giovedì 20 settembre 2018

Verso l'ignoto

eleutero

Indebitamento globale, crisi monetaria e collasso capitalista
-di Maurilio Lima Botelho -

Nelle ultime settimane, nei "mercati emergenti" è suonato un allarme: le loro valute hanno sofferto un'improvvisa svalutazione nei confronti del dollaro. Gli specialisti hanno cercato prontamente di spiegare il fenomeno per messo di un presunto "riscaldamento" dell'economia nordamericana e di una crescente divergenza fra i tassi di interesse. La dimensione più profonda di questa instabilità monetaria - l'indebitamento generalizzato in tutto il mondo - è rimasta lontana da qualsiasi problematizzazione, e si è finito per ridurre tutto solamente al protocollo amministrativo-economico della catastrofi sociali. Con una simile cecità di fronte all'ovvio, bisogna insistere con una riflessione circa la relazione esistente fra questi eventi  e quello che è l'orizzonte più ampio della crisi del capitalismo.
Il panorama economico mondiale è formato da montagne e montagne di debiti. Il livello ha superato quelli che sono record storici poiché, oramai da decenni, l'economia stessa è sostenuta da un indebitamento sistemico. Ma ora l'accumularsi delle tensioni impone del limiti alla continuità di questa dinamica, che dovrà portare ad una drammatica rottura.
Finora tutto questo ha fatto parte della logica del capitalismo di crisi. Nel momento in cui la sovraccumulazione del capitale ha smesso di essere ciclica ed è diventata cronica, le trasformazioni dovute alla microelettronica hanno portato ad una riorganizzazione dei processi produttivi, senza che ci fosse la corrispondente innovazione dei prodotti, e a fronte dell'utilizzo di forza lavoro, la produzione si è ampliata in maniera autonoma, allora, a quel punto, il credito libero è diventato una necessità essenziale. Disoccupazione strutturale ed eccesso di merci in quasi tutti i settori, hanno comportato una contrazione dei mercati. Ma l'economia capitalista, com'è noto, funziona solo in senso inverso; affinché il fuoco del capitale non si spenga, bisogna vendere sempre più merci. Questo evidente vicolo cieco può essere risolto solo per mezzo del credito. Per fronteggiare il declino del potere di acquisto, le merci avanzate sugli scaffali, o nei magazzini, ed i costi dell'infrastruttura produttiva sempre maggiori, si è reso necessario moltiplicare il denaro in circolazione.
L'epoca del capitalismo di crisi è anche l'epoca del credito abbondante. Quello che è un apparente controsenso, è in realtà il logico corollario di una società illogica. Con il capitalismo altamente sviluppato, quanto più merci inondano i mercati, meno lavoro viene utilizzato per produrle, e minore è pertanto la possibilità che vengano acquistate [*1]. Perciò, quanto più è limitata la capacità di consumo mondiale, più c'è bisogno per il sistema di aumentare la circolazione di denaro, per simulare questo potere di acquisto che non c'è. Tutto ciò è difficile da capire solo per coloro che insistono nell'assumere immediatamente la ricchezza capitalista come disponibilità immediata di risorse monetarie. Da quest'ottusa angolatura «perfino accumulare debiti può sembrare come un'accumulazione di capitale» [*2].
Indubbiamente, da un punto di vista isolato e completamente individualizzato, la ricchezza può essere espressa immediatamente come disponibilità di denaro. Tuttavia, così come ogni atto di acquisto è il mero contrappunto di una vendita, ogni meccanismo di circolazione di denaro rimane intrecciato ad un processo globale di produzione e di circolazione di merci, fra le quali questa merce speciale, il denaro. Per essere compreso nella sua forma sociale, da un punto di vista mediato, il denaro non può essere dissociato dai processi di produzione delle merci.
Il denaro potrebbe rappresentare, in maniera individuale, una parte della ricchezza socialmente prodotta perché ha contenuto nel suo corpo una parte di questa sostanza formale del "modo di produzione" - il valore. La ricchezza è stata sintetizzata nella merce-denaro disponibile. Sebbene il suo uso può essere guidato e può mediare la circolazione di diverse merci (accelerazione della rotazione), c'è sempre stata una certa proporzione fra la ricchezza effettivamente prodotta e la massa monetaria disponibile, anche se questa proporzione non era identica e diretta.

Con l'ampliamento vertiginoso della produttività, la gigantesca struttura produttiva sviluppata nel dopoguerra, e l'offerta globale di merci provenienti da centinaia di paesi, si è persa anche la capacità monetaria di rispecchiare la ricchezza sociale. L'antico legame che manteneva il denaro prigioniero del mondo delle merci è stato infranto, e le forme monetarie si sono liberate dei loro "pesi metallici". La fine dello standard dollaro-oro è stato il risultato di una società che, per così dire, è diventata talmente ricca da non poter più esprimere in un'unica merce standard tutta questa abbondanza. Il mondo inondato di ricchezze non era più in grado di passare attraverso la cruna dell'ago di un denaro ancora ancorato al mondo delle merci. Nessuno standard monetario, per quanto ampio, avrebbe potuto essere in grado di rispecchiare la ricchezza sviluppata per mezzo dell'interazione globale delle catene produttive.
La rottura dello standard dollaro-oro, imposto unilateralmente dagli Stati Uniti all'inizio del decennio degli anni '70, non fu quindi un arbitrio "imperialista" che cercava di "inquadrare" il resto del mondo nella sua dinamica finanziaria, come vorrebbe una certa interpretazione cospirativa del sistema finanziario. È vero che il risultato è stato quello della salvaguardia di una dinamica monetaria che mantenesse il dollaro come moneta egemonica, quindi, approfondendo l'assoggettamento mondiale alle variazioni automatiche, o alle politiche, di questa moneta – secondo le ciniche parole di Milton Friedman, gli «Stati Uniti devono affermare che un dollaro vale un dollaro; gli altri paesi, se lo vorranno, determineranno il valore del dollaro nella loro propria moneta» [*3]. L'atteggiamento yankee è stata una necessità strutturale che rivelava come nel capitalismo - come in una rappresentazione hegeliana - il punto più elevato dello sviluppo corrispondesse all'inizio del suo decadimento.
L'elevata produttività raggiunta rendeva il processo produttivo, come si è detto, gradualmente autonomo nei confronti dei processi del lavoro, ed il processo produttivo sintetizzava nelle merci sempre meno valore. In questo modo si spezzava la stessa relazione esistente fra la sostanza sociale della ricchezza, il valore, e la rappresentazione di questa ricchezza sulla superficie del mercato, il denaro. Il capitalismo diventava così vittima del suo stesso successo: un mondo abbondante di merci, diventava sempre meno in grado di riprodursi in termini allargati, poiché la sua sostanza essenziale scarseggiava.
Tuttavia, come avviene per chi ha avuto un incidente, e che non può più camminare senza stampelle, anche se ha recuperato, la società integrata dal mercato, reificata attraverso la merce, assumeva come imperativa la continuità di un sistema che ormai non ha più giustificazioni. Perciò si incominciava a creare denaro che era indipendente dalla basa sostanziale che lo sosteneva. Un mondo con sempre meno valore diventava, paradossalmente, un mondo con molto più denaro. Il capitale fittizio - una forma che fino a quel momento era stato utilizzato nel corso di momenti specifici della dinamica economica, al fine di trovare scorciatoie per ottenere investimenti a lungo termine e che serviva da stampella delle necessità infrastrutturali (spese a deficit) o come meccanismo speculativo al culmine di una ciclo economico - diventava ora parte essenziale della dinamica economica. Ormai non era più una forma derivata, resa autonoma, e secondaria del capitale: il capitalismo di crisi cominciò a produrre capitale fittizio come un pacemaker della riproduzione economica, la quale non era più basata sull'accumulazione di capitale (fondato sulla valorizzazione) ed era passata ad essere guidata dall'accumulazione monetaria (capitalizzazione).
Con la fine dello standard dollaro-oro, il sistema creditizio è migliorato a tutti i livelli. A partire dalle forme statali di indebitamento (titoli di Stato sovrani), passando per il mercato delle azioni e delle obbligazioni (con la sua rete di derivati sui cambi e sui mercati secondari), fino ad arrivare alle diverse forme di finanziamento al cittadino comune, da circa mezzo secolo il mondo si basa su una complessa rete di credito sistemico, debiti, obbligazioni e leve finanziarie. Il capitale fittizio ha tirato un po' più su il mondo, attraverso la moltiplicazione spudorata del denaro senza nessun fondamento, e la mobilitazione delle merci simulata da queste risorse ha creato l'impressione - sorretta dal materialismo volgare della nostra società - che tutto stesse continuando a funzionare.

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Robert Kurz, in un testo del 1986 solo ora pubblicato in Brasile, "La crisi del valore di scambio", ha presentato per la prima volta una teoria sistemica della crisi strutturale capitalista, ristabilendo quello che è il nesso essenziale fra teoria del valore e teoria monetaria, per puntare alla desustanzializzazione della monete:
«Infine, all'inizio degli anni 1970, con l'abbandono del sistema di Bretton Woods, il cordone ombelicale del gold standard è stato tagliato - cioè, anche il dollaro, la valuta globale, è stata irreversibilmente disaccoppiata dalla convertibilità in oro. Ma questo ha significato soltanto che la successiva emissione di denaro come merce, per mezzo di banconote, stampate in un volume che non ha copertura in oro, non contiene più alcuna reale sostanza di valore - con la sola eccezione del risibile ammontare del lavoro coinvolto nella fabbricazione stessa del denaro. Questo ha portato alla circolazione universale di carta moneta, ed anche di moneta che esiste esclusivamente a scopo di contabilità, ed ancor più alle più fantastiche, e puramente giuridiche, creazioni sorte dal nulla come la moneta mondiale artificiale dello Special Drawing Rights (SDR) del Fondo Monetario Internazionale, che può circolare solamente fra le banche centrali. Ma la scomparsa della sostanza valore della moneta riflette solamente la tendenza generale del valore a scomparire, a causa del fatto che la produzione va ben oltre i limiti del valore.» [*4]
Proprio per questo motivo, un mondo di ricchezza materiale abbondante, determinato da una quantità di ricchezza sostanziale sempre più ristretta (il valore), deve organizzare una circolazione di beni e servizi attraverso una rappresentazione fittizia di ricchezza sociale. In una configurazione di questo genere, nella quale la stessa moneta ormai non ha più niente che la possa sostenere, tutto il debito rappresenta esso stesso una forma monetaria. Un complesso apparato di "merci di second'ordine" (Ernst Lohoff) ha contribuito alla mera moltiplicazione della valuta corrente, facendo crescere ulteriormente l'illusione di ricchezza: oggi una banca non viene misurata a partire dalla quantità di depositi che detiene, ma dalle obbligazioni di terzi che possiede sotto forma di titoli, di promesse di pagamento, ecc. [*5].
Questo è avvenuto nel 2007. La crisi dei mutui sub-prime si è diffusa come un incendio in una sterpaglia perché la ricchezza finanziaria era basata sulle obbligazioni di pagamenti futuri che erano state acquistate sul mercato ipotecario secondario. Gli attivi, in realtà erano passivi! I debiti venivano considerato come se fossero capitale. Un mero credito simulato era sinonimo di ricchezza. E tutto questo, nello stomaco della circolazione, poteva essere convertito in moneta, e apparire, temporaneamente, come ricchezza disponibile per il consumo e per l'investimento. Perfino la periferia del capitalismo, la quale secondo alcuni soffre di "penuria di capitale", venne inondata di liquidità, la quale ebbe l'effetto di stimolare il credito e simulare l'integrazione sociale attraverso il consumo (il "lulismo" è stato parte integrante di una tale congiuntura foraggiata per mezzo del capitale fittizio) [*6]. Quando è esplosa la crisi dei sub-prime, le prime a crollare sono state le economie centrali, nel momento immediatamente successivo allo scoppio della bolla immobiliare; e dopo, le economie periferiche, quando si prosciugò la bolla delle materie prime. Dieci anni dopo, la stampa, gli economisti e i politici, soprattutto nei centri del capitalismo, confidano in una ripresa degli Stati Uniti, cosa che spiegherebbe la fuga degli investimenti, principalmente verso il dollaro. Ma non si può fare affidamento su questo. Il superamento della crisi finanziaria del 2007/2008 è stato ottenuto solo per mezzo di un ampliamento ancora più violento del capitale fittizio, i ogni economia capitalista. La contrazione della liquidità, in determinati mercati, o quella del credito, in una parte del pianeta, immediatamente dopo il collasso dei mercati finanziati, sono stati largamente compensati dall'accelerazione dell'indebitamento in tutto il resto del mondo, e persino dalla moltiplicazione dei debiti preesistenti, nonostante l'abbassamento generalizzato dei tassi di interesse avvenuto nell'ultimo decennio - con l'inedita stagione di interessi reali negativi, che è servita a distribuire ancora più denaro a buon mercato in vari settori economici. Un recente studio pubblicato da Bloomberg indica, per il 2017, un indebitamento totale corrispondente al 317% del PIL mondiale, qualcosa che si aggira intorno ai 237.000 miliardi di dollari, con una crescita del 40% in dieci anni [*7].

Il punto più debole di questa struttura globale di indebitamento sistematico risiede, evidentemente, nei "mercarti emergenti". Il Messico, dal 2007 al 2017, ha aumentato il suo indebitamento totale di circa il 30%. Il Sud Africa lo ha aumentato del 19%, la Turchia del 28%, il Cile del 35%. [*8] L'Argentina - che con i Kirchner aveva ridotto il suo debito pubblico grazie alle moratorie e scambiando prestiti ad alto interesse con prestiti a basso interesse - con Macri ha aumentato in maniera frenetica il suo debito: il debito pubblico nazionale, principalmente in dollari, è aumentato del 20%; cosa che rende il paese vulnerabile [*9]. Qualche settimana fa è stato annunciato un accordo con il FMI, per ottenere 50 miliardi di dollari, per coprire le spese dello Stato. Nel complesso, i debiti pubblici e privati dei paesi periferici sono i più alti che siano mai stati, superando di molto il momento critico del "decennio di perdite" rispetto al PIL.
Al vertice di tutto il processo che coinvolge i "paesi emergenti" c'è la Cina, responsabile, secondo il FMI, del 40% dell'indebitamento mondiale nel periodo 2007/2014. Nel tentativo di aggirare il collasso del mercato dei consumi nordamericano, dopo la crisi dei sub-prime, il "colosso" orientale ha dato inizio ad un pesante investimento in infrastrutture, il quale in quel periodo ha fatto aumentare fino all'85% l'indebitamento totale del paese. Questo gigantesco complesso di opere, che nel 2012 [*10] ha raggiunto un record di investimenti pari a quasi il 50% del PIL, ha potuto, così come ha fatto l'iniezione di credito nel mercato finanziario globale, trainare temporaneamente altre economia nazionali emergenti.
In questo risiede una delle cause della recente corsa al dollaro. Quando i tassi di interesse erano molto bassi, o addirittura negativi, le economie periferiche si sono indebitate in maniera insensata, basandosi assai spesso su una teoria sviluppistica riscaldata, sperando che le infrastrutture create potessero compensare i debiti contratti (al momento, a buon mercato). La maggior parte di questi investimenti era assai più rivolta ai settori di esportazione, piuttosto che alla creazione di mercato interno, o alla produzione industriale sostanziale - cosa che, evidentemente, nonostante tutte le aspirazioni keynesiane e di sinistra, non aveva alcun senso di fronte alla "crescita senza occupazione" (jobless growth) della tecnologia avanzata, o per mezzo dell'inutile tentativo di competere con prodotti industrializzati a buon mercato esportati dalla Cina, dall'India, dalla Corea, e così via. Perciò, anche quelli che si facevano meno illusioni circa il "neo-sviluppismo" e le sue variazioni ideologiche erano fiduciosi che i prestiti avrebbero potuto essere saldati attraverso l'aumento dei prezzi sempre più crescente delle materie prime esportate, soprattutto quelle destinate alla Cina. Molti investitori e molte banche dei paesi centrali facevano affidamento su una simile prospettiva e cominciarono ad investire nelle fragili economie che stavano esportando risorse naturali con "apprezzabili termini di scambio" - perfino il cosiddetto "rinascimento africano" è stato il frutto illusorio di questa marea di liquidità e dell'integrazione commerciale con la Cina [*11]. Negli ultimi 5 anni, con il rallentamento cinese, la caduta dei prezzi internazionali, si è estesa al resto del mondo, che sulla carta sembrava immune alla "peste" del 2007/2008: la crisi è arrivata alla periferia del capitalismo ed ai paesi esportatori di materie prime. La possibilità di saldare i debiti contratti veniva sempre più compromessa. Con l'aumento, sui mercati internazionali, dei tassi di interesse a lungo termine (e con un imminente aumento, negli Stati Uniti, anche dei tassi di interesse a breve e medio termine), quello che era un rallentamento o una recessione economica, cominciò a trasformarsi in una grave crisi monetaria, in gran parte del "Terzo Mondo". Nel giro di poche settimane, una svalutazione sempre più accelerata delle valute locali nei confronti del dollaro, aveva portato ad un deja-vu generalizzato del decennio degli anni '80. Cile, India, Russia e, soprattutto, Argentina e Turchia soffrono, a causa di un brusca valorizzazione del dollaro, di perdita di potere di acquisto da parte delle loro valute sul mercato internazionale, e di un innalzamento dei prezzi dei prodotti sensibili al cambio.

Il caso del Brasile non è diverso dagli altri. Anche se gli idioti del mercato insistono sul fatto che la situazione monetaria è "solida", grazie ad un'eccedenza valutaria derivante dall'esportazione sfrenata dell'ultimo decennio, la realtà è assai lontana. Indubbiamente, il debito pubblico brasiliano non è più denominato in dollari (solo il 3,6% del totale), a causa di una progressiva conversione, avvenuta negli ultimi 20 anni, del debito con l'estero in debito pubblico interno [*12]. Però, questo, negli ultimi 5 anni,  ha registrato una crescita esplosiva, facendolo aumentare di circa 20 punti percentuali rispetto al PIL.
Il fatto che ci sia uno svincolo del debito dal dollaro non rappresenta immediatamente una valvola di sicurezza nei confronti delle instabilità, poiché rispetto ai titoli pubblici che si trovano sotto pressione ci sono forme di correzione variabili. I titoli a tasso variabile sono a rischio di variazione della politica monetaria a causa dell'aumento dei tassi internazionali (che già corrispondo ad un terzo del totale) e i titoli che hanno un qualche tipo di correzione indicizzata rispetto all'inflazione potrebbero, a causa di una mancanza di controllo futura, tornare ad essere parte sostanziale della spesa pubblica (soprattutto a causa dei limiti imposti per quanto riguarda il massimale delle spesa).
Tuttavia, anche se nei confronti del crescente debito pubblico si può avere un atteggiamento panglossiano, è l'indebitamento privato nazionale quello che spiega, in gran misura, le tensioni del mercato finanziario brasiliano negli ultimi mesi. Così come avviene con gli altri paesi periferici, è il debito estero privato l'attuale tallone di Achille dell'economia brasiliana in rovina. Approfittando dei bassi tassi di interesse sul mercato del capitale internazionale, le imprese brasiliane hanno aumentato in maniera esplosiva i loro contratti in dollari e, nel periodo successivo alla crisi dei sub-primes, il debito estero privato è aumentato del 130%. Il debito estero totale si aggira intorno ai 500 miliardi di dollari, di cui la maggior parte è societario [*13]. Complessivamente, il Brasile si trova con almeno il 150% del PIL in debito, ed una stima aggiornata dovrebbe già indicare qualcosa come un debito totale intorno ai 10mila miliardi di reais, una crescita del 50% in circa 10 anni.
Questa situazione, che colpisce in maniera ancora più violenta la periferia capitalistica, non può essere semplicemente attribuita ad un dominio finanziario globale da parte delle grandi potenze o - in quella che è una visione antisemita che diventa sempre più diffusa - ad uno sfruttamento da parte delle grandi banche. L'esplosivo indebitamento globale, dopo la crisi del 2007/2008, colpisce anche le istituzione finanziarie, le quali hanno registrato un forte aumento delle loro passività in paesi come la Francia, l'Italia, la Svizzera e l'Olanda. Le nazioni che sono riuscite ad ottenere una riduzione del debito del settore finanziario, come la Germania o gli Stati Uniti, nello stesso periodo, lo hanno fatto grazie ad un vergognoso assorbimento statale dei titoli tossivi privati. Sebbene la Cina sia il più importante motore di questo processo recente - incluso un aumento del 41% del debito dei settori finanziari, fra il 2007 ed il 2014, soprattutto del cosiddetto "shadow banking" -, sono ancora gli Stati Uniti i responsabili della maggior parte del debito globale.

Dal 2007 al 2014, gli Stati Uniti hanno innalzato il loro debito totale del 16%, arrivando ad un 233% del PIL. Si tratta di circa 40 mila miliardi di dollari, in obbligazioni da pagare da parte del governo, delle imprese e delle famiglie, qualcosa come un quinto di quello che è tutto il debito mondiale. Per garantire che lo Stato super-indebitato possa continuare a funzionare, negli ultimi anni il congresso americano ha dovuto riunirsi varie volte, per ottenere l'autorizzazione a continuare ad emettere legalmente ulteriori titoli di Stato. Tuttavia, il caso più grave qui non si riferisce solo al livello elevato dei debiti ammucchiati dai diversi settori economici (persino riducendo, cosa successa negli ultimi anni, il debito familiare con le sole carte di credito, il finanziamento per l'acquisto delle automobili ed il credito universitario, arriva a quasi 3.500 miliardi di dollari) [*14]. Uno degli indici di un'accumulazione monetaria senza precedenti, è il livello di leva finanziaria (o rapporto di indebitamento) raggiunto dai mercati finanziari, in particolare dal mercato immobiliare e dalle borse. Quella che oggi i giornali chiamano "ripresa" non è altro che l'effetto combinato di un indebitamento storico, una leva finanziaria dei mercati obbligazionari e di una nuova bolla del mercato degli immobili.
Gli indici economici più significativi, oggi mostrano un livello di rapporto di indebitamento nelle mercato azionario statunitense che si trova al di sopra perfino del picco del 1929, o del 2007, assai vicino al livello record raggiunto nel dicembre del 1999 (durante la bolla della new economy). Anche per quello che è il caso dei prezzi immobiliari, i livelli nazionali superano quelli del 2007, quando il brusco declino portò al collasso del settore. Se le borse stanno attraversando il secondo periodo più gonfiato della storia, il mercato immobiliare degli Stati Uniti è già entrato nel momento più critico, il che vuol dire che nel cuore del capitalismo mondiale si sta sviluppando non solo una crisi gigantesca, al livello dell'indebitamento raggiunto, ma anche un incalcolabile crollo immobiliare ed azionario. La crisi che sta arrivando sarà una mostruosa sintesi di tutti i grandi collassi della storia.
Naturalmente, non è possibile prevedere una data esatta per un simile evento. Forse è già iniziato a partire dalla crisi valutaria alla periferia del capitalismo, così come il declino delle monete virtuali potrebbe indicare il limite di una tale capacità di simulazione - in sei mesi, il bitcoin si è svalutato del 64%. Ma è quasi certo che i negoziati commerciali internazionali stanno aggiungendo benzina ad un incendio che comincia a diffondersi. La bravata protezionistica di Donald Trump, con la minaccia di innalzare barriere tariffarie su tutta una serie di prodotti dei paesi periferici (Brasile, Cina, Messico), e così come con i suoi recenti progressi nelle alleanze con gli europei e con i giapponesi (G7), per mezzo delle quali può usare ancora di più le sue capacità di eccedenza, in un mercato mondiale che ha già problemi di eccesso di merci.
Qui, si può ripetere, in un contesto molto più grave, quello che è avvenuto nel 1930 dopo l'approvazione delle legge Smoot-Hawley, quando un governo americano disorientato innalzò le tariffe di più di 20.000 prodotti importati, portando a rappresaglie sistematiche e ad una corsa protezionistica che aggravò la depressione fino a ridurre ulteriormente la circolazione delle merci in tutto il mondo. Ma se accadrà questo, corriamo il rischio di essere testimoni non solo dell'aggravamento della crisi strutturale del capitalismo, ma anche ad una generalizzazione del corto circuito monetario, che deve raggiungere anche la moneta mondiale.
Finora, proprio per la sua funzione di ultima moneta egemonica mondiale, il dollaro è stato il punto di fuga degli investimenti globali. Qualsiasi crisi, non importa la sua origine, portava immediatamente ad una corsa al dollaro, il quale per tale motivo si rafforzava rispetto alle altre monete. Perfino la crisi dei sub-prime, con il suo epicentro negli Stati Uniti, ha provocato un innalzamento del dollaro: l'effetto a cascata della crisi in tutto il mondo, ha finito per promuovere un'esternalizzazione dei rischi finanziari verso le altre valute. Nonostante tutti i problemi - in questo modo si comporta la risposta behaviorista del mercato -, l'apparato statale e militare degli USA deve restare in piedi, perfino nel collasso mondiale che esso stesso ha provocato. Con politiche commerciali basate sulla riduzione del deficit, con il quale dev'essere alimentato questo sistema multilaterale di indebitamento, è possibile che anche questo punto di fuga sia distrutto.
A partire dalla rottura dello standard dollaro-oro avvenuta nel decennio degli anni '70, gli Stati Uniti hanno trovato nel finanziamento esterno lo strumento per finanziare il suo consumo, anch'esso sempre più dipendente dal mercato internazionale. Nel 1972, gli Stati Uniti entrarono nel primo deficit commerciale successivo a quello del 1893 [*15], e da allora in poi non ne sono più usciti - quasi sempre accompagnato annualmente dai deficit fiscali e familiari. Con l'attuale politica incentrata sulla rottura di questo meccanismo di sostenimento dei deficit e di limitazione dei fornitori, gli USA corrono il rischio di fare implodere la loro debole valuta. Lo smantellamento di quello che è un circuito globale di finanziamento dei deficit nordamericano, finirà per eliminare il sostegno della sua stessa basse monetaria. Prodotta da un'epoca di basi economiche fragili, ed ora di una politica distruttiva, l'inevitabile crisi del dollaro aprirà un orizzonte ignoto di collasso economico mondiale.

- Maurilio Lima Botelho - Pubblicato il 23/7/2018 su Blog da BoiTempo


NOTE:

[*1] - «La mancanza di domanda in quanto mancanza di potere di acquisto sotto forma di denaro, non è altro che l'altra faccia di una mancanza della sostanza del valore degli stessi prodotti in quanto merci, vale a dire, di una mancanza generale di produzione di valore». Robert Kurz, "Denaro senza valore. Linee generali per una trasformazione della critica dell'economia politica".
[*2] - Karl Marx, "Il Capitale: critica dell'economia politica, Libro III: il processo globale di produzione capitalista.
[*3] - Manuel Esteve. O sistema monetário internacional. Rio de Janeiro: Salvat, 1979, p. 106.
[*4] - Robert Kurz. A crise do valor de troca (Rio de Janeiro: Consequência, 2018). [Se ne può leggere qui la traduzione in italiano]
[*5] - Il concetto di "merci di second'ordine" è stato sviluppato da Ernst Lohoff e Norbert Trenkle nel libro "La Grande Svalorizzazione. Perché la speculazione ed il debito dello Stato non sono le cause della crisi" ed in successivi articoli, principalmente da Lohoff. Questo concetto è divernto oggetto di un'accesa discussione nell'ambito della cosiddetta "critica del valore", dove l'interpretazione data dagli autori del gruppo "Exit!" si contrapponeva a quella dei collaboratori della rivista "Krisis". Si veda su questo il commento critico di Bernd Czorny su "Ernst Lohoff e l'individualismo metodologico".
[*6] - Marcos Barreira e Maurilio Botelho, “A implosão do ‘pacto social’ brasileiro”, revista Krisis, 21.06.2016.
[*7] - Alexandre Tanzi, “Global Debt at Record Level”, Bloomberg, 10.04.2018.
[*8] - Tutti questi numeri, le cui fonti sono principalmente il FMI e la McKinsey, sono disponibili su https://www.zerohedge.com/news/2015-02-23/biggest-problem-facing-world-today-9-countries-have-debt-gdp-over-300 . Giugno 2018.
[*9] - “Dívida externa argentina sobe 35% desde a chegada de Macri”, Frederico Rivas Molina, El País, 5 jan. 2018.
[*10] - Mylène Gaulard. La burbuja inmobiliaria em China. In: Revista Problemas del Desarrollo, 178 (45), julio-septiembre 2014, p. 71.
[*11] - Larry Elliott, “Are we heading for another developing world debt crisis?”, The Guardian, 14 jan. 2018.
[*12] - “Como a dívida pública do Brasil cresceu. E mudou seu perfil”, Nexo, 03 fev. 2018.
[*13] - “Dívida privada em dólar cresce 130%”, Estadão, 01 ago. 2015.
[*14] - “Financiamentos afundam os estudantes nos EUA: dívidas superam 5,9 trilhões de reais”, El País, 8 jun. 2018.
[*15] - Manuel Esteve. O sistema monetário internacional, p. 106.

fonte: Blog da BOITEMPO

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