venerdì 31 agosto 2018

In alamanno e… in greco…

dumezil

Il concetto di barbarie è di difficile definizione: esso infatti è mutevole perché cambia in base a chi osserva un modo di vita e lo qualifica come differente e inferiore. Differenze climatiche, geografiche e comportamentali hanno concorso nel mondo antico alla costruzione di barriere, di scissioni che frequentemente avevano una base etnica e talvolta razzista. Sono tuttavia numerose le sfumature con cui i greci prima e poi i romani si relazionarono con questi popoli posti al di fuori del mondo considerato civile: al disprezzo spesso si alterna l'ammirazione, per il vigore fisico e il coraggio, la supposta assenza di vizi e l'attitudine alla libertà. Si trattava di realtà che dunque percepivano con forza una reciproca alterità ma che non furono mai davvero impermeabili in nessun momento della loro storia, e particolarmente in quei secoli complessi e affascinanti che costituiscono la tarda antichità e l'alto medioevo. Bruno Dumézil, insieme a Sylvie Joye, Charlotte Lerouge-Cohen e Liza Mér, percorre l'avvincente storia dei rapporti tra la civiltà greco-romana e "i barbari", proseguendo con la caduta dell'Impero Romano e l'alto medioevo, per arrivare poi alle interpretazioni moderne e contemporanee in pagine che ricordano ipotesi e spunti dei grandi storici e presentano le più recenti prospettive della storiografia.

(dal risvolto di copertina di: Bruno Dumézil (a cura di): I barbari, Leg, pagg. 106, euro 14.)

Muscoli, sudore e coraggio. La civiltà sogna la barbarie.
- di Matteo Sacchi -

Si fa presto a dire barbaro. Del resto la parola, onomatopeica, ha appena tre sillabine, ed è frutto della fantasia degli antichi greci.
Secondo loro gli stranieri quando parlavano emettevano una sorta di incomprensibile «Bar-bar», che era il modo in cui dalle parti di Atene si scriveva quello che per noi è «Bau-bau», l'abbaiare dei cani.
Però l'idea di barbaro nel corso del tempo ha spesso cambiato significato. Il barbaro, a seconda della moda che tira, può essere: cattivo (per l'ateniese medio e per Tucidide), virtuoso (per Tacito), ignorante (per Plinio), spontaneo (per Rousseau), sexy e muscoloso (per Robert E. Howard), repellente e reumatico (per Terry Pratchett), morigerato (per Montesquieu), il padre di tutti i vizi (per Eschilo), uno specchio in cui guardarsi e ritrovarsi (per i tedeschi del XIX secolo ansiosi di crearsi una mitologia nazionale)...
Tutti questi cambiamenti culturali sono raccontati in un libro curato dal medievista francese Bruno Dumézil pubblicato dalle edizioni Leg e che si intitola proprio I barbari (pagg. 106, euro 14). Non è una storia dei barbari, anche perché per qualunque popolo i barbari sono sempre gli altri, ma una storia dell'idea di «barbari». Il volume contiene un sacco di chicche, si parte dalla Grecia classica e si segue l'evoluzione della parola e dell'idea attraverso i secoli e i contributi intellettuali dei più diversi autori: da Dionigi di Alicarnasso sino agli scrittori arabi che presero in prestito la parola (la usarono per i Berberi africani).
Ma forse la parte più interessante è quella finale dell'agile volumetto, a firma di Sylvie Joly, che prende in esame la modernità. Un'epoca in cui la barbarie è stata reinventata. Spesso in senso assai positivo. Certo, con gli umanisti sembrava che si fosse iniziato nel peggiore dei modi. Innamorati della romanità, vedevano il barbaro come il primo colpevole del Medioevo. Così, ad esempio, l'umanista Flavio Biondo (1390-1436), che inventò in maniera dispregiativa il termine «gotico», ovvero una architettura e una scrittura che erano roba da Goti. Poi però il clima cominciò a cambiare rapidamente, grazie al risveglio delle varie nazionalità. I romani divennero gli oppressori e i vari ribelli alla romanità dei barbari eroici precursori dell'orgoglio Britannico, Francese, Tedesco. Dai galli ai franchi, passando per i germani e i celti della regina Budicca, tutte le nazioni si trovarono il proprio eroe barbarico. Ne nacque anche un'archeologia nazionale a cui molto deve l'idea moderna di museo. Nacquero così ad esempio il Römisch-Germanisches Zentralmuseum o il museo nazionale di Copenaghen. Insomma, il museo etnografico va considerato «roba da barbari». Ma il meglio è arrivato con la cultura di massa. Comodi e felici sul nostro divano, ma un po' annoiati, abbiamo iniziato a considerare il mondo mitico dei barbari come una specie di età dell'oro. Ecco allora spuntare Conan il Barbaro, concepito nel 1932 dallo scrittore Robert E. Howard e diventato in seguito anche un classico del cinema. E poi sono arrivati anche i barbari moderni, i barbari di ritorno. Il giornalista Hunter S. Thompson nel suo libro sugli Hell's Angels li descrive come «un'orda di vandali saldati ai loro bestioni, come dei Gengis Khan su un cavallo d'acciaio». Del resto le stesse bande di motociclisti sceglievano nomi evocativi delle antiche orde, come Pagan's, Mongols, Vikings.
Ma il fenomeno è diventato ancora più evidente negli ultimi anni. Anche a partire dalle serie televisive. History channel ha lanciato una serie chiamata Barbarian Rising, dove i Romani sono ridotti solo e soltanto ad imperialisti cattivi. La nuova serie Britannia, in tempi di Brexit sembra non parlare solo al passato... Un nuovo nazionalismo che fa leva sul mondo antico (a torto o a ragione non sta a noi dirlo)? Potreste dire che è solo cultura pop che gioca con l'antichità. Ma se date un'occhiata a Le Figaro Litteraire di settimana scorsa c'è un gigantesco articolo che rivaluta Vercingetorige, un eroe che si batte contro la mondializzazione romana, il tutto a partire da una biografia del capo gallico appena editata da Gallimard (Vercingétorix di Jean-Louis Brunaux). E qui si passa al ribaltamento: che che ne dicesse Giulio Cesare i galli, secondo l'autore, erano molto grecizzati (anzi in osmosi col mondo greco) e colti, anche se profondamente autonomi. Insomma alla fine i barbari sarebbero quasi i legionari venuti da Sud che poi, da vincitori, avrebbero calunniato il nemico... Ma lo dicevamo all'inizio, ognuno è il barbaro di qualcun altro. E più si è civili più si ha voglia di sentirsi barbari (dal divano però...).

- Matteo Sacchi - Pubblicato sul Giornale del 23/2/2018 -

giovedì 30 agosto 2018

L’«Incidente»

crash

Lo schianto: più il come, che il perché
- di Michael Roberts -

Questa settimana, Adam Tooze si trovava a Londra per presentare il suo nuovo libro, "Crashed, How a decade of financial crises changed the world" [In italiano: "Lo schianto. 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo", Mondadori]. Tooze è anche l'autore di "The Deluge and The Wages of Destruction" [in italiano: Il prezzo dello sterminio, Garzanti editore]."Il prezzo dello sterminio" ha vinto il Premio Wolfson per la storia ed il Premio Logam come libro dell'anno. Adam Tooze ha insegnato a Cambridge e a Yale, ed oggi insegna storia alla Columbia University. A mio avviso, egli è il più importante storico economico radicale.

Il nuovo libro di Tooze apporta un enorme contributo alla storia economica del collasso finanziario globale del 2008-9. Tooze ci mostra che cosa sia successo e come è nato quello che è stato il più grande boom del credito dei primi anni 2000 che alla fine ha portato al più grande disastro finanziario che ci sia mai stato nelle economie moderne, ed al conseguente crollo della produzione capitalista, il peggiore dagli anni '30. E conclude dicendo che il modo in cui questo schianto è stato trattato dai "poteri" - vale a dire, attraverso i salvataggi delle banche e la salvaguardia della ricchezza dei più ricchi, a pese di tutti noi - ha provocato l'emergere di una reazione "populista" contro il "capitalismo", sia da parte della sinistra, come in Grecia o in Spagna, sia da parte delle persone di destra, come è avvenuto con Trump, con la Brexit, e con la Lega in Italia. Quindi, l'eredità dei primi dieci del capitalismo del XXI secolo, nel secondo decennio, è ancora con noi. E peggio ancora, il problema soggiacente di fondo, quello del debito crescente e del settore finanziario fuori controllo, non è stato ancora risolto. La crisi finanziaria del 2008-9 potrebbe benissimo ritornare.
Prima di Tooze, ci sono state altre intriganti analisi del grande crollo finanziario. La più popolare è stata "The Big Short"[in italiano, "La Grande Scommessa", Rizzoli], di Michael Lewis (da cui è stato tratto anche un film). Lewis ci racconta la storia delle banche di investimento che vendevano obbligazioni ipotecarie "tossiche" ai loro clienti (che erano principalmente altre banche di investimento ed individui ricchi, spesso in Europa), ben sapendo quello che stavano facendo. Non appena la bolla finanziaria cominciò a scoppiare, questa banche cominciarono a vendere segretamente al ribasso (scommettendo sul collasso). Come scrive Lewis nel suo libro, «Goldman Sachs non abbandonò la casa prima che essa incominciasse a bruciare; semplicemente, fu il primo a precipitarsi verso l'uscita - e una volta che lo ha fatto, si è chiuso dietro la porta.»
Nel mio libro su questo stesso periodo, "The Great Recession" - il quale è un resoconto cronologico, mese per mese, della crisi dal 2005 al 2010 - descrivo nei particolari come le grandi banche siano sfuggite alle conseguenze di questa truffa, grazie al governo degli Stati Uniti. Infatti, tutta la brutta storia delle attività di Goldman Sachs e delle altre banche di investimento, prima, durante e dopo che la stretta creditizia e la Grande Recessione mendicassero fiducia.
Ma il lungo libro di Tooze copre le significative crisi finanziarie dei dieci anni precedenti in maniera più dettagliata di quanto abbiamo fatto sia io che Lewis - ed ha una portata globale. La sua lunghezza non significa affatto che sia noioso, nella misura in cui ci mostra i principali attori, e ci fa vedere le loro decisioni attraverso dei grafici. Ci mostra come si siano assicurati che le banche più forti e più fortunate guadagnassero a spese di quelle più deboli e più piccole, e ci mostra come l'intervento governativo abbia fornito fondi ai colpevoli del disastro finanziario a spese delle vittime, delle popolazioni lavoratrici, dei contribuenti e delle piccole imprese. Si è trattato di «socialismo per il ricco e capitalismo per il povero»: è questa la sostanza dell'ordine capitalista.
In particolare, Tooze sottolinea il fatto che il crollo non sia stata tanto la storia del diffondersi del contagio finanziario degli Stati Uniti all'Europa. Quanto il fatto che il boom del credito in Europa sia stato altrettanto forte. Come osserva Tooze, «Il flusso di fondi in Europa, come quello dell'economia globale, è stato guidato non da dei flussi commerciali, ma dalla logica affaristica dei banchieri, i quali mettevano a confronto il costo del finanziamento con quello del rendimento che si attendevano». In realtà, la stretta creditizia , che ha avuto inizio in Francia con la BNP, e che è stata ben presto seguita dalla Nortern Rock in Gran Bretagna.
Ciò che non sorprende i lettori come me che hanno studiato i fallimenti dell'economia mainstream e le autorità ufficiali prima dello schianto, è il fatto che Tooze mostra che i poteri competenti non erano affatto competenti. Hanno fallito nel vedere arrivare la crisi, hanno negato che stava accadendo e in seguito non sarebbero riusciti a spiegare perché fosse avvenuta. Non citerò tutte le idiozie delle persone importanti prima della crisi, e la loro sorpresa sbalordita quando è avvenuta. Lo fa Tooze. Ma ci sono due esempi che vale la pena riportare.

Nel gennaio del 2007, appena sei mesi prima dell'inizio della stretta creditizia globale e del collasso della finanziaria inglese Northern Rock, Gordon Brown, il ministro della finanze (Chancellor) del Regno Unito, ha tenuto un discorso durante una cena di banchieri nella City di Londra, proprio poco prima che egli diventasse Primo Ministro. Ha detto: «Durante i dieci anni nei quali ho avuto il privilegio di rivolgermi a voi in qualità di ministro, ho potuto, anno dopo anno, registrare come la City di Londra sia cresciuta grazie ai vostri sforzi, alla vostra ingegnosità ed alla vostra creatività per diventare una leader mondiale... un'epoca che la storia registrerà come l'inizio di una nuova età dell'oro per la City... La Gran Bretagna ha bisogno ancora del vigore, dell'ingegnosità e dell'ambizione che avete già dimostrato essere le caratteristiche del vostro successo.»
Dopo il collasso finanziario e nel bel mezzo della conseguente Grande Recessione, al grande timoniere e "guru" del precedente boom creditizio , oltre che fautore e sostenitore della "ingegneria finanziaria" e dei derivati, Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve, venne chiesto, nel corso dell'inchiesta sul disastro svolta Congresso degli Stati Uniti, il motivo per cui questo era successo. Egli rispose: «Mi trovo in uno stato di scioccata incredulità.» All'ulteriore domanda: «In altre parole, hai scoperto che la tua visione del mondo, che la tua ideologia era sbagliata, che non stava funzionando (House Oversight Committee Chair, Henry Waxman)». «Assolutamente, esattamente, è proprio questa la ragione per cui sono sotto shock, perché ho vissuto per 40 anni o più con la prova evidente che tutto questo stava funzionando maledettamente bene. »
Nel leggere questo, si può trovare un po' strano il fatto che Tooze sembri trovare il ruolo di Alan Greenspan, di Larry Summers (ex segretario del Tesoro) o di Hank Paulson (il capo di Goldman Sachs che in seguito al collasso è diventato segretario del Tesoro) e degli altri attori del collasso, come persone che avevano fatto il meglio che potevano, piuttosto che arroganti sostenitori della "ingegneria finanziaria" che aveva portato al collasso. Questi protagonisti ne escono fuori tutto sommato bene se paragonati alla corretta critica di Tooze nei confronti di economisti keynesiani come Paul Krugman, che stimavano anch'essi che il settore finanziario fosse stabile, e non sarebbe stato il catalizzatore di una crisi. Naturalmente, dopo il crollo, Krugman aveva attaccato l'economia mainstream per aver fallito nel non averla vista arrivare.
"Crashed" ci fornisce il resoconto più granulare ed affascinante del crollo e delle sue conseguenze. Ci mostra potentemente quello che è successo e come è successo, ma secondo la mia opinione non ci fa vedere in maniera adeguata il perché questo sia accaduto. Ma forse non è questo il lavoro di uno storico economico, e farlo tocca all'economia politica. Per Tooze, le cause sembrano essere la deregolamentazione del sistema bancario, l'avidità finanziaria e l'incompetenza delle autorità. Per me, questo sono solo i sintomi, o i catalizzatori immediati delle cause soggiacenti all'economia capitalista.

Come ha detto Martin Wolf, nella sua recensione di "Crashed", «Anche una storia così completa soffre di omissioni. Tooze si focalizza sull'idea che alla fine la causa della crisi sia stata la crescita del bilancio dei settori finanziari. Non presta abbastanza attenzione al perché i politici abbiano avuto bisogno che ciò accadesse.» Wolf ci offre la sua spiegazione causale in termini keynesiani: «La spiegazione, come ho argomentato nel mio libro, "The Shifts and the Shocks", risiede nell'eccesso di risparmio globale e negli squilibri macroeconomici globali, associati a tale eccesso di risparmio. L'esistenza, in alcuni paesi, di enormi surplus esterni, hanno reso necessari enormi deficit in altri paesi. Le banche centrali, per raggiungere gli obiettivi macroeconomici, hanno avuto bisogno della crescita del credito.»
Ma la spiegazione data da Wolf è altrettanto inadeguata: quale è stata la causa di questo globale eccesso di risparmio e di questi "squilibri" che sono sorti negli anni 2000? A dirla tutta, in realtà, il surplus di risparmio era una carenza di investimenti. Ed il rallentamento dell'investimento globale, in particolare nelle economie capitaliste avanzate, è stato uno dei prodotti della caduta della redditività, a partire dalla fine degli anni '90 in poi - e si tratta di qualcosa che sia io che altri abbiamo documentato.
Secondo l'opinione di Tooze, «Queste crisi sono difficili da prevedere, o da definire in anticipo,» e, a meno di una maggiore regolamentazione, non c'è niente che possiamo fare. In un certo senso, fino a che il capitalismo continua ad essere il modo dominante di produzione a livello globale, è più o meno giusto che sia così. Tutto questo mi ricorda quello che ha detto Greenspan nella sua sintesi finale della crisi: «Dubito che la stabilità possa essere realizzabile nelle economie capitaliste, dato che i mercati competitivi sempre turbolenti vengono continuamente attratti, ma non raggiungono mai un equilibrio». Ed ha proseguito, «a meno che non si verifichi una scelta sociale di abbandono dei mercati dinamici, e si sfrutti una qualche forma di pianificazione centrale, temo che dopo tutto impedire la formazione delle bolle si rivelerà irrealizzabile. Tutto ciò che possiamo sperare di fare, è mitigare le conseguenze.»
Riguardo al futuro, Tooze è pessimista. Economicamente, vede un collasso futuro, probabilmente a causa di un evento disastroso nella Cina indebitata. Secondo il mio punto di vista, è più probabile che l'evento catastrofico avvenga nel cuore del Capitale: nel settore aziendale degli Stati Uniti e dell'Europa.
Politicamente, ci avverte che il collasso del 2008, e la risposta dell'ordine dominante, hanno creato le condizioni per una "democrazia illiberale". Egli sostiene che il successo del Tea Party e dell'estrema destra americana provenga direttamente da questo. E così ora abbiamo Donald Trump, Puti, Brexit, Erdogan e l'ascesa dell'estrema destra in Europa.
Ma il populismo - così come viene chiamato dal mainstream - ha preso anche una svolta a sinistra, con Syriza (finché non è arrivata la crisi); con i gruppi di sinistra in Spagna, così come con Corbyn nel Regno Unito. L'opposizione alle principali soluzioni capitaliste (salvataggio delle banche, austerità e mercato libero, "ordinaria amministrazione") non proviene unicamente e solo dalla destra nazionalista reazionaria.

- Michael Roberts - Pubblicato il 24 agosto 2018 -

Fonte: Michael Roberts Blog - blogging from a marxist economist

mercoledì 29 agosto 2018

Decresci e crepa!

jappe

Intervista ad Anselm Jappe
- di "El Viejo Topo", dal dossier dedicato alla decrescita -

Domanda: A che cosa attribuisci l'attuale boom del discorso sulla decrescita?

Jappe: In realtà, la parte di opinione pubblica che attualmente è sensibile al discorso della decrescita, oggi appare essere abbastanza ristretta. Tuttavia, sta crescendo abbastanza. Ciò riflette una presa di coscienza di fronte a quelli che sono i più importanti sviluppi avvenuti negli ultimi decenni: soprattutto il fatto che è evidente che lo sviluppo del capitalismo ci sta trascinando verso una catastrofe ecologica, e che non saranno certamente dei nuovi filtri, o delle automobili meno inquinanti, a risolvere il problema. C'è una diffusa sfiducia a proposito dell'idea che uno sviluppo economico perpetuo possa essere desiderabile, e allo stesso tempo c'è insoddisfazione per quelle critiche del capitalismo che essenzialmente gli rimproverano solo un'iniqua distribuzione della ricchezza ed i suoi eccessi - come la guerra e le violazioni dei "diritti umani". L'interesse per il concetto di decrescita, traduce la crescente impressione secondo la quale la direzione del viaggio che ha intrapreso la nostra società sia sbagliata, almeno da alcuni decenni. E quella che ci troviamo davanti è una "crisi di civiltà", una crisi di tutti i suoi valori, anche al livello della vita quotidiana (culto del consumo, velocità, tecnologia, ecc.). Siamo entrati in una crisi che è simultaneamente economica, ecologica ed energetica, ed il discorso sulla decrescita considera tutti questi fattori in quella che è la loro interazione, anziché voler riattivare la crescita per mezzo di "energie verdi", come propone una parte dell'ambientalismo, oppure quando si propone una gestione diversa della società industriale, come fa una parte della critica erede del marxismo. La decrescita piace, anche perché propone dei modelli di comportamento individuale che possono essere praticati qui ed ora, ma senza che si debba limitare ad essi, ed in quanto riscopre delle virtù essenziali, come la convivialità, la generosità, la semplicità volontaria e il dono. Ma allo  stesso tempo attrae anche grazie al suo volto gentile, che riesce a far credere che si possa arrivare ad un cambiamento radicale attraverso un consenso generalizzato, senza passare attraverso antagonismi ed evitando dei duri conflitti. Si tratta di un riformismo che vuole essere autenticamente radicale.

Domanda: come ti poni rispetto al dibattito sulla decrescita? Ti convince la sua analisi e le sue proposte?

Jappe: Il pensiero della decrescita ha indubbiamente il merito di voler rompere con il produttivismo e con l'economicismo, che per molto tempo hanno costituito la base comune alla società borghese ed alla sua critica marxista. In generale, la critica profonda del modo di vita capitalistico sembra essere più presente nei decrescitisti piuttosto che, per esempio, nei sostenitori del neo-operaismo, i quali continuano a credere che lo sviluppo delle forze produttive (in particolare, nella sua forma informatica) condurrà all'emancipazione sociale. I partigiani della decrescita cercano di scoprire elementi di una società migliore nella vita di oggi - spesso provenienti dall'eredità delle società precapitaliste, come l'atteggiamento nei confronti del dono. Dal momento che non corrono il rischio, come fanno altri, di scommettere sul proseguimento della decomposizione di tutte le forme di vita tradizionale e sulla barbarie, che presumibilmente si prepara ad una miracolosa rinascita come, per esempio, fanno in Francia, la rivista Tiqqun e suoi successori). Il problema consiste nel fatto che i teorici della decrescita si perdono nella vaghezza per quanto riguarda le cause della dinamica della crescita.
Nella sua critica dell'economia politica, Marx ha già dimostrato che la sostituzione della forza lavoro umana con, ad esempio, l'utilizzo della tecnologia, riduce il "valore" rappresentato nella merce, e la cosa spinge il capitalismo ad aumentare in maniera permanente la produzione. Sono le categorie di base del capitalismo - il lavoro astratto, il valore, la merce, il denaro, che non appartengono assolutamente a tutti i modi di produzione, bensì unicamente al capitalismo - a generare il suo cieco dinamismo. Ma al di là del limite estremo, costituito dall'esaurimento delle risorse, il sistema capitalista contiene fin dall'inizio un suo limite interno: l'obbligo a ridurre - a causa della concorrenza - il lavoro vivente che costituisce allo stesso tempo l'unica fonte del valore. Da alcuni decenni, questo limite sembra sia stato raggiunto e la produzione del valore "reale" è stata in gran parte sostituita dalla sua simulazione nella sfera finanziaria. Inoltre, i limiti esterni ed interni hanno cominciato ad apparire in piena luce e contemporaneamente: intorno al 1970: L'obbligo a crescere è quindi consustanziale al capitalismo. Il capitalismo può esistere solamente come fuga in avanti e come crescita materiale perpetua per compensare la diminuzione del valore. Perciò, una vera e propria decrescita è possibile solamente a costo di una totale rottura con la produzione delle merci e con il denaro. Ma in generale i "decrescitisti" arretrano assai prima di questa conseguenza, che a loro appare essere troppo "utopica". Alcuni di loro hanno sottoscritto lo slogan: "uscire dall'economia". Ma la maggioranza rimane nel quadro di una "scienza economica" alternativa e sembra credere che la tirannia della crescita sia solo una sorta di equivoco che potrebbe essere attaccato sistematicamente a forza di dibattiti scientifici che discutono sul modo migliore di calcolare il PIL. Molti "decrescitisti" cadono nella trappola della politica tradizionale e vogliono partecipare alle elezioni, oppure consegnare petizioni rivolte ai parlamentari. A volte si tratta di un discorso un po' "snob", quello stesso con cui i ricchi borghesi placano il proprio senso di colpa raccattando ostentatamente le verdure che vengono scartate alla chiusura del mercato. E se la volontà di eludere la divisione fra la sinistra e la destra può sembrare inevitabile, oggi bisogna chiedersi perché la "Nuova Destra" abbia mostrato interesse per la decrescita, così come dobbiamo interrogarci a proposito del rischio di cadere in un'apologia acritica delle società "tradizionali" del Sud del mondo.
In breve, direi che il discorso dei decrescetisti mi sembra più promettente di molte altre forme della critica sociale contemporanea, ma rimane ancora molto che dev'essere sviluppato, e soprattutto devono perdere le loro illusioni circa la possibilità di addomesticare la bestia capitalista solo per mezzo della buona volontà.

Domanda: Prima hai menzionato alcuni punti deboli, ed altri positivi, della teoria della decrescita. Ma lo slogan "uscire dall'economia" non testimonia una certa ignoranza riguardo alla difficoltà di creare nel capitalismo delle isole di decrescita? Altre forme di critica sociale contemporanea conoscono i processi contraddittori esistenti dentro le società capitaliste e l'importanza delle lotte sociali, un aspetto che sembra sottovalutato nel discorso decrescitista. Pensi che sia così?

Jappe: C'è una certa follia nel credere che la decrescita potrebbe diventare la politica ufficiale della Commissione Europea, o qualcosa di simile. Un "capitalismo decrescente" sarebbe una contraddizione in termini, altrettanto impossibile che un "capitalismo ecologico". Se la decrescita non vuole ridursi ad accompagnare e a giustificare il "crescente" impoverimento della società - e questo rischio è reale: una retorica della frugalità potrebbe servire ad indorare la pillola per i nuovi poveri (che potrebbero arrivare a dover frugare nel cassonetto della spazzatura) e trasformare quella che è un'imposizione in un'apparenza di scelta - bisogna prepararsi agli scontri e agli antagonismi. Ma questi antagonismo non coincidono più con quelli tradizionali, costituiti dalla "lotta di classe".
Un necessario superamento del paradigma produttivistico - e dei modi di vita corrispondenti - troverà resistenza in tutti i settori sociali. Una parte delle attuali "lotte sociali" in tutto il mondo, è essenzialmente la lotta per l'accesso alla ricchezza capitalistica, senza mettere in discussione il carattere di questa presunta ricchezza. Un lavoratore cinese, o indiano, ha mille ragioni per rivendicare un salario migliore, ma nel momento in cui lo riceve, con ogni probabilità si comprerà un'automobile, e contribuirà così alla "crescita" e alle sue conseguenze nefaste rispetto alla sfera ecologica e sociale. Speriamo che le lotte per migliorare la situazione degli sfruttati e degli oppressi si sviluppino simultaneamente, insieme agli sforzi per superare il modello sociale fondato su un consumo individuale eccessivo. Forse certi movimenti contadini nel Sud del mondo si muovono in questa direzione, soprattutto se recuperano alcuni elementi delle società tradizionali, come la proprietà collettiva della terra, oppure l'esistenza di forme di riconoscimento dell'individuo che sono in relazione con la sua fortuna sul mercato.- Pubblicato il 20 agosto 2018 -

fonte: decrecimiento. Salir de la adicción jerárquica, poner en el centro la vida

martedì 28 agosto 2018

Da dove? Da quando?

1947_cover_alta

1947 è il vertiginoso racconto di un anno in cui la politica e la grande Storia si fondono con gli eventi quotidiani. Un anno trascurato e apparentemente insignificante, in cui un vecchio ordine cade e ne sorge uno nuovo, ma soprattutto l’anno dove inizia il nostro presente.
Dove comincia il presente? Quando nascono le forze, i conflitti e le idee che governano la nostra epoca? Inseguendo le tracce della famiglia che non ha mai potuto conoscere, Elisabeth Åsbrink ci trasporta in un anno cruciale del ’900, nel momento in cui l’Occidente, reduce dal Secondo conflitto mondiale, è di fronte a una serie di bivi e possibilità ancora aperte, e compie scelte decisive per i nostri giorni. È il 1947 quando scoppia la Guerra fredda, viene istituita la CIA e Kalašnikov inventa l’arma oggi più diffusa al mondo; l’ONU riconosce lo Stato di Israele e il figlio di un orologiaio egiziano lancia il mo­derno jihad. È solo nel ’47 che viene redatta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, prima sconosciuti all’umanità quanto il termine «genocidio», coniato da un giurista polacco che ha perso la famiglia nei Lager. E mentre una rete clandestina di organizzazioni internazionali mette in salvo i gerarchi del Reich e rilancia gli ideali fascisti, Primo Levi riesce a pubblicare Se questo è un uomo, un disilluso George Orwell scrive il profetico 1984 e Christian Dior crea il suo controverso New Look. In mezzo a tutto questo, tra le masse di profughi ebrei che attraversano l’Europa in cerca di una nuova vita, c’è il padre dell’autrice, un orfano ungherese di dieci anni, davanti a una scelta che deciderà il suo futuro. In un racconto poetico e documentatissimo, che ci cala nei destini di personaggi d’eccezione e persone comuni, Åsbrink ricompone il puzzle di un anno emblematico per la sua identità personale e per quella collettiva. E scavando nei retroscena degli eventi, fino agli istanti in cui la Storia avrebbe potuto prendere un altro corso, arriva all’origine di quei nodi che non abbiamo ancora sciolto.

(dal risvolto di copertina di: Elisabeth Asbrink: 1947, Iperborea, pagg. 314, euro 18)

Perché è il "1947" l'anno che ha fatto la nostra storia
- di Eleonora Barbieri -

«Un anno decisivo per il mondo e per l'Europa, oltre che per la mia storia personale» dice la scrittrice svedese, in Italia per presentare il suo libro che s'intitola, appunto, 1947 (Iperborea, pagg. 314, euro 18; trad. Alessandro Borini). Ha fatto la giornalista per molti anni: è lei che, nel 2010, ha rivelato che il leggendario fondatore dell'Ikea Ingvar Kamprad a 17 anni si era iscritto al partito nazista svedese. Asbrink procede, mese dopo mese, luogo dopo luogo, apparentemente «riportando» i fatti («verificati e verificabili» precisa) di quel 1947: «La cronologia è una sorta di meravigliosa struttura di base, che chiunque comprende; però, intorno a questa ingegneria molto stabile ho potuto fare digressioni, essere molto libera». Nel 1947, in una sola settimana di fine febbraio, succedono tre cose che scatenano un «effetto domino» mai esaurito: «Il 18 febbraio la Gran Bretagna dice al mondo: non vogliamo più la Palestina, decidano le Nazioni unite che cosa fare. Due giorni dopo, il giovedì, ancora la Gran Bretagna dichiara: l'India sarà indipendente. Trecentocinquanta anni di Impero crollano. Lord Mountbatten, lo zio di Filippo di Edimburgo, va in India per organizzare il percorso dell'indipendenza, ma ha fretta. E questo ha conseguenze catastrofiche: 14 milioni di rifugiati». Negli anni '60, Lord Mountbatten ammetterà: «Ho fatto un casino». Quella settimana di febbraio non è finita: «Al venerdì, sempre la Gran Bretagna annuncia che non darà più soldi a Turchia e Grecia. Così Truman chiede dollari al Congresso, perché non finiscano nell'orbita di Stalin. Nascono la dottrina Truman, la lotta al comunismo e, in settembre, la Cia». È la Guerra fredda.
L'Europa intanto è piena di rifugiati (oltre che di nazisti in fuga...), soprattutto ebrei che vogliono andare in Israele. Fra questi profughi, in un campo nel Sud della Germania, c'è un bambino, che in realtà non è orfano come tutti gli altri e che diventerà il padre di Elisabeth Asbrink. Ha dieci anni e deve scegliere, da solo, se partire per un kibbutz, oppure tornare con la madre a Budapest. Siccome la mamma ha in borsa delle succulenti salsicce ungheresi, decide per la seconda opzione. «Oggi dice che forse avrebbe scelto diversamente». Nel '56 sarà costretto a fuggire di nuovo, e andrà in Svezia. Così, dice Asbrink, «la storia ci influenza, sempre: non è mai dietro di noi. Mio padre, da rifugiato, guarda sempre avanti; io invece indietro. Ci compensiamo». In quell'anno si pongono «nuovi standard morali» con il processo di Norimberga, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, la battaglia di Raphael Lemkin per istituire il «genocidio» come crimine. «Tutto è in movimento, ogni cosa deve essere ricreata; perché tutto era stato sovvertito, ed era finito in un abisso». Il 1947 è un anno di grandi invenzioni: «I transistor, la Polaroid, i film a colori, purtroppo anche il Kalashnikov. E il jihad, perché Hasan al-Banna introduce il culto della morte: un'arma che funziona tuttora. Al-Banna era amico del Gran Muftì di Gerusalemme, a sua volta amico di Hitler: ci sono echi nella storia, collegamenti inquietanti». C'è anche un uomo, in quel 1947, che ha previsto il nostro futuro: è malato, è solo col figlio su un'isola remota delle Ebridi e per tutto l'anno scrive un romanzo, che sarà un classico. S'intitola 1984.

- Eleonora Barbieri - Pubblicato sul Giornale del 10/4/2018 -

lunedì 27 agosto 2018

Vaniloqui

herge

Il libro raccoglie gli scritti che per oltre trent'anni il filosofo francese Michel Serres ha dedicato al disegnatore Hergé (al secolo Georges Remi): testimonianza e ritratto di un artista, ma anche lettura acuminata, scrupolosa e attenta - quasi tavola per tavola - delle sue strisce nella convinzione che la filosofia, abbandonata la pedanteria dei grandi sistemi, abbia trovato rifugio nell'arte fumettistica, di cui Hergé fu un ineguagliato maestro.

(dal risvolto di copertina di: Michel Serres, Hergé mon ami, edizioni Portatori d’acqua.)

Tintin, ciuffo ribelle, alla scoperta dell’antropologia
- di Mario Porro -

Spesso la filosofia non sta dove la si cerca abitualmente. Nel 1970 sulla prestigiosa rivista Critique, Michel Serres propose una lettura strutturale di un fumetto, I gioielli della Castafiore, 21° albo delle Avventure di Tintin, datato 1963. Dopo averci condotto in paesi lontani, inseguendo misteri archeologici e tesori da scoprire ben prima di Indiana Jones, nei Gioielli Hergé mette in scena la nostra società, sempre più dominata dalle tecniche della comunicazione. Tutti i personaggi parlano ma nessuno intende e, anzi, mentre crescono i messaggi si moltiplicano i disturbi, i malintesi e le distorsioni: è nei comics che possiamo trovare la versione contemporanea della solitudine delle monadi, incapaci di comunicazione una volta venuta meno l’armonia prestabilita che in Leibniz era garantita da Dio.
Il fumetto mette in evidenza le piaghe del linguaggio, il suo girare a vuoto fino a ridursi a una serie di stereotipi e strafalcioni: I gioielli della Castafiore sono un trattato filosofico sull’incomunicabilità nel tempo in cui Tv e giornali si dispongono come parassiti agli incroci per i quali transitano le informazioni. Il dialogo si trasforma in vaniloquio e il messaggio in merce contraffatta.
Sotto il segno di Mercurio Hergé nei Gioielli crea molto rumore con una serie di «nulla», producendo una commedia degli specchi e delle maschere, a partire dal furto di gioielli della Castafiore, cantante lirica vanesia e scocciatrice. È lei, la cantante, a occupare il centro della scena, parassita che mangia alla tavola dell’ospite, prende tutto in cambio del rumore dei vocalizzi che coprono i discorsi; al vertice della catena degli scambi, la Castafiore parla a tutti e non ascolta nessuno, si compiace delle fake news sul suo matrimonio e i suoi gioielli. Nell’albo illustrato viene rappresentata la società dello spettacolo e del simulacro, dove il messaggio veicola solo se stesso e la comunicazione si nutre dei propri scarti.
Serres aveva affermato nei primi anni Sessanta che il nostro tempo non vive più sotto l’egida di Prometeo, emblema della civiltà dominata dalla produzione, ma sotto il patronato di Ermes, messaggero degli dei, dio dei commerci, degli incroci e dei ladri. Anche l’Italo Calvino delle Lezioni americane scelse come suo nume tutelare Ermes/ Mercurio, il dio della leggerezza della scrittura che mette in comunicazione leggi universali e casi individuali, forze della natura e forme della cultura.
Apparizione di Ermes era il titolo di un saggio del ’67 (se ne trova la traduzione nel numero monografico che la rivista Riga ha dedicato a Serres nel 2015) in cui il filosofo francese analizzava il Don Giovanni di Molière. Il seduttore per antonomasia non rispetta la parola data, non paga i suoi debiti, non si piega alla logica dello scambio/dono, la stessa che il Saggio sul dono di Marcel Mauss rintraccia fra le tribù dei «primitivi». Si tratti di donne, di parole o di denaro, don Giovanni trasgredisce l’obbligo della cortesia che regola la commedia dei rapporti umani, sulla scena come in società. In apertura del sipario, don Giovanni rifiuta il tabacco che gli viene offerto, ma chi non si integra alla legge della circolazione dei beni finisce condannato a morte.
Nella letteratura, come nell’arte nuova della bande dessinée, le scienze umane sono implicate da sempre. La saga illustrata di Hergé (il suo vero nome era Georges Rémi) era cominciata nel gennaio del 1929 e aveva permesso ai ragazzi della generazione di Serres (e di quelle successive) di identificarsi in Tintin, eterno ragazzino dal ciuffo ribelle e dal volto inespressivo; quella testa, un semplice ovale in cui occhi e bocca sono semplice punti, è come la finestrella delle fiere in cui si può infilare il proprio viso per ritrovarsi negli abiti dell’eroe. Gli albi di Hergé svolgono lo stesso ruolo dei Viaggi straordinari di Jules Verne, permettono di viaggiare con la fantasia e insieme acquisire una conoscenza enciclopedica. Allo scrittore dell’Ottocento, emblema della letteratura per l’infanzia o di una certa infanzia della letteratura, Serres dedicò nel ’74 un saggio esemplare (tradotto da Sellerio) che si apriva con le parole: «ho voluto frugare fra i resti del cadavere amaro che porto in me: il bambino». In Verne i viaggi prendono le mosse dal Museo delle scienze naturali, dall’astronomia per salire sulla Luna, dalla geologia per scendere nel cuore della Terra, dalla biologia per inabissarsi con il capitano Nemo.
Hergé, «il Jules Verne delle scienze umane», ci introduce invece alla storia e all’antropologia, compiendo la stessa traiettoria degli etnologi del primo Novecento: dalla mentalità dei colonizzatori approda a un radicale anti-colonialismo e al rifiuto del razzismo. L’orecchio spezzato – del 1937 –, un vero e proprio «manuale di etnologia», ci conduce nel cuore della foresta amazzonica in cerca di una statuetta rubata: il segreto mantenuto sepolto dai «primitivi» è che il feticcio è il sostituto del cadavere del sovrano ucciso; la prima statua prende il posto della vittima e permette di superare i sacrifici umani.

Una sorta di santo laico

Dopo l’articolo apparso su Critique, Serres trovò nel cartoonist belga un «amico di vecchiaia» a cui dedicò diversi saggi, poi raccolti in Hergé mon ami, ora tradotto dalla casa editrice pesarese Portatori d’acqua (a cura di Domenico Scalzo, traduzione di Simone Messa, pp. 180, euro 20,00). Nella postfazione, seguendo il filo rosso suggerito da Benjamin riguardo al rapporto fra immagine e infanzia, Domenico Scalzo mostra con rigore e competenza come le riflessioni su Hergé si inseriscano nella trama complessa del pensiero di Serres. E questo non solo per una certa comunanza di temi – dalla comunicazione al sacrificio come atto di fondazione che Serres ha ritrovato nelle storie di Tito Livio (Roma. Il libro delle fondazioni, Hopefulmonster, 1991) – ma soprattutto perché gli albi di Hergé sono trattati di morale in cui si pone con nettezza la questione del Bene e del Male.
Tintin è una sorta di santo laico, un «cuore puro», che incarna con profonda ingenuità il boy-scout ideale. Partito per un «viaggio umanitario» in cerca del suo amico scomparso fra le vette dell’Himalaya, Tintin in Tibet rinnova la parabola del Buon Samaritano; l’amico è stato salvato dallo yeti che si comporta con dolcezza e carità: è l’esclusione ad aver fatto del prossimo un essere lontano, che tutti prendono per un mostro selvaggio. Tintin riduce le distanze che le scienze umane istituiscono fra chi studia e chi è oggetto di studio: «assisteremo mai alla nascita delle scienze umanitarie?», chiede Serres. La condanna dell’etnocentrismo non si traduce in una concezione etica «relativista», che mette sullo stesso piano tutti i valori; il comportamento di Tintin è ispirato all’ideale del pacifismo e della non violenza, un ideale che Serres (critico dei versi cruenti della Marsigliese) contrappone al bellicoso orgoglio nazionalista di Astérix.

- Mario Porro - Pubblicato su Alias del 18.2.2018 -

domenica 26 agosto 2018

La casalinga sveva e i parassiti della società

troppo casalinga

Questa società è troppo ricca per il capitalismo!
- di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle -

Due posizioni apparentemente inconciliabili caratterizzano la controversia politica su come vada affrontata la crisi. Mentre gli uni, per rilanciare la crescita economica, vogliono ancora continuare sempre ad aprire le valvole monetarie ed applicare dei nuovi programmi congiunturali, gli altri difendono un rigoroso orientamento all'austerità. I due campi pretendono che, nel caso venga applicato il loro piano, la crisi potrà essere superata, e che il modo di produzione capitalistico potrà essere ripristinato su delle solide basi. Si potrebbe pensare che ancora una volta stiamo assistendo al vecchio dibattito che opponeva l'orientamento keynesiano a quello liberale, un dibattito cui nel secolo passato abbiamo assistito tante volte. Ma dove il sistema di riferimento a tale controversia viene meno, in quanto la crisi indebolisce in maniera irrevocabile le basi della produzione della ricchezza capitalistica, ecco che la cosa degenera in sinistra farsa. Tuttavia, i protagonisti non se ne rendono nemmeno contro, oppure riescono benissimo a fare finta di niente. Continuano ad interpretare instancabilmente lo stesso spettacolo, mentre la scena sotto i loro piedi appare essere sempre più decrepita. Il conflitto fra le loro visioni non rimane tuttavia senza conseguenze, poiché, anche se nessuno dei due piani è in grado di offrire un'uscita dalla crisi, nondimeno assegnano il loro carattere alla gestione di tale crisi, e quindi anche alle ripercussioni concrete che tali misure hanno sulla società.
In Germania, la politica di austerità gode tradizionalmente di un favore particolare. Si sente dire dappertutto che la società avrebbe «vissuto a spese dell'avvenire», e che nel presente si tratta di dover fare delle economie. La «casalinga sveva» [n.d.t.: sarebbe un po' come la famosa "casalinga di Voghera"], che viene celebrata come l'incarnazione della serietà tradizionale, e che viene elevata al rango di «modello per l'economia nel mondo» (Angela Merkel, sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 14 gennaio 2009), ne costituisce la figura simbolica. Perfino il capo della la Deutsche Bank, Josef Ackermann, che non è stato mai sospettato di avere una simile inclinazione alla serietà, scopre le cause della crisi nella «mentalità che porta alcune parti della società ad indebitarsi», e proclama che «l'economia farebbe bene ad ispirarsi un po' di più alla "casalinga sveva"» (Tagesspiegel, 28 maggio 2010). Se effettivamente qualche voce si leva a sinistra dello spettro politico, contro la politica dell'austerità, lo fa solo per criticarne l'orientamento: vale a dire che l'economia, i risparmi, verrebbero fatti nei posti sbagliati, a danno della parte più debole della società; sarebbe del tutto ovvio che andrebbero fatte delle economie, ma dovrebbero essere fatte in maniera «equa».

images

L'immagine della «casalinga sveva» non colpisce solamente per la ragione che questa si limita al buon senso comune quotidiano ed applica all'economia il punto di vista domestico di una famiglia privata idealizzata: ma allo stesso tempo veicola anche l'idea secondo cui l'«economia di mercato» sarebbe soggetta al principio della «produzione di beni», ed il denaro per natura non rappresenterebbe nient'altro che un semplice ingegnoso mezzo per la mediazione delle transazioni. In questa concezione, il credito appare come una semplice variante del prestito di oggetti materiali nella vita quotidiana, come quando si dà una mano al vicino, al quale serve un sacco di patate. Questo diventa logico, nella misura in cui il denaro qui non compare solo come un semplice oggetto, ma come uno strumento che serve a completare lo scambio. Ma questo significa ignorare una differenza essenziale fra il prestito di un oggetto ed il credito. Il primo può essere descritto come una forma di redistribuzione della ricchezza materiale per una determinata durata: una persona A detiene per esempio un'eccedenza di patate, e ne presta un sacco ad una persona B, la quale per l'appunto soffre di una mancanza di nutrimento, che B promette di restituire ad A in un momento successivo. Considerato nella sua globalità, si tratta di un gioco a somma zero. Uno dà, e l'altro prende, ma la ricchezza materiale esistente rimane invariata. Colui che concede il prestito, rinuncia al consumo del bene in questione, mentre il beneficiario può per l'appunto goderne. Il fatto è che il beneficiario restituirà il bene più tardi, e a quel momento dovrà rinunciare al suo consumo, oppure dovrà lavorare più a lungo, al fine di produrre un'eccedenza, mentre colui che ha concesso il prestito potrà allora fare bisboccia, oppure potrà ridurre quella che è la sua produzione attuale. Ma nel caso che il debitore non possa rendere il bene, ad esempio perché il suo raccolto sarà sempre scarso, allora a farne le spese sarà il creditore.  Avrà rinunciato al consumo, e non può più recuperarlo.
Tuttavia, la relazione di credito nella società capitalista segue una logica abbastanza diversa. Indubbiamente, ogni credito corrisponde sempre logicamente ad un debito di pari importo; non può essere altrimenti, dal momento che si tratta davvero di un rapporto di credito fra due persone o istituzioni. Ma l'analogia con i semplici prestiti e debiti finisce qui. E questo perché la relazione di credito non è esattamente un gioco a somma zero, e non è in alcun modo una redistribuzione della ricchezza esistente, ma è una forma di dominio sulla ricchezza astratta futura. Ne consegue che il creditore non rinuncia affatto al valore d'uso di questo denaro, che lui mette a disposizione di un altro per una determinata durata, ma che al contrario egli realizza, proprio nella relazione di credito, il valore d'uso del denaro in quanto capitale, applicando ad esso un tasso di interesse definito. Tuttavia, colui che sottoscrive un credito, il debitore, non deve rinunciare al valore d'uso del denaro preso in prestito, ma deve piuttosto utilizzarlo a suo piacimento come investimento di capitale, o per finanziare i suoi consumi. Attraverso il rapporto di credito, la somma di denaro è stata così duplicata. Essa esiste due volte: una volta nelle mani del debitore, come denaro, ed un'altra volta nelle mani del creditore, in quanto diritto garantito per iscritto su quella somma, in altre parole, come titolo di proprietà.
La differenza, rispetto al semplice fatto di prestare degli oggetti, non potrebbe essere più grande. A differenza di quanto pretende di sapere il «buon senso», l'atto di prestare del denaro non significa affatto che gli uni («i tedeschi») debbano rinunciare al consumo, nel momento in cui gli altri («i greci fannulloni») possono fare la bella vita, senza dover lavorare per questo. Esattamente al contrario, questa relazione di credito, così come numerose altre, è un atto di accrescimento di capitale, e pertanto è un momento essenziale della dinamica che ha permesso il proseguimento del processo di accumulazione dopo la fine del fordismo. Creditori e debitori ne hanno beneficiato allo stesso modo, anche se lo hanno fatto in maniera diversa. Senza il finanziamento a credito della congiuntura globale, negli ultimi decenni, la Germania, che vanta così tanto le sue capacità industriali, per esempio, avrebbe fatto fallimento. In tal senso, i pianti ed i lamenti per le preoccupazioni ed i risentimenti da parte di coloro che ora si sentono raggirati, come se si fossero privati di tonnellate di alimenti e di tante altre belle cose, in modo che gli altri si potessero riempire la pancia, sono del tutto ridicoli. Allo stesso tempo, questo atteggiamento è ideologicamente e politicamente pericoloso, in quanto personifica le origini della crisi e le situa nel comportamento dei presunti «parassiti della società», che per questo meritano di essere puniti.

troppo fannulone

Come sempre, la personificazione delle relazioni sociali feticistiche, che si nasconde dietro tutto questo, segue qui una logica binaria. Appare evidente al cittadino normale, il quale ritiene di lavorare onestamente e di pagare scrupolosamente le sue tasse, che i «parassiti» ed i «refrattari al lavoro», in Grecia e a Kreuzberg-Berlino, abbiano abusato della meravigliosa prosperità. Ma il cittadino normale fa fatica a spiegarsi il decollo dei mercati finanziari. Una simile lacuna viene colmata per mezzo della rappresentazione antisemita latente dei banchieri e degli avidi speculatori, i quali avrebbero perseguito senza scrupoli quelli che sono i loro profitti, ed avrebbero così asservito e sfruttato l'«economia». Le due proiezioni si completano a vicenda, e proprio per questo motivo sono intercambiabili; ragion per cui si litiga per sapere se, nella crisi greca, la colpa adesso debba essere assegnata «ai greci» o piuttosto, meglio, «alle banche», le quali avrebbero spinto il paese ad indebitarsi, per poterlo poi, in seguito, dissanguare. Mentre la prima posizione viene sostenuta piuttosto dai conservatori e dai liberali, principalmente al di fuori della Grecia, e si contrappone alla rabbia popolare nazionalista, eccitata com'è, specialmente in Germania, dai media; la seconda posizione corrisponde per lo più a quella della sinistra tradizionale, e di quello che ne rimane. I suoi sostenitori la espongono con convinzione, come se questo riuscisse a fare di loro dei pionieri dello spirito critico, quando in realtà non fanno altro che essere al servizio dello spirito del tempo, quello la cui voce viene amplificata in quegli stessi media, poiché questa sorta di «critica del capitalismo» fa parte già da molto tempo del mainstream. Infine, conviene non dimenticare quel «sottotitolo» che tende ad imputare una parte della colpa ad entrambe le parti. Così facendo, non si rifiuta per niente la personificazione: semplicemente, la si divide fra due, dimostrando in tal modo che le due imputazioni appartengono alla medesima falsa griglia di analisi. Tutto questo non può essere spezzato per mezzo di un compromesso fra due false percezioni, ma solo mettendole entrambe in discussione, in quanto tali.
In realtà, l'enorme indebitamento della Grecia, così come quello, in misura minore, di altri paesi, non può essere compreso per mezzo di categorie soggettive come quella della «colpa». In primo luogo, esso deriva semplicemente dalle disparità strutturali esistenti all'interno dell'unione monetaria, che hanno assoggettato la Grecia ad una concorrenza aggravata. In simili circostanze, l'indebitamento è stato l'unico mezzo per poter salvare la situazione. Ma queste disparità sono allo stesso tempo l'espressione della crisi strutturale fondamentale della produzione di valore, la quale ha portato al fatto che ormai su tutto il pianeta non rimane più alcun impianto industriale concorrenziale; in seno all'Unione Europea, è la Germani ad occupare in particolare questa posizione, ed è quella che proprio grazie alle sua capacità di produzione superiore domina fortemente l'economia europea; la Cina gioca il medesimo ruolo a livello mondiale. Questa struttura squilibrata dell'economia mondiale, come abbiamo già spiegato, non poteva (e non può) funzionare se non grazie al potere di acquisto necessario al consumo di quelle montagne di merce che sono state create sotto forma di capitale fittizio, così come attraverso il forte indebitamento, sia degli Stati che delle famiglie.
Visto sotto questa angolazione, l'indebitamento di alcuni paesi non rappresenta solo l'indispensabile complemento alle enormi eccedenze di esportazioni degli altri; ancora più fondamentalmente, si può affermare che tutte le parti interessate hanno contribuito al mantenimento della produzione della ricchezza globale, anche se la base del valore era già stata compromessa fin dagli anni '80. Senza saperlo, sono state le protagoniste di una gigantesca operazione di aspirazione di valore fittizio futuro, che non aveva altro che un unico fine: allontanare il momento del crollo dell'accumulazione di capitale, e della produzione di ricchezza ad esso legato. Niente perciò è più grottesco dell'idea secondo la quale l'industria del debito avrebbe potuto essere bloccata su un fronte ampio. Se i commissari tedeschi per il risparmio dell'Unione Europea, o i rappresentanti del movimento dei «Tea Party» negli Stati Uniti, avessero veramente avuto l'intenzione di applicare alla lettera i loro precetti, alla fine di ridurre l'indebitamento degli Stati, avremmo assistito al collasso dell'enorme impalcatura del capitale fittizio, che è stata eretta da più di trent'anni. Non è il ritorno ad una «sana economia di mercato», comunque chimerica, quello che verrebbe rimesso quindi all'ordine del giorno, ma la contrazione violenta della produzione di ricchezza, la quale si vedrebbe ridotta all'esile livello di quella che è la produzione reale del valore che il livello della potenza produttiva rende ancora possibile, ed insieme ad essa, l'istituzione di un'amministrazione di emergenza autoritaria.
In confronto a tutto questo, nel contesto della logica di crisi capitalistica, il perseguimento della politica del «denaro a buon mercato» e dell'indebitamento dello Stato appare essere a prima vista relativamente razionale; perché è l'aspirazione al valore futuro quella che per trent'anni ha permesso di continuare la produzione di ricchezza astratta, nonostante il fatto che la produzione di valore fosse in calo da molto tempo. Ma questo modo di posticipare la crisi ha finito per andare a sbattere contro i propri limiti, poiché la quantità di nuovo capitale fittizio necessario non ha smesso di crescere , e la dinamica propria all'industria finanziaria non è mai veramente riuscita a rimettersi in sella dopo il crack del 2008. Inoltre, la politica monetaria e fiscale espansiva non esclude in alcun modo delle severe misure economiche di riduzione di costi nei confronti dei sistemi sociali e dell'infrastruttura pubblica. In generale, le due cose vanno di pari passo; perché quando si tratta di rilanciare l'accumulazione di capitale, ogni altra considerazione viene spazzata via come «non pertinente per il sistema». Le somme risparmiate attraverso queste misure di austerità rimangono poca cosa, se paragonate ai giganteschi debiti accumulati, solamente negli ultimi tre anni, per salvare il sistema finanziario dalla bancarotta. Quel che conta, è «mostrare la via». Si vuole dimostrare che esiste una «volontà» di fare economia, e che si è pronti ad imporla contro eventuali opposizioni schierate dalla parte della popolazione, al fine di riguadagnare la fiducia dei «mercati finanziari», e poter così prendere nuovamente in prestito del denaro. È con la vaga speranza di spingere indietro ancora una volta, per qualche anno, le forze di distruzione della crisi, che sono state sacrificate tutte le ricchezze materiali che non sono direttamente utili per il sistema. Evidentemente, si vede che il keynesismo di crisi non mette affatto in discussione i vincoli feticistici della produzione di ricchezza astratta, e che al contrario rimane sottomesso, non diversamente dalla «casalinga sveva».
Ma se l'aspirazione al valore futuro richiede sempre più sforzi e sacrifici, al fine di mantenere a galla la produzione sociale della ricchezza, va posta una domanda molto semplice: perché questa produzione non viene svolta al di fuori della logica della valorizzazione, anziché continuare a farla dipendere dal successo dell'accumulazione di capitale? L'estremo distendersi del legame esistente fra la produzione di ricchezza materiale e l'accumulazione di ricchezza astratta, attraverso l'anticipazione del valore futuro, ci mostra che il potenziale di produttività generato dal capitalismo ha già largamente superato il fine in sé limitato della produzione per la produzione. Non è «la società» ad aver vissuto «al di sopra dei suoi mezzi», ma è il capitalismo che si è sviluppato al di sotto dei rapporti sociali che aveva costituito, e che hanno creato un potenziale di ricchezza che non è più compatibile con la sua logica limitata del fine in sé.

troppo ricca copertina

Se ci si ostina a legare questo potenziale di ricchezza alla forma della ricchezza astratta, sarà inevitabile una nuova scalata del processo di crisi, con tutte le sue disastrose conseguenze per la società. Se invece si riuscisse a strapparlo a questa forma feticistica, potrebbe essere messo al servizio della soddisfazione dei bisogni concreti della società. Ciò richiederebbe in maniera imperativa, evidentemente, il superamento della produzione di merci e dell'economia monetaria. Perché la produzione sviluppata di merci è sempre già produzione capitalistica di merci, e in quanto tale è governata dal fine in sé della valorizzazione. Una «produzione semplice di merci», come sistema sociale di scambio generale, nel quale il denaro non sarebbe un mezzo di pagamento e di scambio e «servirebbe la società», esiste solamente nelle pagine introduttive ai manuali di economia, così come nei fantasmi della comune immaginazione borghese. È questa la ragione per cui ogni tentativo di «riformare» il denaro, ad esempio abolendo gli interessi, non solo è regressivo, in quanto celebra l'«economia di mercato» situando nella sfera finanziaria la fonte dei mali del capitalismo, ma è inoltre destinato a fallire nella pratica. Dei buoni regionali di scambio, possono funzionare per un certo tempo come moneta parallela, oppure, nel caso di una situazione di crisi estrema, come è accaduto in Argentina alla fine del 2001, possono assumere la funzione di una moneta sostitutiva, cosa che ricorda il ruolo avuto dalle sigarette sul mercato nero durante il dopoguerra; ma non appena escono da questa nicchia, si trasformano in del denaro del tutto normale, che non è affatto un mezzo, bensì un fine in sé della produzione.
L'altra opzione non può evidentemente essere un'economia diretta, come nel «socialismo reale», la quale è felicemente finita nella pattumiera della storia. Essa non solo è stata autoritaria e repressiva, ma inoltre non ha mai veramente costituito una reale alternativa al capitalismo. Perché l'«economia pianificata» continua a fare riferimento alle categorie della ricchezza astratta, alle merci, al valore ed al lavoro astratto, che non devono essere superate, devono semplicemente essere pilotate dallo Stato. Il grandioso fallimento di questo tentativo dimostra una cosa soltanto, ossia che il capitalismo e l'economia di mercato sono in fin dei conti fatti l'uno per l'altra, e che allo Stato, nei suoi tentativi di regolare, vengono fissati degli stretti limiti. La soluzione non risiede né nell'economia di mercato né nell'economia diretta. Sarebbe piuttosto necessario sviluppare delle forme e dei metodi di auto-organizzazione e di auto-amministrazione della società, che facciano direttamente riferimento alla produzione della ricchezza materiale, anziché accettare eternamente come presupposto implicito quella che è la logica capitalista del fine in sé, ed i suoi vincoli.
Per una tale opzione non esiste alcun piano regolatore. Può essere sviluppato solamente da dei movimenti di emancipazione sociale, che assumeranno la forma di un'opposizione alla gestione della crisi. Quello che evidentemente sarà determinante, è sapere come si definirà tale opposizione, e quali prospettive formulerà. Malgrado tutti i loro sforzi di presentarsi come un'opzione radicale, i movimenti di protesta attuali non sono granché altro se non l'ala chiassosa del mainstream. Ciò che domina, è la personificazione dell'origine della crisi, una celebrazione del «popolo» (il «99%»), come se quest'ultimo rimanesse al di fuori della logica capitalista, ed un fissarsi sulla redistribuzione della ricchezza monetaria. Ma radicale, potrebbe essere solo una critica, espressa dal punto di vista della ricchezza materiale, del preteso «obbligo a fare economia», a risparmiare. Il vero scandalo non consiste nella concentrazione dei mezzi monetari nelle mani di alcuni - per quanto disgustoso questo sia -, ma il fatto che una società che ha sviluppato, come non era mai accaduto prima, simili potenzialità di ricchezza, corre verso la loro perdita, anziché metterle al servizio della soddisfazione dei bisogni concreti. All'argomento secondo il quale si «dovrebbero» fare delle economie, bisogna obiettare che un simile «imperativo» si fonda unicamente sulla logica della produzione di ricchezza astratta. Il vincolo per cui ogni ricchezza materiale dovrebbe sempre passare attraverso la cruna dell'ago della forma merce e della valorizzazione del capitale, è sempre stato insensato. Ma il fatto di rimanere legati a quest'obbligo, mentre il lavoro produttore di valore è arrivato alla fine della sua corsa, e quindi si polverizza la base della valorizzazione del capitale, porta ad un programma di soppressione massiccia delle risorse sociali, e diventa il motore di una gigantesca spinta all'impoverimento. Mentre la gestione della crisi insegue la Fata Morgana di un capitalismo sano, essa distrugge progressivamente le basi della produzione sociale.
Di fronte a tutto questo, bisogna affrontare con fermezza la questione della «sostenibilità finanziaria». La costruzione di alloggi, il funzionamento degli ospedali, la produzione alimentare o la manutenzione della rete ferroviaria non devono dipendere dalla questione di sapere se il «potere di acquisto» necessario sia disponibile. Il criterio relativo a questo soggetto non può essere altro che la soddisfazione dei bisogni concreti. È proprio questo il punto focale per la formazione di nuovi movimenti sociali di emancipazione contro la logica delirante della gestione della crisi. Se devono essere soppresse delle risorse, perché «mancano i soldi», bisogna appropriarsene, trasformarle e sfruttarle consapevolmente in aperta ostilità contro la logica feticistica della moderna produzione di merce. Il mito liberale fondatore, secondo il quale il modo di produzione capitalistico garantirebbe «la più grande felicità del maggior numero» (Jeremy Bentham), è sempre stato crudelmente ironico, quando si pensa agli immensi sacrifici che ha richiesto; nelle circostanze della crisi fondamentale che conosciamo, sconfina nel puro cinismo. Una buona vita per tutti può esistere solo al di là della forma della ricchezza astratta. Non abbiamo altro che un'unica opzione di fronte alla svalorizzazione catastrofica del capitale: la svalorizzazione emancipatrice della produzione sociale di ricchezza.

- Ernst Lohoff e Norbert Trenkle - da "La Grande Svalorizzazione: Perché la speculazione e il debito dello Stato non sono le cause della crisi". (Post-éditions, 2014, p. 325-334.)

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme


sabato 25 agosto 2018

ognuno a modo suo

neve-cavalliBuoni rapporti con i cavalli [Chorošee otnošenie k lošadjam]
- di Vladimir Majakovskij -

Gli zoccoli battevano come se cantassero - Grib, Grab, Grob, Grub.
Di vento ubriaca, di ghiaccio calzata, la via sdrucciolava.
Un cavallo stramazzò sulla groppa.
E subito un bighellone dopo l'altro
Venuto sul Kuzneckij a sventolare i calzoni, fecero calca.
Un riso squillò tintinnante:
«Un cavallo è caduto. È caduto un cavallo!» Il Kuzneckij rideva.
Io soltanto non mescolavo al suo urlo la mia voce.
Mi avvicinai e vidi gli occhi equini...

La strada si era capovolta e scorreva a modo suo...
Mi avvicinai e vidi rotolare giù per il muso, e sparire nel pelame
una gocciolona dopo l'altra, ad una ad una ...

E una certa comune ferina tristezza sgorgò da me spruzzando
a schizzi, e in un sussurro si effuse. Sciogliendosi in un brusio.
«Cavallo, non dovete. Cavallo ascoltate:
pensate forse di essere peggiore di loro?
Bambinuccio, siamo tutti quanti un po' cavalli,
ognuno di noi è un cavallo a modo suo.
»

Forse, era vecchio e non aveva bisogno di balia,
o forse gli parve zotico il mio pensiero,
ma il cavallo di scatto si levò sulle zampe,
e nitrendo si mosse. Agitava la coda.
Ragazzino rossiccio. Arrivò tutto allegro, si fermò nella stalla.
E gli pareva ancora di essere un puledro,
e che di vivere valesse la pena, e anche di lavorare.

- Vladimir Majakovskij -

venerdì 24 agosto 2018

Antidiluviani

islam

Nota critica su "Islam e capitalismo" di Maxime Rodinson
- Marx, Weber, Kurz e presunte «forme antidiluviane» del capitale -
di Clément Homs

Maxime Rodinson, nel suo classico, "Islam e Capitalismo" - in un dibattito, cominciato negli anni '50, sulla presunta incapacità da parte dell'Islam di generare il capitalismo (quest'ultimo termine, all'epoca veniva eufemizzato sotto la categoria borghese e naturalizzante di «sviluppo» o di «economia di mercato») - ha il merito di combattere contro la visione orientalista che vede un mondo arabo arretrato, immobile e immerso in una stagnazione multi-secolare. Tuttavia, nel pensare che il capitalismo sarebbe sempre esistito nelle società musulmane premoderne, sotto forma embrionale, la sua posizione rimane implicitamente segnata dall'idea problematica di uno sviluppo progressivo e trans-storico, ad un livello sempre più elevato, della forma valore e del denaro; ed è anche vero che è stato lo stesso Marx a suggerire una simile comprensione erronea, quando ha evocato le «forme antidiluviane» del capitale, nelle società precapitalistiche (anche Jacques Camatte rimarrà intrappolato in questa problematica erronea).
Secondo Robert Kurz - che ha mostrato la tensione e la contraddizione in Marx sia su tale questione che su altre (in particolare, l'aporia di Marx circa la questione del lavoro [*1]) - evocando, da un lato, questa teoria delle «forme antidiluviane», in quanto stato sottosviluppato di una logica trans-storica semplice,  Marx soccombe all'ideologia della storia della modernità capitalista, sostenuta dall'Illuminismo, per la quale tutta la storia precedente non costituisce altro che un cammino verso sé stessa. Dall'altro lato, si vedono ugualmente in Marx alcuni sviluppi molto più radicali che sfuggono a questa ideologia, quando egli si oppone agli «economisti che cancellano tutte le differenze storiche e vedono in tutte le forme della società, quelle che sono le forme della società borghese» [*2]. Marx arriva persino a storicizzare le categorie stesse quando afferma che «il concetto economico di valore non si incontra affatto nell'Antichità [...]. Il concetto di valore rientra integralmente nell'economia più moderna, in quanto esso è l'espressione più astratta del capitale stesso e della produzione basata sul capitale» [*3].
Per questa linea argomentativa che si può trovare nel Marx esoterico e che verrà ampliata dalla corrente della Critica del Valore, il «concetto» di valore corrisponde infatti ad una realtà sociale storicamente specifica unicamente della sola formazione sociale capitalistica e, viceversa, la realtà deve generare a sua volta il suo «concetto» in quanto «forma oggettivata del pensiero», e quindi anche in quanto contenuto cosciente della riflessione. In questa nuova prospettiva, è proibito proiettare la forma della ricchezza astratta, caratteristica della sola società capitalistica, sulle società precedenti. Robert Kurz scioglierà i fili di questo Marx esoterico, mostrando che se il «valore» non esiste prima del capitalismo - e quindi «non si pone affatto» anche nel modo di pensare - come possono esistere in tali condizioni allora la merce ed il denaro? Facendo seguito agli storici dell'Antichità, i quali affermano che «non si farà riferimento ai concetti e alla terminologia dell'economia moderna, dal momento che questi concetti in realtà non si applicano altro che al mondo per il quale sono stati creati» [*4], facciamo appello ad una «revisione straziante» che ora dobbiamo affrontare, nel momento in cui, per il Medioevo, invitiamo Jacques Le Goff, Alain Guerreau e Bartolomé Clavero, chiedendo loro di «ignorare la storiografia» [*5]. In questo Medioevo, così come per tutto l'insieme delle società antiche, «l'economia non esiste», «esiste del denaro, ma non l'economia». In definitiva, si tratta della totalità delle nostre categorie moderne (lavoro, denari, merce, valore, valore di scambio, produzione, modo di produzione, economia, ecc.) le quali non possono più essere retroproiettate su tutte le società umane precapitaliste, se vogliamo comprendere in maniera adeguata i rapporti sociali ed il loro principio costitutivo [*6].

Maxime Rodinson rimane legato ai vecchi presupposti della filosofia della storia borghese, ereditata dal Marx essoterico e quindi dall'insieme del marxismo tradizionale. Per troncare il dibattito sulla responsabilità dell'Islam per quanto riguarda la mancanza di sviluppo dei Medio Oriente, tutta la tesi di Rodinson, svolta nel terzo capitolo del suo libro, consiste nel forgiare il concetto di «settore capitalistico» a partire dall'esistenza riconosciuta nel mondo musulmano medievale di queste «forme antidiluviane» di capitale evocate da Marx: il «commercio», il «capitale mercantile» ed il «capitale finanziario» (portatore di interesse) [*7].
In maniera assai logica, Rodinson arriva a fondere il Marx essoterico delle «forme antidiluviane» con la definizione borghese, naturalizzante e trans-storica, del capitalismo data da Max Weber [*8]. Seguendo quest'ultimo, in Rodinson, la totalità viene colta a partire dall'approccio secondo quei mattoni elementari che sono gli Ideal-tipi weberiani, e qui, più specificamente, a partire dal mattone più elementare, il quale incarna la forma, o il modo di comportamento qualificabile come «capitalista» (ricerca del guadagno monetario attraverso lo scambio ed il calcolo economico). Ed è proprio sulla base della logica delle azioni, delle strutture o delle particelle elementari individuali (qui di natura economica), che vengono in seguito gonfiate oppure «aggregate» le quantità di relazioni relative alla società vista al livello del tutto, dell'insieme, vale a dire che Rodinson chiama la «formazione socio-economico capitalista». Qui, Rodinson è particolarmente vittima dell'individualismo metodologico, quando nelle prime pagine del suo libro si appoggia alle definizioni problematiche di Julian Hochfeld e di Max Weber [*9]. Secondo questo punto di vista - quello della successione logica o dello sviluppo sequenziale - delle «forme embrionali» del capitale, viste come risultato di numerose altre forme di azione logica, in pratica, possono essere isolate e per così dire dissezionate, come se fossero dei fenomeni distinti, senza che si prenda simultaneamente in considerazione il contesto sociale e storico in cui sono immersi.
L'individualismo metodologico, è sempre stato caratteristico della filosofia e della scienza borghese nel suo insieme,  e, in particolare, dell'economia politica, quando non struttura in maniera soggiacente i «modelli storiografici della transizione» (Jérôme Baschet) dal feudalesimo al capitalismo (ed in maniera caricaturale nella costruzione grottesca del concetto di «capitalismo popolare» per il Medioevo di Jacques Heers). In sostanza, questo individualismo metodologico (che in parte ritroviamo anche in Marx, come ha mostrato Robert Kurz [*10]) vorrebbe esporre e spiegare una logica globale e determinante il tutto sulla base e a partire dal caso di ciascun individuo isolato, che quindi appare come un «modello» per la comprensione, non solo di queste azioni individuali definite come «fondamentali», ma anche delle forme strutturali definite come «embrionali».
Per l'individualismo metodologico, quella logica isolabile che può essere rappresentata dal caso particolare, esiste indipendentemente dal suo grado di determinazione nell'insieme; di conseguenza, questa logica isolabile è ancora più valida per una «forma di nicchia», di quanto non lo sia per la forma sociale globale e, a partire da un punto e attraverso una zona delimitata, si estende alla totalità, pur rimanendo sempre identica a sé stessa. Al contrario, per l'approccio dialettico alla totalità, la logica di una forma di relazione «esiste» nella misura in cui essa è già determinata dalla totalità; il caso individuale deve derivare dalla logica di questo insieme e, di conseguenza, non fornisce - ora più che mai - alcun «modello», poiché la totalità ha la propria qualità, decisiva, e come tale essa è assai più - e qualcosa di diverso - della semplice somma delle sue parti. Di conseguenza - conclude Kurz - una parte o un momento che dovesse sembrare apparentemente identico o simile in delle situazioni storiche diverse, senza tener conto della qualità specifica della totalità, non può mai essere considerato secondo una logica identica a quella dell'elemento individuale. Ed è proprio quello che si ritrova nell'approccio genetico-storico dell'individualismo metodologico: le categorie vengono comprese sulla base dello svolgersi di un'azione isolata, ed in un modo strutturalmente e storicamente decontestualizzato, vale a dire, in maniera assolutamente erronea.

Puntando alla compatibilità logica con la definizione weberiana, quando si tratta di riconoscere dei criteri precedenti all'avvento del capitalismo, che permettano di valutare l'esistenza di un «settore capitalista» («Marx e Weber individuano, a partire dai loro criteri convergenti, lo stesso tipo di settore economico precedente all'avvento del capitalismo moderno»), Rodinson ha il merito di aver dimostrato, senza rendersene conto, quanto la problematica del Marx essoterico delle «forme antidiluviane» non sia altro che l'espressione della concezione borghese ereditata dall'Illuminismo, in cui viene affermato lo sviluppo storico che avviene nella modalità unitaria di un'identica logica storica immanente a tutta la storia umana.
Una posizione che afferma quindi, consciamente o inconsciamente, la trans-storicità del capitalismo, e che fa risalire le sue premesse fino alle primissime società umane [*11]. Secondo Rodinson, si tratterà di vedere se «i mercanti si conformano bene ai criteri weberiani dell'attività capitalistica. Se approfittano di qualsiasi opportunità di profitto e se calcolano le loro spese, le loro entrate ed i loro benefici in termini monetari» [*12]. «È su questi criteri che qui verrà valutata l'esistenza di un tale settore "capitalista" nel mondo musulmano». E la sua conclusione, a partire da dei presupposti così problematici, sarà categorica, «a prima vista, bisogna sottolineare che nel mondo musulmano medievale troviamo delle forme [antidiluviane] analoghe a quelle del capitale» [*13], ovunque ci sia «un'atmosfera assolutamente conforme ai criteri weberiani dell'economia capitalista» [*14].
Perciò, quando si tratterà di studiare la pseudo-forma antidiluviana del «capitale di mercato», per la società musulmana del VII secolo, Rodinson, senza avere alcun timore della retroproiezione delle categorie capitaliste su dei rapporti sociali non economici, parlerà di una vera e propria «economia "disincastrata", per riprendere tutt'al più la terminologia di Karl Polanyi». Rodinson conosce male Polanyi, poiché da un lato evoca l'esistenza di un'economia «che non è per niente incastrata in un contesto non economico come il clan» [*17], mentre poche righe più avanti riconosce che «i beduini dovevano sottomettersi in una qualche misura ai sistemi di equivalenza fissa imposti dagli Stati» (cosa che Polanyi nella sua tipologia definisce come «amministrazione del commercio», e che ai suoi occhi è esattamente il contrario di una «economia disincastrata»). Si trattava quindi di una «struttura economica», e perciò concludeva che gli autori «sono giustificati quando parlano di "capitalismo"». Insomma, nella dimostrazione di Rodinson. la confusione fra il commercio ed il capitalismo, giustamente criticata da Ellen Meisksins Wood, è completa. In questa anacronistica visione weberiana segnata dall'individualismo metodologico, il mercante che realizza profitto per mezzo dell'alienazione, trasferendo da un punto A ad un punto B un bene che verrà alienato, è di già un capitalista. Eppure «il principio commerciale dominante non era il plusvalore estratto dalla produzione, ma piuttosto il profitto tratto dall'alienazione, vale a dire, il principio che consiste nel comprare a buon mercato e rivendere a caro prezzo» [*18].
Dobbiamo quindi parlare di commercio non capitalista e distinguerlo radicalmente da ciò che appartiene alla sfera della circolazione delle merci nella formazione sociale capitalistica. Qui, Rodinson cade nella caratteristica trappola in cui cade tutta la storiografia borghese e marxista tradizionale che «presenta il capitalismo come il risultato più o meno automatico di pratiche commerciali antiche quanto la storia, o perfino come il prolungamento di un'inclinazione naturale che ha l'uomo per il baratto, per il pagamento in natura e per lo scambio, tanto per parafrasare Adam Smith» [*19]. Mentre Le Goff è critico, riguardo l'Occidente medievale, dell'esistenza di un pensiero economico scolastico e dell'esistenza di «trattati economici» medievali, Rodinson non esita a vestire i panni dell'anacronismo storico parlando di «trattati puramente economici dell'Islam medievale» [*20].

Per quanto riguarda l'altra «forma antidiluviana» del capitale, il capitale finanziario, Rodinson si pone la domanda giusta quando riconosce che «qui si pone un problema sempre più importante. Prima della formazione socio-economica capitalista, ogni prestito ad interesse e qualsiasi commercio (nel senso più ampio, cioè qualsiasi scambio di beni) poteva essere considerato come costitutivo per natura di un "settore capitalistico"» [*21]. Ma per poter rispondere rapidamente in maniera affermativa, assimilando erroneamente l'usura protocapitalista del periodo medievale o antico (l'usura, che non ha niente in comune con il capitalismo) al capitale portatore di interesse che come tale esiste solo nella formazione sociale capitalista. Quest'ultimo capitale portatore di interesse, si trova collegato al contesto-forma inscritto nella totalità sociale capitalista costituita dal principio di socializzazione per mezzo del lavoro astratto, e quindi viene così riferito in maniera soggiacente al carattere singolare della forma di ricchezza astratta (e storicamente specifica che è la società capitalista) che viene presupposta dal capitale portatore di interesse, e della quale quest'ultimo è un'emanazione. In realtà, il capitalismo non si accontenta affatto solamente del divenire-merce della ricchezza sensibile-materiale, o della forza lavoro, ma vuole l'estensione dell'universo della merce anche al capitale che si trova sotto forma di denaro, quando questo denaro si trasforma in una merce negoziabile: «il capitale in quanto tale diviene una merce» [*22].
A differenza dell'usura medievale o antica - che non rappresenta una derivazione da qualcosa di soggiacente che storicamente non esiste ancora - nel sistema capitalista di credito che emerge nel XVII-XVIII secolo, il prestito, l'interesse e le azioni rappresentano la ricchezza astratta capitalista (del valore) [*23]. Questo capitale portatore di interesse si distingue dal «capitale funzionale» che controlla i processi reali di produzione industriale. Si tratta di un capitale in denaro prestato alle imprese, allo Stato o perfino alle famiglie, che in cambio devono pagare degli interessi (prezzo del credito) quando rimborsano la somma prestata. Si tratta di una forma di capitale derivato, che sembra far soldi in maniera occulta senza passare per il processo di produzione reale, ma questa forma di capitale portatore di interesse va pertanto mostrata e spiegata, come ha fatto Marx a partire dal concetto stesso di capitale, vale a dire nella sua relazione reale e interiore con il «capitale funzionale». Il capitale portatore di interesse viene prestato sotto diverse forme al «capitale funzionale» delle imprese affinché esse possano trasformare la forza lavoro in valorizzazione e l'interesse «non è nient'altro che un'etichetta, una voce particolare per quella che è una parte del profitto che il capitalista attivo deve pagare al proprietario di capitale, anziché metterlo di tasca propria» [*24]. «Una frazione del profitto, l'interesse» [*25]. Sotto forma di interesse, «il denaro riflette soltanto ciò che è stato speso come capitale funzionale» [*26]. Anche se la connessione del credito con il processo reale di valorizzazione può rompersi. La frattura con le società precapitaliste ha fatto emergere una nuova forma di ricchezza sociale, sia per il contenuto che al livello della sua forma. L'usura antica e medievale non è quindi per niente una «attività economica di tipo moderno», come afferma Rodinson, in altre parole è una delle forme antidiluviane del capitale, e in questo caso del «capitale finanziario».

- Clément Homs - Pubblicato nella primavera 2016 -


NOTE;
[*1] - Robert Kurz, « Die Substanz des Kapitals. Abstrakte Arbeit als gesellschaftliche Realmetaphysik und die absolute innere Schranke der Verwertung. Erster Teil », Exit!, n°1, Horlemann, 2004 [ da me tradotto in http://francosenia.blogspot.com/2015/12/assoluto-e-relativo.html ]
[*2] - Karl Marx, Grundrisse.
[*3] - ivi
[*4] - Michel Austin e Pierre Vidal-Naquet, "Economia e società nella Grecia antica", Bollati Boringhieri
[*5] - Prefazione di Jacques Le Goff, al livro di Bartolomé Clavero, "La grâce du don. Anthropologie catholique de l’économie moderne", Albin Michel, 1996. Su tale questione si vede anche J. Le Goff, "Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo", LaTerza; e Robert Kurz, "Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie", Horlemann, 2012.
[*6] - Emerge un nuovo continente teorico-analitico sconosciuto, che qui tralasceremo: come fare a comprendere in maniera storicamente adeguata quel che ci appare (agli ideologhi moderni, più precisamente) come una «merce», come «lavoro» e come «denaro» nel neolitico, nell'antichità e nel medioevo, e che presuppongono già il concetto di valore? Per tutte queste questioni rimandiamo sempre a Robert Kurz, "Gheld ohne Wert", op.cit., ma anche a Marshall Salins, "Culture and Practical Reason". Chicago : University of Chicago Press, 1976; e Philippe Descola, "Oltre natura e cultura", Seid.
[*7] - «Per facilitare la discussione, propongo di chiamare "capitalistico" quello che è l'insieme del settore coperto dal capitale di mercato e dal capitale finanziario in queste società precapitaliste».
[*8] - In Max Weber, l'attività viene qualificata capitalista, quando si tratta di un'attività «che si aspetta un profitto dall'utilizzo di tutte le circostanze favorevoli ad un cambiamento, vale a dire, che si basa su delle occasioni di profitto (formalmente) pacifico ». Ciò che Weber non vede, è che l'analisi dello scambio così come esiste nella società capitalista, «non attiene affatto ad un prodotto cui capita di essere scambiato, senza tener conto della società in cui viene prodotto; non riguarda la merce al di fuori del suo contesto sociale, o come può esistere in maniera contingente in numerose società» (Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale"). L'errore centrale di Max Weber è quello di non vedere che la semplice esistenza dello scambio dal quale può essere un guadagno attraverso un calcolo (quel che Marx comprende ancora come «forma antidiluviana» quando parla di capitale mercantile in una società non capitalista), non è confrontabile con lo scambio di merci nella totalità sociale capitalista: questa situazione descritta da Weber, non ha niente «del capitalismo». Ad essere interessante in Weber è il fatto che egli illustra perfettamente il lato oscuro, o il rovescio, della retroproiezione delle categorie moderne su tutta la storia umana: la sua definizione di ciò che costituisce un «comportamento capitalista» non è solamente una proiezione del presente sul passato, ma è anche una proiezione del passato sul presente, quella che io chiamerei una retroproiezione in feedback. Dopo aver naturalizzato ed ontologizzato il contesto formale muto delle forme di base capitalistiche che vengono retroproiettate sulla Cina, l'India, Babilonia, l'Egitto ed il Mediterraneo antico, egli ritaglia nel passato il mattone elementare ontologizzato in quelle società passate che crede di riconoscere in maniera anacronistica come rivelatore di un «comportamento capitalistico», per poter poi costruire, a partire dall'aggregazione di questi mattoni a formare una totalità, i concetti di «nichtrationalen Kapitalismus» (per le società passate) e di forma razionale del capitalismo per le società contemporanee. La costruzione concettuale di Weber illustra l'economia circolare delle retroproiezioni e delle proiezioni in feedback, che finisce per definire il pensiero economico borghese come un pensiero eminentemente autoreferenziale in quanto prigioniero della gabbia d'acciaio della «forma di pensiero oggettivato» generato nel rapporto sociale capitalistico. E se la distinzione fondamentale fra commercio e capitalismo, stabilito da Ellen Meiskins Wood, ha anche questo merito in rapporto a Weber (fa, quindi, di Weber, come di Braudel, due tipici esempi del «modello della commercializzazione»), ciò avviene senza che la sua tesi sull'origine agraria del capitalismo, così come viene colta attraverso dei presupposti problematici del «marxismo politico», ci appaia pertinente. Ma, in maniera più generale, la definizione weberiana del capitalismo che si basa sull'individualismo metodologico, e quindi centrato sui processi di circolazione e sull'attività razionale dell'agente economico, si inscrive come contenuto della forma cosciente feticizzata borghese, aderendo alla fine alla formulazione neoclassica di fine secolo di questa forma di pensiero. Nel seguente passaggio, citato positivamente da Rodinson, si riconosce la posizione naturalizzante e trans-storica di Max Weber, che logicamente è quella dell'ideologia borghese del progresso e dell'Illuminismo: «In questo senso, il capitalismo e le imprese capitaliste, e perfino con una considerevole razionalizzazione del calcolo capitalistico, sono esistiti in tutti i paesi civilizzati del mondo..., in Cina, nell'India, in Babilonia, in Egitto, nell'antichità mediterranea e nel Medioevo così come nei tempo moderni».
[*10] - Robert Kurz, "3: Der Begriff der ‘‘Nischenform’’ und der methodologische Individualismus", in "Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie", Horlemann, 2012, pp. 57-67.
[*11] - La storiografia apologetica della nascita del capitalismo è perciò, come ha dimostrato Ellen Meisksins Wood, una «storiografia della rimozione degli ostacoli» la quale permette di comprendere come l'homo capitalisticus sia sempre in agguato da qualche parte nell'ombra, fin dalla notte dei tempi, e che finirà per riuscire a superare coraggiosamente le porte del paradiso del migliore dei mondi, e ad imporsi. In tal senso, questa storiografia del «lasciar fare, lasciar passare» oltre gli ostacoli, non è altro che un espediente narrativo per aprire la strada alle affermazioni storiche del discorso neoliberista, che si è sempre richiamato al «far saltare le serrature» per meglio lasciar fiorire un homo oeconomicus presunto come naturale.
[*12] - Maxime Rodinson - Islam e capitalismo.
[*13] - ivi
[*14] - ivi
[*15] - ivi
[*16] - ivi. Ai suoi occhi, questo sarebbe piuttosto l'incontro fra le forme antidiluviane di questo «settore capitalistico» ed il «fattore esogeno», che darà origine alla nascita del capitalismo nel «Medio Oriente».
[*17] - Maxime Rodinson - Islam e capitalismo.
[*18] - Ellen Meiksins Wood - The Origin of Capitalism. Monthly Review Press, 1999.
[*19] - ivi
[*20] - Maxime Rodinson - Islam e capitalismo. È noto che il riconoscimento di un testo, considerato come rivelante «trattato economico», nell'antichità greca, ha suscitato tutto un dibattito a partire dai giudiziosi avvertimenti di Moses Finley. Su questo si veda: "Sull'invenzione greca della parola "economia" in Senofonte- Critica di un inganno etimologico moderno", di Clément Homs : http://francosenia.blogspot.com/2016/09/definizioni-e-significato.html
[*21] - Maxime Rodinson - Islam e capitalismo.
[*22] - Karl Marx, Il Capitale, Libro III.
[*23] - «Infine, sia ben chiaro che il capitale-denaro non può diventare merce se non sulla base della produzione generalizzata della ricchezza astratta, sottolineano Trenkle e Lohoff, e per insistere sulla differenza che l'oppone alle merci circolanti sul mercato dei beni e del lavoro, i membri di questa classe di merci in seguito verrano qualificati come "merci derivate", o più precisamente come "merci di 2° ordine"», in: Norbert Trenkle & Ernst Lohoff, La Grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l’État ne sont pas les causes de la crise, Post-éditions, 2014, pp. 136-137.  

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme