimenticare che a livello di capitalismo ai vertici esistono contropartite all'acquisizione e alla negoziazione; sia all'epoca del Piano Marshall sia nel contesto del finanziamento della difesa del "campo" occidentale nel quadro della NATO. È questo ciò che è stato teorizzato come una "strategia di egemonia" dal politologo Mickael Mandelbaum [*19]. È predominante dal 1991, e rappresenta il tentativo di stabilire un nuovo ordine mondiale che subentri al vecchio imperialismo.Trump ha abbandonato questa strategia egemonica a favore di una strategia della sfera di influenza, la quale era già stata quella dei suoi modelli presidenziali (William MacKinley e Theodor Roosevelt). La Groenlandia, il Canada, Panama sarebbero nella sfera di influenza americana, mentre l'Ucraina e la maggior parte dell'area slava in quella della Russia e di Taiwan sarebbero nella sfera cinese. Gli Stati Uniti sono invece molto dipendenti dai flussi finanziari che permettono loro sia di finanziare il Tesoro, che di mantenere il valore del dollaro, ma per il momento li assorbono senza problemi. Da questo punto di vista, il capitalismo mondiale non è ancora uscito da un certo equilibrio di funzionamento, come ho cercato di sviluppare teoricamente con la mia idea di "riproduzione rimpicciolita" [*20], che in certi punti si sovrappone all'ambigua nozione di finitezza di Orain. Per dirla in modo meno teorico, la globalizzazione, e in particolare la nuova divisione internazionale del lavoro (DIT), e la globalizzazione del commercio, hanno reso possibile la coesistenza di squilibri all'interno di ciascuna delle tre principali zone economiche. La Cina risparmia troppo e non consuma abbastanza, permettendo così agli Stati Uniti di consumare più di quanto risparmiano. L'UE, da parte sua, indirizza molti dei suoi risparmi all'estero, in contraddizione con il suo obiettivo di un'industria forte. A essere paradossale è che, a suo modo, la politica di Trump non si discosta da questa prospettiva di riduzione della riproduzione. Prima di tutto, perché da buon malthusiano, Trump non pensa che la torta della ricchezza possa aumentare, e quindi ritiene che non ci possa essere, a livello di commercio mondiale, un rapporto in cui guadagnano tutti; in secondo luogo, da buon pragmatico, sta scommettendo su un livello di recessione americana inferiore a quello cinese. Sta puntando a un nuovo equilibrio, non ottimale, a suo favore. Nel suo articolo, Piketty ritiene che gli Stati Uniti siano in grave difficoltà. Non voglio dare un giudizio anticipato, dal momento che in dieci anni la quota degli Stati Uniti nella capitalizzazione mondiale è passata dalla metà del totale a due terzi. Negli Stati Uniti, la capitalizzazione di mercato (cioè la valutazione dei titoli) rappresenta il 190% del PIL, rispetto al 50% dell'UE e il rapporto valutazione/profitto è di 27 contro 14, il che consente, attraverso questo capitale fittizio presente nella valutazione di mercato, di valutare meglio sia l'investimento che la remunerazione degli azionisti (tecnicamente la Q [*21] di Tobin). È quindi del tutto logico, a parità di altre condizioni, che il tasso di investimento americano sia superiore a quello europeo (14 contro 11,4 [*22]). Ma sebbene efficiente, questa teoria è datata (1969), e non tiene conto della globalizzazione finanziaria e del nuovo ruolo della capitalizzazione. Infatti, nel processo complessivo, attribuisce sempre grande importanza all'accumulazione e alla produzione. Tuttavia, oggi, la pratica delle fusioni e acquisizioni è diventata una soluzione facile, per non dire di moda, anche quando Q è maggiore di 1. Gli Stati Uniti realizzano quindi un numero di fusioni e acquisizioni più che doppio rispetto agli europei, pur avendo un tasso di investimento migliore. Questo potere è amplificato dal ruolo dei fondi pensione (155% del PIL rispetto al 22% dell'UE), che sono principalmente orientati (60%) verso investimenti azionari. Abbiamo quindi l'impressione che a essere in fibrillazione siano i vari esperti e i media, i quali ora lodano ciò che ieri hanno invece denunciato, perché reagiscono alla rottura trumpiana con una reazione riparatrice. Così, Trump sta attaccando le agenzie governative federali, e "Le Monde" dell'11 febbraio 2025 si è preoccupato... per il destino della CIA e della DARPA per l'innovazione elettronica e militare, quando noi non sapevamo che questo giornale era così favorevole al "complesso militare-industriale"! Allo stesso modo, Davos, un tempo club dei ricchi (per "Le Monde diplomatique" si tratterebbe della «riunione dei nuovi padroni del mondo» e del'«areopago delle élite»), ora sarebbero diventati dei capitalisti gentili, nel momento in cui è Steve Bannon ad attaccare "il partito di Davos", riprendendo lo schema cospirativo originariamente proveniente dai sovranisti di sinistra. Lo stesso vale per l'improvvisa difesa delle grandi università private americane, anche se esse producono e riproducono le maggiori disuguaglianze sociali (vedi anche nota *26).

LE CONTRADDIZIONI DELLA RISTRUTTURAZIONE IN RETE DEL CAPITALE
L'accresciuta presenza di attori non statali e di diverse reti e think tank sulla scena internazionale, ha sconvolto i consueti interventi istituzionalizzati e gerarchici a favore di forme informali di potere. Questa configurazione offusca così le vecchie separazioni tra le attività economiche e quelle politiche, tra quelle private e quelle pubbliche e tra le relazioni tra i livelli locale, regionale, nazionale e globale. Questa messa in rete di diverse posizioni di potere, indica tanto un'integrazione quanto una frammentazione di tutte queste forme, il cui esito è incerto; da un lato, il Forum Mondiale, almeno come progetto, potrebbe costituire una sorta di internazionale del capitale. Non si tratta, quindi, così com'è, di una società segreta, per esempio, del tipo della Massoneria. Si viene per respirare lo spirito dei tempi più che per progettare il futuro; ma d'altra parte, nuovi guru dell'economia come l'influencer Curtis Yarvin stanno sviluppando quella che è una prospettiva di un mondo di Stati corporativi, un mosaico di corporazioni, ognuna governata da una sorta di società per azioni. La politica del clan Trump rompe con il metodo di organizzazioni informali, come il World Forum, che hanno un desiderio di equilibrio, ad esempio integrando nelle regole dell'OMC alcune particolarità favorevoli ai paesi in via di sviluppo per ottenere una relativa stabilizzazione della globalizzazione. E a sinistra c'è un grande sconcerto, poiché alcuni rimpiangono la stessa OMC che ora è riconosciuta per aver svolto un ruolo importante nella nascita dei paesi "emergenti" e nella riduzione della povertà nel mondo [*23]. Trump e Musk vogliono staccarsi dal Forum, e la loro distanza dal Forum ne è un chiaro segno. Alphabet, Meta e Open AI hanno seguito l'esempio. Per dirla semplicemente, poiché questi clan e campi non sono strettamente omogenei, il rapporto tra il clan Trump e il clan Davos, da una parte, e il campo di Wall Street dall'altra, è emblematico di ciò che abbiamo cercato di descrivere nel nostro articolo "Frazioni di capitale e lotte di potere" (nel n. 21 di "Temps critiques", 2022). Contrariamente a quanto possiamo leggere e sentire, c'è stata effettivamente una mescolanza di élite ed è ovviamente nel paese più potente con la più alta mobilità sociale che questo ha avuto luogo. L'accelerazionismo prodotto dalla rivoluzione del capitale, è alla base dell'avvento di questo nuovo mondo nel quale l'innovazione, i nuovi comportamenti ai margini, se non marginali [*24], vengono a competere con le posizioni acquisite e con la rispettabilità. Ad esempio, l'accelerazione reazionaria teorizzata da Lorenzo Castellani [*25] trova una formula politica: non più l'influenza dei "giganti della tecnologia" sul governo, ma l'esercizio diretto del potere da parte dei leader del business digitale; cosa che Musk sta in parte realizzando oggi come consigliere di Trump. Unendosi all'autoritarismo di Trump contro il libertarismo originale, questi tecnofili individualisti stanno sviluppando un retro-futurismo. Per loro, il capitalismo opera nello spazio illimitato della propria universalità, ed è proprio per questo che tutto ciò che facciamo si trova in esso. Promuovono l'intensificazione illimitata di un capitalismo americano che è finalmente riuscito a respingere le frontiere (cfr. nota *7). L'idea è quella di creare una singolarità tecnologica iniziata e poi promossa dai GAFA, da Musk, dai transumanisti; quella che potremmo chiamare la frazione tecnologica della rivoluzione del capitale. Pur dipendendo da esso, ora il capitalismo tende a sovraccaricare la sua frazione finanziaria, anche se quest'ultima può occasionalmente richiamarlo all'ordine, come si può vedere con la reazione dei mercati azionari all'aumento dei dazi doganali. Nella nuova scala statutaria, la ricchezza occupa un posto preponderante, perché è in linea con i nuovi indicatori di potere che sono tutt'altro che patrimoniali, ciò nonostante i discorsi attuali sul dominio del capitalismo patrimoniale. A differenza del capitalismo dell'accumulazione/produzione ed estrazione, che si basava sul lungo termine - ed è questo ciò che pone un problema per le "terre rare" -  il capitalismo dei flussi finanziari e informatici è a breve termine, quello della capitalizzazione. L'unica cosa che potrebbe essere chiarita e modificata in relazione a questo articolo di Castellani, è che ciò che abbiamo sviluppato a partire dall'evoluzione della sfera finanziaria del capitale, dagli anni '80 e 2000, è stato rinnovato e rafforzato dalla crescita e dalle acquisizioni della sfera tecnologica (e immobiliare), i cui membri hanno più un'origine esterna che di appartenenza all'establishment del periodo precedente, piuttosto di estrazione bushiana o clintoniano [*26]. Una caratteristica che permette un'alleanza, seppur congiunturale, tra "anti-sistemi" in alto e "anti-sistemi" in basso. Attraverso il loro cesarismo politico [*27] e l'idea che il fine giustifica i mezzi, i primi danno ai secondi l'impressione che saranno in grado di sfuggire alla fatalità della globalizzazione, e alla catastrofe planetaria prevista dagli esperti. È una vittoria dell'ideologia di certe fazioni di potere e di credo (compreso il credo religioso), di coloro che si sentono declassati o abbandonati. I media possono iniziare, quanto voglio,  tutte le loro informative, o le loro diatribe, con «il miliardario Trump», ma la cosa non funziona. Da quel momento in poi, la sfacciataggine può dilagare e Trump può parlare a ruota libera, come ha fatto nel suo ultimo post: «Questo sarebbe il momento perfetto per il presidente della Fed Jerome Powell per tagliare i tassi di interesse. È ancora in ritardo, ma ora potrebbe cambiare la sua immagine, e in fretta. Abbassa i tassi di interesse, Jerome, e smettila di fare politica!» [*28] ; ma da perfetto tecnocrate del capitale, "Jerome" non si è lasciato condizionare: «Sebbene sia molto probabile che i dazi generino almeno un aumento temporaneo dell'inflazione, è anche possibile che gli effetti siano più persistenti». … e che in prospettiva dovremo alzare i tassi di interesse, e far precipitare il Paese (o il mondo?) nella stagflazione.

ADDIO ALL'OCCIDENTE?
Se interpretiamo a modo nostro il libro di Samuel P. Huntington "The Clash of Civilizations and the Refoundation of the World Order" (Odile Jacob, 1996), emerge che: 1) la modernizzazione capitalistica non è riducibile a un'occidentalizzazione del mondo; 2) La politica al livello dell'ipercapitalismo al vertice è multilaterale e "multiculturale"; 3) L'equilibrio del potere sta cambiando a scapito del potere occidentale; 4) Gli occidentali devono ammettere che la loro civiltà è unica ma non universale. Di conseguenza, devono unirsi per rinvigorirla contro le sfide poste dalle società non occidentali, e anche gli Stati Uniti devono riconoscere la loro appartenenza a questo mondo occidentale. Non possono isolarsi in quella che sarebbe la loro specificità, vale a dire un paese senza una civiltà comune, vale a dire, una civiltà multiciviltà. Lungi dall'essere un'interpretazione politica che a volte è stata fatta in senso semplificativo, al fine di contrapporre due mondi, quello occidentale e quello islamico, Huntington elenca otto civiltà, e la sua conclusione è l'opposto dell'ipotesi di una bipolarizzazione, perché per lui il mondo è diventato multipolare e multiciviltà. Ancorati alle "civiltà", i conflitti che lo animano sono inerenti a identità sedimentate di lunga data. Peter Thiel, uno dei pensatori della "Trump-sfera", è consapevole di questi problemi quando dichiara: «L'Occidente moderno ha perso la fiducia in sé stesso. Durante l'Illuminismo e il post-Illuminismo, questa perdita di fiducia ha scatenato enormi forze commerciali e creative. Allo stesso tempo, questa perdita ha reso l'Occidente vulnerabile. C'è un modo per fortificare l'Occidente moderno senza distruggerlo completamente, un modo per non buttare via il bambino con l'acqua sporca?» [*29] Per Thiel, la crisi dell'autoconservazione è anche il momento dello stato di eccezione, allorché, in un certo senso, tutto verrà rivelato. Per il momento, e senza pregiudicare il futuro della politica di Trump, quello che possiamo dire è che nella sua opposizione all'Europa, e alla sua storia politica, sociale e culturale, questa corrente si sta staccando dalle sue origini, dalla filosofia dell'Illuminismo e dal suo universalismo. L'«illumunismo dark» rivendicato dal nuovo profeta Curtis Yarvin, ce ne offre l'espressione più eclatante. Non importerebbe se questi "illuministi" originali non fossero anche sistematicamente attaccati dai decostruzionisti di sinistra, entrambi accomunati da un relativismo quantomeno intemperante.

- Jacques Wajnsztejn,  pubblicato 17 aprile 2025 -

NOTE:

[1]  –  M. Onfray, "Decadenza", Ponte alle Grazie.
[2]  – Jean-François Lyotard, "Petite mise en perspective de la décadence et de quelques combats minoritaires à y mène", in Politiques de la philosophie, testi raccolti da Dominique Grisoni, Grasset, 1976, p. 123 e segg.
[3]  – «... Per quanto riguarda lo "scopo dell'umanità", sono profondamente e categoricamente pessimista. L'umanità, per me, è una grandezza zoologica. Non vedo alcun progresso, nessuna meta, nessuna via di umanità, tranne che nei cervelli degli Homais progressisti dell'Occidente». Spengler, "Pessimismo", in Écrits historiques et philosophiques, Pensées, Copernicus, 1980, p. 39.
[4] – Cfr. Victor Serge e la critica dello stalinismo nel 1939, in "S'il est minuit dans le siècle", Grasset, coll. "Les Cahiers rouges", 1939.
[5] – Sarebbe uno Stato nello Stato che deterrebbe il vero potere decisionale. L'espressione è apparsa negli anni '90 in Turchia, poi in Italia, per parlare di collusione tra politici, polizia e mafia. Questa espressione è stata ritrovata dopo l'elezione di Donald Trump: il canale Fox News e il sito Breitbart l'hanno usata per sostenere il presidente, che è stato oggetto di una procedura di impeachment.
[6] – Cfr. L'evoluzione del giornale Libération.
[7] – Frederick Jackson Turner, "The Frontier in the History of the United States", PUF, 1963: «l'Occidente è più una forma di società che una regione geografica» (p. 178). E ancora: «L'Occidente è un processo di organizzazione sociale. La nozione di confine, per la sua stessa estensibilità, è un confine, per definizione, sempre in movimento, mai predefinito. Gli Stati Uniti sono stati costruiti e definiti su un confine sfuggente: un confine che va solo avanti, che esiste solo come un'incessante autotrascendenza, un'inesauribile frontiera autocostruita come diceva Carnegie. Il confine e lo spostamento verso l'Occidente funzionano come un cambiamento di scenario e una de-europeizzazione – "spoglia" l'uomo "germanico" dei "vari attributi della civiltà per fargli indossare mocassini e abiti da caccia" – all'interno del quale, secondo uno schema abbastanza vicino a quello della selezione darwiniana, si devono "accettare le sue condizioni o perire"». (op. cit., pp. 3-4).
[8] – Olena Leipnick, Donald Trump in the Frontier Mythology, Rootledge, 2023: «Trump è arrivato in politica con un passato controverso, ma l'inserimento della sua immagine presidenziale nella logica del mito ha trasformato questa ambiguità morale in prova di autenticità propria di una versione completa dell'eroe della frontiera.», citato in Le Monde, Valentine Faure: "In che modo Donald Trump sta facendo rivivere il mito americano del 'confine'?"
[9] – Cfr. Braudel, L'identité de la France, vol. II, Arthaud-Flammarion, 1986, p. 227.
[10] – Secondo il censimento effettuato da due economisti americani, Henry Kaufman (Stern School of Business, New York University) e Robert Wright (Augustana University, South Dakota).
[11] – Per Smith, è nell'interesse di ogni paese specializzarsi in una produzione i cui costi di produzione sono inferiori a quelli di altri paesi. La produzione sarebbe ottimale in teoria (globalizzazione felice), ma in realtà è diseguale. È stato rapidamente soppiantato dalla teoria del vantaggio comparato di Ricardo, con la specializzazione che ha luogo dove il vantaggio è maggiore o il vantaggio più grande. meno svantaggi. L'estrema divisione internazionale del lavoro nella globalizzazione ha tuttavia aggiornato la teoria di Smith, ma i suoi limiti si sono visti al tempo della crisi sanitaria.
[12] – Le fonti recenti di questo declinismo sono, naturalmente, le tesi del Club di Roma e il Piano Mansholt sulla necessaria riduzione della spesa energetica all'inizio degli anni '70. Da allora sono stati rilanciati, prima dalle teorie della diminuzione delle correnti, poi dalla congiunzione delle azioni degli esperti (IPCC) e degli attivisti per il clima.
[13] – Da qui anche la tendenza a voler diventare sempre più grandi (cfr. il progetto Stargate), mentre l'esempio cinese di DeepSeek, che è finanziato da venture capital (la società di gestione patrimoniale cinese Hygh Flyer) mostra la diversità delle opzioni per l'IA.
[14] – Insegnante canadese di scienze politiche e collaboratore della New Left Review.
[15] – Leo Panitch e Sam Gindin: "Sovrintendere al capitale globale", citato e introdotto, in modo piuttosto confuso, da Razmig Keucheyan in Hémisphère gauche, Zones, La Découverte, 2010. Per le seguenti statistiche, si veda l'intervista a Sean Starrs, lui stesso un ex allievo di Panitch: "Il declino economico degli Stati Uniti è stato notevolmente esagerato", in jacobin.com, 21 febbraio 2025.
[16] – https://unherd.com.fr/2025/03/le donald-trump-master-economic-plan
[17] – parola "portmanteau" che associa "bro" (contrazione di fratelli) e arkhia (comando). Si riferisce a una modalità di leadership composta da una manciata di uomini che si considerano migliori amici – che si aiutano a vicenda, cooptano, litigano e banchettano tra di loro in club selezionati, sul modello dei fratboys, i membri delle confraternite studentesche americane. Apparso negli anni 2010 negli Stati Uniti, questo neologismo si è diffuso sulla stampa americana e poi internazionale in seguito a un articolo del quotidiano britannico The Guardian intitolato "I broligarchi tecnologici si stanno allineando per corteggiare Trump".
[18] – Cfr. il mio articolo sulle frazioni di capitale nel numero 21 di Temps critiques.
[19] – "Nel caso di Golia. Come gli Stati Uniti agiscono come governo mondiale nel 21° secolo", 18 Public affairs, 2006, citato da Michael Lind in Le Monde, 26 marzo 2025. La posizione nazionalista di Trump rompe con questa strategia e ricorda invece la fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods di Nixon nel 1971 e riecheggia le parole di John Connally, ex segretario al Tesoro: "Gli stranieri sono qui per fotterci. È nostro compito scoparli per primi" (ibid.).
[20] – Si veda "Capitalizzazione e riduzione della riproduzione", Temps critiques, n. 19, 2018, https://www.tempscritiques.net/spip.php?article383
[21] – Questa teoria definisce un rapporto Q tra la capitalizzazione di mercato (valutazione) e il costo di sostituzione delle immobilizzazioni (capitale fisso). Un Q maggiore di 1 significa che l'azienda in questione ha interesse ad aumentare il proprio stock di capitale fisso e quindi sceglie la crescita organica investendo; un Q inferiore a 1 può viceversa portare a una scelta di crescita esterna attraverso il processo di fusione/acquisizione.
[22] – Fonte; P. Arthus, Les Echos, 3 marzo 2025.
[23] – Cfr. L'intervista del direttore dell'ONG Max Havelaar al quotidiano Le Monde, 18 febbraio 2025.
[24] – cfr. l'articolo di Nastasia Hadjadji: "LSD, ketamina... perché Elon Musk, Peter Thiel e la destra tecno-americana stanno inciampando con gli psichedelici", in Libération, 7 aprile 2025.
[25] – L. Castellani: "Con Trump, l'era dell'accelerazione reazionaria", in Le grand continent, 8 novembre 2024.
[26] – Nel suo romanzo biografico Hillbilly Elegie (Paperback, 2016), J. D. Vance, l'attuale vicepresidente, racconta il suo sgomento quando è arrivato a Yale nel 2010; Un'università privata d'élite in cui il 95% degli studenti proviene dalla classe medio-alta. Secondo lui, nonostante la sua alta statura, la pelle bianca e l'eterosessualità, era la prima volta che si sentiva fuori posto (p. 259 e segg.).
[27] – Da Empoli, op. cit. cit., cita César Borgia e parla di un "momento machiavellico".
[28] – Citato in Le Monde, 6-7 aprile 2025.
[29] – Peter Thiel, "Il momento straussiano", in Studi su violenza, mimesi e cultura: 27, Politica e apocalisse, a cura di Robert Hamerton-Kelly (Michigan State University Press, 2007), 207; citato da Huk-Hui, "Sulla ricorrenza dei neoreazionari", Lundi matin, n. 463.