venerdì 14 dicembre 2018

«Guerriera, ma radiosa»!

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In "Spazio e politica", costruito come secondo volume di "Il diritto alla città", Lefebvre analizza criticamente un modo di operare corrente e disastroso, che usa far corrispondere punto per punto i bisogni, le funzioni, i luoghi, gli oggetti sociali in uno spazio ritenuto neutro, indifferente e oggettivo. In questo tipo di prassi va riconosciuto il principio della frammentazione dello spazio sociale, che è divisione del lavoro quanto divisione sociale, in una parola: alienazione. A questo modo di operare, si contrappone l'idea di "diritto alla città" riferito a una globalità e liberato dall'ideologia dominante, coercitiva e repressiva. "Diritto alla città" significa dunque diritto dell'uomo all'aggregazione, alla presenza totale in ogni punto, in ogni circuito di comunicazione, di informazione e di scambio. Ma questo non dipende tanto da una particolare ideologia urbanistica, né da un particolare approccio alla progettazione, quanto piuttosto dalla consapevolezza di una specifica qualità o proprietà dello spazio urbano: la centralità. Non esiste nessuna realtà urbana senza un centro, "senza un luogo di concentrazione di tutto ciò che può nascere e prodursi nello spazio, senza un luogo di incontro attuale o possibile di tutti gli 'oggetti', di tutti i 'soggetti'". L'esclusione dalla dimensione urbana dei gruppi, delle classi, degli individui, significa di fatto esclusione dal processo di civilizzazione e addirittura dalla società. Il diritto alla città è la lotta contro questa esclusione dalla realtà urbana, dalla centralità, oltre che il segno di una crisi che investe ogni organizzazione coercitiva e discriminante: i centri decisionali, di informazione, potere, opulenza, che insieme ricacciano l'uomo nelle periferie della politica, dell'informazione e della ricchezza. Centralità come unità di spazio e di tempo, contro ogni frammentazione, che è alienazione, divisione del lavoro e dello spazio. Un diritto alla città che richiede non una generica conoscenza dello spazio, ma la conoscenza della sua produzione.

(dal risvolto di copertina di: Henri Lefebvre: Il diritto alla città 2. Spazio e politica, ombre corte.)

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La città tentacolare dove si alternano controllo e resistenza
- di Benedetto Vecchi -

Henri Lefebvre è stato un filosofo anomalo nel panorama francese degli anni Sessanta e Settanta. Polemico con Louis Althusser, insensibile all’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, curioso ma diffidente verso il percorso di Michel Foucault, diffidente verso Nicos Poulantzasis e Charles Bettelheim ha seguito un percorso di ricerca segnato da tappe anticipatrici di quanto sostenuto e affermato dai movimenti sociali a lui successivi.
È stato così, ad esempio, per la Critica della vita quotidiana, dove quest’ultima è stata letta da Lefebvre come lo spazio sia della resistenza che della manipolazione da parte del potere costituito. Come si mangia, si abita, si ama, si studia, si crescono i figli sono attività che hanno a fare sia con il consolidamento dei rapporti sociali di produzione, attraverso l’azione dello Stato, che, all’opposto, con la critica dell’economia politica del quotidiano. Sono argomenti fin troppo seri per essere lasciati ai sociologi o ai guardiani dell’anima.
Sull'opera di Henri Lefebvre è però ben presto calato il silenzio. Solo recentemente, e dall’altra parte dell’Oceano, c’è stata una rinnovata attenzione alle sue tesi, grazie alla ricezione che ne ha fatto David Harvey quando ha indicato nel «diritto alla città» del filosofo francese non solo una parola d’ordine politica, ma un passepartout per cogliere le trasformazioni del capitalismo nella seconda parte del Novecento e dell’intero «ciclo neoliberista» giunto, secondo Harvey, alla fase discendente della sua secolare parabola. Ha fatto bene dunque la casa editrice ombre corte a pubblicare il libro di Lefebvre sul Diritto alla città e questo sullo Spazio e politica (pp. 141, euro 14), presentato come seconda parte e naturale evoluzione del primo. Per il filosofo francese, la città è interpretata non solo come il luogo dove la produzione e il consumo delle merci sono organizzati e gestiti. Il «pluralismo» degli stili di vita è – qui la continuità con l’elaborazione di Georg Simmel e Walter Benjamin è evidente – immanente allo sviluppo dello spazio urbano.
Fin qui nulla di inedito, specialmente quando viene evocato il fatto che spesso i luoghi della produzione delle merci vengono scelti indipendentemente dalla vicinanza di una città. Città e produzione, infatti, non sempre coincidono e talvolta sono in tensione conflittuale tra loro, anche se i siti produttivi hanno bisogno di una città vicina o ne favoriscono la sviluppo, come attesta la storia urbana di gran parte del Novecento mondiale o, recentemente, la crescita di città quasi dal nulla nella Cina «fabbrica del mondo».
L’innovazione introdotta da Lefebvre alla fine degli anni Sessanta riguarda infatti la produzione dello spazio, una attività «produttiva» inedita rispetto al passato. Lo spazio urbano viene plasmato in base a una logica interna alla espansione capitalistica. In una scansione da forte sapore evoluzionista delle fasi dello sviluppo capitalistico, quella che inizia nella seconda parte del Novecento è per Lefebvre è una società urbana che si differenza dall’industrialismo.
In altri termini, la produzione dello spazio implica necessariamente la codifica urbanistica sia delle divisioni in classe delle società, tracciando linee di confine tra le classi – in Francia le banlieue sono i luoghi proletari per eccellenza, stabilendo gerarchie e enclave abitative secondo le linee della razza e del reddito percepito – che si rispecchiano nelle rappresentazioni iconografiche consentite dal design urbano e dalle opere di abbellimento delle città, del potere vigente.
È in questa produzione dello spazio urbano che vengono modellati i rapporti tra produzione, consumo, rendita e finanza, legittimando un vero e proprio uso capitalistico del territorio, che interviene nei periodi di crisi, di sovrapproduzione e contrazione dei profitti.
In una frase dalle molteplici implicazioni, Lefebvre scrive che «il capitalismo si è conservato estendendosi allo spazio intero»: con questo indicando che la produzione dello spazio è fondamentale non solo per i rapporti di potere politici, ma per quelli sociali e di produzione en generale. Inoltre, modifica la composizione della classe operaia, rendendo produttivi lavori da sempre ritenuti improduttivi, come quelli dei servizi, di assistenza alla persona, dei trasporti. Ed è per questo che Lefebvre preferisce parlare di proletariato e non di classe operaia, evidenziando la eterogeneità delle figure lavorative nella società urbana.
Gran parte della riflessione contenuta in Spazio e politica è stata condivisa da molti economisti, sociologi, urbanisti e filosofi successivi a Lefebvre, anche se con accenti e diversità evidenti. Mike Davis, Saskia Sassen, Neil Brenner, Manuel Castells, lo stesso David Harvey possono mettere l’accento su un aspetto piuttosto che un altro, privilegiare una dimensione della società urbana invece che un’altra, ma in qualche misura sono debitori nei confronti di Lefebvre.
La società urbana ha dunque la città come perno, collante, perché è in quello spazio che possono essere gestiti i flussi di capitale, merci, uomini e donne. E se nella fase industriale, produzione, consumo e distribuzione erano momenti distinti, nella società urbana sono strettamente connessi l’uno con l’altro in una frenetica e continua ridefinizione delle nuove geografie sociali del lavoro vivo.
Con lungimiranza, Lefebvre scrive di giacimenti della forza-lavoro che sono prodotti per rendere funzionale l’uso capitalistico del territorio, fattore indispensabile per garantire stabilità alla società urbana.
Al di là di una visione naturalistica del lavoro presente in questo saggio, l’analisi di Lefebvre è importante perché indica nella produzione dello spazio sia un fattore economico che politico. E se per il primo aspetto occorre ripensare la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, tra produzione, consumo e finanza, per la dimensione politica occorre constatare che l’eterogeneità degli stili di vita non solo è tollerata ma incentivato da parte delle istituzioni della governance metropolitana.
Il filosofo tedesco Siegfried Kracauer, scrivendo delle metropoli, indicava nell’erranza del tempo libero il momento di sottrazione al controllo del proletariato, esemplificato dalle segretarie che vagavano nella città per vedere le vetrine per poi concludere il pomeriggio di libertà in qualche sala cinematografica sognando una vita senza le stigmate del lavoro salariato.
Più realisticamente, questa alternanza tra controllo e resistenza è il nodo che i guardiani dell’anima non riescono a recidere. Perché il diritto alla città è momento di resistenza. E di costruzione di una società certo urbana, ma progettata per essere spazio di libertà.

- Benedetto Vecchi - Pubblicato sul Manifesto del 13.3.2018 -

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Prove tecniche per una feroce dilapidazione della vita sociale 
- di Mario Pezzella -

In questo libro (così si legge nella bella introduzione di Francesco Biagi), Lefebvre descrive lo spazio come prodotto sociale. Non si producono «cose nello spazio» ma lo spazio stesso, entro cui esse prendono forma. Il capitalismo ha colonizzato lo spazio esistente, in funzione della produzione e della fantasmagoria delle merci. Anche il tempo viene misurato in valore, secondo la velocità con cui le distanze sono percorse: «Il capitalismo si è conservato estendendosi allo spazio intero».
Lo spazio costruito dal capitale tende a cancellare la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, uniformati in un unico tempo di produzione. Non si tratta più solo di riprodurre i mezzi, ma anche i rapporti di produzione: «Essa si realizza nella quotidianità, nel tempo libero e nella cultura… attraverso l’intero spazio». Il capitale nella sua fase attuale è – secondo Lefebvre – congiunto-disgiunto.
Da un lato, disgiunzione e disarticolazione di tutti i centri: quelli urbani, ma anche quelli produttivi (fabbriche, laboratori, etc.). Le città di dilapidano in una urbanizzazione estensiva e nella ruralizzazione delle periferie. A questa disgiunzione, fa però da contrappeso una congiunzione coercitiva all’insegna del consumo. Gli elementi della vita sociale vengono disgiunti; e riunificati astrattamente come valori di scambio. È questa «l’unità del potere nella frammentazione».
La produzione capitalistica dello spazio dissolve la città antica, con la sua idea di centro e la lenta accumulazione di esperienza che ne faceva un’opera. La città è ora divenuta un prodotto. L’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde in più centri commerciali: ogni centro «…si distrugge per saturazione; si distrugge perché rinvia a un’altra centralità; si distrugge in quanto provoca l’azione di coloro che esclude ed espelle verso la periferia».
Al contempo, le antiche città sono sopraffatte dall’estetismo monumentale di uno spazio visuale-fallico: una «dittatura dell’occhio», che celebra la propria potenza in torri, grattacieli, verticalità di ogni tipo, che non rinviano ad alcuna trascendenza. L’altezza dei grattacieli in cui si configura e si raccoglie il potere dello Stato e della finanza esalta gli «sguardi sovrani della presenza statuale. Controllo. Dominio astratto sulla natura che implica e cela il dominio concreto sugli uomini riuniti in società».
La produzione capitalistica dello spazio produce nuova scarsità. Mentre beni che erano rari vengono messi a disposizione del consumo, la penuria riguarda ora forme elementari della vita, come l’acqua, l’aria, la terra, che divengono commerciabili, hanno un prezzo ed «entrano così nel circuito degli scambi». Lefebvre distingue tra l’epoca urbana in cui siamo entrati e quella industriale. In quest’ultima il tempo-spazio era omogeneo e continuo; noi invece viviamo in spazi-tempi differenziali che «si sovrappongono e si intrecciano, dalle reti stradali ai canali d’informazione, dal mercato dei prodotti allo scambio di simboli».
Le forze produttive perdono la stabilità di luogo e divengono sempre più flussi, energie, informazioni, in continua metamorfosi nello spazio e nel tempo. La creazione di questi differenziali, benché attualmente dominati dal capitale, contiene un possibile utopico. Lo spazio omogeneo visuale-fallico con il suo funzionalismo impietrito, la sua verticalità impositiva, è dominato da una pulsione distruttiva; un nuovo inizio può scaturire dalla liberazione dei flussi, della loro molteplicità: «Lo spazio visuale-fallico decreta la morte del corpo dopo quella dell’uomo, della storia, di Dio». L’affermazione di spazi-tempi differenziali richiede però la loro inclusione in una unità sociale non economica, che concepisca i siti come luoghi di incontro e riconoscimento di differenze (umane, culturali, estetiche).
Il dominio del mercato determina l’articolazione dello spazio a livello mondiale. Le diverse aree del mondo vengono sezionate e utilizzate secondo il margine di profitto economico che in esse si può ricavare e i modi più o meno primitivi o evoluti dell’estrazione di plusvalore. Lo spazio dominato dal capitale è comunque segnato da contraddizioni: l’automazione – che oggi rende il lavoro precario – potrebbe consentire l’utopia concreta della sua scomparsa o della sua trasformazione in gioco, secondo l’anticipazione immaginaria di Fourier: «Ciò che compare all’orizzonte è il non lavoro». L’organizzazione dello spazio articola gerarchie di potere, diviene strumentale, come già nella Parigi di Haussmann: ma può essere ritorta contro se stessa. La Comune di Parigi fu, tra l’altro, un tentativo di riappropriarsi dello spazio, che Haussmann aveva sottratto ai ceti popolari: «Tentarono di riprenderne possesso, in una atmosfera di festa (guerriera, ma radiosa)».

- Mario Pezzella - Pubblicato sul Manifesto del 13.3.2018 -

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