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domenica 12 maggio 2024

Stata attenti !!

Il lavoro
- di Roger Belbéoch -

Per tutti, il lavoro rappresenta la maggior preoccupazione, sia che gli si dedichino tutte le proprie energie, come vuole la morale, sia che si voglia sfuggirgli, in quanto attività faticosa e noiosa. Da diversi decenni "il bambino" è stato ritirato dal circuito produttivo, ma questo non significa che rimanga estraneo al lavoro. In definitiva, tutta l'istruzione rimane solo un apprendistato in quello che è il proprio ruolo di futuro produttore. Nei genitori, la preoccupazione dominante è quella di sapere quale posto occuperà il figlio nella produzione, senza preoccuparsi molto dello stato in cui ci arriverà. Ed è pertanto in relazione al lavoro che, per noi, si deve giudicare una società o un progetto di trasformazione sociale. La prima osservazione che va fatta riguarda le stesse parole che vengono usate. In tutte le società a noi vicine, esistono molte parole per designare questo genere di attività: fare, produrre, lavorare, costruire, ecc. A volte viene persino aggiunto il nome dell'oggetto trasformato, ma non sempre è necessario. Inoltre,  man mano che le nostre società si sviluppano questo è diventato sempre meno necessario, poiché è solo l'attività che sembra avere un interesse, o un significato. Abbiamo pochissime parole che designino sia l'attività di trasformazione che l'oggetto trasformato, e queste parole tendono a scomparire dal linguaggio. La struttura analitica del nostro linguaggio riflette e rafforza la separazione del lavoro, ci mantiene in una condizione di pensare nella quale questa separazione viene ritenuta (quando non è semplicemente inconscia) come se fosse un fatto naturale, quasi biologico del genere umano. E' quindi per noi assai difficile uscire da un simile quadro e immaginare una società in cui tale separazione non esista. Tuttavia, non c'è nulla di naturale in questa separazione. Alcune società non l'hanno mai adottata come base per le loro strutture. In esse, non vi ritroviamo quelle parole generali che designano l'attività produttiva indipendentemente dagli oggetti prodotti. Il loro linguaggio riflette piuttosto una vita nella quale produzione e prodotti non sono separati. Naturalmente, si dice che queste società sarebbero primitive. Non si tratta di prendere questa o quella tribù indiana o africana come modello sociale perfetto. Quando ne parliamo, si tratta piuttosto di rendersi conto che gli uomini hanno creato un gran numero di strutture sociali assai diverse. Ragion per cui, non siamo perciò limitati da quelle che sarebbero leggi naturali fondamentali. Il lavoro, nella forma che conosciamo, è essenziale per il "buon" funzionamento della nostra società. L'ideologia, quali che siano i suoi aspetti, tende a convincerci della normalità di questa attività. Oggi, sta trovando sempre più difficile svolgere il suo ruolo, perché mentre la nostra società "migliora" e razionalizza questa attività, la reazione normale degli individui diventa sempre più quella di rifiutarla. Per molto tempo abbiamo cercato di convincere le persone che il lavoro era il fondamento della virtù, dell'onestà, della rispettabilità, dell'equilibrio. Era ed è sempre più spietatamente separato dal piacere. Pertanto, l'enorme desiderio che i bambini hanno dentro di sé di scoprire, di conoscere, di integrarsi con tutti i loro sensi negli oggetti che li circondano, di legare la loro attività utilitaristica alla totalità della loro vita quotidiana, questo desiderio deve essere rapidamente spezzato. Di questo, se i genitori non l'hanno già fatto, se ne occupa la scuola.  Ma al momento i risultati non sono granché, e i problemi di rifiuto diventano sempre più evidenti; la società rischia di esaurire le pattumiere in cui infilare tutti i suoi squilibrati. Tuttavia, sebbene sia sempre più violenta, la rivolta non riesce ancora a liberarsi facilmente del quadro ideologico che per secoli abbiamo dovuto sopportare. E' pronta ad adattarsi all'illusione tecnocratica, a patto che quest'ultima ci metta un po' di buona volontà. Il godimento che il lavoro dispensa in tutte le società industriali - o in quelle che aspirano a diventarlo - può esistere solo attraverso l'intermediazione del denaro. L'operaio non beneficia mai direttamente del suo lavoro, egli può trarre profitto solo dalle merci che compra con il suo denaro. Più la società si perfeziona, più complicato e incomprensibile diventa il circuito tra il godimento e l'atto produttivo. I mestieri, con il loro cortocircuito, tendono a scomparire. Il divertimento viene sempre rimandato. Il presente è sempre meno interessante, conta solo il futuro. La vita è sempre più divisa in momenti il cui le uniche relazione si basano sul denaro. In questa società, godere di più significa lavorare di più, vale a dire, annoiarsi sempre più nel presente, per poi godere dopo, ma questo dopo non arriva mai a esistere. In tali condizioni, la reazione normale e salutare è quella di rifiutare ogni lavoro, a favore di quei godimenti immediati che escludono ogni sforzo produttivo. Ciò a cui assistiamo è una marginalizzazione totale o parziale rispetto al lavoro, che richiede uno sforzo produttivo sempre maggiore. Rispetto a questo, per prima cosa, va notato che non si tratta di un atteggiamento nuovo. In definitiva, in passato si è trattato della mentalità del rentier, il redditiere che, riducendo i propri bisogni, risparmiava il più possibile per poi poter trascorrere parte della propria vita senza lavorare. Solitamente, la parziale emarginazione dal lavoro viene accompagnata dallo sviluppo di un'ideologia che arriva alla convinzione secondo cui, nella nostra società (industriale), potremmo vivere lavorando molto meno, riducendo massicciamente gli sprechi ed eliminando le attività non necessarie (spese militari o altro). Alcuni immaginano che le macchine possono funzionare senza l'intervento umano, sotto il controllo dei computer, ma si tratta di una visione ultra-tecnocratica del mondo, la quale fa da cassa di risonanza a certi scienziati che, come se fossero dei banditori, chiedono qualche soldo in più promettendo di mostrare cos'è che sanno fare. È questo il programma di tutti i partiti politici di sinistra: sviluppare la tecnologia senza limiti (verrà presa qualche precauzione per non distruggere l'ambiente, sono moderni e conoscono i problemi ecologici!) e ridurre l'orario di lavoro. Queste idee si basano sul principio che ogni e qualsiasi lavoro, ogni sforzo produttivo, sia noioso (soddisfacendo così la nostra natura) e che possiamo produrre ciò di cui abbiamo bisogno solo in modo industriale (e così le fondamenta della nostra società vengono mantenute). In un equilibrio meraviglioso. Dal momento che non possiamo eliminare completamente il lavoro, allora lo ridurremo, e cercheremo anche di renderlo un po' meno noioso attraverso delle tecniche di rotazione delle attività. Ma tuttavia manterremo quello che è l'essenziale dell'attuale struttura industriale; anzi, meglio ancora, lo svilupperemo senza ostacoli (non ci sarà più lotta di classe). Tutto ciò presuppone che il male non provenga dal lavoro (industriale) in sé, ma dalla sua organizzazione e dal suo scopo (gli armamenti sono cattivi; i mulini, i computer, i telefoni possono invece essere buoni).

E se si trattasse di una malattia derivante dal lavoro (industriale) stesso? In questo caso, le rivoluzioni proposte dovrebbero porre fine al periodo di incubazione della nostra malattia; possiamo essere certi, quindi, che dopo queste rivoluzioni la nostra malattia si svilupperebbe in modo fulmineo. Si aprirebbe un futuro radioso per i guaritori di ogni tipo! Alla fine, ciò che è fastidioso del nostro lavoro non è lo sforzo fisico o intellettuale che esso implica, ma la nostra relazione con questo sforzo. Nel momento in cui ne traiamo un godimento immediato, senza che ci sia il denaro a confonderci, se questo lavoro appare intimamente legato agli altri nostri godimenti per tutti i nostri sensi, se usiamo ciò che produciamo via via che procediamo, non diciamo mai che stiamo lavorando. Se ciò che produciamo non viene integrato direttamente nella nostra vita, ma viene scambiato attraverso relazioni sociali dirette e piacevoli, allora lo scambio non ha nulla a che vedere con la compravendita di beni in un negozio (dove conta solo il denaro). Perciò, la soluzione radicale ai nostri mali non è quindi la riduzione dell'orario di lavoro, quanto piuttosto il suo cambiamento. E questo cambiamento non può essere previsto in nessuna forma in una società basata sulla tecnologia industriale, dal momento che essa implica sempre una divisione delle attività (che questa divisione sia spinta o meno fino all'assurdo, può conferirle vari aspetti senza tuttavia modificarne fondamentalmente le conseguenze). In ogni caso, la divisione del lavoro e la sua separazione dalla vita necessitano di meccanismi di misurazione dell'attività produttiva (il denaro è il più semplice) che non siano il piacere che il produttore trae dai prodotti, cosa che separa inesorabilmente il produttore dai suoi prodotti, gli uomini dagli oggetti. Le cosiddette tecniche soft, se sono interessanti, non è perché non inquinano, ma perché possono riguardare la scala delle conoscenze, del know-how e delle possibilità di un individuo o di un piccolo gruppo di individui legati da relazioni sociali solidali. Se invece una tecnologia, chiamata soft, richiede l'arrivo di specialisti per allestire l'impianto o migliorarne le prestazioni attraverso dei mezzi che la comunità non è stata in grado di concepire, se poi questi specialisti scompaiono una volta che l'impianto è in funzione, allora ecco che tutto questo non è più interessante di un filtro che è stato posto sulla ciminiera di una fabbrica al fine di evitare di sommergere di polvere le popolazioni del quartiere. È facile immaginare che la nostra società industriale, avendo esaurito le sue risorse energetiche (petrolio, carbone, uranio, ecc.), installi dei giganteschi impianti a gas metano (o energia solare), migliorando l'efficienza di questi impianti grazie a degli sviluppi sempre più complessi, dopo studi sempre più frammentari. Se l'agrobiologia si accontenta di produrre cibo senza impoverire il suolo e senza distruggere l'ambiente (l'ambiente turistico, è una compensazione necessaria per evitare uno squilibrio troppo brutale nelle nostre stupide vite), verrà rapidamente assorbita dalla nostra società. Gli uomini lavoreranno su una catena di montaggio nelle fabbriche biologiche, invece di lavorare su una catena di montaggio nelle fabbriche chimiche. Non c'è nulla di miracoloso nella biologia (o nella scienza biologia). Concepita in questo modo, è solo l'estensione dell'attitudine scientifica e tecnica che, esaurito il fascino della fisica e della chimica, ora è pronta ad adattarsi per poter setacciare altri campi. In tal modo la vita potrebbe essere "più sana", ma altrettanto noiosa. L'essenziale, è conciliare i desideri dell'individuo con gli sforzi che deve fare per ottenere i materiali necessari per la sua vita. Coltivare in modo diverso, senza cambiare il rapporto dell'individuo con la terra, non cambia molto riguardo le nostre difficoltà. In tutti i tempi e in tutte le società (anche nella nostra), gli uomini hanno cercato di avere relazioni di tipo non produttivo con i prodotti che essi fabbricano, o con gli strumenti che utilizzano. Ma questo genere di rapporto costituisce un freno alla produttività; la forza motrice essenziale di ogni società tecnica. Se il meccanico controlla la finitura del suo pezzo al tatto, sviluppando in tal modo dei rapporti sensuali immediati (senza intermediari) con il materiale, egli sta perdendo tempo (e sviluppa così delle cattive abitudini). Ecco che allora su di esso verrà incollato un dispositivo di misurazione: la finitura apparirà sotto forma di un numero, con il quale, qualunque sia la sua immaginazione, egli non avrà alcuna relazione concreta. Se l'agricoltore cerca di valutare la qualità della sua terra attraverso il tatto, l'olfatto e il gusto (non dobbiamo dimenticare che anche i nostri sensi sono potenti mezzi di analisi), dovrà aspettarsi una produttività inferiore rispetto a quella che avrebbe se affidasse tale operazione a un laboratorio di analisi. Ma, attraverso le analisi chimiche (o biologiche), egli rimarrà del tutto estraneo al suolo e alle piante che produce. Quando un contadino parlava una volta della "sua" terra, non intendeva solo un rapporto di proprietà privata. ed ecco che così, ora, invece di andare nei campi, va a lavorare. È diventato un estraneo alla sua terra, un lavoratore come tutti gli altri. A porre l'uomo, in un rapporto armonioso con gli oggetti e gli esseri che lo circondano sono le relazioni sensuali. È solo attraverso queste relazioni che possiamo comprendere il mondo esterno, cioè prendere coscienza, in questo mondo, della necessità di certe interazioni tra gli oggetti (e gli esseri). Le "spiegazioni" scientifiche che ci possono essere date non spiegano nulla, dal momento che esse sono astratte e non sono percepite dalla totalità del nostro corpo.  Le leggi scientifiche possono essere solo accettate ma mai comprese, hanno solo un valore operativo tra oggetti (o esseri) che a noi sfuggono, perché la necessità delle interazioni che cercano di tradurre non è sensorialmente impressa nel nostro corpo. Non appena questa comprensione degli oggetti e degli esseri viene eseguita a partire dai nostri sensi, il nostro atteggiamento cambia completamente, diventiamo rispettosi nei loro confronti. Ovviamente, non si tratta di un sentimento di sottomissione agli oggetti, agli altri, ma del riconoscimento, da parte dei nostri sensi, delle proprietà proprie di un oggetto o di un essere. Come possiamo sperare di rispettare gli altri - di non essere in rapporti permanenti di competizione o di produttività con loro - se non abbiamo questi relazioni di rispetto e di adattamento con gli oggetti che ci circondano? Ciò che è essenziale, quindi non è ridurre lo sforzo, ma introdurre questo sforzo nella nostra vita sensuale e psicologica, senza intermediari astratti, siano essi il denaro (o qualsiasi altro mezzo di misurazione dell'attività produttiva), numeri o macchine, i cui meccanismi sono troppo complessi per poter essere appresi dai sensi di una sola persona. Ciò che rende la bicicletta così attraente è la straordinaria semplicità del suo design. Attraverso i propri muscoli, tutti sentono semplicemente quella che è la stabilità di questa macchina. La matematica che "spiegherebbe" questa stabilità e la facilità di guida, è terribilmente complicata, e non interessa a nessuno (tranne che ai matematici) perché una bici è direttamente comprensibile. La tecnologia ha le sue proprie dinamiche (attraverso l'intermediazione dei suoi tecnici). Se accettiamo una tecnologia molto complessa, che richieda un lungo apprendistato specialistico per poi acquisirne alla fine solo una piccola parte, è inimmaginabile che essa possa essere controllata dalla società nel suo insieme, se non per mezzo di relazioni gerarchiche, le quali avranno un forte impatto su tutte le relazioni sociali. E pertanto non sarà quindi in grado di svilupparsi in stretta corrispondenza con i desideri di tutti.

Non si tratta di proibire totalmente la tecnica, e di tornare alla vita naturale nelle grotte. Ma il rapporto tra uomo e tecnologia deve cambiare. Abbiamo bisogno di una tecnologia senza tecnologi, senza conoscenze specialistiche. Una tecnica dovrebbe essere sviluppata solo se viene percepita da tutta la comunità a cui viene collegata come una necessità vitale. Questo è possibile, naturalmente, solo se tutti gli individui della comunità ne possono controllare tutti gli aspetti. Tutti coloro che prendono parte a quello che è l'abbrutimento quotidiano e massiccio degli individui, tutti coloro che distruggono ciò che è vivo nei bambini per ridurli allo stato di animali domestici, coloro i quali non hanno nulla da trasmettere, se non dei riflessi condizionati; tutte queste persone vogliono farci credere che gli uomini possono vivere solo perché esistono alcune persone illuminate e dotte che si sono fatte carico dell'orda di cretini e di imbecilli incapaci che siamo. Le nostre società sembrano aver rinunciato ad avere certe strutture sociali non gerarchiche a favore di uno sviluppo rapido e incontrollabile della tecnologia che, fornendo certe comodità, le ha portate sempre più ad abbandonare le relazioni sociali libere e la vita collettiva. Ma c'è stato bisogno di molto tempo per liberarsi dalla nostalgia di queste relazioni con i materiali e gli esseri viventi. Ogni tanto (e sempre più raramente) troviamo ancora un gesto o un atteggiamento che ci rimanda a queste relazioni. Ma se questi gesti diventassero consapevoli, sarebbero altamente sovversivi. Bisogna svuotarli di ogni significato, indirizzandoli verso attività separate dalla vita quotidiana: il tempo libero, il bricolage, l'attivismo. Questo serve a mantenere l'equilibrio minimo necessario per la vita, e non costituisce un pericolo per le strutture sociali. Se si piantano fiori dopo la fabbrica o l'ufficio, lo si fa indossando guanti, perché la terra è sporca; se si costruiscono mobili, si ricopre sprezzantemente il legno con brutta plastica. Se l'organizzazione sociale rende loro la vita impossibile, troveranno posto nei partiti politici, nei sindacati e in ogni altro tipo di gruppo organizzato, dove potranno agitarsi, ma l'unica speranza che resterà loro è quella di sostituire un giorno i loro padroni che li fanno arrabbiare. Ma soprattutto, non abbiamo il desiderio di vivere una vita completa, integrata in tutto ciò che ci circonda, per trovare gesti di rispetto verso gli altri. Bisogna distruggere tutte le macchine, tranne quelle che possiamo rispettare, vale a dire, capire. Non avremmo più robot meccanici, elettronici o umani a nostra disposizione; probabilmente la fatica sarebbe maggiore, ma non saremmo più obbligati a lavorare. Affrontare questo tema del lavoro è assai difficile, dal momento che siamo talmente immersi nella mistica del lavoro che ora, nella nostra rivolta, rischiamo di far riapparire, sotto una nuova veste, la vecchia ideologia. Ed è forse proprio questo ciò che ho fatto scrivendo questo articolo con il pretesto di denunciare l'illusione tecnocratica, e ho ceduto alla tentazione di far rivivere, in una forma più nuova, la virtù del lavoro.
State attenti !

- Roger Belbéoch (Fisico antinucleare) (1928-2011) - Articolo pubblicato sulla rivista Survivre... e Vivre n°16, primavera-estate 1973, p. 16-22 -

fonte: Et vous n’avez encore rien vu…

sabato 11 maggio 2024

Faccia a Faccia !!

L'altro sionismo: Lettera a Rima Hassan
- di Olivier Tonneau -

Rima Hassan è nata in un campo profughi da genitori espulsi dalla Palestina nel 1948. Cerchiamo di essere chiari: Israele non ha il diritto di chiedere nulla a una persona del genere. Niente può mitigare la giustezza della sua lotta contro la violenza che le è stata inflitta, e spetta solo a Israele fare ammenda per i suoi torti. Per molti, l'idea stessa che Israele possa farlo non ha senso: Israele sarebbe solo un altro stato coloniale, criminale nella sua essenza, la cui stessa esistenza sarebbe incompatibile con la giustizia. Possiamo quindi misurare la generosità delle parole di Rima Hassan, recentemente intervistata da "Regards". Al giornalista che le chiedeva se si ponesse «la questione dell'esistenza dello Stato di Israele», ha risposto «no»: «Non biasimo nessuno per aver pensato alla creazione di un focolare nazionale ebraico nella Palestina mandataria, biasimo invece tutti coloro che hanno pensato a questo destino a danno del popolo palestinese. Non riesco a smettere di criticare il modo in cui è stato creato lo Stato di Israele, sia in termini di dottrina in sé, sia in termini di come è stata teorizzata un'intera sezione del sionismo politico che lo stesso Theodor Herzl ha definito come un progetto coloniale; in secondo luogo, per ciò che è accaduto sul terreno, vale a dire la Nakba; vale a dire, la creazione dello Stato di Israele è anche la Nakba, sono 800.000 palestinesi cacciati dalla loro terra ed è la distruzione di più di 532 villaggi che vengono completamente rasi al suolo. Non si tratta di mettere in discussione la necessità di avere un focolare nazionale ebraico, che peraltro si trova storicamente nella Palestina mandataria, poiché non c'è alcun dubbio sul legame di queste terre con la comunità ebraica, ma piuttosto sul fatto che questo destino è stato pensato a scapito del popolo palestinese».

Rima Hassan non esita a dire che Israele è uno stato di apartheid dal 1948 ed è attualmente colpevole di genocidio a Gaza. Eppure non mette in discussione la necessità di un focolare nazionale ebraico in Palestina, ma solo il fatto che questa casa è stata fondata a spese del popolo palestinese. Il suo è un discorso che mi ha stupito e mi ha rallegrato; era ciò che aspettavo e che non osavo più dire. Mentre lo Stato di Israele mostra il più orribile dei volti, la speranza. La generosa audacia di Rima Hassan sta nel fatto che non si accontenta di aspirare a un unico Stato in cui tutti gli abitanti siano uguali nei diritti. Distinguendo la necessità del focolare nazionale ebraico dal sionismo politico e coloniale di Herzl, apre uno spazio di pensiero: ci permette di pensare alla legittimità della presenza ebraica in altri termini. E' in questo modo che offre a Israele la sua ultima possibilità di salvare la sua anima. Mentre il sionismo politico precipita nell'orrore, vorrei cogliere questa opportunità attingendo alle fonti di un altro sionismo, il sionismo culturale.

Storia del sionismo culturale
Il sionismo politico è nato come reazione all'antisemitismo moderno. Theodor Herzl, un ebreo pienamente acculturato, sentì la folla gridare «Morte agli ebrei!» a Parigi durante l'affare Dreyfus e capì che l'antisemitismo non sarebbe scomparso gradualmente con l'integrazione degli ebrei nella società borghese. Se l'antisemitismo cristiano rimproverava agli ebrei la loro fedeltà alla loro religione, la sua forma moderna nega la loro integrità. L'ebreo non è più il deicida, ma il finanziere manipolatore responsabile della miseria delle masse o, al contrario, il bolscevico determinato a rovesciare l'ordine sociale. Per Herzl, la conclusione è ovvia: gli ebrei devono lasciare le società che li rifiuta e vivere nella loro terra. Convinto della necessità di uno Stato ebraico, non si preoccupa della Palestina e pensa all'Argentina, all'Uganda, persino agli Stati Uniti d'America. L'origine del sionismo culturale è molto diversa. Affonda le sue radici nella critica della modernità espressa da Baudelaire, Nietzsche e più tardi da Walter Benjamin e Franz Kafka. Il fallimento della "primavera popolare" del 1848 sembra segnare l'esaurimento della dinamica emancipatrice avviata dalla Rivoluzione francese: il repubblicanesimo dell'Illuminismo, non essendo stato in grado di fermare il rullo compressore della società capitalista e borghese, ha voluto contrastarlo con risorse spirituali tratte dalla storia, dalle tradizioni e dalle religioni dei popoli. Ma Martin Buber - il più prestigioso dei sionisti culturali - osserva che gli ebrei si trovano in una situazione speciale. La loro dispersione li condanna a perdersi in due modi opposti: o si coagulano in piccole comunità conservatrici sotto l'autorità dei rabbini, o si dissolvono nella società borghese. Per ristabilire un rapporto vivo con la cultura ebraica, quindi, è necessario creare una casa spirituale in cui confluisca un gran numero di ebrei. Quella casa non può che essere la Palestina, oggetto delle preghiere del popolo ebraico da due millenni. Non c'è sciovinismo in questo progetto, perché i sionisti culturali credono che tutti i popoli possiedano le proprie risorse di cui non possono privarsi senza appassire. Martin Buber era affascinato dal buddismo, dal confucianesimo e dall'Islam. Gli obiettivi del sionismo culturale sono molto diversi da quelli del sionismo politico, con il quale combatte aspramente. Il primo vuole rinnovare l'ebraismo; l'ultimo vuole salvare gli ebrei. Questo voleva fondare un centro culturale in Palestina; quelli vogliono uno Stato moderno. Mentre il sionismo politico è nazionalismo, il sionismo culturale è molto più compatibile con le dottrine anarchiche e socialiste. Lo capì Martin Buber, che fu brevemente sopraffatto dalla febbre guerrafondaia del 1914, sotto l'influenza dell'anarchico Gustav Landauer, che poi sarebbe diventato il suo mentore e amico fino al suo assassinio nel 1918, durante la fallita rivoluzione bavarese. Sotto l'influenza di Landauer, Buber interpretò la storia e il pensiero ebraico come fondamentalmente opposti al dominio statale e alla guerra tra i popoli. Un'altra figura del sionismo culturale, Judah Magnes, si unì al socialismo durante la prima guerra mondiale. Questo giovane rabbino americano immaginò per la prima volta il popolo ebraico come se fosse una totalità che trascendeva le divisioni di classe. Queste divisioni sono tuttavia profonde nella comunità ebraica americana, e si intersecano con le divisioni culturali: gli ebrei borghesi, generalmente riformati, disprezzano gli ebrei proletari appena arrivati dall'Europa orientale tra i quali domina l'Ortodossia. I primi sforzi di Magnes miravano a convincere i borghesi ad assumere la guida della comunità ebraica nel suo insieme. Ma quando scoppiò la guerra, gli ebrei borghesi e ortodossi ebbero reazioni opposte: i borghesi, i proletari ortodossi sono pacifisti. Per Magnes, pacifista convinto, l'atteggiamento dei proletari è l'espressione autentica dello "spirito ebraico" che i borghesi tradiscono: «La "missione" spirituale degli ebrei presso le nazioni, così come è stata formulata dagli studiosi e dagli insegnanti della riforma ebraica dell'inizio del XIX secolo, è una dottrina rivoluzionaria: Israele, il popolo internazionale, conserva la sua identità per aiutare il mondo a raggiungere la giustizia e la pace. [...] Che beffa della "missione" che in tempi di crisi, in tempi di guerra e di morte, i suoi predicatori tacciono o diventino i sommi sacerdoti del culto patriottico! Che senso di disperazione per il futuro, se non ci fossero stati ebrei a dare voce agli imperativi dello spirito ebraico!»

È questo il modo in cui l'ebraismo e il socialismo sono collegati. Sia per Magnes che per Buber, il sionismo non poteva avere lo scopo di fare degli ebrei un popolo nazionalista e guerrafondaio come gli altri, ma al contrario di preservare la loro speciale capacità di contribuire alle lotte per la pace, la giustizia e la libertà. In un testo che non ha perso nulla della sua rilevanza, Magnes distingue tre relazioni tra il "nazionale" e l'"universale". Si può lottare per l'universale (cioè il socialismo) rifiutando, come Trotsky, ogni legame con il proprio popolo d'origine o, al contrario, coltivando pienamente le proprie risorse culturali; ma gli ebrei integrati liquidano spiritualmente l'ebraismo abbracciando l'universalismo artificiale degli imperialisti. Questo è particolarmente vero per i sionisti politici, il cui progetto nazionalista è modellato su quello degli stati europei. L'idea di Magnes e Buber del popolo ebraico determinò il loro impegno politico durante tutto il processo che portò alla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Ad ogni passo, si oppongono ai sionisti politici. Già nel 1915, quest'ultimo, anticipando il crollo dell'Impero Ottomano e il passaggio della Palestina sotto il mandato britannico, cercò di radunare gli inglesi nel loro progetto. Magnes, al contrario, asserisce che «il sionismo deve significare . . . la costruzione di un centro culturale ebraico in Palestina attraverso la forza culturale interna del popolo ebraico libero in Palestina, una provincia ottomana», un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso «lo sviluppo organico della vita ebraica in Palestina». Questo sviluppo organico è l'opposto della supremazia raggiunta con la guerra. Magnes vuole credere che «l'aria della Palestina rende saggi» e che «i valori culturali ebraici, la religione ebraica, la concezione ebraica della vita, sperimenteranno una crescita naturale in Terra Santa che sarà in grado di portare frutti per la vita ebraica in tutto il mondo». Se ciò non accadrà, concluderà che «la nostra fede nei poteri creativi del popolo ebraico ci avrà deluso. Il popolo ebraico avrà allora dimostrato che centinaia di anni di peregrinazioni e persecuzioni lo hanno derubato del suo spirito creativo». E' comprensibile che la Dichiarazione Balfour, il trionfo dei sionisti politici, sia stata un disastro per Magnes. Lo spiegò a un amico: «Lo stato attuale del mondo, il dominio dell'imperialismo economico, la situazione precaria degli ebrei dell'Europa centrale e orientale, i problemi sconcertanti dei mondi orientali.Tutto ciò mi fa temere che il mandato non abbia alcuna realtà, che la Palestina e gli ebrei siano una specie di giocattolo nelle mani di forze oscure e senza scrupoli, ed è piuttosto patetico vedere gli ebrei – quei grandi sofferenti e in lutto per secoli – gioire e sfilare davanti al dono della Conferenza di Sanremo». Un telegramma di congratulazioni da Gerusalemme era datato «il primo anno della Redenzione». [...] È davvero questa la liberazione dall'esilio per la quale gli ebrei hanno pregato e lottato nei secoli passati? È così che arriva la liberazione? Per Judah Magnes, il sionismo politico è un'illusione perché «l'esilio di un popolo non finisce con un fatto politico, e la redenzione non inizia con un favoritismo politico. Solo il popolo esiliato può porre fine all'esilio con la sua libertà interiore e la sua inesorabile volontà, ed è solo con il suo duro lavoro quotidiano e la sua fede incrollabile che un popolo può essere redento». Successivamente, Magnes ha combattuto testa a testa contro il leader del sionismo politico, Chaim Weizmann, che voleva ancorare lo stato ebraico al mondo occidentale. Magnes, d'altra parte, sostenne le aspirazioni del nazionalismo arabo e sostenne la formazione di una federazione araba che comprendesse Siria, Giordania, Libano e Palestina. Un momento rivelatore del loro confronto fu l'inaugurazione dell'Università Ebraica di Gerusalemme nel 1925, di cui Magnes fu uno dei fondatori e primo direttore. L'università doveva essere l'epitome del sionismo come lo intendeva Magnes: un luogo di studio e di conoscenza aperto al mondo, a partire ovviamente dal mondo arabo. Fin dall'inizio, tuttavia, l'università fu ambita dall'Organizzazione Sionista, che voleva nominare Weizmann come uno dei suoi direttori. Magnes rifiutò assolutamente di essere posto sotto amministrazione fiduciaria, ma non poté impedire all'Organizzazione Sionista di invitare Lord Balfour all'inaugurazione dell'istituzione. L'intero significato dell'evento è stato pervertito. Lord Balfour, un alleato dei sionisti politici, incarnò il dominio imperiale, di cui l'università divenne un'estensione. Balfour era odiato dagli arabi e l'inaugurazione, che avrebbe dovuto essere un momento di apertura all'altro, avvenne sotto la protezione delle baionette. Magnes, disperato, si rese conto che ci sarebbero voluti decenni per riparare il torto. La Dichiarazione Balfour scatenò tensioni tra ebrei e arabi. Nel 1929, questi ultimi si sollevarono contro l'occupazione britannica e l'immigrazione sionista. Per l'ala politica del movimento, la rivolta è la prova che è impossibile andare d'accordo con gli arabi e che il conflitto deve essere risolto. Judah Magnes, in una severa lettera a Weizmann, sostiene invece che la rivolta araba è il prodotto del sionismo politico: «Che lo volessimo consapevolmente o no, stiamo frenando molte delle legittime aspirazioni politiche degli arabi, invece di prendere l'iniziativa, come liberali, di sviluppare forme politiche e istituzioni che dovrebbero tentare di essere giuste per entrambe le parti. Allo stato attuale delle cose, siamo odiati e temuti, forse anche disprezzati, non solo in Palestina ma in tutto l'Oriente. [...] Abbiamo fatto tutto il possibile per incoraggiare gli estremisti tra gli arabi, e nulla per incoraggiare o collaborare con i moderati, che non sono più tra gli arabi. Sembriamo decisi a usare la nostra influenza a Corte per frenare tutte le aspirazioni arabe, rendendo così la rivoluzione araba, di cui gli eventi di agosto sono stati solo un presagio, ancora più inevitabile e, per noi, tragica.» Di fronte alla rivolta, il sionismo deve scegliere tra «due possibili politiche. Diciamo la politica logica descritta da Jabotinsky [...] che basa la nostra vita ebraica in Palestina sul militarismo e sull'imperialismo; o una politica pacifica che consideri cose come uno "stato ebraico", una maggioranza ebraica, o anche il "focolare nazionale ebraico" come del tutto secondario, e come primario lo sviluppo di un centro spirituale, educativo, morale e religioso ebraico in Palestina.»

L'opposizione tra le due politiche è totale: «La politica imperialista, militare e politica si basa sull'immigrazione di massa degli ebrei e sulla creazione (con la forza se necessario) di una maggioranza ebraica, non importa quanto questo opprima gli arabi nel frattempo, o li privi dei loro diritti. In questo tipo di politica, il fine giustifica sempre i mezzi. La politica, d'altra parte, di sviluppare un Centro Spirituale Ebraico non dipende dall'immigrazione di massa, da una maggioranza ebraica, da uno Stato ebraico, o dalla privazione degli arabi (o degli ebrei) dei loro diritti politici per una generazione o un giorno; ma, al contrario, desidera che la Palestina diventi un paese di due nazioni e tre religioni, tutte con uguali diritti e nessuna con privilegi speciali; un paese dove il nazionalismo è solo la base dell'internazionalismo, dove la popolazione è pacifista e disarmata: in una parola, la Terra Santa.» Così Magnes oppone al "sionismo militarista, imperialista e politico" un "sionismo pacifico, internazionale e spirituale". Quest'altro sionismo presuppone una "politica di cooperazione" che è «certamente più possibile e più promettente della costruzione di un focolare ebraico (nazionale o meno) basato sulle baionette e sull'oppressione». Piuttosto che vedere la realizzazione del sionismo alla baionetta, Magnes scrive: «Preferirei vedere questo popolo eterno senza una 'casa nazionale', con il bastone del vagabondo in mano, formare nuovi ghetti tra i popoli del mondo». La rivolta araba, infatti, mette in discussione non solo la fattibilità del sionismo, ma il suo stesso significato: «Qual è la natura e l'essenza del nazionalismo ebraico? È simile al nazionalismo di tutte le nazioni? La risposta è data dal nostro atteggiamento nei confronti degli arabi, cosicché la questione araba non è solo della massima importanza pratica; È anche la pietra di paragone e la prova del nostro giudaismo.» Poiché il sionismo ha senso solo nella coesistenza pacifica con gli arabi, Judah Magnes e Martin Buber si oppongono con tutte le loro forze alla spartizione della Palestina, che sono convinti provocherebbe «una guerra dei cent'anni». Difendevano l'opzione di uno Stato plurinazionale, per il quale Magnes immaginava una struttura bicamerale: una camera bassa, eletta a suffragio universale, avrebbe legiferato sugli affari correnti e una camera alta, dove tutti i popoli (cristiani, musulmani, ebrei, drusi, ecc.) si sarebbero seduti con uguali voti per discutere di questioni relative ai luoghi santi. L’uguaglianza di rappresentanza in questa seconda camera avrebbe eliminato il rischio di un cambiamento demografico e assicurato ai musulmani che l'immigrazione ebraica non avrebbe minacciato i loro diritti. Fino all'ultimo momento, Magnes implorò le Nazioni Unite di rinunciare alla spartizione, di dichiarare che la Palestina non sarebbe mai stata ebraica o araba e di creare strutture bi-nazionali all'interno delle quali i popoli potessero imparare a governarsi insieme. Dopo la proclamazione dello Stato di Israele, Buber e Magnes non si sono mai arresi al fatto compiuto. Magnes morì nel 1948, dopo aver denunciato violentemente i massacri della Nakba e aver chiesto il diritto al ritorno dei profughi. Buber rimproverava a Ben Gourion di considerare gli intellettuali alla stregua di teneri sognatori e credeva invece di essere realista; sosteneva di essere invece lui, Buber, a parlare in nome di un realismo superiore, perché la Nakba avrebbe avvelenato Israele per i decenni a venire. Fino alla sua morte, non ha mai vacillato nella denuncia dei crimini dello Stato, continuando a chiedere giustizia per le vittime del 1956. Nel 1958, ritorna sulla fondazione dello Stato di Israele, che per lui venne determinata dal «più pernicioso dei falsi insegnamenti, quello che afferma che il corso della storia è determinato solo dalla forza», e avvertì: «Chi vuole veramente servire lo spirito deve cercare di riparare tutto ciò che è stato perso: deve cercare di liberare di nuovo la strada sbarrata verso un'intesa con i popoli arabi. Oggi sembra assurdo a molti – soprattutto nell'attuale situazione intra-araba – pensare alla partecipazione di Israele a una federazione mediorientale. Domani, con un cambiamento di alcune situazioni politiche globali al di fuori del nostro controllo, questa possibilità potrebbe presentarsi in senso molto positivo. Nella misura in cui dipende da noi, dobbiamo prepararci. Non ci può essere pace tra ebrei e arabi che sia solo una cessazione della guerra; Ci può essere solo una pace di vera cooperazione. Oggi, in queste molteplici ed aggravate circostanze, il comandamento dello spirito è ancora quello di preparare alla cooperazione dei popoli.» Gli eventi degli ultimi mesi sottolineano crudelmente l'importanza di questo avvertimento. C'è ancora tempo per ascoltarlo?
 
Attualità del sionismo culturale
Che senso ha rispolverare il sionismo culturale? A cosa servono quelle idee che ieri erano marginali e oggi sono residuali? Innanzitutto, hanno un'utilità analitica, perché il sionismo culturale è una componente irriducibile dell'identità di Israele o, per meglio dire, del paradosso di Israele. E' ormai un luogo comune ridurre Israele a un colonialismo di insediamento simile a quello dell'Algeria. Tuttavia, questa riduzione maschera la specificità del progetto sionista. I sionisti non sono venuti in Palestina per sfruttarne le materie prime o per arricchire una metropoli. Al contrario: hanno abbandonato tutto, si sono spesso impoveriti, hanno sacrificato molto per stabilirsi lì. L'aspirazione sionista possiede quindi una nobiltà che la pone agli antipodi delle imprese coloniali e, se la violenza dello Stato di Israele non ha oltraggiato tutte le coscienze, se ne potrebbe addirittura vedere la bellezza. Ma il paradosso di Israele è proprio che questa bellezza è sfigurata da una violenza più grande di quella di molte aziende. La pulizia etnica del 1948 fu il preludio di un'oppressione continua e sempre più grave. Israele è quindi più bello e più violento di un normale insediamento.

Questo paradosso è nato dalla confusione tra sionismo culturale e sionismo politico. In realtà, bisogna ammettere che i due campi non sono mai stati perfettamente eterogenei. I sionisti politici, che lottavano per fare appello agli ebrei acculturati che erano più interessati all'integrazione o alla rivoluzione, presto cercarono le loro truppe tra le masse tradizionaliste dell'Europa orientale, le cui aspirazioni erano visceralmente culturali. Erano interessati solo alla Palestina e percepivano come un tradimento il progetto ugandese presentato da Herzl al Congresso Sionista del 1903. Con grande dispiacere di Herzl, per Jabotinsky – e anche, più tardi, per Albert Memmi – l'aspirazione sionista era quindi sempre diretta verso Gerusalemme. Tuttavia, avrebbe potuto essere realizzato – molto più lentamente, più modestamente – secondo le modalità sognate da Judah Magnes e Martin Buber. Come ho scritto in un testo precedente, ciò che ha dato una mano ai progetti politici dei sionisti [*1] è stata la Shoah. È un altro paradosso che l'Olocausto, da cui Israele afferma di trarre la sua legittimità, abbia pervertito il sionismo accelerandone l'avvento. Diversi processi sono in corso contemporaneamente: da un lato, gli Stati occidentali decidono di inviare in Palestina i sopravvissuti al genocidio, che non vogliono; d'altra parte, tra gli stessi sionisti, l'inimmaginabile violenza del genocidio alimenta il sentimento di un diritto assoluto a godere del loro stato a tutti i costi. Dobbiamo osare dire cose che bruciano: la sfortuna non ci rende saggi, la violenza spesso ci rende feroci piuttosto che compassionevoli. Fu un popolo danneggiato, cioè appena uscito dall'abisso, quello che si impadronì della Palestina nel 1948. La Nakba, come ho scritto altrove [*2], fa parte della stessa sequenza storica della Shoah: l'una non può essere compresa senza l'altra. Nella coscienza israeliana, l'aspirazione iniziale è quindi intimamente intrecciata con la violenza fondante, cosicché gli stessi israeliani solo raramente sanno pensare al sionismo al di fuori del colonialismo. Una minoranza, tuttavia, cerca di sciogliere i nodi annodati dalla storia attingendo alle risorse del sionismo culturale. Gli israeliani non sono "pieds-noirs", non se ne andranno; il loro attaccamento alla terra di Palestina è di rara profondità. L'unico modo per uscire dalla spirale infernale della violenza è riuscire a dare un altro senso a questo attaccamento, comprendere che l'uguaglianza dei diritti e l'apertura all'altro, lungi dal costituire un abbandono dell'aspirazione sionista, al contrario la ripristina, la cura dalla perversione.

A guisa di conclusione
la logica del sionismo politico è sempre stata quella secondo cui la necessità di Israele giustifica la sfortuna palestinese. Vladimir Jabotinsky, che non aveva l'abitudine di avanzare sotto mentite spoglie, lo dichiarò senza mezzi termini alla Commissione Peel, quando i nazisti erano appena saliti al potere in Germania: «Nutro i più profondi sentimenti per il caso arabo, nella misura in cui esso non è esagerato. [...] Così, quando sentiamo la rivendicazione araba confrontata con la rivendicazione ebraica, capisco che del tutto comprensibile che gli arabi di Palestina preferiscano che la Palestina sia lo Stato arabo n° 4, n° 5 o n° 6, ma quando la rivendicazione araba viene contrapposta alla nostra rivendicazione ebraica di essere salvati, è come la rivendicazione dell'appetito contro la rivendicazione della fame.» Per decenni, gli israeliani hanno pensato che un giorno gli stati arabi sarebbero venuti a patti con l'esistenza di Israele, avrebbero assorbito i rifugiati palestinesi e che i rifugiati palestinesi alla fine avrebbero messo radici dove vivevano e smesso di pensare di tornare. La Nakba ha avuto l'effetto opposto di rafforzare l'identità nazionale palestinese, cosicché, lungi dal portare a una graduale normalizzazione, la violenza fondante si è rivelata il primo passo di una spirale viziosa che ora vediamo culminare nell'orrore genocida. Israele ha ora raggiunto la fine della logica iniziata nel 1948. Anche se il fuoco a Gaza cessasse, un ritorno allo status quo non sarebbe più sufficiente a diminuire l'infamia del massacro. Israele non tornerà mai indietro da questo orrore senza mettere in discussione le sue fondamenta. Questa sfida sarebbe un'impresa meravigliosa per lei e per il popolo ebraico. Se l'Olocausto ha accelerato la creazione di Israele, chi oggi non vede che il popolo israeliano, lungi dall'aver superato la violenza delle origini, è oggi incollato al trauma? Chi non sente, nelle giustificazioni israeliane, il disperato tentativo di far rivivere questo trauma in tutti gli ebrei, suscitando il sentimento di estraneità, la minaccia dello sterminio? Quale felicità si può trovare nel vivere se stessi in questo modo, condannati alla paura e al crimine? La situazione è ovviamente aggravata dall'odio suscitato dalla violenza accumulata, tanto che in Israele è forte la tentazione di dire come Macbeth: «Ho nuotato così tanto nel sangue che, anche se decidessi di non farlo più, tornare indietro sarebbe altrettanto doloroso che continuare. Ho in mente cose strane che la mia mano vuole compiere. Devono essere fatte prima di poter essere esaminate.» Tuttavia, a questa tentazione bisogna resistere. Ed è questo ciò che le parole generose di Rima Hassan aiutano a fare, dal momento che esse aprono lo spazio in cui l'attaccamento alla Palestina, la rinuncia al dominio e la contrizione per una violenza scaturita da uno dei peggiori crimini della storia possono esprimersi contemporaneamente.

Rima Hassan sostiene che i palestinesi hanno diritto alla libertà, gli israeliani alla sicurezza. Da parte mia, credo che la liberazione dei palestinesi sarebbe un passo fondamentale verso la liberazione degli stessi israeliani. Il conflitto israelo-palestinese ha da tempo preso una marcata piega etnica. Sappiamo che il primo ministro Golda Meir dichiarò già nel 1969 che «i palestinesi non sono mai esistiti», intendendo dire che erano solo arabi e non formavano un popolo. Nello stesso anno, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) scrisse nella sua Carta Nazionale, a nome del "popolo palestinese", che «gli ebrei non sono un popolo con una personalità propria. Piuttosto, sono i cittadini degli Stati a cui appartengono». La bellezza delle parole di Rima Hassan è che interrompono questo gioco di doppia negazione, permettendo a due popoli di trovarsi faccia a faccia. Segna così la fine dell'era del nazionalismo. Il nazionalismo non è stato solo una dottrina occidentale, ma è stato anche la forma di tutti i movimenti di liberazione nazionale, tra i quali Albert Memmi annoverava anche il sionismo stesso. Questa dottrina non poteva essere adatta alla Palestina. Se il conflitto che lo dilania potesse essere risolto superandolo, l'evento getterebbe una luce preziosa: non solo la fine dell'insopportabile martirio del popolo palestinese, ma anche l'apertura di un'epoca in cui la personalità dei popoli non coinciderebbe più con la sovranità. Naturalmente, non c'è alcun segno di un tale evento. Tuttavia, se è vero che ogni lotta ha bisogno, al di là dei combattimenti urgenti, di una linea di fuga, questo evento è mio. E ringrazio Rima Hassan per avermi permesso di sognarlo, forse, con lei.

- Olivier Tonneau [* 3] - fonte: A Contretemps


Riferimenti:

– Tutte le citazioni da Judah Magnes sono tratte da "Dissenter in Zion", introdotto da Arthur A. Goren, Harvard University Press (1982) e tradotto da me.
– Su Martin Buber, si veda A Land Of Two Peoples, con un commento di Paul R. Mendes-Flohr, Oxford University Press, 1983.
– La testimonianza di Vladimir Jabotinsky davanti alla Commissione Peel può essere trovata qui: https://www.scribd.com/document/287215998/Jabotinsky-Testimony-to-Peel-Commission

Note

[1] Olivier Tonneau, "La questione di Israele"
[2] Olivier Tonneau, "Lettera agli antisionisti"
[3] Questo testo è apparso originariamente in mondaymorning#425, 23 aprile 2024.

giovedì 9 maggio 2024

Il soggetto della funzione del lavoro astratto e il diritto di andare a pisciare…

«Paradossalmente, nello spazio-tempo astratto dell'impresa, ha luogo un triplice processo di astrazione reale e pratica. Per prima cosa - benché siano proprio loro a svolgere il lavoro - i soggetti della funzione devono prescindere dalla loro propria persona, e in un certo qual modo cancellarsi in quanto esseri umani, in modo da poter così obbedire agli imperativi del lavoro astratto. Non si tratta del risultato del carattere oggettivo dell'auto-movimento capitalistico - dovuto principalmente alla produzione (sociale) per gli altri anziché per le proprie esigenze - ma del suo fine fondamentalmente "estraneo": valorizzare il valore. Non si tratta di produrre degli oggetti d'uso - siano essi per sé o per qualcun altro - ma di produrre del valore e del plusvalore, vale a dire si tratta di spendere al massimo la propria energia umana astratta nello spazio funzionale dello spazio-tempo imprenditoriale, trasformando sé stessi, in quanto esseri umani, in un motore a combustione sociale. È per questo motivo che i soggetti del lavoro astratto, semplici funzionari al servizio del "soggetto automatico" (anche quando ricoprono posizioni dirigenziali), non possono né influire sul contenuto concreto della produzione - che è fissato dal fine in sé della valorizzazione, e la cui fondatezza o assurdità non è soggetta al loro controllo - né adattare il tracciato o la dinamica del processo produttivo ai loro desideri e bisogni.

Lo spazio-tempo astratto della gestione aziendale, non consente loro di rendere piacevole la propria attività; esso si trova lontano dal tempo e dallo spazio di vita che sono loro propri, e all'interno dei quali possono riposare, e rappresenta al contrario uno spazio-tempo alieno - "estraneo" non nel senso che è nelle mani di una volontà esterna (quella del capitalista), bensì nel senso che la logica funzionale del lavoro astratto è essa stessa estranea: all'essere umano. Il flusso temporale astratto deve essere interrotto il meno possibile, dal momento che è finalizzato proprio al massimo dispendio di energia umana per unità di tempo, e non alla produzione di oggetti di necessità o alla soddisfazione dei bisogni dei produttori. Ad esempio, le pause non vengono in alcun modo demandate alla discrezione dei produttori e tendono a essere ridotte al minimo (al punto che ci chiediamo se possiamo ancora avere il diritto di andare a pisciare).»

( Robert Kurz, da "La Substance du capital", Paris, L'Echappée, 2019, p. 135-136 )

mercoledì 8 maggio 2024

Il fantasma della GKN in un libro per "giovani fashioniste" !!

Capitalismo avvoltoio
- di Michael Roberts -

Grace Blakeley è una star mediatica della sinistra radicale del movimento operaio britannico. È editorialista per il giornale di sinistra, Tribune, e partecipa regolarmente ai dibattiti politici nelle trasmissioni radiotelevisive, ed è spesso l'unica portavoce a sinistra che sostiene alternative socialiste. Il suo profilo e la sua popolarità hanno portato il suo ultimo libro, "Stolen: How to Save the World from Financialisation", direttamente nella top 50 di tutti i libri su Amazon. Il suo nuovo libro, intitolato "Vulture Capitalism: Corporate Crimes, Backdoor Bailouts and the Death of Freedom" (Bloomsbury 2024), ha raggiunto una popolarità ancora maggiore, «per molto tempo» nella lista dei libri di saggistica femminile dell'anno, e la rivista "Glamour" lo ha persino fatto diventare un libro essenziale da leggere per le giovani fashioniste.

In "Vulture Capitalism", il tema principale di Blakeley è quello di sfatare uno dei concetti di lunga data dell'economia neoclassica mainstream, secondo cui il capitalismo sarebbe un sistema di "libero mercato" e di concorrenza. Se nel capitalismo c'è mai stato il "libero mercato" - e la competizione tra le imprese nella loro lotta per ottenere i profitti creati dal lavoro (e Blakeley dubita che l'abbia mai avuto) - allora se c'è una cosa certa, è che non ce l'ha ora. Il capitalismo oggi, sostiene, è in realtà un'economia pianificata, controllata da alcuni grandi monopoli, e sostenuta dallo Stato. I monopoli pianificano sia la strategia che gli investimenti, in collaborazione con i governi; mentre le piccole imprese e i lavoratori devono obbedire: «Di fatto, le economie capitalistiche esistenti sono dei sistemi ibridi, basati su un attento equilibrio tra mercati e pianificazione. Questo non è un problema tecnico che deriva da un'attuazione incompleta del capitalismo, o dalla sua corruzione da parte di un'élite malvagia e onnipotente. Ma si tratta semplicemente del modo in cui il capitalismo funziona». Intendo dire che oggi i grandi monopoli, la finanza e lo Stato pianificano il mondo, ed evitano l'impatto degli alti e bassi dei mercati (liberi o meno che siano), i quali sono ora fondamentalmente irrilevanti. Come spiega Blakeley, le forze di mercato non operano all'interno delle aziende (il primo ad aver delineato il modo in cui le aziende operano sulla pianificazione interna, è stato l'economista mainstream Ronald Coase). Non ci sono mercati o contratti tra le sezioni, o tra i lavoratori e la direzione all'interno delle imprese. Ci sono i piani di gestione, e i lavoratori li applicano. Solo che, come sostiene Blakeley, questo meccanismo di pianificazione ora si applica alle relazioni tra le imprese, o quanto meno alle grandi imprese "monopolistiche". «Le grandi imprese sono in grado, in misura significativa, di ignorare la pressione esercitata dal mercato, e agire invece per modellare esse stesse le condizioni di mercato».  Se qualcosa va storto e c'è una crisi, ecco che allora i grandi monopoli e lo Stato lavorano insieme per risolverla, in modo che abbia uno scarso impatto su sé stessi. «All'interno del capitalismo realmente esistente – consistente in un ibrido di mercati e di pianificazione centrale – le istituzioni più grandi e potenti del settore pubblico e privato possono lavorare insieme per riuscire a salvarsi la pelle. Anziché sopportare le conseguenze delle crisi che essi hanno creato, questi attori rovesciano i costi della loro avidità su coloro che hanno meno potere: i lavoratori, e in particolare quelli che si trovano nelle parti più povere del mondo....Nel frattempo, i monopoli si combinano con lo Stato al fine di risolvere tali crisi. Ogni crisi recente – dalla crisi finanziaria alla pandemia, alla crisi del costo della vita – ha sempre comportato, nel risolvere i problemi dell'azione collettiva del capitale, un ruolo chiave per lo Stato. E anche se i capitalisti si sono spesso lamentati del dolore inflitto loro all'epoca, ne sono sempre usciti vincitori».

Blakeley sostiene che le crisi del capitalismo non vengono più risolte attraverso ciò che Joseph Schumpeter (e Marx, se è per questo) chiamava "distruzione creatrice". Crisi del capitalismo, vale a dire, collassi che portano alla liquidazione delle imprese: la disoccupazione di massa e i crolli finanziari sono stati, sempre più, superati grazie alla "pianificazione" messa in atto dai grandi monopoli e dallo Stato. «L'evidenza suggerisce che i monopoli temporanei di Schumpeter stanno diventando sempre più permanenti. Quindi, non solo le relazioni all'interno dell'impresa sono basate sull'autorità piuttosto che sullo scambio di mercato, ma, a sua volta, l'autorità del capo è anche relativamente libera dalla disciplina del mercato. I capi sono sempre più in grado di agire come se fossero dei potenti pianificatori all'interno del loro dominio. Così facendo sono in grado di esercitare un potere significativo sulla società nel suo complesso». Su questa tesi, per me, qui sorgono due dubbi. In primo luogo, anche se all'interno dei paesi può darsi che non si siano mercati o concorrenza, stiamo davvero dicendo che non c'è più concorrenza tra le imprese per la quota di profitti ottenuti grazie allo sfruttamento del lavoro dei lavoratori? E che i mercati (liberi o meno) non esercitano davvero più alcuna influenza sull'accumulazione capitalistica? Tanto per cominciare, la concorrenza a livello internazionale tra le imprese multinazionali è assai intensa: nel commercio e negli investimenti internazionali, i cartelli non operano con convinzione. La guerra commerciale e degli investimenti tra Stati Uniti e Cina, non sembra essere un buon esempio di pianificazione globale. Inoltre, nella produzione capitalistica, la ricerca del profitto porta a sua volta a un'incessante ricerca, da parte delle aziende, volta a ottenere un vantaggio tecnologico rispetto ai rivali. Le aziende che sembrano avere il "monopolio" in un particolare settore o mercato, si trovano sempre sotto la minaccia di perdere quell'egemonia; e ciò vale anche per le aziende più grandi. In realtà, la competizione tecnologica non è mai stata così grande. E questo vale sia per la concorrenza all'interno dello Stato nazionale che per quella a livello internazionale.

Nel 2020, la vita media di un'azienda, secondo l'indice Standard and Poor's 500, è stata di poco superiore ai 21 anni; rispetto ai 32 anni del 1965. Vediamo che a lungo termine c'è una chiara tendenza  al calo della longevità aziendale, per quel che riguarda le società dell'indice S&P 500, con la previsione di un ulteriore calo nel corso del 2020. Blakeley sostiene la sua tesi adducendo le prove relative alla crescita del potere di mercato e alla concentrazione del monopolio, fornite da studi recenti. Tuttavia, a mio avviso, questi studi non sono convincenti. In secondo luogo, se i monopoli e lo Stato possono ora pianificare ed evitare le vicissitudini del mercato, perché nella produzione capitalistica ci sono ancora grandi crisi a intervalli regolari e ricorrenti? Nel 2008 e nel 2020 abbiamo avuto le due più grandi crisi della storia del capitalismo. Il capitalismo li ha evitati attraverso la "pianificazione"? Blakeley fa a meno della "obsoleta" spiegazione marxista delle crisi, che sosteneva Marx, secondo cui la redditività del capitale e la produttività del lavoro porterebbe a crisi regolari e ricorrenti degli investimenti e della produzione. Per Blakeley, invece il capitalismo può effettivamente evitare, o almeno risolvere tali crisi "pianificando" e ricevendo sussidi dallo Stato. Così i monopoli potranno evitare la "distruzione creativa", continuando a muoversi a spese delle piccole imprese e del resto di noi. Certo, per Blakeley, le crisi si verificano, ma esse non sono più il «risultato naturale di un libero mercato sfrenato, o di avidi lavoratori sindacalizzati» né sembra derivare da una contraddizione economica intrinseca all'accumulazione capitalistica. Ora le crisi sono il risultato «di scelte politiche, fatte dagli Stati e dalle imprese, in risposta ai cambiamenti di potere e di ricchezza in corso nell'economia mondiale. Naturalmente, queste scelte tendono a consolidare lo status quo e a favorire i potenti».

Ma se le crisi sono ora il risultato di scelte politiche sbagliate fatte da chi è al potere, allora delle decisioni migliori potrebbero funzionare in modo da riuscire a mantenere il capitalismo non solo libero dai mercati, ma anche libero dalle crisi. Il capitalismo "pianificato" può così funzionare, se non ci sono più linee di frattura intrinseche nella produzione capitalista. Blakeley ha fondamentalmente resuscitato la teoria del "capitalismo monopolistico di Stato", un vecchio concetto sovietico/stalinista/maoista, il quale sostiene che le crisi del capitalismo "competitivo" sono state risolte a spese della stagnazione. La democrazia è stata sostituita dal potere monopolistico (ammesso che sia mai esistita una vera democrazia economica). Blakeley ci insegna che bisogna rendersi conto che, sotto il capitalismo, i lavoratori sono considerati solo come delle api che eseguono gli ordini della Regina e dei suoi droni. Ma «ciò che ci differenzia dagli altri animali è la nostra capacità di reimmaginare e ricreare il mondo che ci circonda. Come scriveva Marx, gli esseri umani sono architetti, non api». A quanto pare, c'è stato un tempo in cui i lavoratori avevano voce in capitolo nella pianificazione. Cito Blakeley da una recente intervista sul suo libro: «Quindi la pianificazione è continuata come prima, per tutta la storia del capitalismo, solo che invece di lavoratori, padroni e politici, i lavoratori sono stati cacciati e sono stati così solo i padroni e i politici che hanno finito per pianificare». Davvero? I lavoratori avevano voce in capitolo nella pianificazione delle economie in un'epoca pre-monopolistica, e non erano sempre api? Se Blakeley intende dire che prima del periodo neoliberista il sindacato era più forte, e quindi poteva esercitare una certa influenza nella pianificazione monopolistica, o che i consigli operai tedeschi potevano fare lo stesso; be' quelli di noi che hanno vissuto gli anni '60 e '70 sanno che non è stato affatto così.

La risposta data da Blakeley, a questa "morte della libertà" per i lavoratori, non è quella di sostituire i mercati - come noi vecchi socialisti sostenevamo - ma è invece quella delle imprese locali dei lavoratori. E per questo Blakeley ci presenta un pacchetto di esempi di quando i lavoratori hanno sviluppato le proprie cooperative e attività autogestite, le quali dimostrano che è possibile organizzare la società senza mercati, senza lo Stato (e senza pianificazione?). Il miglior esempio di Blakeley è il Piano Lucas degli anni '70, che ha visto i lavoratori sviluppare proposte per trasformare una multinazionale produttrice di armi in un'impresa sociale di proprietà dei lavoratori. «Il Piano Lucas era un documento straordinariamente ambizioso che sfidava le fondamenta del capitalismo. Al posto di un'istituzione progettata per generare profitti attraverso il dominio del lavoro da parte del capitale, i lavoratori della Lucas Aerospace avevano sviluppato un modello completamente nuovo per l'azienda, basato sulla produzione democratica di beni socialmente utili. Era quasi come se gli operai non avessero mai avuto bisogno di essere gestiti, come se fossero architetti creativi piuttosto che api obbedienti». E poi c'è stato il "movimento di bilancio partecipativo" in Brasile, «nel quale i cittadini hanno preso il controllo della spesa pubblica con risultati sorprendenti». Altri esempi sono tratti dall'Argentina e dal Cile. Blakeley conclude che «l'evidenza è chiara: quando si dà alle persone il potere reale, lo usano per costruire il socialismo». Ma è anche evidente che tutti questi progetti fantasiosi dei lavoratori a livello locale alla fine sono crollati; o sono stati consumati dal capitale (Lucas); o continuano senza avere alcun effetto più ampio sul controllo capitalista dell'economia; in Brasile, il "bilancio partecipativo" ha portato forse a un Brasile socialista? I progetti in Argentina hanno fermato l'orrenda serie di crisi economiche in quel paese? Blakeley ne è consapevole: «senza riforme della struttura delle società capitaliste, tali innovazioni sono destinate a rimanere piccole. A meno che non socializziamo e democratizziamo la proprietà delle risorse più importanti della società, a meno che non dissolviamo la divisione di classe tra capitale e lavoro stesso, non ci può essere vera democrazia.» Blakeley, chiede giustamente la fine delle restrizioni sindacali, la settimana lavorativa di quattro giorni e i servizi di base universali. «Una proposta di gran lunga migliore sarebbe quella di demercificare tutto ciò di cui le persone hanno bisogno per sopravvivere, fornendo un programma di servizi di base universali, in cui tutti i servizi essenziali come l'assistenza sanitaria, l'istruzione (compresa l'istruzione superiore), l'assistenza sociale e persino il cibo, l'alloggio e i trasporti sono forniti gratuitamente o a prezzi sovvenzionati. E garantire che questi servizi siano governati democraticamente aiuterebbe anche a costruire la solidarietà sociale a livello locale, qualcosa che un RBI difficilmente raggiungerebbe». Infatti. Ma come si possono realizzare queste misure necessarie, nell'interesse dei lavoratori, senza la proprietà pubblica dei mezzi di produzione? Come possiamo demercificare i servizi essenziali senza la proprietà pubblica delle compagnie energetiche, dei servizi sanitari e dell'istruzione di proprietà pubblica, dei trasporti e delle comunicazioni di proprietà pubblica o della produzione e distribuzione di alimenti di base? Qui, le proposte di Blakeley sembrano molto scarse. Citando un programma per il Regno Unito, vuole che siano nazionalizzate le "banche al dettaglio"; e vuole democratizzare la Banca Centrale. Questa è la finanza. Ma non vedo alcuna richiesta di nazionalizzazione dei grandi monopoli che, secondo Blakeley, controllano impunemente la nostra società. E le grandi compagnie di combustibili fossili? le grandi case farmaceutiche (che hanno tratto profitto dal COVID) o le grandi aziende alimentari (che hanno tratto profitto dalla spirale inflazionistica)? E che dire dei mega social media e delle aziende tecnologiche che succhiano trilioni di profitti? Non dovrebbero essere di proprietà pubblica?

Quando si parla dell'economia mondiale e del Sud del mondo, Blakeley fa riferimento a quello che definisce "l'approccio sviluppista" adottato da alcuni paesi in cui si presume «che lo Stato possa agire come una forza autonoma all'interno della società». Per lei, la Cina è un esempio in cui «il risultato è stato la costruzione di un modello di sviluppo di sorprendente successo». Ma questo successo, dice Blakeley, è stato ottenuto solo grazie allo sfruttamento dei lavoratori cinesi, proprio come accade nel mondo ricco: «è stata proprio la capacità dei pianificatori cinesi di promuovere la crescita economica, sopprimendo le richieste dei lavoratori, che ha sostenuto il "miracolo" cinese». Quindi, per Blakeley, la Cina non è diversa dalle economie "sviluppiste" del Giappone o della Corea. Ma è giusto? In Occidente, la "pianificazione monopolistica statale" non ha evitato le crisi economiche successive, e ha portato a una crescita economica e a investimenti sempre più lenti, come in Giappone e nel resto del G7. Ma in Cina, la "pianificazione monopolistica statale" ha portato a una crescita senza precedenti, senza alcun crollo, come sperimentato invece in Occidente o in altre "economie emergenti" come l'India o il Brasile. E contrariamente all'affermazione di Blakeley, tra tutte le principali economie, la Cina ha raggiunto la crescita più rapida dei salari reali. Possiamo spiegare questo diverso risultato solo perché c'è una differenza: l'economia cinese si basa su una pianificazione degli investimenti guidata dallo Stato che domina le imprese non capitaliste e il mercato, a differenza dell'Occidente. Prendiamo la questione del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. Sicuramente, è abbondantemente chiaro che i mercati e le soluzioni di prezzo non possono affrontare la crisi climatica. Ciò di cui c'è bisogno è una pianificazione globale basata sulla proprietà pubblica dell'industria dei combustibili fossili e su investimenti pubblici su larga scala da parte degli Stati in cooperazione. Non può essere risolto dalle imprese operaie locali. Blakeley afferma che "espandere" la proprietà pubblica delle imprese - sia a livello locale che nazionale - è «un altro elemento chiave nella democratizzazione dell'economia, perché sfida il potere del capitale sugli investimenti». Ma porre fine al potere capitalista (monopolistico o meno) attraverso la proprietà pubblica, non è solo "un altro elemento chiave", ma è l'elemento chiave. Senza di essa, la pianificazione democratica e il controllo da parte dei lavoratori della loro economia e della loro società sono impossibili.

Blakeley antepone la "democrazia" alla proprietà pubblica e alla pianificazione, il carro davanti ai buoi. Per viaggiare verso il socialismo, abbiamo bisogno del cavallo e del carro insieme. Il capitalismo non ha superato le crisi internazionali attraverso la pianificazione monopolistica statale. Le crisi continuano a verificarsi a intervalli regolari, causate dalla contraddizione tra la ricerca di un maggiore profitto e la crescente difficoltà di realizzare tale profitto. Le crisi sono ancora inerenti al processo di accumulazione capitalista e non sono il risultato di "scelte sbagliate" fatte dai politici che eseguono gli ordini dei monopoli. Solo la fine del capitale privato e della legge del valore attraverso la proprietà pubblica e la pianificazione possono fermare tali crisi. L'analisi di Blakeley del capitalismo moderno, visto come un "capitalismo pianificato", è confusa. Il leopardo capitalista, che è emerso come il modo di produzione dominante a livello globale nel 19esimo secolo, ha davvero cambiato le sue macchie? Il precedente libro di Blakeley, Stolen, aveva come sottotitolo «come salvare il mondo dalla finanziarizzazione»; si noti, non il capitalismo in quanto tale, ma il capitale finanziario. E anche il titolo di questo nuovo libro è confuso. Il nostro nemico questa volta non è la "finanziarizzazione" ma il "capitalismo avvoltoio". Ma cos'è il capitalismo avvoltoio? Ho cercato nel libro per scoprirlo. Non c'è alcuna spiegazione di questo termine nel libro, a parte il riferimento breve agli hedge fund avvoltoio che fanno pressione sui governi dei paesi poveri per il rimborso del debito. Il termine capitalismo avvoltoio sembra non avere alcuna attinenza con il contesto del tema di Blakeley nel libro. Presumo che fosse solo un titolo di marketing intelligente sognato dagli editori. Ha funzionato nella vendita del libro; ma non funziona nello spiegare nulla del capitalismo del 21° secolo.

- Michael Roberts - Pubblicato l'8 maggio 2024 su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist -

martedì 7 maggio 2024

La rappresentazione della rappresentanza…

I nuovi media hanno sancito l’ingresso della politica nella società globale dello spettacolo. Le nostre democrazie si ritrovano sature di immagini ma povere di immaginazione, esautorate dalla governance dei “competenti”: la politica è mera amministrazione di un totale consenso neoliberale, i cittadini sono ridotti a consumatori di decisioni e lo spazio lasciato vuoto dalle utopie viene occupato da rappresentazioni inquietanti, come il mito dello “scontro di civiltà”. Per trovare uno statuto nuovo alla politica, Chiara Bottici risale alle origini del pensiero umano e decostruisce le grammatiche di sessismo, nazionalismo e colonialismo. Il suo edificio filosofico si va creando attorno alla proposta di riportare al centro del discorso politico l’immaginazione: capacità radicale di figurarsi la realtà in modo differente.

(dal risvolto di copertina di: Chiara Bottici, "La politica dell'immaginazione". Castelvecchi. Pag.360, €29)

L'immaginazione non è più al potere
- di Roberto Esposito -

Da qualche tempo le nostre società vivono una condizione paradossale. Da un lato il mondo politico è sempre più colmo d'immagini. Dall'altro i politici sembrano mancare d'immaginazione. Anzi si direbbe che tra le due cose vi sia un preciso rapporto. Quanto più le immagini dei leader riempiono gli schermi televisivi, affollano i siti, invadono i dispositivi, tanto più sembra venir meno la capacità di immaginare nuovi mondi, o quanto meno di rinnovare l'unico che abbiamo. Certo, il fenomeno non è nuovo. Risale alla modernità, quando la politica, prima chiusa nelle segrete stanze, invade la scena pubblica, mentre la fotografia consente una riproduzione infinita delle immagini. Democratizzazione e mediatizzazione sono processi di lungo periodo che da tempo procedono appaiati. Ma oggi una soglia è stata varcata. Con la nascita dei partiti personali nessun leader può fare a meno di diffondere le proprie immagini su Facebook, Instagram o X, in vista di potenziali like. Quella che Guy Debord, con singolare preveggenza, aveva chiamato "società dello spettacolo" si è estesa su scala globale, con effetti inquietanti di commistione tra realtà e finzione.

Nel momento in cui l'intelligenza artificiale può costruire a piacimento scenari immaginari senza fondamento nella realtà, è sempre più difficile distinguere il vero dal falso. Cosicché si può dire che tanto più siamo saturi di immagini, tanto più siamo carenti di informazioni. Gli scontri politici, ma anche militari, si combattono, oltre che con le armi, attraverso la battaglia di immagini contrapposte che a volte ritraggono lo stesso evento da angolature diverse., funzionali agli effetti che si vogliono ottenere. A risultarne potenziati sono gli opposti fanatismi in quello che sempre più rischia di avvicinarsi a uno scontro di civiltà. In questo modo, attraverso le emozioni suscitate dalle immagini di devastazione, i giudizi tendono a polarizzarsi a favore degli uni contro gli altri, consumando progressivamente i residui spazi di mediazione tra opzioni assolute. Da qui una rassegnazione che sembra sostituire alla opportunità della storia i vincoli del destino. A venir meno, sopraffatta da immagini di morte, desolazione, disperazione, è la capacità umana di inventare soluzioni alternative, di creare nuovi scenari, di aprire spazi inediti di intervento. Come si diceva, la furia delle immagini sembra spegnere l'energia dell'immaginazione.

Questa contraddizione è adesso analizzata in un libro di Chiara Bottici, professoressa alla New School di New York, pubblicato da Castelvecchi col titolo "La politica dell'immaginazione". La sua originalità sta nell'interrogare la relazione, sempre più decisiva, tra immaginazione e politica da entrambi i lati. Nella prima parte il libro ricostruisce il modo in cui la facoltà dell'immaginazione è stata trattata da una tradizione filosofica che l'ha sempre subordinata alla sensazione e all'intelletto. Nonostante qualche eccezione, rappresentata soprattutto da Aristotele e Kant - ai quali aggiungerei quantomeno Spinoza – la facoltà immaginativa è stata generalmente relegata nell'ambito della finzione. E dunque contrapposta alla verità, scientifica o metafisica che sia. La cultura illuministica ha ribadito questa emarginazione dell'immaginario, contrapponendogli la certezza della ragione. Neanche lo strutturalismo di Lévi-Strauss e la psicoanalisi d Lacan hanno davvero ribaltato questa tendenza. Come invece ha fatto il filosofo francese Cornelius Castoriadis, oltre che nel classico "L'istituzione immaginaria della società" (ristampato da Mimesis a cura di Emanuele Profumi), con una serie di saggi adesso riuniti da Alfredo Ferrarin in un volume intitolato "L'elemento inmmaginario" (ETS).

Castoriadis ci immette nello spazio, in radicale trasformazione, della politica, al quale è dedicato la seconda parte del libro di Bottici. Il rapporto della politica con l'immaginario è sempre stato imprescindibile - basti pensare al gioco di sguardi incrociati da cui scaturisce l'immagine del principe in Machiavelli. D'altra parte, anche nella stagione successiva, è impossibile concepire la politica senza uno spazio pubblico in cui il potere cerca la propria legittimazione. Non per nulla centrale nelle democrazie moderne è l'istituto della rappresentanza, mediante la quale gli eletti rappresentano gli elettori. . In questo senso una dimensione teatrale è connaturata all'agire politico. Si può fare politica - sosteneva Hannah Arendt, sulla scorta di Kant - soltanto se si è capaci di mettersi al posto degli altri. Naturalmente le cose cambiano quando, nell'attuale politica-spettacolo, la rappresentanza diventa immediatamente rappresentazione. Allora, da strumento della politica, l'immagine finisce per sostituirla fino a esaurirne la carica vitale. Eppure, benché stressata dall'inflazione delle immagini, è proprio nella forza dell'immaginazione che la politica può ritrovare la propria potenza istituente. Non solo la capacità di dar voce alla società esistente, ma anche di immaginarne una diversa.

- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson del 12/11/2023 -

lunedì 6 maggio 2024

Era nudo, con la pistola, davanti allo specchio, ma “Alias” non ci fece caso !!

A quanto sembra, quest'estate verrà pubblicata una nuova versione di uno dei "capolavori rovinati" di Sam Peckinpah: e così potremo finalmente vedere il "personal cut" del suo Pat Garrett & Billy The Kid (una versione più breve, di “soli”106 minuti, del Director Cut, era già stata rieditata dalla MGM per il mercato Home Video, nel 1988).

A proposito di Peckinpah, si racconta che Rudolph (Rudy) Wurlitzer - la cui sceneggiatura per il film di Pat Garrett venne grossolanamente rielaborata da Peckinpah - temesse e detestasse a tal punto il regista da averne fatto un personaggio principale (con l'appropriato pseudonimo di Wesley Hardin) per un suo libro, "Slow Fade", nel quale viene ritratto come un regista megalomane e drogato. In altre occasioni, Wurlitzer ha raccontato anche cosa avvenne la prima volta che Bob Dylan incontrò Sam Peckinpah:

«Era sera tardi, e Bob e io stavamo camminando, diretti verso casa di Sam, quando si sentì un urlo e vedemmo una cameriera terrorizzata che correva fuori. Subito dopo sentimmo uno sparo e io pensai: "Oh, cavolo, questo finirà per mandare all'aria tutta la storia con Bob". Entrando in casa, trovammo Sam in piedi, davanti a uno specchio, del tutto nudo. Lo specchio era stato completamente distrutto, mentre lui aveva una bottiglia in una mano e una pistola nell'altra. E io dissi: "Sam, questo è Bob Dylan"».

domenica 5 maggio 2024

Leggere Marx - I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo - 9-

Consumo di forza lavoro come nutrimento vivente del capitale

« Torniamo al nostro capitalista in spe [in erba]. Lo abbiamo lasciato dopo che aveva acquistato sul mercato tutti i fattori necessari al processo lavorativo: i fattori oggettivi, ossia i mezzi di produzione, e il fattore personale o soggettivo, ossia la forza di lavoro.Egli ha scelto, con l’occhio scaltro di chi sa il suo mestiere, i mezzi di produzione e le forze di lavoro adatte al suo particolare esercizio: filatura, calzoleria, ecc. Poi il nostro capitalista si mette a consumare la merce speciale che ha appena comprato, la forza di lavoro, ossia attraverso il lavoro dell’operaio –il detentore  della forza di lavoro– mette in azione (e consuma) i mezzi di produzione (...) Ora, il processo lavorativo nel suo svolgimento, come processo di consumo della forza di lavoro da parte del capitalista, ci rivela due fenomeni peculiari. In primo luogo, l’operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale appartiene il tempo di lavoro dell’operaio. Il capitalista vigila accuratamente a che il lavoro sia eseguito in modo appropriato e che i mezzi di produzione vengano impiegati in modo conforme al loro scopo, e quindi che non si sprechi materia prima, e che si abbia cura dello strumento di lavoro affinché non si danneggi, ovvero che il suo logoramento non superi di quel tanto necessario all’uso nel lavoro. In secondo luogo, però, il prodotto è proprietà del capitalista, non del produttore immediato e diretto, dell’operaio. Il capitalista paga il valore della forza di lavoro, p. es. giornaliero.  Di conseguenza, per quella giornata, l’uso di essa gli appartiene, come di ogni altra sua merce, p. es. di un cavallo noleggiato per tutta la durata di quella giornata di lavoro. Al compratore della merce appartiene l’uso della merce. E il possessore della forza di lavoro, quando dà il suo lavoro al capitalista, non dà altro, in realtà, che il valore di uso da lui venduto. Dal momento che egli è entrato nell’officina del capitalista, il valore di uso della sua forza lavorativa, e quindi l’uso di essa, il lavoro, appartiene al capitalista. Questi, mediante la compera della forza di lavoro, ha incorporato il lavoro stesso, come lievito di vita, agli elementi morti e passivi costitutivi del prodotto [finale], che pure appartengono a lui. Dal suo punto di vista, il processo lavorativo è semplicemente il consumo della merce forza di lavoro, da lui acquistata, merce che tuttavia egli può consumare soltanto a patto di aggiungerle mezzi di produzione. Il processo lavorativo è un processo svolgentesi fra le cose che il capitalista ha comprato, fra cose che possiede in uso esclusivo. Perciò, il prodotto di questo processo gli appartiene, proprio come gli appartiene il prodotto del processo di fermentazione nella sua cantina. (...)

Il prodotto –proprietà del capitalista– è un valore di uso, come filati, tela, refe stivali, ecc. Ma sebbene gli stivali, p. es., {facciano camminare il mondo}, e costituiscano, in un certo senso, la base del progresso sociale, e quindi il nostro capitalista sia un incontestabile «progressista», egli non fabbrica stivali per amor degli stivali. Il valore di uso non è affatto, nella produzione mercantile, l’oggetto «qu’on aime pour lui-même» [«che si ama per sé stesso», cioè fine a sé stesso]. Qui, in generale, i valori di uso vengono prodotti soltanto perché e in quanto essi sono sostrato materiale, depositari del valore di scambio. E il nostro capitalista mira a due cose: in primo luogo, la produzione di un valore di uso che abbia un valore di scambio, un articolo destinato alla vendita, una merce; in secondo luogo, la produzione di una merce il cui valore sia maggiore della somma dei valori delle merci necessarie alla sua produzione, ossia la somma dei valori dei mezzi di produzione e della forza di lavoro, per i quali egli ha anticipato sul mercato il suo amato denaro. Egli vuol produrre non soltanto un valore di uso, ma una merce, non soltanto valore di uso, ma valore, e non soltanto valore, ma anche plusvalore. (...)

Consideriamo ora il processo di produzione anche come processo di formazione di valore. Noi sappiamo che il valore di ogni merce è determinato dal quantum di lavoro materializzato nel suo valore di uso, ossia dal tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione di essa. Questo vale anche per il prodotto che il nostro capitalista ha ottenuto come risultato del processo lavorativo. Si deve quindi calcolare per prima cosa il lavoro oggettivato in questo prodotto. Si consideri, p. es., il filato. Per la preparazione del refe è stata, prima di tutto, necessaria la sua materia prima, p. es. 10 libbre di cotone. È inutile per ora stabilire il valore del cotone, assumiamo che il capitalista lo ha comprato sul mercato al suo valore, p. es. a 10 scellini. Nel prezzo del cotone, il lavoro richiesto per la sua produzione è rappresentato già come lavoro generalmente sociale. Ammettiamo inoltre che la massa di fusi logoratisi nella lavorazione del cotone, in cui si rappresentano per noi anche tutti gli altri mezzi di lavoro utilizzati, abbia un valore di 2 scellini. Se una massa di oro di 12 scellini è il prodotto di 24 ore lavorative, ossia di 2 giornate lavorative [di 12 ore], ne segue, come primo risultato, che nel refe sono oggettivate 2 giornate lavorative. (...) A proposito della vendita della forza di lavoro, si era presupposto che il suo valore giornaliero fosse uguale a 3 scellini, somma in oro nella quale erano incorporate 6 ore lavorative, e quindi che tale fosse la quantità di lavoro richiesta per la produzione della somma media dei mezzi di sussistenza giornalieri del lavoratore. Ora, se il nostro filatore, in 1 ora di lavoro, trasforma 1, 2/3 libbre di cotone in 1, 2/3 libbre di refe, in 6 ore trasformerà 10 libbre di cotone in 10 libbre di refe. Perciò, durante il processo di filatura, il cotone assorbe 6 ore lavorative. Lo stesso tempo di lavoro si rappresenta in una massa di oro di 3 scellini. (...) Facciamo ora il conto del valore complessivo del prodotto, cioè delle 10 libbre di refe. In queste 10 libbre sono oggettivate 2½ giornate lavorative: 2 contenute nel cotone e nella massa dei fusi, ½ di lavoro assorbito durante il processo di filatura. Il medesimo tempo di lavoro è rappresentato in una massa di oro di 15 scellini. Quindi il prezzo di 15 scellini esprime in modo adeguato il valore {esatto} di 10 libbre di refe e il prezzo di 1 scellino e 6 pence il valore di 1 libbra di refe. Il nostro capitalista rimane interdetto: il valore del prodotto è uguale al valore del capitale anticipato. Il valore anticipato non si è valorizzato, non ha generato alcun plusvalore, e di conseguenza il denaro non si è trasformato in capitale. Il prezzo delle 10 libbre di refe è di 15 scellini, e 15 scellini è la spesa sul mercato per gli elementi costitutivi del prodotto. Non serve a niente che il valore del refe sia gonfiato, poiché questo suo valore non è che la somma dei valori in precedenza distribuiti fra il cotone, i fusi e la forza di lavoro, e da tale semplice addizione di valori esistenti non può sprigionarsi, né ora né mai, un plusvalore. (...)

Vediamo la faccenda un po’ più da vicino. Il valore giornaliero della forza di lavoro ammontava a 3 scellini, perché in esso è oggettivata una mezza giornata lavorativa, ossia perché i mezzi di sussistenza necessari giornalmente per la riproduzione della forza di lavoro costano una mezza giornata lavorativa. Ma il lavoro passato, latente ma contenuto in sé nella forza di lavoro, e il lavoro vivo che può fornire per sé la forza di lavoro, ossia i costi giornalieri di mantenimento della forza di lavoro e il dispendio giornaliero di questa, sono due grandezze del tutto distinte. Il primo determina il suo valore di scambio, il secondo costituisce il suo valore di uso. Il fatto che, per mantenere in vita l’operaio durante 24 ore, sia necessaria una mezza giornata lavorativa, non è affatto un impedimento perché l’operaio stesso lavori per una giornata intera. Dunque, il valore della forza di lavoro e il valore che la forza di lavoro valorizza (cioè la valorizzazione) nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mirava il capitalista, quando comperava la forza di lavoro. La proprietà utile di produrre refe e stivali, propria della forza lavorativa, era per il capitalista soltanto la conditio sine qua non del processo lavorativo, in quanto per la creazione di valore, il lavoro deve essere speso in forma utile. Ma l’elemento decisivo è stato il valore di uso specifico di questa merce sui generis, di essere la fonte del valore, e di più valore di quanto essa stessa ne possieda ab origine in sé. È questo il servizio speciale che il capitalista si aspetta dalla forza di lavoro. E in questa transazione egli procede secondo le «eternal laws»  dello scambio di merci. In realtà, come ogni altro venditore di merci, il venditore della forza di lavoro realizza il suo valore di scambio e, al contempo, aliena il suo valore di uso. Egli non può ottenere l’uno senza cedere l’altro. Il valore di uso della forza di lavoro, il lavoro stesso, non appartiene affatto al venditore di essa, come non appartiene al negoziante di olio il valore di uso dell’olio da lui venduto. Il possessore di denaro ha pagato il valore giornaliero della forza di lavoro, e quindi a lui appartiene l’uso di essa durante la giornata, il lavoro di un intero giorno. La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza di lavoro costi soltanto una mezza giornata lavorativa, benché la forza di lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata, e quindi che il valore creato dall’uso di essa durante una giornata sia grande il doppio del suo proprio valore giornaliero, è un colpo di fortuna particolarmente felice per il compratore, ma non è in alcun modo una ingiustizia sociale né una lesione dei diritti del venditore.

II nostro capitalista ha previsto questo caso e dice: «Der Kasus macht mich lachen»! [«Com’è divertente questo fatto»!]. Non per nulla il lavoratore trova predisposti nell’officina i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di 12 ore, anziché quelli per 6 ore. Se 10 libbre di cotone hanno assorbito 6 ore lavorative e si sono trasformate in 10 libbre di refe, 20 libbre di cotone assorbiranno 12 ore di lavoro e si trasformeranno in 20 libbre di refe. Esaminiamo ora il prodotto del processo di lavoro prolungato. Adesso, nelle 20 libbre di refe sono oggettivate 5 giornate lavorative: 4 nella massa di cotone e di fusi consumata; 1 assorbita dal cotone durante il processo di filatura. Però l’espressione in oro di 5 giornate lavorative è 30 scellini, cioè 1 lira sterlina e 10 scellini. E questo è, ora, il prezzo delle 20 libbre di refe. La libbra di filati costa, come prima, 1 scellino e 6 pence. Ma il totale del valore delle merci immesse nel processo ammontava a 27 scellini. Il valore del refe ammonta a 30 scellini. Quindi il valore del prodotto è cresciuto di 1-9 rispetto al valore anticipato per la sua produzione. E così 27 scellini si sono trasformati in 30 scellini. Hanno figliato un plusvalore di 3 scellini.  Il colpo di prestigio è riuscito, finalmente. Il denaro si è convertito in capitale. Il problema è risolto in tutti i suoi termini e le leggi dello scambio di merci non sono state affatto violate. Equivalente è stato scambiato contro equivalente. Il capitalista, come compratore, ha pagato ogni merce – cotone, massa dei fusi, forza di lavoro– al suo valore. Poi, egli ha fatto quel che fa ogni altro compratore di merci: ha consumato il loro valore di uso. Il processo di consumo della forza di lavoro, che nello stesso tempo è processo di produzione della merce, ha fornito un prodotto di 20 libbre di refe del valore di 30 scellini. Allora il capitalista ritorna sul mercato come venditore. Egli vende merce dopo che aveva comprato merce. Egli vende la libbra di cotone a 1 scellino e 6 pence, non un soldo in più o in meno del suo valore esatto. Eppure, trae dalla circolazione 3 scellini in più di quanti ne aveva immessi inizialmente.Tutto questo svolgimento – la metamorfosi del denaro del nostro capitalista in capitale–, avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché ha la sua condizione nella compera della forza di lavoro sul mercato delle merci; non avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché la circolazione è il punto di avvio e di arrivo del processo di valorizzazione, il quale si svolge nella sfera della produzione.(...)
Se ora confrontiamo il processo di creazione di valore e il processo di valorizzazione, quest’ultimo non è altro che il processo di creazione di valore prolungato al di là di un certo limite. Se il processo di creazione di valore dura soltanto fino al punto nel quale il valore della forza di lavoro pagato dal capitalista è sostituito da un nuovo equivalente, esso è processo semplice di creazione di valore, ma se il processo di creazione di valore dura al di là di quel punto, esso diventa processo di valorizzazione.(...) Il processo di produzione, in quanto unità di processo lavorativo e di processo di creazione di valore, è processo di produzione di merci; in quanto unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, è processo di produzione capitalistico, ossia forma capitalistica della produzione di merci.

- Karl Marx, "Il Capitale. Critica dell'Economia Politica”, Libro I, Quarta edizione, 1890 -

sabato 4 maggio 2024

“Diskrepanz” !!

Una critica rivoluzionaria dell'antisemitismo
- di Stephan Grigart -

Senza Moishe Postone, scomparso a Chicago il 19 marzo 2018 all'età di 75 anni, con ogni probabilità questo giornale non esisterebbe; quanto meno non esisterebbe nel modo in cui oggi lo conosciamo. La scissione che ebbe luogo all'interno della redazione di "Junge Welt" - da cui poi nel 1997 è emersa "Jungle World" -  è stata anche il risultato di un processo che era cominciato ancor prima della riunificazione: alla fine degli anni '80, il testo di Postone "Nazionalsocialismo e antisemitismo" circolava già, come raccomandazione privilegiata, in tutti quegli ambiti  che stavano cercando di ricalibrare il proprio marxismo, e che lo facevano a partire da una rilettura della "Critica dell'economia politica" di Karl Marx; sia dall'analisi della teoria critica classica sia da una più intensa preoccupazione riguardo il nazionalsocialismo. Scritto originariamente per una rivista statunitense, dopo la sua prima pubblicazione in Germania, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, quel testo non aveva suscitato molte discussioni. Nel 1991, l'ISF - con sede a Friburgo e guidata dal pubblicista Joachim Bruhn - lo ristampò nella sua rivista Kritik & Krise; sarebbe poi apparso nel 2005, nella raccolta di saggi di Postone, "Deutschland, die Linke und der Holocaust" (La Germania, la sinistra e l'Olocausto), pubblicata dalla Ça’ Ira di Friburgo, e che oggi rimane una lettura obbligatoria per chiunque sia interessato alla critica sociale materialista. I redattori di "Deutschland, die Linke und der Holocaust" hanno dichiarato: «Gli scritti di Postone hanno influenzato l'adozione di una teoria critica della società da parte di una parte rilevante della sinistra radicale, la quale ha oggi come punto di partenza l'approccio autocritico al passato nazionalsocialista». Tra le altre cose, questi scritti hanno anche portato alla creazione di questa rivista, sulla quale sono state frequentemente pubblicate interviste a Postone, oltre a diversi dossier su di lui. Sullo sfondo della banalizzazione marxista-leninista dell'antisemitismo, che aveva prevalso per decenni, Joachim Bruhn descrisse correttamente le tesi di Postone sul nazionalsocialismo, definendole come una «rivoluzione nella visione materialista dell'antisemitismo». Tanto la sua descrizione dell'antisemitismo moderno - svolta a partire dalle categorie fondamentali del Capitale di Marx, e vedendolo come “odio per l'astratto” – quanto la sua chiara distinzione tra antisemitismo e razzismo, fatta a partire dall’analisi delle pratiche di sterminio del nazionalsocialismo viste come rottura con la logica capitalistica della valorizzazione e con la razionalità del dominio, rappresentano ora un referente; così come lo è anche la sua critica alla sinistra tedesca e a un anticapitalismo feticista che si ritiene progressista. Talvolta, nella ricezione delle tesi di Postone sull'antisemitismo, si è notata la tendenza a una difesa teorico-razionalizzante della storia; per quanto, tuttavia, tali tesi non possono essere accusate di questo. Per Postone, l'esperienza ebraica della violenza e dello sterminio, e l'orrore dell'antisemitismo nella sinistra tedesca, costituiscono il punto di partenza di ogni suo sforzo critico. Il padre, un rabbino lituano, era riuscito a emigrare in Canada nell'agosto del 1939, appena una settimana prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Laggiù incontrò quella che sarebbe diventata sua moglie, cresciuta in Unione Sovietica durante il terrore stalinista, e da quell'incontro, nel 1942, sarebbe nato. Tutta la famiglia di suo padre, e molti parenti di sua madre vennero uccisi nella Shoah. Postone avrebbe frequentato prima la scuola elementare ebraica a Edmonton, nel Canada occidentale, e successivamente il liceo ebraico, prima a Los Angeles e poi a Chicago. Inizialmente, studierà biochimica all'Università di Chicago, ma ben presto sarebbe passato a studiare Storia Intellettuale, con Hannah Arendt, che allora, a detta di Postone, era l'unica professoressa dell'Università che nel corso dei suoi seminari si rivolgesse a Marx e Hegel. Prima di trasferirsi all'Università di Francoforte, nei primi anni '70, quando avrebbe completato il suo dottorato con Iring Fetscher, e poi sarebbe stato intensamente coinvolto nelle discussioni della Nuova Sinistra, avrebbe studiato tedesco a Monaco di Baviera. A New York negli anni '70, avrebbe insegnato al Brooklyn College e al Richmond College. Dal 1987 in poi ha insegnato Storia intellettuale europea e, più recentemente Teoria sociale critica, all'Università di Chicago, come professore presso il Dipartimento di Storia.

Nel 1985, Postone, in occasione della visita di Helmut Kohl e Ronald Reagan al cimitero militare di Bitburg, scrive una lettera aperta alla sinistra della Germania Ovest, il cui contenuto viene ancora oggi ignorato da gran parte della sinistra. In quella lettera, Postone definisce l'atlantismo filo-americano dei conservatori tedeschi dell'epoca come un modo conveniente per far apparire la Germania Ovest una normale democrazia, senza però che essa si sia mai confrontata con il proprio passato nazionalsocialista. In tal modo, egli decifrava l'antimperialismo della sinistra - a partire dal fatto che ci sono «centinaia di migliaia di persone pronte a manifestare contro l'imperialismo americano, e solo poche centinaia contro una riabilitazione riguardo il passato nazista» -  vedendolo come rozzo antiamericanismo e come una forma alternativa di difesa contro la colpa. La lettera verrà ripubblicata all'inizio degli anni '90, su istigazione del giornalista Matthias Küntzel sulla rivista Bahamas, e rimane ancora oggi una delle critiche più coerenti alla società tedesca post-nazista e alla sua sinistra. Il libro di Postone su Marx, "Time, Labor, and Social Domination" - pubblicato nel 1993 dalla Cambridge University Press - scritto sviluppando la sua tesi di Francoforte del 1983, riceveva il prestigioso premio dell'American Sociological Association. Quando, dieci anni dopo, il libro verrà pubblicato in tedesco da Çaira, "Jungle World" non si limiterà solamente a pubblicare una recensione dettagliata, ma pubblicherà tutta un'intera serie di articoli sulla «nuova interpretazione della teoria critica di Marx» svolta da Postone. Il suo studio rappresenta un'obiezione al socialismo matematico dell'idealismo del valore, del denaro e del prezzo, il quale vede solo dei problemi di distribuzione, e crede che, in genere, possono essere risolti per mezzo di politiche fiscali alternative, senza però arrivare mai ad affrontaregli effetti prodotti da un Lavoro che si è costituito intorno al Valore. Simultaneamente, Postone si oppone ugualmente anche al marxismo tradizionale, con la sua nozione sovra-storica di un proletariato che viene visto come il soggetto di un'emancipazione generale. Opponendosi allo stesso tempo anche alle teorie post-strutturaliste, e alla loro semplice negazione del fatto che esista una totalità mediata dal Valore. Al posto della tradizionale concezione marxista che vede solo la contraddizione fondamentale tra Capitale e Lavoro, egli pone, nello spirito della Teoria Critica, la Differenza (Diskrepanz) tra l'Esistente e il Possibile. A partire da quella che è un'idea centrale dei "Grundrisse" di Marx – svolta nello stesso modo in cui lo fa simultaneamente anche quella  Critica del Valore, costituitasi intorno a Robert Kurz, con il quale egli stesso a volte è stato in stretto contatto -  Postone individua e mette a fuoco il decisivo antagonismo del capitalismo in quella che è la crescente contraddizione tra Valore e Ricchezza materiale.

- Stephan Grigart - Pubblicato su: Jungle World, 29/03/2018 -

fonte: Alindenor Pedro - Utopias Pòs Capitalistas -