giovedì 18 ottobre 2018

Beviamo, beviamo!

ubriachi

Secondo una leggenda africana, le donne persero coda e pelliccia quando il dio della creazione insegnò loro a fare la birra. Fu così che ebbe origine l’umanità. Da allora, incontriamo l’alcol ovunque, dai primi insediamenti neolitici fino alle astronavi che sfidano l’ignoto spazio profondo, e insieme al bere troviamo la sua compagna più sfrenata, allegra e sovversiva: l’ubriachezza. L’ubriachezza è universale e sempre diversa, esiste in ogni tempo e in ogni luogo. Può assumere la forma di una celebrazione o di un rituale, fornire il pretesto per una guerra, aiutare a prendere decisioni o siglare contratti; è istigatrice di violenza e incitamento alla pace, dovere dei re e sollievo dei contadini. Gli esseri umani bevono per sancire la fine di una giornata di lavoro, bevono per evasione, per onorare un antenato, per motivi religiosi o fini sessuali. Il mondo, nella solitudine della sobrietà, non è mai stato sufficiente. Breve storia dell’ubriachezza osserva il nostro passato dal fondo di una bottiglia, da quello spazio vitale – il bar – che è abolizione temporanea delle regole dominanti, festa del divenire e convegno di gioie. Grazie alla scrittura colta ed esilarante di Mark Forsyth, vivremo l’ebbrezza di un viaggio che dalle bettole degli antichi sumeri penetra nelle stanze di un simposio ateniese; assisteremo al sorso di vino che ha cambiato il mondo per sempre, quello bevuto da Cristo nell’ultima cena; entreremo nella taverna in cui è nata la letteratura inglese e ascolteremo il crepitio dei revolver nei peggiori saloon del Selvaggio West. Infine, come in quell’antica leggenda africana, scopriremo che la nostra civiltà nasce grazie al sacro dono dell’alcol: perché bere è umano, ubriacarsi è divino.

(dal risvolto di copertina di: Mark Forsyth, "Breve storia dell’ubriachezza". Il Saggiatore.)

Stivate di barili colmi di bevande alcoliche e di uomini pronti a svuotarli: le navi che dai porti del Vecchio Continente salparono alla volta delle Americhe portarono in quei luoghi un nuovo sapere alcolico. Inclini al bere, educati alla mistica del vino, frequentatori di taverne, i colonizzatori incontrarono dall'altra parte del mondo culture indigene tra loro molto diverse, che avevano stabilito nei secoli rapporti complessi con una vasta serie di prodotti fermentati, rapporti in cui il rituale dell'ubriachezza poteva a volte assumere un carattere di sacralità. Dall'impatto sorsero nuovi modi di bere all'eccesso: sbornie epocali, malsane, curative, profetiche, battagliere, mortali, punibili, estatiche, comuni, solitarie, artistiche, visionarie, sacre, profane.

(dal risvolto di copertina di: "Sbornie sacre, sbornie profane. L'ubriachezza dal Vecchio al Nuovo mondo", di Claudio Ferlan".Il Mulino.)

Storie di ubriachezza
- di Mauro Portello -

Sono milioni gli individui che soprattutto verso sera entrano in un clima interiore fatto di ansia diffusa e aspettative strane, non ben definite, qualcosa che ha a che fare con la pulsione alla fuga, con il desiderio di evasione, di liberazione. C’è in loro un certo nervosismo. Ma tutto si placa, verso sera, quando appare una qualunque forma fenomenica del noumeno alcolico, dal prosecco al gin-martini… L’alcol sembra l’approdo, e l’alcol era il manque che innervosiva. E tutto subito si colora di serenità, ogni cosa appare ancora sopportabile, ancora possibile; si concepiscono nuovi desideri, viene una rinnovata, magari strampalata, progettualità, una sostanziale voglia di continuare a vivere. Oppure, nella variante gaia, per così dire, il flash alcolico del cicchetto stabilizza e consolida un’idea comunque già ben strutturata che la vita sia pur sempre una bella cosa e che non basti fare altro che mantenerne il ritmo di serenità anche attraverso tutte le microhybris del rituale serotino che servono. Forse è proprio il nostro essere umani che induce una necessaria logorrea, che talvolta si fa insopportabile, per la sua pesantezza, e va in qualche modo fermata, almeno per un po’. C’è come bisogno di una sospensione, di una pausa da tutte le infinite narrazioni, dalle invettive, dalle prediche, dai lamenti, è in quel momento che occorre uno spritz di allentamento, di recupero di leggerezza.
C’è un che di filosofico nell’alcol, è un fatto, provate a spiegarne il perché, il perché lo si cerca e lo si usa in quantità, vengono fuori ragionamenti, riflessioni, misteri, antropologie e psichismi, “piccole trascendenze” (Antonio Moresco). Non può essere un caso che sia stato chiamato anche spirito o cordiale. Non può essere un caso che moltissima letteratura e arte siano fiorite in “ambiente alcolico”.
Nella sua vertiginosa "Breve storia dell’ubriachezza" (il Saggiatore 2018, trad. it. di Francesca Crescentini) il linguista britannico Mark Forsyth prova a sintetizzare una storia, per niente breve, che condiziona l’umanità sin dalle origini. Con fare tipicamente anglosassone, sobrio, scanzonato, ironico e serissimo, Forsyth mostra l’evolversi dell’uso dell’alcol insistendo sul dato antropologico fondamentale: “In qualsiasi luogo o epoca gli esseri umani abbiano vissuto, si sono sempre riuniti per inebriarsi. Il mondo, esperito nella solitudine della sobrietà, non è, e non è mai stato, sufficiente” (p.273). E mettendo in fila le diverse fasi dell’evoluzione, dal brodo primordiale ai voli spaziali, delinea la costante alcolica che via via diventa modalità del sacro, strumento di potere politico ed economico, ma senza mai perdere la sua funzione sostanzialmente autoassolutoria che gli uomini gli assegnano.

Da quando l’enzima ADH4 ha reso capace l’uomo di metabolizzare l’alcol, dieci milioni di anni fa, mettendogli a disposizione un potenziale energetico superiore a quello di tutte le altre scimmie, la storia dell’alcol si è immediatamente intrecciata a quella degli eventi delle grandi civiltà umane. Forsyth parla di una “Preistoria del bere” in cui gli uomini hanno cominciato a coltivare non tanto per produrre cibo, quanto “perché volevamo qualcosa da bere”; e la birra fu l’inizio di tutto grazie al suo essere nutriente, facile da produrre e da conservare così da trasformarsi in un vero e proprio fattore culturale capace di muovere gli uomini a creare agglomerati e la stanzializzazione. Da qui la civiltà.
La birra, dice Forsyth, “è all’incirca il primo argomento su cui la gente ha deciso di scrivere”, le prime scritture erano infatti liste di “pagherò” relativi alle monete correnti, cioè orzo, oro o birra. Con la birra, che bonificava l’acqua generalmente fetida, l’ubriachezza assume nell’antico Egitto caratteri mistici. E questo aspetto avrà un ruolo addirittura dominante nelle vicende storiche dei popoli sud-americani, come vedremo. A questo proposito Forsyth ricorda la essenziale riflessione dello psicologo William James (fratello di Henry): “La sobrietà sminuisce, distingue e dice no; l’ubriachezza espande, unisce e dice sì. […] La coscienza ebbra è un frammento della coscienza mistica, e l’opinione complessiva che abbiamo di essa dovrebbe trovare posto nell’opinione che abbiamo della sua più vasta totalità” (p.63).
Poi arrivano i greci, che “dovevano complicare tutto”, e si mettono a bere vino, introducendo un discrimine tra quei barbari che bevono birra e la propria civiltà evoluta. Per Platone l’uomo ideale è colui che, con una sorta di educazione all’ebbrezza, riesce a mantenere il pieno controllo di sé anche dopo una grande bevuta. È la terra di Dioniso, ma l’ebbrezza deve rimanere una disciplina. Belle le pagine che Forsyth dedica al Simposio platonico. In Cina (qui abbiamo il primo alcolico documentato risalente al 7000 a.C.) solo Confucio, bevitore energico egli stesso, nel V sec. a.C. riesce a diffondere, introducendo un fitto reticolo di rituali e cerimonie, un uso controllato dell’alcol restituendo pace e prosperità a una società dilaniata dalle continue violenze in cui l’ubriachezza era uno degli strumenti per il potere.
Il nodo delle sacre scritture non poteva non entrare a pieno titolo in questa Storia: da Noè che dopo il diluvio inizia a coltivare una vigna e a produrre vino, all’ultima cena in cui il vino assume un preciso ruolo simbolico per la cristianità. Né l’Antico Testamento né il Nuovo condannano l’ubriachezza in modo definitivo, in essi si afferma sempre l’istanza della moderazione. Sarà il Medioevo a dare inizio all’inane lotta all’ubriachezza trasformandola in peccato; un peccato che nei fatti sarà regolarmente perdonato in nome della tolleranza verso l’alcol inteso come determinante fattore di aggregazione sociale.
Nel mondo islamico l’ebbrezza è una faccenda che riguarda il dopo, solo nell’aldilà si potrà bere molto e bene, così nel Corano la sura 47:15 recita: “ci saranno ruscelli di un’acqua che mai sarà malsana e ruscelli di latte dal gusto inalterabile e ruscelli di un vino delizioso a bersi e ruscelli di miele purificato”.

E “chi beve vino in questo mondo senza pentirsene, non lo berrà nell’altro mondo” dice l’Hadith, la raccolta successiva di detti di Maometto. Forse proprio in quel “pentirsene” o meno sta la realtà dei peccaminosi bevitori del Medio Oriente. Forsyth cita le “khamriyya”, cioè le canzoni del vino, del più grande poeta arabo Abu Nuwas che scriveva a Bagdad nel IX secolo d.C., come documenti della controversa sensibilità verso l’ebbrezza da alcol in quella parte del mondo nella quale accanto al divieto anatemico avviene anche ciò che un mullah iraniano ha raccontato nel 2003 (!): “Nemmeno gli occidentali bevono come noi. Loro si versano un bel bicchiere di vino e lo sorseggiano. Noi, qua, piazziamo un barile di vodka da quattro litri sul pavimento e lo scoliamo finché non ci vediamo più. Non sappiamo neanche come si consumino gli alcolici, o roba del genere. Che gente che siamo. Maestri dell’eccesso e dello spreco” (p.146).
Nel viaggio di Forsyth l’Europa appare come una sorta di fulcro, dove l’usanza dell’alcol si è realizzata e fatta cultura. Da lì molte delle vicende alcoliche dei popoli si sono generate. Nel nord Europa vichingo l’ubriachezza era una precisa cifra sociale, Odino, il capo degli dèi vichinghi, era “l’ubriaco” e vegliava su una società in cui “L’alcol era autorità, l’alcol era famiglia, l’alcol era saggezza, l’alcol era poesia, l’alcol era il servigio reso all’esercito e l’alcol era destino” (p.149). Nella Londra tra Sei-Settecento, la città più grande del mondo con circa 600.000 abitanti, ci fu il passaggio dalla birra al gin e in certi quartieri si pensa che una stanza su cinque fosse uno spaccio di gin, sempre piena zeppa di gente sudicia che affogava i dispiaceri bevendo, o che dormiva per smaltire i postumi di sbronze di un gin che con una doppia distillazione arrivava a 80% vol. È da lì che nella seconda metà del Settecento questa “vistosa classe inferiore” si è spinta verso le terre che sarebbero diventate gli Stati Uniti d’America e l’Australia. Dove l’alcol, in positivo e in negativo, ha tracciato i percorsi praticamente di ogni sviluppo politico-sociale. In America lo stesso George Washington dopo aver perso la prima tornata politica, nella seconda, per diventare il primo presidente americano, dovette concepire un’astuta campagna elettorale basata sulla distribuzione di alcolici agli elettori. Un paese marchiato dall’alcol, dai saloon del far west al proibizionismo; dove, secondo un rapporto interno della NASA, persino gli astronauti si sono sbronzati in ben due missioni. In Australia per più di vent’anni ci fu il dominio dei famigerati galeotti dei Rum Corps, un regime fondato sul ferreo controllo del commercio di alcolici.
La domanda è sempre la stessa: perché gli uomini cercano l’alcol? Perché in un paese come la Russia (vodka a volontà dal XV secolo grazie ai mercanti genovesi), solo nel 2010 il ministro delle Finanze Aleksej Kudrin ha potuto dichiarare che “Quelli che bevono sono anche quelli che ci aiutano di più a risolvere i problemi della società, come l’espansione demografica, lo sviluppo di altri servizi sociali e il sostegno al tasso di natalità” (p.254)?
Forsyth parla di “culture asciutte”, in cui l’alcol è assunto con un certo rigore (nei paesi nordici si tende a non bere durante il giorno e la settimana, ma si può esagerare nel week-end), e “culture bagnate” in cui l’alcol entra nella vita quotidiana senza particolari eccessi (nei paesi mediterranei). Sono utili categorie antropologiche per capire la vicenda della colonizzazione europea del Sud America, dove, appunto, le “culture bagnate” latine hanno in qualche modo prodotto le “culture asciutte” dei colonizzati. Proprio alla penetrazione degli europei nel continente americano è dedicato il libro di Claudio Ferlan, Sbornie sacre, sbornie profane. L’ubriachezza dal Vecchio al Nuovo Mondo (Il Mulino 2018), un’altra storia di ubriachezza, per così dire, dove l’aspetto strumentale dell’uso dell’alcol emerge con particolare forza: l’ebbrezza nella vicenda della colonizzazione centro-sud e nord americana mette in relazione quelle due culture.

L’ubriachezza, dice Ferlan (con la mano ferma dello storico), è sempre stata difficile da perimetrare, una materia davanti alla quale storicamente lo stigma delle istituzioni e persino della medicina hanno sempre avuto scarso ascolto. Venendo dalla terra, l’uva, il grano sono sempre stati intesi come fattori di civilizzazione e l’ebbrezza di fatto è stata una “pratica ancestrale” (p.19). Nel trasferire la “malapianta” dell’uso smodato di alcol nel Nuovo Mondo, dopo che nel Vecchio la “follia reversibile” dell’ubriachezza aveva affrontato, con successo, le prove della cristianizzazione, della Riforma e della Controriforma, gli europei si sono inventati un formidabile strumento di guerra, un’arma sofisticatissima di penetrazione (qualche vaga analogia con l’odierno uso “malvagio” della rete?), capace di controllare, per almeno tre secoli, gli aspetti più profondi delle aggregazioni sociali intervenendo su rituali religiosi e politici. L’immagine più straziante è quella del povero Geronimo, il gigante della lotta degli indiani d’America, che vecchio e ubriaco di whisky cade da cavallo nella notte e muore di freddo. Impossibile non pensare che senza l’alcol la Storia sarebbe stata un’altra cosa.
Una ricerca recentissima condotta in 195 paesi dal 1990 al 2016, presentata sulla rivista “Lancet” mostra come l’alcol nella società odierna sia ancora presente innanzitutto sotto forma di dramma. “Nel 2016 – si dice – era il settimo fattore di rischio non solo di morte prematura, con 2,8 milioni di morti (circa il 10%, maggiore per i maschi), ma anche di perdita di salute”. Lo studio, presentato da Alberto Mantovani, direttore dell’Istituto di ricerca milanese Humanitas, nel “Corriere della Sera” nello scorso settembre, rileva anche il vero dramma di una follia non sempre reversibile e cioè il fatto che “il consumo di questa sostanza rappresenta la più grave causa di morte prematura e disabilità fra i 15 e i 49 anni”.
Che dire? Siamo nell’antropocene e mi sa che una delle cicatrici più vistose che l’uomo lascerà della sua permanenza sul pianeta sarà proprio questa sinistra attrazione per l’ubriachezza, e nessuno saprà mai veramente il perché. Forse era semplicemente perché la vita era bellissima e insopportabile.
Per l’immediato, se è vero che l’alcol sprigiona il suo potere magico (di ammorbidire i lacci dell’Io e di lasciar andare le pulsioni) e distribuisce la sua felicità su una soglia, non prima e non dopo (infatti non la si deve superare) poiché se no diventa sofferenza, credo valga ancora sommamente (lo condivido con Mantovani) ciò che il manzoniano gran cancelliere spagnolo Ferrer (I promessi sposi, cap. XIII) rivolge al cocchiere mentre avanza con la carrozza tra la folla: “Pedro, adelante con juicio”. 

- Mauro Portello - Pubblicato su DoppioZero il 18 ottobre 2018 -

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