sabato 7 luglio 2018

Equivoci

partenone

Bianco, l’equivoco che fondò l’Occidente
- di Mauro Bonazzi -

Finalmente arrivato davanti al Partenone, Sigmund Freud aveva avuto un mancamento: «Dunque tutto questo veramente esiste?». René de Chateaubriand, invece, era stato sopraffatto dal piacere – un’emozione sempre più intensa che gli impediva addirittura di pensare – mentre l’Acropoli gli si manifestava in tutto il suo bianco splendore. Viaggiava «per incontrare i popoli», così aveva scritto, «e soprattutto i Greci, che erano morti». Sotto il cielo di Atene, di fronte a quei marmi candidi, aveva improvvisamente scoperto l’eternità. È il miracolo di cui avrebbe parlato Ernest Renan nel 1865, anche lui abbagliato dalla purezza del marmo pentelico («l’ideale cristallizzato del marmo pentelico») – qualcosa «che si è dato una volta soltanto, che mai si è visto e mai si rivedrà, ma il cui effetto durerà per sempre». Fidia, l’artista che aveva progettato quelle meraviglie, si sarebbe stupito di fronte a tutto questo entusiasmo per il bianco. Perché il Partenone era colorato, come aveva potuto verificare Louis Sébastien Fauvel, console di Francia ad Atene nel 1798: «Tout était peint!», tutto è stato dipinto.
Quella tra i Greci e i colori è una storia bizzarra, di cui hanno subìto le amare conseguenze generazioni di studenti impegnati in traduzioni quasi impossibili. Uno dei termini per il bianco è árgos, che però indica anche i lampi e i piedi che si muovono veloci, mentre chlorós, verde (si pensi a clorofilla), è sì usato per la vegetazione, ma anche per descrivere la sabbia sulla battigia, o il colorito pallido di chi ha paura, nonché la resina e il miele. Kýanos è usato per i capelli di Odisseo quando Atena lo fa bello: «scuri», verrebbe da tradurre, prima di scoprire che lo stesso aggettivo vale anche per i giacinti. Odisseo aveva i capelli blu? Disperato, qualche studioso ha concluso che i Greci vedevano le cose diversamente da noi. Improbabile, o meglio impossibile. I colori sono sempre quelli, e così pure noi. Ma i colori possono assumere significati e valori diversi nel corso del tempo, come ben mostra il caso del bianco, che per i Greci non aveva particolare importanza, anzi: di norma era associato al pallore delle donne costrette in casa. Nausicaa è «dalle bianche braccia», mentre Odisseo, dopo l’intervento di Atena, è melanchroiésha la pelle nera, letteralmente.
Anche per questo le statue erano colorate. E così pure i templi e persino i leggendari fregi del Partenone, ora al British Museum: erano blu, rossi e brillavano per le scaglie dorate. Sono poi stati sistematicamente sbiancati, non solo dall’opera del tempo ma anche dall’intervento di chi ha voluto riportarli (soprattutto nel XIX secolo) a un’inesistente condizione di purezza originaria. In un’epoca di accesi sovranismi e rivendicazioni identitarie, vale forse la pena tornare a riflettere su quello che lo storico Philippe Jockey ha chiamato, appena cinque anni fa, in un saggio mai tradotto in italiano, «il paradosso del Partenone»: il modello che sta alla base del «mito della Grecia bianca» non era bianco, perché il bianco, per i Greci, era il colore dell’incompiutezza, se non addirittura del disordine.

Sono piccole storie, apparentemente marginali, ma molto istruttive, perché ci aiutano a capire qualcosa di noi che altrimenti ci sarebbe sfuggito. Quale sia la posta in gioco, del resto, è chiaro, come ha scoperto Sarah Bond, una studiosa americana, l’estate scorsa. Aveva scritto su «Forbes» delle statue colorate; è stata ricoperta di insulti, e addirittura minacciata di morte. Il bianco, il colore apparentemente più neutrale e discreto, è in realtà quello più dirompente. È il colore che definisce una civiltà, la nostra, differenziandola e separandola dagli altri.
All’inizio si era trattato di un banale equivoco. Durante i secoli della tarda antichità e poi nel Medioevo le statue e i monumenti greci, caduti progressivamente in rovina, avevano perso i loro colori. Si era così diffusa la convinzione che fossero sempre stati così, come si vede in Andrea Mantegna e in tanti altri pittori rinascimentali. In quei quadri le rovine antiche sono sempre bianche, così come bianche saranno le statue che si scolpiranno seguendo quei venerati modelli. A qualcuno verrebbe in mente di colorare il David di Michelangelo? Il prevalere del bianco significa il prevalere della forma (il disegno), e quindi dell’ordine: questa è la lezione degli antichi. Poi le cose presero un’altra piega, proprio mentre gli archeologi iniziavano a trovare le prime tracce di colore. Queste nuove scoperte non avevano infatti minimamente impressionato il più grande studioso dell’arte antica, Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che impose definitivamente il canone bianco: «Un bel corpo sarà tanto più bello quanto più sarà bianco», scrisse. Solo che questa celebrazione del bianco – della bellezza della forma e dell’ordine – si accompagna ormai a prese di posizione sempre più decise nei confronti delle altre civiltà, che questi vertici di ordine e compostezza non avevano saputo raggiungere.

Il mito dell’antichità bianca diventa così lo strumento che serve a isolare il mondo greco (e romano, perché ormai Grecia e Roma formano un tutt’uno) dalle altre civiltà del mondo mediterraneo – il mondo levantino, pieno di colori, languido e sensuale, caotico, torbido... Ecco insomma che il bianco inizia a giocare un ruolo decisivo nella costruzione identitaria di un Occidente sempre più esaltato nella sua presunta superiorità. Lette su questo sfondo le pagine del già citato Chateaubriand acquistano un valore sintomatico. Al tempo del suo viaggio Atene era una città ottomana, meticcia, piena di minareti e chiese, brulicante di genti provenienti da tutte le parti del Mediterraneo: l’ascesa verso il Partenone bianco e silenzioso, il viaggio di liberazione da questo mondo colorato e turbolento, diventa un viaggio di iniziazione verso la riscoperta delle proprie radici più remote. E la situazione non cambia – tutt’altro! – quando si entra nel Novecento, con le appropriazioni di nazisti e fascisti: dal film Olympia di Leni Riefenstahl (statue greche, bianche, che si trasformano in atleti, bianchi, e corrono verso Berlino) allo stadio dei marmi di Mussolini o alle pagine web dei suprematisti di Identità Europa gli esempi si sprecano e raccontano sempre la stessa storia.
E non si tratta di loro soltanto: la Casa Bianca dei presidenti americani, che riprende palesemente i propilei dell’Acropoli, ne è un’altra palese conferma. Il mito bianco della Grecia (e di Roma) costituisce una colonna portante della tradizione occidentale, ed è meno innocuo di quello che può sembrare. Ma se tutto in Grecia era colorato, è evidente che l’opposizione sfuma, e così pure le gerarchie. Meglio seguire la provocazione dei Bagni misteriosi di de Chirico, da poco restaurati alla Triennale di Milano: statue greche colorate, dapprima spiazzanti, ma poi affascinanti nella loro inattualità. La distinzione tra Occidente e Oriente, bianco contro colori, è fittizia, e non solo dal punto di vista cromatico, ovviamente. Come tutti i popoli, anche i Greci sono stati gelosi della loro identità e delle loro tradizioni, adottando anche politiche ostili nei confronti dell’Altro, si trattasse di immigrati o stranieri. Ma questo non ha impedito circolazioni, scambi, viaggi, che hanno progressivamente ampliato le loro conoscenze e prospettive, contribuendo allo sviluppo della loro civiltà. Come nel verso più bello di Seferis: «Intanto la Grecia viaggia, viaggia sempre».
La nostra storia è la storia di questi incroci, e dei tanti altri che ne sono seguiti. Dimenticarsene, riducendola in schemi di opposizioni binarie, non è solo sbagliato: è uno spreco d’intelligenza e ricchezza.
La sfida è piuttosto ricomporre questa varietà colorata in un disegno armonico: per creare quello che i Greci chiamavano kósmos, uno spazio ordinato in cui le differenze non sono annullate, ma organizzate. Non è vero, come troppo spesso si pensa, che il passato sia qualcosa di stabile, che basta ricostruire così come è stato. La memoria, quella collettiva non meno di quella individuale, è sempre selettiva, e muove le sue tessere in modo molto libero e spregiudicato. Ed è per questo che lo studio della storia è così importante: perché spiegandoci chi siamo stati, ci aiuta a capire chi vorremmo o potremmo essere.

- Mauro Bonazzi - Pubblicato sulla Lettura del 3 giugno 2018 -

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