lunedì 12 novembre 2018

Niente lacrime per la nazione!

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La Fine dell'Economia Nazionale
- Robert Kurz -

Frammento tratto da "Schwarzbuch Kapitalismus" [Il Libro Nero del Capitalismo] del 1999 -

Il fatto che il capitalismo speculativo di simulazione, già dalla fine del XX secolo si trovasse in un rapido processo di decomposizione e dissoluzione categoriale, era chiaro sotto molti aspetti. Non solo si dissolve il contesto sociale, in un'atomizzazione mai vista prima, e non solo ci sono parti intere del mondo che, nei grandi collassi economici, sperimentano una caduta di civiltà; ma anche la nazione borghese - una categoria essenziale della socializzazione capitalistica - vacilla. Se la nazione è stata inventata solo nel corso della storia della modernizzazione capitalista, allora, ora che ci troviamo alla fine di tale storia, essa è esplosa dal suo interno: l'economia fuori controllo del capitalismo di crisi che fa esplodere la «bella macchina», distrugge il suo stesso sistema di riferimento anche sotto quest'aspetto.
È ovvio che non ci sia da versare nemmeno una lacrima per la nazione. Fin dall'inizio, è stata una costruzione macchiata del sangue della concorrenza capitalista, della repressione sociale e dell'esclusione vista in ogni senso. Questa forma distorta di quello che è un falso «Noi», è sempre servita per disorientare e per addomesticare i movimenti sociali, al fine di legare le vittime della «bella macchina» attraverso una lealtà irrazionale. Tuttavia, il dissolversi dello Stato, vale a dire, il decomporsi della nazione in un cieco «processo naturale» di capitalismo di crisi, non porta alla libertà sociale, bensì conduce verso gli orrori della de-socializzazione. Al posto del distruttivo «Noi» nazionale, non emerge nessuna forma sociale nuova, me si vede solo il regime del terrore economico dell'economia imprenditoriale e le sue conseguenze. Nonostante il fatto che nessuna struttura più sviluppata occupi il suo posto, la nazione non scompare semplicemente; in assenza di struttura, la società si inselvaggisce.
La nazione non viene superata in maniera positiva per mezzo di una coscienza sociale di quella che è la società globale, la quale in larga misura si trova ad esplodere di fronte agli enormi shock in atto a tutti i livelli sociali, come se si infrangesse una diga, come se avvenisse un'enorme frana, o un terremoto. Pertanto, a livello di manifestazione, la cosiddetta «globalizzazione» - una parola chiave degli anni '90 - descrive di fatto un processo reale; e tuttavia si tratta di un falso concetto, dal momento che vuole designare un mera mutazione strutturale che avviene nel capitalismo «eterno», quando, nella realtà, la crisi categoriale della nazione distrugge la struttura della modernizzazione. Poiché il capitalismo non può vivere senza la coerenza nazionale, che ora viene dissolta dalla «mano invisibile»; le varie spiegazioni ingenue che vengono date dai [suoi] sostenitori, riescono a riconoscere solamente un nuovo processo borghese ed un modo che viene supposto come «senza limiti»: «Si studiava un'altra volta l'economia nazionale. L'oggetto di un tale studio era ancora una volta un sistema economico isolato per mezzo delle monete, delle tasse e per mezzo di politiche nazionali isolate, le cui reazioni alle trasformazioni che avvenivano nel mondo esterno venivano indagate e comprese. L'epoca della "economia nazionale" è arrivata alla fine. Gli economisti nazionali si sono convertiti in economisti-globali. [...] Il globalismo è il risultato necessario di un'economia di mercato o di un'economia capitalista. L'economia di mercato non si lascia rinchiudere nelle frontiere nazionali, espandendosi come se fosse una macchia d'acqua. Attrae le industrie e le monete nazionali e poi le respinge per mezzo delle nuove forme attraverso cui si manifesta l'economia. Pertanto, è inevitabile che le imprese tedesche e le loro concorrenti in altri paesi diventino attori globali, che si fondono fra di loro ed assumono una nuova identità sovranazionale. [...] Perciò, se a Daimler, la BMW, o la Deutsche Bank e quasi tutte le grandi imprese tedesche cercano localizzazioni che si trovino al di fuori delle frontiere tedesche, se, al contrario, le corporazioni straniere rafforzano le loro basi in Germania, e se le monete nazionali vengono sostituite da un sistema monetario che si posiziona ad un livello più alto, allora questo cosmopolitismo dell'economia è il risultato prevedibile ed auspicabile di un paradigma produttivo più elevato della politica economica, il quale, di per sé, garantisce il progresso dell'umanità» (Mundorf, 1999).
Quest'argomentazione fenomenologicamente limitata, che viene qui presentata con intento apologetico, la si ritrova anche, a sua volta, negli "allarmisti" superficiali e nei critici della globalizzazione, che non vogliono riconoscere allo stesso tempo alcuna crisi categoriale, ma intendono solo leggere i fondi di caffè dei "mercati" per scoprire quali sono i nuovi arrivati e quali sono i perdenti del «futuro del capitalismo» (Thurow, 1966 b). In entrambi i casi, l'essenza della globalizzazione viene del tutto mancata, a causa della mancanza di conoscenza teorica sulla crisi.
Il «paradigma altamente produttivo» della Terza Rivoluzione industriale porta di fatto al «cosmopolitismo dell'economia» - ma solamente per l'economia o, per dirlo in maniera più precisa: di una certa parte dell'economia, cosa che rappresenta una certa forma di decadimento del tutto. La trasformazione che sta avvenendo non è il prolungamento di una tendenza secolare, ma è una rottura strutturale. Non si tratta in nessun modo di una semplice espansione del commercio internazionale sul mercato mondiale, né di un mero aumento quantitativo dell'esportazione di capitale fra le economie nazionali, ma piuttosto del fatto del dissolversi di queste economie nazionali stesse. Detto in altre parole: il centro economico di questa costruzione moderna, la «nazione», viene spazzata via dalla crisi del capitalismo. Con la recessione degli Stati o con la virtualizzazione dell'economia capitalista finanziaria dell'economia (ed in parallelo), la globalizzazione è, da un lato, un prodotto immediato della Terza Rivoluzione Industriale e la sua «razionalizzazione delle persone»; dall'altra parte, però, i tre successivi processi di recessione dello Stato, di virtualizzazione e di globalizzazione si ripercuotono e si scontrano fra di loro, anche se, sotto quest'aspetto, l'economia reale costituisce solamente un'appendice della dinamica speculativa globalizzata.
Cos'è che ha reso il precedente spazio di riferimento dell'economia nazionale diverso rispetto al mercato mondiale? Fondamentalmente, la forma di economia nazionale consisteva in un sistema di filtri, in una certa misura, come se fosse una sorta di «strato di ozono» politico-economico, il quale proteggeva doppiamente, sia dentro che fuori, ogni spazio nazionale: dentro, filtrava nei confronti della «radiazione pesante» della concorrenza economica imprenditoriale interna, ad un livello che la rendesse compatibile col sistema; fuori, dalla «radiazione pesante» di un mercato mondiale essenzialmente non regolamentato e non regolabile. Tali filtri sono stati, ovviamente, in primo luogo, i sistemi nazionali tributari, giuridici e sociali, la moneta nazionale e molti altri meccanismi di regolazione, i quali, come gli aggregati infrastrutturali, venivano tutti garantiti dallo Stato nazionale. La globalizzazione non è altro che una conseguenza logica del processo di disoccupazione in massa strutturale, e della deregolamentazione statale innescata dalla Terza Rivoluzione Industriale.
Quello di cui stiamo parlando qui, è un vero e proprio processo di escalation. Razionalizzazione ed automazione portano ad una nuova qualità di quella che è la disoccupazione strutturale di massa e, di conseguenza, ad una riduzione del potere di acquisto, insieme ad una riduzione delle entrate statali. Lo Stato reagisce a tutto questo con delle restrizioni sociali, che a loro volta riducono ulteriormente e ancora di più il potere di acquisto. Le aziende, da parte loro, reagiscono a questo prosciugamento del mercato interno con una «fuga in avanti» verso il mercato globale. Ed una volta che tutti fanno la stessa cosa, si verifica, naturalmente, una reciproca concorrenza di annichilimento, che si accompagna ad una concentrazione globale del capitale. Lo Stato reagisce, a sua volta, con una sorta di panico da deregolamentazione, al fine di poter mantenere il capitale nella sua «localizzazione» domestica, cosa che, al contrario, porta le corporazioni a mettere uno Stato contro l'altro e a perseguire una strategia globale di diversificazione nella corsa alla riduzione dei costi. Questa «decomposizione» degli elementi dell'economia imprenditoriale al di fuori del limiti nazionali e continentali viene, allo stesso tempo, resa possibile, spinta e guidata tecnologicamente dalla medesima rivoluzione microelettronica, la quale, a sua volta, automatizza il processo di produzione e «razionalizza» la forza lavoro umana. Già alla fine degli anni '80, l'ex capo della Wolkswagen, Carl H. Hahn, ha sottolineato un simile sviluppo: «Per i sotto-processi di produzione, si rendono possibili localizzazioni differenti. Pertanto, una serie di vantaggi per dei paesi specifici - come, ad esempio, bassi salari, sindacati che cooperano, una minor densità di regolamentazione o un'esenzione dalle tasse - può venire combinata con dei vantaggi per delle specifiche aziende. Nel corso del processo tecnico, i processi di produzione della maggioranza delle merci si sono sempre più frammentati, cosa che ha reso possibile una più ampia internalizzazione della produzione. Ciò è stati facilitato dal fatto che le moderne tecniche di comunicazione hanno sostanzialmente abbassato il costo del flusso di informazioni all'interno delle imprese trans-nazionali. La produzione estera delle grandi imprese industriali del mondo dovrebbe rappresentare un terzo di tutto il commercio mondiale» (Hahn, 1989).
Secondo le informazioni della "Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo", otto anni dopo, nel 1987, i due terzi del commercio mondiale consistevano in transazioni di questo tipo. L'impresa stessa può suddividere le proprie attività a livello globale: la sede centrale po' essere a Francoforte, gli uffici finanziari si possono trovare a Londra, la contabilità operativa può essere realizzata da un team a basso costo di trattamento dati elettronici che si trova in India, i prodotti preliminari posso essere realizzati da «dipendenti a contratto temporaneo» a basso costo in Ungheria, le ricerche (grazie alle basse tasse) vengono svolte negli Stati Uniti, mentre gli utili vengono contabilizzati in «paradisi fiscali», come l'Irlanda, ecc. Tutte queste possono essere in parte sotto-società di proprietà di una corporazione, ed essere in parte fornitori indipendenti di "servizi" corrispondenti nell'ambito del cosiddetto outsourcing. Prima dell'era della tecnologia della microelettronica, un simile sfruttamento delle differenze di costi su scala mondiale, che viene mantenuto in uno stato «Liquido» permanente, sarebbe stato impossibile. Ciò mostra che una grande e crescente parte del mercato mondiale, in realtà non è più uno scambio fra economie nazionali coerenti, ma fa parte di una divisione delle funzioni interne delle corporazioni che agiscono su un piano immediatamente globale. Queste imprese, o meglio questi agglomerati di imprese non agiscono più «internazionalmente» e non sono più neanche strutturate «multi-nazionalmente», ma appartengono ad una dimensione «trans-nazionale» che finora si trovava incorporata nello spazio normativo dell'economia nazionale, spezza tutto questo e agisce immediatamente sul terreno del mercato globale libero da ogni regolamentazione, appena oltre l'economia nazionale (trans-nazionale).
Questo processo è solo la conseguenza della radicalizzazione microeconomica: semplicemente, il punto di vista macroeconomico non viene liquidato all'interno del campo dell'economia nazionale, ma è invece il campo stesso a venire liquidato. Mentre la distruzione dei meccanismi di filtraggio dell'economia nazionale fa crescere ancora di più la disoccupazione di massa, e innesca l'estinzione di massa delle aziende, i colossi transnazionali di uniscono per la battaglia in un mercato mondiale senza filtri, dove la razionalizzazione imprenditoriale, ormai diventata sfrenata, spiana la strada. L'economia imprenditoriale viene «degradata»; è lo stesso spazio economico che ora si trova fuori, o «oltre» la civiltà borghese e le sue istituzioni, da cui la vita comincia a sfuggire. Ed è proprio questa la nuova qualità della globalizzazione, relativa agli sviluppi precedenti del mercato globale, che, a partire dal XIX secolo, hanno sempre avuto come presupposto lo spazio coerente dell'economia nazionale.
A questo livello di globalizzazione dell'attività industriale, si trova un secondo livello di globalizzazione delle finanze capitaliste, che si trova ad essere realmente al comando. Perciò, la virtualizzazione dell'accumulazione del capitale, che avviene a causa della mancanza di sostanza lavoro addizionale, ha invertito completamente su scala mondiale quella che è la relazione esistente fra il flusso delle merci ed il flusso finanziario: il movimento della finanza globale non è più espressione dei rispettivi flussi di merci e servizi, ma, al contrario, sono proprio i flussi di merci reali (e, pertanto, della riproduzione materiale dell'umanità) che ora consistono in un'espressione - e perfino in un sottoprodotto - di un'autonomizzata «accumulazione fantasma» di capitale monetario speculativo. Qui, il fine in sé capitalista acquista la sua forma più pura, ma anche una forma di irrealtà che sembra dominare la vita reale, nel momento in cui nei centri occidentali il crollo non è ancora avvenuto.
L'accumulazione fantasma simulata dalla speculazione del capitale, non solo regola il flusso di merci secondo quelle che sono le sue necessità fantasmatiche; essa è, anche logicamente, il centro della globalizzazione, in quanto può essere - allo stesso modo in cui lo è la produzione reale delle merci - immediatamente globale. Mentre, di fatto, le merci e le strutture produttive continuano ad essere cose tangibili del mondo macro - e perciò non possono realmente essere «senza luogo», ma devono continuare ad esistere in dei luoghi, o muoversi attraverso dei luoghi -, i flussi finanziari del denaro elettronico sono come le particelle subatomiche della fisica, i cui luoghi non possono essere determinabili con precisione. Con l'aiuto della tecnologia della comunicazione, una massa di denaro, tanto mostruosa quanto irreale, si muove in «tempo reale» ed alla velocità della luce, sfruttando, 24 ore su 24, i micro-vantaggi che hanno luogo lungo tutta la durata del giorno della finanza. Non si può più parlare di «investimenti» nel solito senso. È proprio qui che si vede l'impotente dipendenza dell'economia reale a fronte dei «complessi finanziari-industriali» transnazionali, le cui attività industriali transnazionali si sono formate a sua immagine.
Appare chiaro che le vecchie istituzioni economiche nazionali e, soprattutto, gli Stati nazionali non stanno semplicemente scomparendo dalla scena. Ma si sono indeboliti, allo stesso modo in cui è avvenuto per i sindacati o per le associazioni di imprenditori. Perciò, il «denaro», l'unità monetaria di ciascuna economia nazionale, nella maggior parte degli Stati del mondo, o è scomparsa del tutto o è affondata in un insignificante «denaro dei poveri», in una sub-moneta decaduta, mentre la sua connessione reale all'economia globale, laddove ancora esiste, avviene ormai da molto tempo attraverso una moneta straniera che ha elementi di funzione monetaria globale (dollaro, marco, yen, ecc.). Perfino l'esperimento kamikaze politico monetario dell'Euro - dove una moneta transnazionale artificiale viene collocata al di sopra di un intero spazio economico e nazionale del tutto eterogeneo, con differenti modelli di produttività, di sistemi legali, ecc. - non viene considerato come un fenomeno di dissoluzione dell'economia nazionale, Queste politiche monetarie di «fuga in avanti» - fatte nell'interesse degli attori globali europei, che risparmiano sui costi di transazione, nella loro strategia di flessibilità globale, attraverso l'abolizione di diversi spazi monetari all'interno dell'Unione Europea - avvengono al costo di quello che rimane delle economie «sub-globali», con le loro strutture regionali e con le loro relazioni lavorative. Non solo la politica monetaria, ma anche tutti gli altri differenti aspetti della politica, la quale, per definizione, è limitata al quadro statale-nazionale, non può reagire altro che in forma debole e ristretto che invariabilmente si limita al modo grossolano della microeconomia transnazionale. «I manager mostrano sempre più disprezzo verso i loro governi eletti. Si sta diffondendo un nuovo atteggiamento. Gli auto-proclamati "attori globali" del mercato mondiale guardano dall'alto in basso quelli che sono i capi di governo nazionali sempre più indifesi ed impotenti. La globalizzazione dell'economia rende le grandi imprese indipendenti dal mercato interno e dai governi locali. I manager vedono la politica sempre più come se fosse un'impresa di servizi [...]. In quanto "padroni di casa", gli Stati nazionali devono attrarre a sé il capitale mobile, secondo quello che dice l'Istituto Kiel per l'economia mondiale. Per gli imprenditori, scrive la professoressa di Harvard, Rosabeth Moss Kanter, il mondo è solo "un unico grande centro commerciale". I rappresentanti di tutti i partiti sono irritati. Perfino il primo ministro bavarese, Edmind Stroiber, ha criticato severamente e apertamente la duplice morale dei manager, i quali "vogliono giocare a golf in Germania ed investire all'estero". Alcuni manager esibiscono apertamente la loro nuova consapevolezza del potere. Ad esempio, gli specialisti in investimenti del Bundestag si sono mostrati sorpresi nei confronti di un gioviale capo della Daimler-Benz,  Jürgen Schrempp, nel corso di un loro visita avvenuta alla fine di aprile. A cena, si vantava del fatto che al volgere del secolo la sua impresa non avrebbe pagato un solo centesimo di imposte sul reddito: "da noi non avrete più niente". Imbarazzati, i deputati continuavano a fissare i piatti [...]. Persino quando gli imprenditori invitano i ministri, questo non garantisce affatto che verranno trattati bene. Ingenuamente, la ministra dell'ambiente, Angela Merkel, ha partecipato ad una tavola rotonda dell'associazione di grossisti e commercianti stranieri - e si è ritrovata in un tribunale. Anziché di clausole ecologiche relative al mercato mondiale, il capo dell'associazione, Michael Fuchs, discuteva con la ministra del problema della localizzazione. La ministra avrebbe dovuto togliersi il trucco del suo "protezionismo in abiti verdi", ed anche il piano per il trattamento dei rifiuti doveva essere trascurato. "Non eravamo mai stati maltrattati in questo modo dall'economia", si era lamentato un assessore. "Non si umiliano gli invitati". C'è bisogno di tempo per abituarsi allo stile volgare» (Der Spiegel 26, 1996).

Si riconosce ancora un certo disagio in questo schizzo degli anni '90, e anche una certa qual sorta di «indignazione democratica» relativamente all'autonomia del capitale transnazionale. Tutta questa commozione è tanto inutile quanto inappropriata, dal momento che la democrazia non è altro che un evento il quale, in linea di principio, danza secondo la musica del «quarto potere» economico, così come, nella forma soggetto, il cittadino è stato intrinsecamente creato in quanto soggetto economico capitalistico e come schiavo del sistema del mercato del lavoro. L'economia imprenditoriale transnazionale del capitalismo di crisi rende chiari a tutti questi fatti, e restringe ancora più drasticamente i processi elettorali democratici, rendendoli quasi privi di senso. Le «dispute politiche» diventavano, quindi, deplorevolmente squallide e noiose, dal momento che la politica - anticipando la sua obbedienza ad un'economia nazionale che «mendicava» nei confronti dell'economia imprenditoriale transnazionale - non era più in grado di formulare una qualsiasi alternativa, perfino in quella che era stata precedentemente la forma impostale dal sistema.
Così come era già avvenuto per la cosiddetta politica estera, anche la politica non aveva più grande rilevanza, e le tensioni sociali, per mezzo del circo mediatico, erano passate ai mercati finanziari ed ai loro attori. Ogni tentativo di trasformare la funzione e la sfera della politica in qualcosa che potesse andare al di là della struttura degli Stati nazione - e concepire così le rispettive istanze globali come un contrappeso all'economia imprenditoriale transnazionale - era fallito miseramente. Il ruolo dell'ONU, che non rappresentava più la somma di tutti gli Stati nazione del mondo, era diventato minore, e non maggiore. Negli ultimi anni, non c'era stato niente di più ridicolo della retorica di una critica sociale disarmata, da parte dell'intellighenzia della sinistra-verde del '68, a proposito di una cosiddetta «politica interna globale» o per una «democratizzazione» delle istituzioni economiche internazionali, come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Dopo che il governo «rosso-verde» ebbe assunto il progetto, in maniera assai poco chiara, di una «riforma ecologico-sociale della società industriale» - che andava dall'energia atomica alla gestione dei rifiuti, passando per i requisiti legali della protezione ambientale - si dissolse, non dopo una legislatura, o nel giro di pochi mesi, ma addirittura in poche settimane. Sotto l'imposizione dell'economia imprenditoriale transnazionale, in un paio di mesi, si accelerò l'autodistruttiva gara della concorrenza statale e regionale delle «localizzazioni» e di ogni genere di dumping sociale, tributario ed ecologico.
Una «politica interna globale» presuppone sempre, in tutti i domini, uno «Stato mondiale»; e questa è solo una cattiva utopia, in quanto gli Stati, nella loro stessa essenza, così come le imprese capitaliste, possono esistere solo al plurale. Uno «Stato senza frontiere» sarebbe una contraddizione in termini, così come lo sarebbe una «economia imprenditoriale socialmente generale». Tuttavia, degli accordi bilaterali e multilaterali fra istanze concorrenti non possono mai produrre, però, un traguardo comune obbligatorio per tutti, una meta-istanza socialmente generale (ora: socialmente mondiale). Con la Terza Rivoluzione Industriale, la macroeconomia e la microeconomia diventano incompatibili e collassano, allo stesso modo in cui (per conseguenza logica) si comportano l'economia imprenditoriale e la politica. La politica, che deve rappresentare il tutto, e deve confrontarsi con la sfera dell'economia imprenditoriale transnazionale, è degenerata diventando un soggetto particolare della concorrenza; l'economia imprenditoriale, che rappresenta gli interessi imprenditoriali particolari, ora agisce ad un livello più elevato, agisce in quanto «interesse generale» (in termini capitalistici, e non in considerazione dell'interesse economico-nazionale dello Stato nazionale), Quest'inversione paradossale dimostra chiaramente che non si tratta di una nuova struttura con una sua capacità di riproduzione, ma di una rottura della polarità strutturale esistente fra mercato e Stato, fra economia e politica, fra microeconomia e macroeconomia, fra individuo e società, ecc., che rende possibile il capitalismo nel suo insieme.
Il soggetto borghese, in sé stesso schizofrenico, che è costituito, in linea di principio, nella forma contraddittoria del «borghese» e del «cittadino», non può più, in fin dei conti, integrare quella che è la sua contraddittoria identità del dottor Jekyll e di Mr. Hyde in una «persona totale» ragionevolmente realizzabile. L'individuo totalmente astratto è «socialmente incapace», ed il «borghese» transnazionale non viene più mediato dal «cittadino» statale-nazionale. La «scissione della personalità» della ratio capitalista manifesta quella che è una nuova qualità, che non può più trovare alcuna via d'uscita nelle forme capitalistiche.
Il soggetto dell'economia imprenditoriale transnazionale, sempre più dissociato dalla sua cittadinanza, non rappresenta più alcun «progresso» capitalista. Quest'ultima forma della «modernizzazione» è, simultaneamente, auto-dissoluzione ed autodistruzione della modernità, così come è, sotto molti aspetti, disumanizzazione, che sta regredendo oltre le società arcaiche, e, pertanto , al di sotto di quelli che sono i suoi standard di civiltà. Per questo, la globalizzazione non può essere rivendicata ed appropriata da parte di una critica sociale anticapitalista che rivendichi anche una qualche «eredità del progresso»; essa è la negazione di questo vecchio marxismo, il quale assume, in termini generali, il costrutto filosofico borghese dell'Illuminismo. Nella globalizzazione, il capitalismo non ascende ad alcun nuovo stadio di sviluppo, ma conduce una vita che apparentemente va al di là della sua stessa vita; molto simile al «Waldemar» della storia di Edgar Allan Poe, che come moribondo venne ipnotizzato, e che rimase in quello stato, per molto tempo, al confine fra la vita e la morte, finché, risvegliato dalla sua ipnosi, si disintegrò all'istante come una massa di carne putrefatta. Coloro che svolgono il ruolo di attori dell'economia imprenditoriale transnazionale, non sono «cosmopoliti» allegri e gioviali, ma sono fantasmi di uno sradicamento sociale irreale, che corrisponde allo sradicamento del capitale monetario elettronicamente simulato. «I membri di questa nuova classe di giocatori globali, di cui, fra l'altro, fanno parte anche accademici jet-set ed un certo gruppo di atleti d'élite, specialisti mediatici e artisti dell'intrattenimento, i quali si concentrano principalmente in quelli che Marc Auge chiama i non-luoghi del sistema di comunicazione globale: aeroporti, catene alberghiere, aree VIP, supermercati duty-free e treni ad alta velocità. L'etnologo parla delle sale di transito, dove costoro, familiarizzano ormai da tempo con le macchine automatiche e con le carte di credito, seguendo i gesti del traffico silenzioso. Così come un luogo è caratterizzato dall'identità, relazione e storia, uno spazio che si trova ovunque ed in alcun luogo si caratterizza per il fatto di non essere né relazionale né storico, e in quanto tale viene definito come un non-luogo. Strutturalmente, un World-Traveller-Suit, così come un minibar, la Pay-Tv ed i Manager-Magazin illustrati, non differiscono da un campo di rifugiati, secondo quelli che sono gli standard stabiliti dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. In entrambi i casi, si tratta di un domicilio provvisorio, che ci fa sentire soli, ma uguali agli altri. Solo che uno è soltanto lussuoso mentre l'altro, è abominevole» (Bude, 1955).
In un tale contesto non si può parlare di «cultura mondiale»; dal momento che la cultura, perfino la cultura di massa capitalistica, proprio per il suo essere intesa come compenetrazione reciproca, come amalgama creativo e come creazione di nuove forme di espressione, rimane sempre legata alla localizzazione, alla relazione e alla storicità.
E neppure lo spazio sociale disaccoppiato dell'economia imprenditoriale globalizzata è limitato. Gli spazi di transito, senza-luogo, dell'economia imprenditoriale transnazionale - che si trovano in un rigido isolamento rispetto al mondo realmente sociale, culturale, e perfino geografico - sono attraversati, come avviene nei loro paesaggi, da autostrade, cavi di fibra ottica, gasdotti, o dai binari dei treni ad alta velocità. Così come i vagabondi della miseria vengono rigorosamente rinchiusi in campi di accoglienza, di deportazione o di rifugiati, allo stesso modo i vagabondi del lusso dell'economia imprenditoriale globalizzata vivono in luoghi altrettanto delimitati ed in sale ermeticamente chiuse. Ma è proprio lì, dove si incontrano le barriere che separano i non-luoghi dalla moribonda coerenza del mondo della riproduzione economico-nazionale che si dissolve, i non-luoghi delle regioni del collasso orrendamente de-civilizzate, e i non-luoghi dell'economia imprenditoriale globalizzata, è lì che si trova un nuovo tipo di demarcazione che oggi è assai più decisiva di quanto lo fossero prima tutte le frontiere precedenti.
Ad esempio, nel suo "Manifesto Futuro", l'esegeta dello Zeitgest, Matthias Horx, che pretende segnalare l'«uscita dalla cultura della lamentela» chiarisce qual è il significato dell'«apertura cosmopolita»: «Qual è il quadro di riferimento del nostro concetto di uguaglianza? Il nostro confortevole benessere nazionale? Oppure, un pianeta in cui esiste un denso flusso di merci, di idee e di traffico, dove c'è la miseria (!), ma dove c'è anche la vitalità (!), la creatività e la volontà di salire in alto? Ad un certo punto si deve scegliere. Tra un modello di uguaglianza, che, nella migliore delle ipotesi, equivale ad un "auto-provincializzazione" [...] ed un modello aperto, più contraddittorio, ma anche più "onesto", però su scala planetaria [...] Chi accetta la globalità, deve riconoscere che questa aumenta la disuguaglianza nella società. Se lasciamo che nel paese ci siano i poveri, essi possono anche diventare criminali ed esecrabili (!) Oppure dobbiamo superarli [...] La nostra cultura e la nostra società possono impegnarsi in un'utopia (!), che vada di pari passo con  la perdita della sicurezza e con la minaccia di vecchie rivendicazioni ed implicazioni? [...] Una certa quantità di disuguaglianza "dinamica" è come un soffio di vento in una sala soffocante, come un flusso di acqua fresca in una laguna stagnante» (Horx, 1999, 241).

La questione è sapere che la forma della nuova demarcazione è più disgustosa: lo sciovinismo del benessere ed il nazionalismo della deportazione, sinistramente xenofobo, della "maggioranza silenziosa" reazionaria, o l'ideologia economica del terrore di questo "nuovo centro" dei vincitori della globalizzazione. Dev'essere consentito un ingresso rigorosamente dosato dei poveri provenienti dalle regioni devastate dal collasso dell'economia del mercato globale, solo per forzare l'accettazione sociale dell'«aumento della disuguaglianza», compresa la "miseria" come se fosse un fatto naturale, e mettere le persone le une contro le altre come concorrenti della loro stessa esistenza. Ciò che qui viene sostenuta è l'«uguaglianza delle opportunità» nella lotta dei gladiatori.
Ciò che viene felicemente celebrata. è la vecchia differenza fra il razzismo collettivo europeo continentale ed il razzismo individualista anglosassone, nel contesto della globalizzazione. In entrambi i casi, tanto il presupposto quanto il risultato è la dottrina malthusiana secondo la quale, misurato secondo i criteri capitalisti, ci sono «troppe persone», per cui ci deve essere una selezione esistenziale, a partire dalla quale viene sempre tracciata nuovamente un insormontabile cordone sociale.
Non sono stati rimossi tutti i filtri economico-nazionali, o statali-nazionali, ma la pressione esercitata dall'economia imprenditoriale transnazionale deregolamentata non smette di aumentare continuamente. Il cianciare dei politici democratici circa la «mancanza di alternative» rispetto a quelle che sono le loro misure restrittive e antisociali, dimostra soltanto che sono alla frutta, e che sono spinti solo dal potere delle istituzioni borghesi. Visto in maniera superficiale, e secondo il modo tradizionale di vedere le cose, secondo le categorie meramente sociologiche (anziché secondo la critica del sistema), sembra che lo Stato e la politica siano stati degradati fino a diventare i «camerieri del capitale» (Der Spiegel 26/1996). Ma in questo modo si conferma solamente il punto di vista del vecchio marxismo, secondo cui lo Stato nazionale non è nient'altro che «il comitato d'affari esclusivo della borghesia». Tuttavia, nel senso di un soggetto-classe socialmente coerente, questa "borghesia" non esiste più. In quanto soggetto formale economico capitalista, in quanto «homo oeconomicus» ed «imprenditore della propria forza lavoro», il "borghese" -  conformemente a quello che è il rigido concetto di proprietario di capitale, attribuibile alla totalità dei membri della società, inclusi i lavoratori salariati - è scomparso. Fino alla Terza Rivoluzione Industriale, si si sarebbe potuto ancora parlare di Stato nazionale in quanto «capitalista totale ideale» (Marx), se non della totalità sociologica dei proprietari di capitale, ma piuttosto come istanza del sistema produttore di merci che sintetizza formalmente tutti i soggetti formali dell'economia. Ed è proprio questa funzione sistemica che, nella globalizzazione, come conseguenza della Terza Rivoluzione Industriale, viene persa dallo Stato nazionale. Esso non può più essere il «capitalista totale ideale».
È ovvio come questo sviluppo possa essere descritto anche a livello sociologico: le élite funzionali si trovano ancora una volta divise a tutti i livelli della riproduzione capitalistica in una dimensione nuova e supplementare. Dal momento che le élite dell'economia imprenditoriale transnazionale non possono sviluppare un interesse economico comune con quel che resta del management transnazionale nell'economia nazionale (detto nei vecchi termini della sociologia di classe: con la «borghesia nazionale»), né possono sostenere un comune interesse politico-strategico con la «classe politica» nazionale statale. Il momento «strategico» non solo si è spostato dalla politica ai mercati finanziari trans-nazionali, ma a questo livello non produce più alcuna istanza sintetizzatrice [zusammenfassende]. Internamente, lo Stato nazionale, come istanza regolatrice, il «capitalista totale ideale», smette di esistere; così come esternamente smette di esistere il soggetto strategico. «Interno» ed «esterno» non sono più chiaramente definibili, dal momento che si dissolve il sistema di riferimento di quelle che sono queste relazioni.
Tutto ciò significa anche la fine del vecchio imperialismo nazionale, il quale stava già declinando all'epoca della «Pax Americana» occidentale dopo la seconda guerra mondiale; nella misura in cui, nella fase tardiva della Seconda Rivoluzione Industriale, il carattere totalitario del capitalismo era passato dalla politica all'economia, e lottava contro gli Stati nazionali per mezzo del controllo delle «zone di influenza». Piuttosto, gli Stati Uniti, con l'appoggio dei poteri secondari occidentali assumevano il ruolo di «polizia mondiale» nel nome dei principi generali capitalistici e (anche così) di un mercato mondiale "libero". Ora, nella Terza Rivoluzione Industriale, la globalizzazione rende la lotta degli Stati nazionali per «spartirsi il mondo» come qualcosa di completamente anacronistico. Il «capitalista totale ideale» non viene solo escluso in senso economico-sociale, in quanto istanza di aggregazione strategica di interessi, ma diventa il campo di riferimento per delle strategie imperiali che smettono di esistere in un mondo dominato dall'economia imprenditoriale transnazionale. Nella sfera dissociata del «non-luogo», il dominio territoriale non ha più senso, qualunque essa sia la sua forma. Laddove gli interessi strategici, micro-economicamente orientati, possono ancora esistere solo rimanendo "presenti" dappertutto e in nessun luogo, il mondo territoriale smette di essere un oggetto strategico per diventare un mero luogo nel quale si svolgono le scene.
Ovviamente, in quanto fornitori di servizi di economia imprenditoriale trans-nazionale, gli Stati nazionali sono adeguati solo in forma condizionale e temporanea. Dal momento che, in questo sviluppo, i due poli della socializzazione capitalista in crisi collassano a quelli che sono tutti i loro livelli e le loro dimensioni, essi non possono più essere riuniti in un medesimo denominatore, rendendo così obsoleta l'idea di un nuovo ruolo, e ridotto in maniera duratura, dello Stato nazione inteso come «nuovo Stato commerciale» (Rosecrance, 1987), o come «Stato della concorrenza nazionale» (Hirsch, 1995). Una simile concettualizzazione continua ad essere inserita all'interno di una mutazione strutturale del capitalismo, o di un processo di trasformazione considerato come se fosse una nuova tappa dello sviluppo di un'«eterna modernizzazione», mentre in realtà ormai da tempo si tratta di una crisi categoriale della forma sociale capitalistica in quanto tale, che segna la fine definitiva della «modernizzazione». In tal senso, l'economia imprenditoriale transnazionale non costituisce, né in senso sociologico né in senso strutturale, una nuova istanza di potere economico, che rappresenta un'altra era della storia capitalistica e che si limita solo a subordinare in un altro modo lo Stato nazionale. La globalizzazione è innanzitutto una forma di manifestazione della crisi stessa, e «coloro che prendono le decisioni» e che fanno parte delle élite funzionali trans-nazionali, dissociate e senza luogo, sono essi stessi diretti.
È evidente che lo sforzo statale di gestire la crisi attraverso la concorrenza delle «localizzazioni» nazionali si limita alle infrastrutture ed alle altre condizioni strutturali, in maniera puntuale ed "insulare", come viene richiesto dal capitale globalizzato, mentre nelle parti desolate ed economicamente dissociate di ciascun territorio, le stesse strutture. dall'acqua alla polizia, soffrono di quello che è un processo di abbandono. Gli spazi nazionali si decompongono in regioni (ancora) accoppiate ed in regioni-paria, dove si aggravano i vecchi e nuovi dislivelli di sviluppo. Diventa anche visibile lo sforzo del «Leviatano democratico unito», sotto la direzione della «polizia mondiale» degli Stati Uniti, per mezzo di azioni militari congiunte al fine di contenere le guerre civili che irrompono in tutte le regioni del collasso. Non si tratta più di «zone di influenza» vecchio stile, ma di una specie di «imperialismo di sicurezza»; l'obiettivo non è quello della conquista, ma semmai quello della "tranquillizzazione", affinché i circuiti dell'economia imprenditoriale non vengano disturbati.
Ma gli Stati nazionali sono sempre meno in grado di soddisfare tutte queste richieste. Il capitale globalizzato, al quale devono servire, rimuove con ferocia crescente, dalle loro mani, quelli che sono i mezzi necessari, mentre, allo stesso tempo, i punti problematici si moltiplicano sempre a più grandi passi. Ad ogni nuovo collasso finanziario, si avvicina sempre più la fine dell'economia monetaria, che, naturalmente, in ultima analisi, alla fine occuperà anche lo spazio trans-nazionale senza luogo del capitale. E l'economia imprenditoriale industriale globale, con le sue disperse isole di produttività, di certo non opera ad un nuovo livello stabile, ma il suo stesso spazio di manovra si riduce ad ogni spinta verso la globalizzazione. La concentrazione senza precedenti del capitale, che è stata forgiata negli spazi trans-nazionali nel corso della «fuga in avanti» dell'economia imprenditoriale, preannuncia sul mercato mondiale senza regola un cannibalismo economico. I presunti nuovi signori del mondo, nella loro caccia al decrescente potere di acquisto globale e alla redditività, possono solo divorarsi vicendevolmente e, così facendo, distruggere quindi le "sovraccapacità" economiche reali, facendo sparire da questo mondo le ultime vestigia della "normalità" capitalista.

- Robert Kurz -

fonte: Blog da Consequência

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