sabato 20 ottobre 2018

Il vecchio che avanza

meyer big data

Il capitalismo sta morendo. I profitti crescono mentre la disuguaglianza aumenta e l’innovazione rallenta. Qualcosa deve succedere. La fusione tra big data e intelligenza artificiale porterà, secondo gli Autori, a un nuovo tipo di capitalismo: quello fondato sui dati. Nel corso dell’ultimo secolo la storia del capitalismo è stata la storia di un mercato dominato da denaro e imprese. Usiamo il prezzo per valutare i beni e la cifra che siamo disposti a pagare indica fino a che punto riteniamo valido un prodotto. Le imprese, dal canto loro, coordinano attività complesse, come la produzione di massa delle automobili, controllando il flusso delle informazioni e centralizzando il processo decisionale, e garantendo al tempo stesso un livello di occupazione stabile. Ma il capitalismo dei dati è un’altra cosa: i dati che noi generiamo su noi stessi e quelli che le imprese generano relativamente ai loro prodotti permettono ad appositi algoritmi di collegare acquirenti e venditori in modo molto più efficiente rispetto ai mercati basati sul sistema dei prezzi. Queste stesse forze rendono superfluo il controllo rigido delle informazioni, consentendo a gruppi di persone di dimensioni sempre più ridotte di coordinarsi efficacemente senza dover ricorrere a un’infrastruttura elaborata. In definitiva, le grandi imprese centralizzate potrebbero ridursi a nulla più che un individuo e il suo computer. Un capitalismo incentrato sui dati potrebbe significare un’economia più sostenibile e più equa, ma la fine dell’impresa – e, con essa, la fine del lavoro stabile – comporta anche grossi rischi. Reinventare il capitalismo nell’era dei big data ci spiega come il cambiamento tecnologico in corso stia uccidendo il capitalismo che siamo abituati a conoscere e che cosa lo rimpiazzerà.

(dal risvolto di copertina di: Viktor Mayer-Schönberger e Thomas Ramge: Reinventare il capitalismo nell'era dei big data, Egea)

reinventa

L’illusione sempreverde del libero mercato
- di Benedetto Vecchi -

Gli economisti inseguono il sogno di un modello che spieghi come, dove e quando produrre ricchezza, spiegando arbitrariamente il perché tale distribuzione della ricchezza sia «naturale» . È quel che fanno Viktor Mayer-Schönberger e Thomas Ramge nel volume Reinventare il capitalismo (Egea edizioni, pp. 212, euro 24) che può essere considerato uno dei testi che caparbiamente ritiene la decennale crisi economica globale come un contingente fenomeno dello sviluppo capitalistico. L’interesse del libro sta però non nella autoconsolatoria spiegazione della crisi come fenomeno episodico, quanto nell’individuare nei Big Data il florido settore capace di plasmare i comportamenti individuali e collettivi e così rilanciare lo sviluppo capitalista. Uno degli autori, Viktor Mayer-Schönberger, che sarà ospite oggi al Festival dell’innovazione di Padova (Palazzo Moroni, Sala Paladin, ore 15), ha una consolidata esperienza di studioso di Big Data ed è convinto che il capitalismo stia vivendo una trasformazione radicale al termine della quale il modello del mercato perfetto avrà la sua traduzione operativa. I dati, infatti, consentiranno ai singoli di accedere a informazioni che possono orientare felicemente le loro decisioni. Non ci sarà più una asimmetria di informazioni tra venditore e acquirente, sia che riguardi l’acquisto di una merce che la ricerca del lavoro.
Il vecchio sogno del libero mercato sarà dunque finalmente realizzato. L’utopia fittizia dei neoliberisti vedrà così la sua attuazione. La «città del sole» liberale uscirà allora dalle nebbie della realtà. Le parti del volume che meritano attenzione sono tuttavia altre. Il milieu che vincola la raccolta ed elaborazione di informazioni all’intelligenza artificiale, è considerato dai due autori come la leva che muove l’intero capitalismo.
Le cosiddette Faboulous Big Five del capitalismo (Amazon, Google, Facebook, Apple e Microsoft) sono destinate a crescere nei profitti e nell’accumulo di dati, ma da qui ad alcuni anni il loro oligopolio su Internet sarà messo in discussione dall’arrivo dei concorrenti cinesi, indiani, europei, che riorganizzeranno le loro imprese secondo i criteri del mercato orientato ai data-rich.
Sarà infine l’intelligenza artificiale a farla da padrona. I produttori di machine learning e dei corrispettivi programmi informatici faranno, infatti, buoni affari. E se questo avrà qualche effetto generale sull’andamento dell’occupazione, ogni tentativo di tassare i robot (proposta avanzata da Bill Gates) o di reddito di cittadinanza (il mantra al quale si sono convertiti molti manager della Silicon Valley, spaventati dalla crescita della povertà) resta nocivo, scrivono Mayer-Schönberger e Ramge, per l’innovazione e per la stabilità del sistema. Lo Stato nazionale deve favorire uno sviluppo data-driven, rimuovendo tutti gli ostacoli che può incontrare. Dunque, tutti devono diventare imprenditori di se stessi. È questo il nucleo centrale del volume. In tempi di crisi del neoliberismo, Reinventare il capitalismo ha il pregio di sfidare la realtà. Poco importa se la disoccupazione diviene strutturale, che le disuguaglianze crescano raggiungendo il livello di guardia, che la cittadinanza e la democrazia siano ormai un simulacro posticcio del migliore dei mondi possibili. Quel che conta è far ripartire il treno della crescita economica, favorendo le imprese dei Big Data, ma introducendo misure per una prossima liberalizzazione del settore (gli oligopoli sono la bestia nera del mercato data-driven). Un libro dunque che ha un obiettivo politico dichiarato: salvare il capitalismo da se stesso radicalizzando le caratteristiche neoliberiste. Può sembrare ingenuo, ma è quanto fanno non solo negli Stati Uniti: con le dovute differenze, accade anche in paesi come la Cina, l’India, cioè nelle nuove superpotenze economiche.

- Benedetto Vecchi - Pubblicato sul Manifesto del 18.5.2018 -

cultura7

Leggere 180 milioni di parole
- Con il Big Data rivivono i giornali della Belle Èpoque -
di Nello Cristianini

Che cosa hanno a che spartire un vecchio gesuita, la nuovissima scienza dei Big Data e la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca? Sembrerebbe l'inizio di qualche barzelletta, e invece, grazie alla nuova disciplina dell'Umanistica Digitale («digital humanities», nel mondo anglosassone), queste realtà così distanti si trovano a contatto diretto. L'idea viene dall'analisi quantitativa su grande scala dei giornali antichi, un metodo storico recente, che è stato applicato allo studio dei giornali britannici e americani, per scoprire cambiamenti culturali e fenomeni sociali che non sarebbero altrimenti facili da studiare. Il mio gruppo di ricerca all'Università di Bristol si è occupato dello studio di tutti i giornali locali pubblicati a Gorizia tra il 1873 e il 1914. Ovviamente la cosa richiede l'uso di strumenti informatici ed è qui che le cose si fanno interessanti.
La preparazione dei dati da sola è un'impresa che sarebbe parsa titanica solo pochi anni fa. Intanto si devono digitalizzare le immagini dei giornali e nel nostro caso c'erano due giornali in lingua italiana che coprivano il periodo dell'indagine: «L'eco del Litorale» e «Il Corriere di Gorizia» (in seguito «Corriere Friulano»). La Biblioteca Statale Isontina li aveva già in forma di microfilm. Abbiamo quindi digitalizzato 42 microfilm nei laboratori della British Library, a Boston Spa, ottenendo le immagini digitali di 47.500 pagine di giornale. Poi a Bristol abbiamo trasformato queste immagini in testo, ottenendo 110 milioni di parole. Queste le abbiamo combinate con il testo digitale di giornali in lingua slovena, disponibili alla Biblioteca Digitale di Slovenia (Gorica, Soca, Primorski List), raggiungendo un totale di 180 milioni di parole: la sola prima lettura di questo testo richiederebbe a un ricercatore otto anni di lavoro.

L'arrivo della modernità
L'analisi statistica di questi dati ci consente di interrogare il passato in un modo interamente nuovo. Concentrandoci su parole che cambiano frequenza in modo significato, possiamo individuare i momenti in cui si comincia a parlare di idee nuove, come il socialismo o il suffragio universale, e poi i momenti in cui arrivano le nuove tecnologie, come il telefono, il cinema, l'automobile. Con queste informazioni, poi, lo storico può andare a cercare «a colpo sicuro» gli articoli nel periodo giusto, che rappresentano questi cambiamenti.
È cos' che abbiamo individuato due periodi in cui la conversazione si volge verso discorsi di tipo nazionale oppure articoli che esprimono ansia verso la modernizzazione. Entrambe sono situazioni che sperimentiamo anche adesso e che erano familiari ai goriziani della Belle époque. E infatti la scelta di Gorizia è stata dettata (anche) da considerazioni strategiche: è un modello in piccola scala di una regine multietnica e multilingue, in un periodo di rapido cambiamento. I nostri studi futuri sulla stampa europea, potranno trarre giovamento da questo progetto.

Il premio internazionale
Va ricordato che la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca era una regione dell'Impero Austro-Ungarico, tra il 1861 e il 1918. Era un territorio unico, al punto di contatto di quattro mondi: germanico, slavo, latino e mediterraneo. Seguiva il corso dell'Isonzo, da Caporetto a Grado. Ovviamente era un territorio multietnico e multilingue e adesso è diviso tra Italia e Slovenia.
Ecco come lo studio dell'Umanistica Digitale collega i Big Data alla storia della Contea di Gorizia. Ma che cosa c'entra il vecchio gesuita? Questo campo di ricerca, in espansione in America e Inghilterra, ha origini italiane: con padre Roberto Busa, che convinse l'Ibm negli Anni 50 a fornirgli i computer per studiare le opere di San Tommaso. E infatti, oggi, il premio internazionale per lavori in «digital humanities» si chiama «Roberto Buza Prize».

- Nello Cristianini - University of Bristol - Pubblicato sulla Stampa del 16/5/2018 -

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