martedì 31 luglio 2018

Alluvioni e Matrimoni Infelici

ecologia

Dopo di noi, il diluvio
- di Timm Graßmann -

Ci sono delle figure che si suppongono legate a Marx, a loro dire, e vengono a metterci in guardia sull'ecologia come «il nuovo oppio delle masse» [*1], o che hanno affermato che «la natura non esiste» [*2] oppure che ci hanno spiegato che «la sostenibilità, in quanto tale, non è un tema di sinistra» [*3]. In questa sua attuale dissertazione, Kohei Saito fa pulizia di queste eccentricità, mostrando che alle volte vale la pena dare un'altra occhiata all'opera incompiuta di Karl Marx. Ed inoltre è anche in grado di dimostrare come il «matrimonio infelice» fra marxismo ed ecologia non possa essere sancito a partire dall'opera dello stesso Marx. Non solo Marx non era un modernista ingenuo, che possa essere considerato come il il portavoce di un produttivismo senza riserve che glorificava l'era industriale, ma «il vero bersaglio della critica dell'economia di Marx non può essere compreso correttamente [...] se si trascura l'aspetto dell'ecologia» (p.14). Saito è riuscito a realizzare il suo ambizioso progetto: rappresentare così in dettaglio il pensiero ecologico di Marx, sulla base della sua critica dell'economia, è una novità. [*4]
Nella prima parte del libro (capitoli da 1 a 3), Saito traccia lo sviluppo dell'ecologia in Marx, a partire dai suoi primi lavori fino a Il Capitale. Dopo aver evidenziato, nel primo capitolo, l'importanza che ha la relazione uomo-natura nella teoria dell'alienazione di Marx, più filosofica-antropologica ("umanismo = naturalismo"), nel secondo capitolo sviluppa l'idea secondo la quale il concetto scientifico-naturale del metabolismo sia stato una categoria centrale per Marx. Ponendosi contro l'interpretazione influente di Alfred Schmidt (pp.87-96), utilizza il "metabolismo" di Marx, non come se fosse un concetto "speculativo", ma nella sua dimensione filosofica e di scienza sociale: Marx intende la "natura", non come se fosse un'entità ontologica, separata, "indissolubile" e "non determinabile", ma la comprende nella sua interrelazione storicamente mutevole con la società [*5], di modo che il ritorno ad una "natura in quanto tale", presunta come non toccata dall'essere umano, è del tutto illusorio. Ma da questo proviene anche l'esigenza di esplorare e comprendere come la natura concreta (il suolo, le piante, l'aria) potrebbe finire per essere alterata e distrutta, oppure preservata ed elevata ad un livello superiore dall'influenza sociale. Schmidt, però, associò senza alcuna ragione Marx ai materialisti della filosofia naturale ed ai meccanicisti, come Jacob Moleschott e Ludwig Feuerbach, minimizzando quello che è stato il suo comprovato studio intensivo delle scienze della natura, come a proposito di Justus von Liebig.

Saito non si limita a compilare le numerose osservazioni di Marx, sparse per tutta la sua opera, sul degrado dell'ambiente, ma, nel terzo capitolo, stabilisce una connessione interna fra l'ecologia e la critica dell'economia di Marx. A tal proposito, si basa sull'interpretazione "giapponese" di Marx, quella di Samezō Kuruma [*6] e di Teinosuke Ōtani, purtroppo poco nota fra noi, per i quali sono centrali alcuni concetti come "lavoro privato", "soggettivazione del valore in quanto capitale" e "cosificazione della persona", e vi aggiunge una dimensione ecologica. Così, il dominio oggettivato del capitale dovrà mediare in maniera lacunosa il metabolismo fra esseri umani e natura, rivelandosi così incapace di prestare attenzione al lato materiale, sebbene questo contribuisca alla produzione. Una società di produttori privati - producendo per sé in maniera cieca ed indipendentemente l'uno dall'altro, e i cui prodotti del lavoro, dato il loro reciproco isolamento, assumono la forma di merce, e la cui sociabilità pertanto si costruisce solamente sul mercato dove portano la merce - esige il valore come regolatore della produzione. Costretti a produrre per il mercato, il comportamento dei produttori viene determinato dai loro stessi propri prodotti, dalle cose, ed il valore ottiene un potere sociale reale, che nessuna volontà umana o dello Stato potrà mai rompere. In quanto oggettivizzazione del lavoro astratto, la forza lavoro e le risorse naturali sono per il valore semplicemente dei "costi superflui" che devono essere minimizzati (p.122).
Più tardi, dal momento che il valore smette di presentarsi soltanto come mediatore della produzione, ma è stato soggettivato come capitale, vale a dire, dal momento in cui si è passati a produrre per amore del valore e della sua massima valorizzazione quantitativa, tutti gli aspetti materiali della produzione sono diventati secondari, ed il metabolismo sociale con la natura è stato riorganizzato sotto l'unico punto di vista di spremere il massimo di lavoro astratto (p.137-138). Appare convincente l'interpretazione del primo libro del Capitale, in cui Marx ha mostrato in maniera dettagliata come il capitale, in quanto "soggetto automatico" (p.138), perturba il metabolismo ecologico (Marx parla di «estensione "crudele ed incredibile" della giornata di lavoro» [*7], che esaurisce il lavoratore fisicamente e mentalmente); e quindi, dal lato della natura, sotto forma dell'esaurimento del suolo e della della distruzione delle risorse naturali. L'esposizione di Marx culmina con le ultime parole del capitolo sulla "Grande Industria e Macchinari", che non fanno l'elogio dello sviluppo delle forze produttive  da parte della borghesia, ma sobriamente afferma: «Ogni progresso dell'agricoltura capitalista non è solo un progresso nell'arte di saccheggiare il lavoratore, ma è allo stesso tempo un progresso nell'arte di saccheggiare il suolo, poiché ciascun progresso nell'aumento della fertilità per un certo periodo, è allo stesso tempo un progresso nella rovina delle fonti permanenti di quella fertilità. [...] Per questo, la produzione capitalista sviluppa solo la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale, indebolendo allo stesso tempo le fonti di ogni ricchezza: la terra ed il lavoratore» [*8]. Contro ogni sogno di un "capitalismo verde", dicono Saito e Marx, non si dà nessuna riabilitazione del metabolismo fra l'essere umano e la natura, finché persiste il dominio reificato del capitale, e la produzione della ricchezza materiale è solo un effetto collaterale della vera finalità della produzione.

Oltre ad incorporare la comprensione, espressa da Marx nella sua teoria del valore, della distruzione capitalistica della natura, il secondo grande nuovo contributo di Saito è quello di ricostruire - nella seconda parte (capitoli 4-6) - estesi passaggi inediti di Marx sulla chimica agricola, elaborati fra il 1865 ed il 1868. Anziché lamentarsi astrattamente del fatto che l'essere umano domina o distrugge "la natura", Marx si rivolge alle scienze naturali, al fine di comprendere, con il loro aiuto, come avvenga esattamente che le determinazioni formali economiche del modo di produzione capitalista destabilizzino il metabolismo sociale con la natura concreta. Gli studi di scienze naturali di Marx, dopo il 1867, non indicavano alcuna «fuga da "Il Capitale"», ma, al contrario, era proprio la sua critica dell'economia politica ad aver richiesto tali studi. Pertanto non si trattava di una deviazione rispetto ad "Il Capitale", bensì di un approfondimento.[*9]
Come sottolinea Saito, poco prima della pubblicazione de "Il Capitale", Marx aveva letto la settima edizione della "Agricultural Chemistry" (1862) di Justus von Liebig, della quale aveva ricevuto la quarta edizione. Liebig, che era stato il primo a credere che si potesse fermare l'esaurimento del suolo (argomento che all'epoca era considerato progressista e veniva ampiamente discusso) per mezzo dell'uso dei fertilizzanti chimici - il "laboratorio mondiale" britannico dipendeva dalle importazioni massicce di escrementi di uccelli del Perù (guano) [*10] - ora, invece, nella settima edizione, irradiava pessimismo in proposito: considerando la moderna "economia predatoria" (Liebig), la quale viola le leggi naturali della fertilità del suolo, a causa dell'espansione urbana e dello svilupparsi dell'opposizione città-campagna, il suolo si esaurirebbe inevitabilmente. Dal momento che i componenti del suolo usati nella città non ritornavano al suolo, ma finivano come rifiuti nelle fogne della metropoli, Liebig prevedeva un periodo di carestia, di guerra per le risorse e perfino la caduta della civiltà, se il problema dell'esaurimento del suolo non fosse stato posto sotto controllo.
Ben presto in tutto il mondo si sviluppa un'accalorata discussione sulle tesi di Liebig. Questa costellazione discorsiva a proposito della chimica agricola di Liebig, ricostruita da Saito, consente di riconoscere, nel suo sviluppo, quasi tutte le posizioni che ancora oggi si incontrano nella "questione ambientale". Ci ritroviamo le varie visioni del mondo borghese: l'antropologismo, nella figura di John Stuart Mill (p.180/181), che vede ora confermata da Liebig la "legge del rendimento decrescente del suolo" formulata da David Ricardo, la quale afferma la retrocessione lineare della produttività del suolo, diventata sempre meno redditizia, come legge naturale valida per tutte le società; poi, il "fantasma malthusiano", per il quale la popolazione è sempre di più e le risorse sono sempre più scarse, e che intende il "consumo" come il principio e la fine di tutti i problemi ambientali; e, infine, chi, come Wilhelm Roscher, per cui, nonostante l'esaurimento, tutto è in perfetto ordine, poiché con il declino delle rendite del suolo anche i prezzi dei prodotti agricoli aumenteranno, ragion per cui affluirà più capitale per l'agricoltura ed aumenterà la sua produttività - vale a dire, il mercato sta già regolando tutto quanto (p.187/188)
Contro l'ignoranza borghese, si ergono l'americano Henry Carey, critico dell'Inghilterra, ed il suo seguace Eugen Dühring, nazionalista tedesco ed antisemita: entrambi vedevano, riguardo al commercio dei loro paesi, la Gran Bretagna come la causa ultima di rottura dei circuiti materiali, che pretendevano di fermare per mezzo di uno "sviluppo armonioso" del "lavoro patrio" (Dühring), promosso attraverso una politica doganale protezionistica (pp.256-260). Attraverso questo affascinante panoramica delle teorie ecologiche del XIX secolo, Saito chiarisce quali erano le insidie che Marx volle evitare - egli aveva letto in maniera dettagliata tutti questi autori - e quali le posizioni che non sono di Marx.

Il fatto che Marx, nella seconda edizione de "Il Capitale" (1872), abbia riconsiderato il suo precedente apprezzamento di Liebig, e si sia espresso con più cautela a proposito dei suoi «meriti immortali» [*11], viene spiegato da Saito dicendo che Marx aveva sviluppato il suo campo di ricerca sulla teoria di Liebig, relativizzandola. Qui sarebbe stata decisiva, la teoria delle alterazioni climatiche dell'agronomo di Monaco e critico di Liebig, Carl Fraas [*12]. Marx ha parlato delle sue relazioni con Fraas [*13] solo una volta in maniera diretta e quasi euforica, ma ha lasciato un'infinità di estratti delle sue opere. Per Marx, Fraas sembra avere un duplice significato.
Sulla base della sua critica a Liebig, per cui l'analisi chimica di quelli che sono i costituenti del suolo, da sola non avrebbe potuto spiegare le condizioni di crescita delle piante, dato che l'erosione del suolo verrebbe in gran parte determinata dal clima locale, Fraas riconosce nell'alluvione (terra, sabbia e masse rocciose trasportate dall'acqua) un meccanismo di autoconservazione della natura e della sua fertilità. Fraas propone un alluvione artificiale, mediante la costruzione di dighe e la regolazione dell'acqua dei fiumi, che servirebbe a non fare esaurire violentemente le forze della natura, ma a regolare quest'ultima. Attraverso questa delicata organizzazione del metabolismo sociale con la natura, Fraaz mostra che questa non è necessariamente distruttiva, ma può essere configurata in maniera sostenibile (pp.276/277).
In secondo luogo, Fraas è «darwinista prima di Darwin» [*14]. Questo è un complimento, dal momento che all'inizio Marx era rimasto entusiasta di Darwin, per aver provato che nella natura esisteva una storia ed una dinamica storica. Tuttavia, mentre la natura in Darwin (sebbene egli proietti su di essa la lotta hobbesiana di tutti contro tutti) è altrettanto stabile del "gold standard" e nel suo sviluppo tende all'adattamento e all'equilibrio armonioso (nonostante la concorrenza), come avviene nei modelli economici per l'economia di mercato, in Fraas c'è una consapevolezza della crisi, che dimostra che nel corso dei secoli la mutazione climatica può essere prodotta dall'attività umana, anche se non intenzionalmente. Il suo studio su "Il clima e la flora nel corso del tempo" (1847) rivela che l'area mediterranea, dalla Persia fino al sud dell'Italia, è stata rovinata dalle civiltà antiche, dal momento che la sua deforestazione generalizzata ha distrutto il clima locale e, quindi, il suolo e la fornitura d'acqua - cosa che ha lasciato dietro di sé il deserto ed ha costretto le piante locali a migrare verso nord (p.277ss.). Secondo Fraas, questo avrebbe potuto ripetersi in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo; allo stesso modo di Liebig, egli avverte a proposito del rischio del decadimento della civiltà dovuto all'esaurimento del suolo.
Il fatto che Marx attribuisca a Fraas una «tendenza socialista inconscia» viene interpretato da Saito nel senso che successivamente Marx definisce la riabilitazione del metabolismo sociale con la natura come un compito centrale del comunismo: "inconscio", perché «egli [Fraas], in quanto borghese, è chiaro che non ci arriva» [*15] a comprendere la necessità di questa riabilitazione. Marx conferma così Fraas, nel senso che nelle società premoderne non esisteva alcuna unità non contraddittoria dell'essere umano con la natura, ma questa perturbazione si trasforma e si rafforza nel capitalismo, una volta che questo riorganizza radicalmente il metabolismo dal punto di vista della valorizzazione. La perturbazione del metabolismo non è una costante antropologica, ma, senza un programma agrario comunista - già descritto da Marx come se fosse «l'Alfa e l'Omega della rivoluzione ventura» - «il padre Malthus finisce per avere ragione» [*16].
Le principali linee argomentative, presentate con chiarezza, rendono l'opera di Saito uno dei libri su Marx più importanti degli ultimi anni, costituendo in tal modo una nuova opera di riferimento sul tema dell'ecologia in Marx, e certamente uno dei migliori libri sulla massa dei brani che hanno visto la luce grazie alla MEGA [Marx-Engels-Gesamtausgabe], e che potrebbero aprire una nuova prospettiva sugli scritti tardivi di Marx riguardo la geologia e la chimica, ancora del tutto inesplorati. Vale anche la pena di evidenziare le conoscenze di Saito: egli esamina le sottolineature a margine nelle copie personali della biblioteca di Marx (p.284-286), segue la traccia delle alterazioni del testo nelle diverse edizioni de "Il Capitale" (p.252), dimostra che ci sono errori di decifrazione nella MEW [Marx-Engels-Werke] (p.264), scopre, nelle analisi storiche del concetto, che Marx ha incontrato per la prima volta il termine "metabolismo" nel libro "Microcosmos" (1851) del suo collega di Colonia, Roland Daniels (p.79), e che trae da Liebig la metafora, ricca di conseguenze, di «composizione organica» del suolo. Tali scoperte non sono per lui fini a sé stesse, ma si trovano coerentemente inserite nella sua tesi secondo la quale l'ecologia non è un aspetto secondario della critica di Marx all'economia.

Questa valutazione non viene oscurata da alcune peculiarità interpretative. Ad esempio, Saito ignora quelle che sono delle antinomie quanto meno altrettanto fondamentali delle società capitaliste. Se finora abbiamo compreso come contraddizione fra "materia" e "forma", la divergenza fra ricchezza materiale e valore, con il crescente sviluppo delle forze produttive avvenuto nel corso dell'accumulazione del capitale, di modo che ogni volta sia necessario meno lavoro per produrre un'unità materiale, e questa, pertanto, contiene ogni volta meno valore, cosa che dovrebbe così tanto far precipitare il modo di produzione capitalista in una crisi fondamentale, così come dovrebbe anche rendere possibile un'associazione di individui liberi, per poter andare oltre la pressione di «tutta la merda economica» (Marx) ed al di là della carenza generalizzata; a tutto questo, da parte di Saito, non si fa alcun riferimento. Egli dice, «che Marx tematizza tutta la natura, o il "mondo materiale", come punto di resistenza contro il capitale, nel quale la contraddizione della produzione capitalista si manifesta più chiaramente» (p.14). Sarà forse ora la natura, il soggetto rivoluzionario, quando si dice che, secondo Marx, «la perturbazione del metabolismo naturale affronta in ultima analisi, come limite materiale, la pulsione sfrenata all'accumulazione del capitale» e che sarebbe «qui possibile far saltare in aria il capitalismo»? È l'autore stesso ad escluderlo, ma non riesce a spiegare perché dovrebbe essere la contraddizione ecologica ad evocare la coscienza critica (e non la critica del fatto che il capitalismo produce scarsità in mezzo all'abbondanza) [*17].
Dal momento che Saito non affronta la dinamica dell'accumulazione del capitale, egli (ancora) non vede che a partire da qui si può pensare una nuova teoria dello sviluppo storico della distruzione della natura. Egli arriva a verificare che il metabolismo sociale con la natura viene necessariamente rovinato dal capitale, ma non riesce ad indicare una tendenza al danno. È vero che solo un'indagine scientifica precisa può determinare come funzione questa perturbazione [*18], ma, in rapporto all'importanza crescente della produzione del plusvalore relativo, se ne può far derivare una tendenza. Lo stesso Marx aveva esposto le considerazioni relative alla nota 7 - riguardo l'estensione crudele ed incredibile della giornata lavorativa - nel contesto della «produzione del plusvalore relativo», vale a dire, della generazione di plusvalore attraverso la riduzione del tempo di lavoro necessario. L'aumento della produttività porta ad una riduzione nel valore per unità materiale, che dev'essere compensata attraverso l'aumento della produzione e, pertanto, attraverso l'aumento del consumo di materiale, accelerando la distruzione ambientale. Questa è anche la ragione dei vari effetti di rimbalzo: le risorse messe a disposizione attraverso la riduzione del consumo o per mezzo del riciclaggio, aumentano solamente il plusvalore relativo - economizzare risorse sarebbe ecologicamente vantaggioso solo in una produzione sociale cosciente [*19].
La tesi di Saito, secondo la quale Marx, che ancora nel Manifesto del Partito Comunista celebrava la borghesia per la sua «sottomissione delle forze della natura» e per la «coltivazione di interi continenti» [*20], si è allontanato sempre di più, insieme allo sviluppo della sua critica dell'economia politica, dall'irrimediabile ottimismo del progresso e del feticismo delle forze produttive, ed una tale tesi è una critica feroce al marxismo tradizionale, al quale erano estranee le considerazioni ecologiche. Lo stesso Marx aveva dichiarato, già nel 1845, che le «forze produttive [...] sotto proprietà privata si sarebbero trasformate in forze distruttive» [*21]. Ma anche se Marx era sempre stato scettico sui presunti «effetti civilizzatori» del capitalismo, Saito sottostima il fatto che Marx stesso, a quei tempi, andava in cerca dell'aumento delle forze produttive in agricoltura, per poter avere una base tecnologica alternativa per un'associazione di liberi individui. Nei suoi estratti dal libro di William Hamm, "Macchinari e macchine agricole in Inghilterra", Marx si mostra colpito dal modo in cui molte macchine agricole recenti rendevano superfluo il lavoro umano [*22]. E anche nelle frasi scritte immediatamente prima delle "ultime parole" del capitolo sulle macchine, citato prima, Marx probabilmente non è schizofrenico [*23], ma sostiene al contrario che la scienza e la tecnologia hanno un potenziale che potrebbe essere propizio per l'espansione delle capacità produttive, ma che è distruttivo nella sua forma e nelle sue applicazioni capitalistiche.

Contro una lettura di Marx eccessivamente modernista, Saito chiarisce che questi non ha formulato alcuna teoria della libertà individuale assoluta, e non solo contro «l'idiozia della vita rurale», ma anche contro la distruzione della vita fisica dei residenti urbani. [*24] Il comunismo non sarebbe allora il paese di Cuccagna, ma significherebbe organizzare la sopravvivenza. In che modo potrebbe essere iniziata questa «rivoluzione sociale radicale, nel senso della creazione cosciente di una struttura economica totalmente differente a livello globale, col proposito di regolare in maniera sostenibile il metabolismo naturale e sociale» (p.110/111), viene suggerito da Saito come una «strategia socialista» suggerita da Marx. Così come è stato posto un freno alla distruzione della forza lavoro, attraverso l'introduzione della giornata di lavoro legale di 10 ore, che Marx giustamente elogiò, allo stesso modo Saito richiede una sorta di 10 ore ecologiche (pp. 143/144, 301/302) che potrebbe essere pensata sotto forma di un limite superiore alle emissioni di CO2. Nella regolamentazione statale, Saito vede la possibilità di limitare la reificazione. Tuttavia, così come «sotto la pressione di una giornata lavorativa più breve» [*25], vale a dire, limitando la produzione di plusvalore assoluto, abbiamo solo dato il via alla «marcia tempestosa» della produzione di plusvalore relativo, anche lo sfruttamento del margine di manovra ecologica (se esiste, e non viene ridotto da una crisi) non farebbe altro che accrescere le contraddizioni. Inoltre, appare logicamente impossibile che il moderno «Stato del capitale» (Johannes Agnoli), dipendente esso stesso da un'accumulazione di capitale che abbia successo, possa essere "verde", se, come assume Saito, la distruttività ecologica si annida nella forma della merce e nell'inversione soggetto-oggetto che ad essa soggiace.
Ancora una volta, all'assenza della critica dello Stato corrisponde un'interpretazione ostinata della teoria del valore. Saito considera, quindi, non solo il lavoro concreto, ma anche il lavoro astratto come "materiale" e "sovra-storico". Questo deriva certamente dalla sua legittima critica del marxismo occidentale, che ha male interpretato la dimensione materiale in Marx, o, come in Alfred Schmidt, egli lo ha bandito dal dominio della possibilità della conoscenza, in quanto "ontologia negativa", rimanendo così bloccato l'accesso all'ecologia. Egli sostiene che il «concetto di lavoro astratto come "puramente sociale" ha delle gravi conseguenze, perché sarebbe assai più difficile da spiegare come il dominio, sotto il capitalismo, del lavoro astratto, il quale non possiede alcuna proprietà materiale, dovrebbe perturbare più che mai diversi aspetti del metabolismo fra l'essere umano e la natura» (p.134). Io non vedo niente del genere, si tratta semplicemente del lavoro concreto, che in tutte le società regola il metabolismo con la natura, e che solo nel capitalismo viene riorganizzato con la prospettiva di spremere il massimo di lavoro astratto. Il concetto di lavoro astratto presuppone la divisione della società in produttori di merci separati gli uni dagli altri: «Pertanto, gli uomini non relazionano i loro prodotti del lavoro fra di essi, perché considerano queste cose come meri involucri materiali di lavoro umano della medesima specie. Al contrario. Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno» [*26]. A Saito sembra che solo la mediazione dei lavori spesi come particolari e la distribuzione dei loro prodotti (in un caso e nell'altro, attraverso il mercato, lo scambio, il valore) è specificamente capitalista, e non già un'astrazione delle attività umane dal suo contenuto e dalla sua qualità, consumata per amore della sua scambiabilità.
Il merito di Saito è quello di mostrare che per la critica del valore di Marx - ben al contrario delle affermazioni citate all'inizio - l'ecologia non è una semplice «contraddizione secondaria» delle società capitaliste, e, inoltre, è anche a partire da essa che può essere compresa e spiegata l'attuale distruzione ambientale. Dato che la rottura dei cicli materiali si è ormai globalizzata, diversificata e accelerata (concentrazione di CO2 nell'atmosfera, desertificazione, perdita di biodiversità, acidificazione degli oceani, ecc.), diventa tanto più importante capire che responsabile di questo non è alcuna volontà, nessuna mancanza di tecnologia o di conoscenza, e assai meno nessun "modello di vita" molto alto, ma che questo è la conseguenza inevitabile del principio, che dev'essere preso alla lettera, dell'attuale modo di produzione: «Dopo di me il diluvio»!

- Timm Graßmann - Maggio 2018 - Pubblicato su EXIT!

Recensione del libro di Kohei Saito: Natur gegen Kapital. Marx’ Ökologie in seiner unvollendeten Kritik des Kapitalismus [La natura contro il capitale. L'ecologia di Marx nella sua incompleta critica del capitalismo]. Frankfurt a. M. 2016: Campus. 330 Seiten. ISBN: 978-3-593-50547-3.

NOTE:

[*1] - Intervista con Alain Badiou, Paris, Dezembro de 2007. In: Alain Badiou – Live Theory. Editado por O. Feltham. Londres 2008.
[*2] - Slavoj Žižek: Studenten haben meistens keine Ahnung [La maggioranza degli studenti non ne ha alcuna idea]
[*3] - Chantal Mouffe: Democracy in need of emotion and confrontation.  
[*4] - Già Moishe Postone aveva identificato una "tensione" fondamentale fra le considerazioni ecologiche e gli imperativi della valorizzazione del valore. Vedi Moishe Postone, in Tempo, lavoro e dominio sociale.
[*5] - Qui ci si può riferire all'esempio vivo del "ciliegio", il quale «come quasi tutti gli alberi da frutto è stato trapiantato nelle nostre zone grazie al commercio solo pochi secoli fa, com'é noto» e che «pertanto, solo a causa di quest'azione da parte di una determinata società in una determinata epoca gli è stata data la "certezza sensibile" di Feuerbach» (Marx, Engels, "L'ideologia tedesca). Va ricordato anche il fascino subito da Marx circa la trasformazione del paesaggio, come per la campagna di Roma. (ivi, p.21)
[*6] - Kuruma-Archiv: https://www.marxists.org/archive/kuruma/index.htm Così anche: Samezo Kuruma "Marx’s Theory of the Genesis of Money: How, Why and Through What is a Commodity Money". Denver 2008.
[*7] - Karl Marx: Il Capitale. Critica dell'economia politica. Libro 1
[*8] - Ivi p.477
[*9] - A fronte della scoperta dell'ecologia in Marx, ci sono alcuni che buttano via il bambino insieme all'acqua sporca. Come se in Marx non ci fosse mai stata una critica della formula trinitaria - vale a dire, dell'idea feticistica secondo cui la terra, il capitale ed il lavoro sarebbero i tre fattori, di uguale valore, della produzione - recentemente Carl-Erich Vollgraf ha affermato che il Marx tardivo aveva riconosciuto «il ruolo del suolo, oltre a quello del lavoro umano, come un fattore indipendente di creazione di valore», mettendo così in discussione la «validità illimitata della sua teoria del valore-lavoro» (Carl-Erich Vollgraf: Marx über die sukzessive Untergrabung des Stoffwechsels der Gesellschaft bei entfalteter kapitalistischer Massenproduktion [ "Marx sul progressivo indebolimento del metabolismo della società nella produzione capitalista di massa sviluppata], in Beiträge zur Marx-Engels-Forschung. Neue Folge 2014/15. Hamburg 2016. p. 106-132). Come prova, Vollgraf fornisce, fra l'altro, la formulazione svolta da Marx contro il feticcio del lavoro della socialdemocrazia tedesca nella "Critica del programma di Gotha": «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. Anche la natura è ugualmente fonte di valori d'uso (sono essi che costituiscono la ricchezza materiale!) [...]». Tuttavia, Marx qui è del tutto coerente con la sua distinzione fra valore, in quanto forma di ricchezza capitalista (creata dal lavoro astratto), e ricchezza oggettiva, concreta o materiale (creata dal lavoro concreto o dalla natura, sotto forma di, ad esempio, aria, acqua, o suolo, materie prime). "Il Capitale" rifiuta di concepire il plus-prodotto sociale in maniera diversa dalla forma valore, e rifiuta di concepire la natura in maniera differente dal dono di regali senza costo e di includerla nel suo calcolo del valore. Se Vollgraf avesse ragione, allora per Marx sarebbe vero quello che questi aveva annotato una volta a proposito di una frase di John Ramsay MacCulloch, "Nel suo status naturale, il materiale è sempre privo di valore": «Si vede come perfino un MacCulloch si ponga al di sopra del feticismo del "pensatore" tedesco che dichiara "il materiale", insieme ad un'altra mezza dozzina di scherzi, come se fosse un elemento del valore» (Karl Marx: Per la critica dell'economia politica, Primo libro).
[*10] - Si veda anche  Kurt Jacob: Landwirtschaft und Ökologie im „Kapital“ [Agricoltura ed Ecologia ne "Il Capitale"). In PROKLA Jg 27, 1997. H. 3. pp. 433-450.
[*11] - Marx: Il Capitale. Libro I.
[*12] - Su questo si veda anche: Kohei Saito: Marx’ Fraas-Exzerpt und der neue Horizont des Stoffwechsels [Gli estratti di Fraas in Marx ed il nuovo orizzonte del metabolismo]. n: Marx-Engels-Jahrbuch 2014. p. 117-140.
[*13] - Lettera di Marx ad Engels del 25 marzo 1868.
[*14] - Ivi
[*15] - Lettera di Marx ad Engels del 25 marzo 1868.
[*16] - Lettera di Marx ad Engels del 14 agosto 1851.
[*17] - Come dimostra l'esempio di  Dühring, ovviamente, è possibile anche un'elaborazione regressiva di questa contraddizione. Già Ernst Moritz Arndt ha rifiutato la distruzione della natura attraverso delle considerazioni nazionaliste, supponendo che, con le alterazioni climatiche causate della deforestazione, sarebbe mutato anche il "carattere nazionale" tedesco. Si veda: Engelhard Weigl: Wald und Klima: Ein Mythos aus dem 19. Jahrhundert [Foresta e Clima: Un mito del XIX secolo]. In : Humboldt na Net. Bd. 5. 2004. No. 9.
[*18] - Forse un futuro studio potrebbe chiarire, per esempio, se l'esaurimento del suolo è "solamente" la manifestazione della distruzione del metabolismo nel XIX secolo, oppure se questo problema è latente e non è ancora stato risolto. In primo luogo, si potrebbe dire che il collasso ecologico sia peggiorato, perché oggi, non solo gli esseri umani, ma anche gli animali, nel massiccio allevamento di bestiame in gran parte del pianeta, sono separati dal suolo, cosa che ha aumentato la pressione per l'uso di fertilizzanti. Tuttavia, con l'applicazione del processo di Haber-Bosch (fissazione dell'azoto dall'aria ai fini della produzione di fertilizzanti artificiali), è stata messa in moto una produzione apparentemente inesauribile di fertilizzanti, con la quale può essere evitato fin d'ora un esaurimento del suolo a lungo termine. Perciò, il termine "sovra-fertilizzazione" fa carriera e la produzione di fertilizzanti costituisce di gran lunga gran parte del fabbisogno di energia in agricoltura, cosa che ha fatto magicamente aumentare le emissioni di CO2 dell'industria agricola. Quindi, la crisi del suolo sarebbe stata rimandata.
[*19] - Claus-Peter Ortlieb: Uma contradição entre matéria e forma, in: EXIT! nº 6, 2009. pp. 23-54;  Postone: Zeit, Arbeit und gesellschaftliche Herrschaft [Tempo, lavoro e dominio sociale] (nota n° 4).
[*20] - Karl Marx, Friedrich Engels: Manifesto del Partito Comunista.
[*21] - Marx, Engels: L'Ideologia Tedesca.
[*22] - Si veda: Karl Marx: Caderno de excertos 1865/66. In: IISG, Espólio de Marx-Engels, Sign. B 98. p. 344: "A máquina ceifeira substitui o trabalho de 30 jornaleiros".
[*23] - «Nella sfera dell'agricoltura, la grande industria agisce in maniera più rivoluzionaria nella misura in cui annichila il baluardo della vecchia società, il "contadino", sostituendolo col lavoratore salariato. Il bisogno di rivoluzionamento sociale e le antitesi della campagna vengono, quindi, conformate a quelle della città. Al posto della produzione più ordinaria ed irrazionale, nasce l'applicazione cosciente e tecnologica della scienza. La rottura del legame familiare originale dell'agricoltura e della manifattura, che implicava la configurazione infantilmente non sviluppata di entrambe, viene completata dal modo di produzione capitalista. Ma essa allo stesso tempo crea i presupposti materiali di una sintesi nuova, più elevata, di un'unione fra agricoltura ed industria sulla base delle configurazioni antiteticamente elaborate» (Marx, Il Capitale, Libro I).
[*24] - «Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana, che si accumula nei grandi centri, la produzione capitalista, da un lato, accumula la forza motrice storica della società, ma, dall'altro, perturba il metabolismo fra l'uomo e la terra, vale a dire, il ritorno alla terra delle componenti della terra consumate dall'uomo sotto forma di alimenti e vestiario, ossia, l'eterna condizione naturale della fertilità permanente del suolo. Insieme a questo, essa distrugge simultaneamente la salute fisica dei lavoratori urbani e la vita spirituale dei lavoratori rurali» (ivi)
[*25] - Ivi. p.419.
[*26] - Marx, Il Capitale, Libro 1.

fonte: EXIT!

lunedì 30 luglio 2018

La rete della vita

moore china

L’intervento di Jason W. Moore al dibattito “Sovvertire il pianeta”, tenutosi lunedì 11 giugno 2018 allo Sherwood Festival di Padova

«Anche le creature dovrebbero diventar libere».
- Giustizia planetaria e origini della crisi biosferica –
di Jason W. Moore

«Anche le creature dovrebbero diventar libere». Queste parole furono pronunciate dal pastore radicale Thomas Müntzer nel 1524. Marx ne fu sufficientemente impressionato da citare Müntzer nel suo saggio La questione ebraica, ma pochi marxisti lo hanno preso sul serio. Le parole di Müntzer ci giungono dalla prima grande insurrezione della classe lavoratrice nella modernità, passata alla storia come la Guerra dei contadini tedeschi. Si trattava inoltre, benché né il marxismo anglo-centrico né quello anti-coloniale l’abbiano notato, della prima grande rivolta contadina contro le recinzioni.
Fu nell’Europa centrale che cominciò a emergere una nuova connessione, capitalistica e storico-mondiale, tra il denaro globale e la natura planetaria. Senza quell’argento che scorreva attraverso l’Europa, ci sarebbe stata scarsa fiducia nei nuovi strumenti di credito e nella carta moneta – e senza credito, non ci sarebbe stata nessuna conquista del Nuovo Mondo. Prima che la Spagna potesse conquistare il Nuovo Mondo e prima che i banchieri genovesi potessero dominare la Spagna, doveva costituirsi un nuovo rapporto tra moneta “pesante” e natura. Sempre nell’Europa centrale venivano prodotte le materie prime fondamentali per il capitalismo delle origini: rame, piombo e ferro. Cosa ancor più importante, le nuove tecniche minerarie e metallurgiche – che sostennero un’industrializzazione tanto prodigiosa quanto quelle che seguirono – permisero un incremento rivoluzionario della produzione di tutti i metalli estratti. Tra il 1450 e il 1530, essa quintuplicò.
In tutta l’Europa centrale, il nuovo capitalismo estrattivista ha perlustrato boschi e campagne alla ricerca di carburante, creando inquinamento diffuso e deforestazione. Persino Agricola (si tratta di Georg Agricola, scienziato e mineralogista tedesco vissuto nella prima metà del XVI secolo, ndr), il più grande “sponsor” dell’attività mineraria, osservò negli anni Cinquanta del Cinquecento che: «Boschi e boschetti vengono abbattuti perché c’è bisogno di una quantità infinita di legname per le macchine e la fusione di metalli. E quando boschi e boschetti vengono abbattuti, pure animali e uccelli sono sterminati: con loro scompare cibo piacevole e gradevole per l’uomo […]. Quando i minerali vengono lavati, l’acqua che è stata usata avvelena i ruscelli e i torrenti e distrugge i pesci oppure li caccia via”. (Agricola 1556, 8). Ma non c’è ragione di preoccuparsi, ha scritto Agricola. I profitti del settore minerario permetteranno a tutti di comprare il cibo e il legname che servono; e di sostituire gli uccelli con lussi più piacevoli. L’ideologia della crescita infinita, dello sviluppo senza fine, dell’accumulazione illimitata ha radici molto antiche.
Mentre l’attività mineraria esplodeva e gli alberi venivano ripuliti, l’attività di recinzione delle foreste avanzava. Nel 1524, Müntzer denunciò queste recinzioni, svelando la logica attraverso cui «ogni creatura dovrebbe essere trasformata in proprietà – i pesci nell’acqua, gli uccelli dell’aria, le piante nella terra: anche la creatura dovrebbe diventar libera» ( citato in Marx 1975, 172). Fino al 1450, le foreste erano state abbondanti; rari invece i conflitti tra signori e contadini. Nel 1525 «la situazione cambiò completamente» (Blickle 1981, 73). La Guerra dei contadini tedeschi del 1525 registrò non solo una formidabile protesta contro le recinzioni delle foreste da parte dei signori, ma anche la dura realtà dei rapidi cambiamenti nella vita, nella terra e nel lavoro.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, alcuni studiosi radicali hanno individuato l’Anno Zero della crisi planetaria intorno al 1800, e il suo luogo d’origine da qualche parte in Inghilterra, la culla del vero capitalismo. Questo è un problema, dal punto di vista storico. Infatti né il capitale né tantomeno l’industria, la classe operaia, il degrado ambientale emergono nella loro forma moderna dopo il 1800. Tutto questo è emerso nel corso del lungo XVI secolo, che comprende all’incirca i due secoli successivi al 1450.
Il mito radicale convenzionale delle origini capitaliste – l’Inghilterra, intorno al 1800 – è anche profondamente problematico per ragioni politiche. Suggerisce che l’imperialismo moderno, la schiavitù, il razzismo, così come molto altro, siano elementi secondari per una politica rivoluzionaria. Semplicemente: il modo in cui concepiamo la storia del capitalismo ha moltissimo a che fare con il modo in cui immaginiamo un futuro giusto, sostenibile e socialista.
Siamo abituati a pensare alla crisi planetaria in termini di sostanze: troppi gas serra, troppe persone, troppe fabbriche. Esiste una versione mainstream di quest’immaginario: si tratta della retorica neomalthusiana dei “limiti della crescita”. L’idea di fondo è che i limiti stiano al di là dei rapporti sociali capitalistici: sarebbero limiti esterni. Esiste anche una versione radicale di questo modo di pensare: le contraddizioni del capitalismo sarebbero sociali e interne, mentre i rapporti biosferici e la crisi planetaria attuale sarebbero naturali ed esterni.
Le sostanze sono importanti. Di mestiere faccio lo storico ambientale, quindi mi piace studiare suoli, foreste, attività minerarie, apparati produttivi e città; come molte altre cose. Ma le sostanze non ci dicono nulla se vengono separate dai rapporti storico mondiali che le avvolgono. Oltre che storico sono anche marxista. Per me la più grande intuizione di Marx è stata quella di inserire lo studio della storia – questo include la storia della crisi attuale – all’interno di un quadro relazionale. Per parafrasare Marx: il carbone è solo una roccia nella terra. Solo all’interno di determinati rapporti storici e geografici il carbone diventa un “combustibile fossile”. Sono stati i rapporti tra scienza, impero e capitale che hanno fatto il carbone. Ma naturalmente anche il carbone ha fatto il capitalismo.
Cosa succede se consideriamo che le civiltà – o modi di produzione, per usare un linguaggio più vecchio – fanno due cose contemporaneamente? Se teniamo conto di come le civiltà creano ambienti e di come gli ambienti creano le civiltà? I modi di produzione, in altre parole, non solo producono nature, ma vengono anche prodotti dalla rete della vita.
Non è questa la realtà odierna del cambiamento climatico? Da un lato, il capitalismo spinge il cambiamento climatico attraverso la sua continua privatizzazione (enclosure) dei beni comuni dell’atmosfera. Dall’altro lato, il cambiamento climatico sta direttamente formando e influenzando le condizioni del rilancio (renewal) capitalistico. Ciò è chiaro, nel modo più evidente, nella stagnazione pluridecennale del modello proprio del capitalismo del cibo a buon mercato. L’agricoltura comporterà due terzi dei costi del riscaldamento globale lungo i prossimi tre decenni. Due terzi! Questo è determinante perché il rapporto fondamentale del mondo moderno è il modello del cibo a buon mercato che ha prodotto – per cinque secoli – sempre più cibo con sempre meno forza lavoro.
In altre parole, il capitalismo ha “prodotto” il cambiamento climatico attraverso le recinzioni (enclosing) e attraverso l’internalizzazione dei beni comuni dell’atmosfera.  Al tempo stesso, il sistema climatico sta ora, in maniera crescente, “producendo” le condizioni negative dello sviluppo capitalistico – “negative” nel senso che il cambiamento climatico sta negando, sta minando, il Modello del cibo a buon mercato.
Naturalmente, il problema è molto più grande di così.  Alcuni critici hanno sostenuto che tale tesi ignora le conseguenze disastrose che il cambiamento climatico ha sulla vita della grande maggioranza della popolazione. Chiaramente è una critica sprovveduta. Ho scritto per vent’anni su come le crisi del capitalismo producano condizioni di vita disastrose per la maggioranza degli abitanti del pianeta. Ma se vogliamo sapere come sfidare il capitalismo nel 21° secolo, allora abbiamo bisogno di capire le contraddizioni strategiche del capitalismo, i suoi punti di vulnerabilità. Così, per me, la crisi del sistema climatico e la crisi del cibo a buon mercato ci permettono di vedere come i movimenti per la sovranità alimentare possano sostenere progetti rivoluzionari per il capitalismo come sistema.
La idee, scrive Marx, possono diventare “forze materiali” quando sono afferrate, fatte proprie, dalle masse. Dunque, le idee contano. Non solo la storia delle idee radicali, ma anche la storia del pensiero borghese. Il socialismo prese forma nel 19° secolo, e si concentrò con enfasi sulle macchine della cosiddetta Rivoluzione industriale. L’ambientalismo prese forma negli anni ‘70 del ‘900, e pure in questo caso il suo punto di riferimento furono le macchine, la “società industriale” […]. E in più lo spettro della sovrappopolazione – che infatti significa sempre la sovrappopolazione dei popoli che non sono bianchi.
Le macchine, come i materiali, sono importanti. Ma il capitalismo non ha avuto bisogno della macchina a vapore per trasformare la vita del pianeta. Un cambiamento radicale nella scala, velocità e scopo del cambiamento territoriale si è verificato nel lungo 16° secolo. Questo cambiamento fu spesso dello stesso ordine di grandezza o anche più grande.
I tre secoli successivi al 1492 segnarono la più grande rivoluzione produttrice-di-ambiente (environment-making) dall’alba dell’agricoltura, avvenuta 12 mila anni prima. Ciò accadde non solo a causa del colonialismo, o del commercio, ma anche perché il capitalismo riorganizzò vita, lavoro e potere attraverso un dualismo selvaggio: Civiltà e Natura. Questo dualismo fu fondamentale per la violenza di genere, razziale e coloniale del primo capitalismo. Esso fu profondamente violento e oppressivo. Esso resta profondamente violento e oppressivo. E fu anche qualcosa di radicalmente nuovo: esso convertì l’idea di “Natura” esterna in una pratica materiale; e convertì la “Natura” in una forza di produzione.
Natura/Società divenne l’astrazione operativa per stabilire un’egemonia borghese globale che fece due cose contemporaneamente. Da un lato, essa ridefinì molta parte del lavoro umano nel capitalismo come non lavoro. Donne, popoli indigeni, africani e molti altri furono espulsi dalla Società, e collocati nella Natura – per essere meglio deprezzati (cheapened) nel doppio senso di questa parola, un correlato (entangled) progetto etico ed economico. Dall’altro lato, essa giustificò le continue appropriazioni, recinzioni e espropriazioni – collegate a genocidi ricorrenti – che permisero a tutta la vita e terra di essere deprezzate, o perfezionate, nei termini di Locke.
Qui si inizia a vedere la divisione delle attività (work) del capitalismo – non la divisione del lavoro (labor), sebbene le due siano collegate – : forza-lavoro salariata, lavoro umano non pagato, il lavoro della natura nel suo insieme. La “Società” diventa l’ambito degli imperialisti, degli scienziati, dei commercialisti, dei coltivatori, dei sacerdoti – quasi tutti bianchi e maschi. Ogni altro – donne, popoli indigeni, popoli di colore, lesbiche, gay – furono esiliati all’ambito della “Natura” […]. Al meglio sarebbero stati trattati a buon mercato (cheaply), sia in termini di svalutazione economica delle loro attività e delle loro vite, sia nel senso inglese del termine, cioè di essere trattati senza dignità e rispetto, di trattare le loro vite e le loro attività come superflui e sacrificabili (disposable).

Atene

Lontano dall’essere un dualismo innocente, la separazione tra “uomo” e “natura” è stata fondamentale per il dominio coloniale, il mutamento ambientale, il genocidio. Sin da quando Colombo raggiunse l’Hispaniola. L’idea dell’Umanità come l’agente della crisi ambientale – oggi cristallizzato nel linguaggio del cambiamento antropogenico – è stata un’indispensabile arma nell’arsenale del capitalismo.
Antropogenico (fatto dagli umani). Qui vediamo un vecchio trucco capitalistico che si realizza attraverso il discorso ambientalista: prendere un problema creato dall’1%, e poi dire che è colpa del 99%.  L’attribuzione all’umanità della causa del cambiamento climatico è uno stile (brand) speciale del pensiero magico. Esso dice, in effetti, che le diseguaglianze e la violenza di razza, classe e genere sono preoccupazioni secondarie.
Antropogenico? O Capitalogenico?
Un’alternativa è riconoscere che il “cambiamento di stato” planetario individuato dagli scienziati del sistema Terra richiede un cambiamento di stato intellettuale. Questa è un’argomentazione che sostiene il concetto di Capitalocene piuttosto che quello di Antropocene.  Il Capitalocene non sfida le argomentazioni relative alla storia geologica.
Parlare di Capitalocene significa sostenere che il capitalismo è un’ecologia-mondo, composta da potere, capitale e natura. Porre la questione in questi termini significa dunque enfatizzare le possibilità storiche e i limiti storici del capitalismo nella rete della vita.
Il pensiero marxista e quello ecologista – come i progetti politici a loro affini – hanno fallito molte volte nel trovare un terreno comune perché hanno attribuito quelli che Marx chiama ‘poteri soprannaturali’ (Marx 1970, 1) ad uno o all’altro elemento del dualismo Natura/Società. In genere prevalevano una forma di fondamentalismo del lavoro e una di fondamentalismo della natura. Sul versante politico, ciò si manifesta nell’assurdo – e falso – conflitto tra “lavoro” e “ambiente”.
La tragedia di questo falso conflitto è emersa ancora una volta nel settembre del 2016 attorno al completamento del progetto del Dakota Access Pipeline – un oleodotto di circa 1200 miglia che trasporta il petrolio greggio dal North Dakota al Sud dell’Illinois (Sammon 2016).
L’ AFL-CIO (il più grande sindacato di lavoratori del paese) ha invitato il governo federale a garantire il completamento del gasdotto (2016), anche se i Sioux di Standing Rock e i loro alleati hanno organizzato una forte opposizione. Questa volta, tuttavia, hanno anche trovato sostegno nel movimento sindacale, non ultimo nel National Nurses United, che ha dichiarato che il progetto dell’oleodotto è una “continua minaccia alla salute pubblica” (2016). Questa convergenza tra movimenti operai e sociali attorno alla difesa della riproduzione socio-ecologica (definita in termini ampi) suggerisce uno sviluppo intravisto da O’Connor già molti anni fa (1998). Poiché il capitalismo avanzato estende il nesso monetario ai domini chiave della riproduzione socio-ecologica, non solo minaccia il benessere delle nature umane ed extra-umane, ma stabilisce anche nuove condizioni della lotta anticapitalista. Queste “nuove condizioni” attivano le relazioni della riproduzione del capitalismo (assistenza sanitaria, educazione, ma anche i beni comuni planetari) e favoriscono una politica radicale del lavoro e della vita, che va necessariamente oltre l’economia – e verso il recupero e la reinvenzione di beni comuni globali di ogni tipo.
Se non si tratta del conflitto tra lavoro e ambiente, di cosa si tratta? Forse il pensiero di Marx sul lavoro ci fornisce una strada per andare avanti, sotto il profilo analitico, ma anche in termini strettamente politici. Ricordiamoci che il capitalismo organizza tre tipi di lavoro: il lavoro salariato nell’economia monetaria, il lavoro non pagato degli umani e il lavoro non pagato della natura nel suo complesso. Ognuno di questi campi è in crisi: ciò che rende la situazione attuale una crisi potenzialmente epocale è che ogni contraddizione, in ogni ambito della vita e del lavoro, è sempre più coinvolta nelle altre. È una crisi del lavoro, una crisi della vita del pianeta.  Attraversa l’organizzazione capitalistica del lavoro, pagato e non pagato, umano ed extra-umano.
Riconoscere questa tripartizione del lavoro ci dà l’opportunità di immaginare una nuova politica rivoluzionaria per la giustizia globale.
Rielaborare il lavoro nel capitalismo – superando il fondamentalismo del lavoro – fornisce una via per uscire dalla sgradevole realtà di oggi. Una politica rivoluzionaria del lavoro che non può affrontare i problemi del lavoro di cura e della riproduzione sociale è destinata al fallimento; così come una politica del lavoro radicale è incapace di affrontare la crisi della biosfera. Una politica rivoluzionaria della natura che non riesce ad affrontare le questioni del lavoro precario e di quello pericoloso, dell’”umanità in eccedenza”, della violenza razzializzata, di genere e sessualizzata sarà destinata al fallimento. È giunto il momento di una discussione su come forgiare una visione radicale che assuma come premessa l’insieme organico della vita e della biosfera, della produzione e della riproduzione.
Di quali narrazioni abbiamo bisogno per trovare la nostra strada verso il cambiamento dello stato del pianeta? Credo che tali narrazioni abbiano bisogno di riferimenti precisi per la cura, la compassione e la connessione che mancano così profondamente nel mondo di oggi. Come agiamo, pensiamo, amiamo e organizziamo la nostra strada verso questo cambiamento?  Un’indicazione fondamentale per l’ecologia-mondo è che abbiamo bisogno di pensare, lavorare e coltivare in nuovi modi, specialmente attraverso un’etica di cura, per gli esseri umani, per la rete della vita e per le interdipendenze tra più persone che rendono possibile una buona vita.
Ciò significa porre la natura al centro delle riflessioni sul lavoro, porre il lavoro al centro della nostre riflessioni sulla natura e mettere da parte la presunzione che l’organizzazione umana di ogni cosa (dalla famiglia alle corporation transnazionali) possa essere adeguatamente compresa separatamente dalla rete della vita. Partendo da queste fratture teoriche – ma sempre più che intellettuali – possiamo trovare dei modi per conversare, coltivare e curare nuove ecologie della speranza e della giustizia nel XXI secolo.
 

- Jason W. Moore - Pubblicato su GlobalProject -

Fonte: Effimera. Critica e Sovversione del Presente

domenica 29 luglio 2018

Incommensurabili!

matematica

«Visto che di tempo ne hai anche troppo,» scrive all'inizio di febbraio 1940 Simone Weil all'amatissimo fratello maggiore, detenuto nel carcere civile di Le Havre per renitenza alla leva (André riteneva suo dovere «fare il matematico e non la guerra») «un'altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l'interesse e la portata dei tuoi lavori»; e una decina di giorni dopo insiste: «Cosa ti costerebbe tentare? Ne sarei entusiasta». André, che a caldo le aveva risposto: «Tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi», di fronte alle questioni che lei continua a sottoporgli alla sua maniera fervida e acutissima finisce per cedere. Comincia così uno scambio che è un concentrato di passione intellettuale e affetto – e li induce anche a scontrarsi su punti capitali, come la scoperta degli incommensurabili e il carattere della scienza greca. E i due fratelli sono ugualmente capaci di parlare di Pitagora e dell'Odissea, di cardinali abili nelle strategie di corte e dell'importanza del sanscrito, di Dedekind e di Gauss...

(dal risvolto di copertina di: Simone Weil, André Weil, L'arte della matematica. Adelphi.)

Il teorema dei Weil
- di Paolo Zellini -

Non vi è nulla di più fecondo di quei palpeggiamenti un poco adulteri”, di quei “torbidi e deliziosi riflessi”, di quelle “carezze furtive, di quegli screzi inesplicabili” coi quali la ricerca procede tentativamente prima della formazione di una sola e maestosa Teoria. “Il piacere deriva dall’illusione e dal turbamento dei sensi; dissolta l’illusione, ottenuta la conoscenza, si raggiunge al tempo stesso l’indifferenza”.
Quasi si stenta a credere che a scrivere queste righe, al margine di un lungo discorso su come agisce il principio dell’analogia nell’elaborazione di nuove teorie, fosse André Weil, uno dei grandi matematici del Novecento, membro fondatore di Bourbaki, il celebre gruppo di giovani ricercatori francesi destinato fin dagli anni Trenta a esercitare una grande influenza nel modo scientifico.
Quelle parole risalgono al marzo 1940, quando André scriveva all’amatissima sorella Simone dal carcere civile di Le Havre, dove era detenuto per renitenza alla leva, perché riteneva suo dovere “fare il matematico e non la guerra”. Le lettere tra André e Simone sono ora raccolte ne L’arte della matematica, appena pubblicato da Adelphi a cura di Maria Concetta Sala.
Un volume prezioso non solo per la straordinaria qualità dei due interlocutori, ma anche perché proprio il registro confidenziale del carteggio favoriva una rara libertà di espressione e di pensiero. Le ipotesi più azzardate e disinvolte si mescolano alle lunghe e tumultuose digressioni tecniche di André sulle congruenze numeriche e sulle sorprendenti analogie tra numeri e funzioni. Lo stesso fratello matematico si rende conto di aver parlato “in ostrogoto” alla sorella, consapevole che di quelle cose Simone non avrebbe potuto capire nulla. Ma il fascino di questo dialogo epistolare sta proprio nella diversità di percorso che si manifesta tra fratello e sorella, nella distanza paragonata all’affinità, nell’obiettivo distacco tra il formalismo matematico, lontano dal mondo e familiare ad André e il significato simbolico e religioso della matematica greca esplorato da Simone. Questo distacco si legge pure nel larvato rimprovero che Simone rivolge al fratello, invitandolo a riflettere bene sulla sua riluttanza a dare chiarimenti sul significato delle sue ricerche.
La moderna teoria dei gruppi e la teoria degli insiemi, azzarda Simone, potrebbero far sperare di rendere intelligibile e percepibile l’unità tra l’universo e la mente umana, e di far apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di ragione”, un’aspirazione evidentemente assai lontana dalle preoccupazioni formaliste dei bourbakisti. Per Simone era soprattutto l’anima algebrica della matematica, estranea alla civiltà greca e prossima invece a quella babilonese e poi moderna, a impedire quell’unità e quella sintesi conoscitiva.
Nello scambio epistolare emergono congetture ardite e suggestive, che investono tutta la varietà di forme di pensiero nelle civiltà antiche. Per Simone, la geometria greca si fondava soprattutto sull’idea di proporzione.
Ma era essenziale il fatto che si trattasse di proporzione tra grandezze della geometria, come linee e superfici, e non tra i numeri degli algoritmi babilonesi. Senza il passaggio dal calcolo babilonese alla geometria greca, non sarebbe mai avvenuta la scoperta che esistono grandezze incommensurabili.
Su questo punto cruciale, sul significato della scoperta degli incommensurabili, Simone e André avevano idee decisamente contrastanti.
Quella scoperta, per André, avrebbe decretato la rovina del pitagorismo, dell’idea per cui ogni cosa è esprimibile attraverso il numero. Per Simone, invece, la scoperta non fu “affatto una sconfitta per i pitagorici, come ingenuamente si crede, bensì il loro più meraviglioso trionfo”.
Di un dramma si sarebbe in ogni caso trattato, anche perché le tecniche con cui si poteva dimostrare che certi numeri (reali) non sono uguali a rapporti tra interi, potevano minacciare – sostiene Simone – la stessa nozione di verità. Si dimostra che, se la radice quadrata di 2 fosse uguale al rapporto tra due numeri interi, uno stesso numero dovrebbe essere sia pari sia dispari. Una conclusione paradossale, se pur non così assurda per un matematico sufficientemente iniziato agli enigmi della sua disciplina, che poteva contribuire a far nascere l’idea che si possono dimostrare ugualmente bene due tesi contraddittorie. Un argomento, virtualmente utile a certa sofistica, che avrebbe contribuito a diffondere un sapere di qualità inferiore.
André sembra però accogliere alcune idee di Simone sul significato religioso del concetto greco di proporzione. La proporzione e il rapporto, egli nota, sono ciò che si può nominare e la scoperta degli incommensurabili dimostra che esiste una parola che non si può pronunciare, un logos che non è logos. La teoria greca della proporzione suggerirebbe allora che agli inizi del pensiero greco si sia avuto un “sentimento della sproporzione” tra il pensiero e il mondo, tra l’uomo e Dio, una sproporzione di un’intensità tale da sentire il “bisogno di gettare a ogni costo un ponte al di sopra di quell’abisso”. Certo – aggiungeva scettico André – non si poteva pensare di trovare quel ponte nella matematica. Ma il legame tra matematica e le preoccupazioni filosofiche-religiose era storicamente attestato per l’epoca di Pitagora e la celebre sentenza platonica “Dio è un perpetuo geometra” sarebbe diventata un potente incentivo per imitare Dio, sulla Terra, con gli strumenti della matematica.

- Paolo Zellini - Pubblicato su Repubblica il 15/4/2018 -

sabato 28 luglio 2018

La tecnologia dell'invidia

argomenti carneGli argomenti contro la civiltà
- I nostri avi cacciatori-raccoglitori lo facevano meglio? -
di John Lanchester

Tendiamo a considerare la scienza e la tecnologia quasi come se fossero fratelli, se non addirittura gemelli, come se facessero parte di un unico gruppo ("scienza, tecnologia, ingegneria, e matematica"). Quando si parla delle meraviglie del mondo moderno - come i supercomputer che sono nelle nostre tasche e comunicano con i satelliti - ecco che la scienza e la tecnologia sono davvero a portata di mano. Per gran parte della storia umana, però, la tecnologia non ha avuto niente a che fare con la scienza. Molte delle nostre invenzioni più significative sono dei semplici attrezzi, dietro i quali non si trova alcun metodo scientifico. Ruote e pozzi, pulegge e mulini e ruote dentate ed alberi delle navi, orologi e timoni e rotazione delle colture: tutte queste cose sono state fondamentali per lo sviluppo umano e per lo sviluppo economico, e nessuna di tutte queste cose ha avuto un collegamento storico con quello che noi oggi pensiamo come scienza. Alcune delle cose più importanti che oggi usiamo quotidianamente sono state inventate molto tempo prima che venisse adottato il metodo scientifico. Io adoro il mio computer portatile ed il mio Iphone ed il mio GPS, ma il pezzo di tecnologia che abbandonerei meno volentieri, l'unica che è riuscita a cambiare la mia vita fin dal primo giorno che l'ho usato, e dai cui dipendo subito non appena mi sveglio - e sulla quale mi sto basando proprio adesso, mentre batto sui tasti - risale al 13° secolo: sono i miei occhiali. Il sapone è servito a prevenire più morti di quanto abbia fatto la penicillina. E questa è tecnologia, non scienza.
In “Against the Grain: A Deep History of the Earliest States”, James C. Scott, un professore di scienze politiche a Yale, presenta quello che è il candidato ad essere il più importante pezzo di tecnologia in tutta la storia dell'uomo. Si tratta di una tecnologia così vecchia che è addirittura precedente all'Homo sapiens e va accreditata al nostro antenato Homo erectus. Questa tecnologia è il fuoco. E lo abbiamo usato in due modi decisivi e determinanti. Il primo è più ovvio è il cuocere i cibi. Come ha sostenuto Richard Wrangham, nel suo libro "Catching Fire", la nostra capacità di cucinare ci ha consentito di estrarre più energia dal cibo che mangiamo, e anche di mangiare una gamma assai più vasta di cibi. Il nostro parente animale più prossimo, lo scimpanzé, possiede un colon tre volte più grande del nostro, in quanto la sua dieta a base di cibi crudi è più difficile da digerire. Il valore extra calorico che otteniamo dal cibo cotto ci ha permesso di sviluppare i nostri grandi cervelli, i quali assorbono circa un quinto di tutta l'energia che consumiamo, a differenza della maggior parte dei mammiferi, il cui cervello ne consuma solo un decimo. È questa la differenza che ci ha reso la specie dominante del pianeta.
La seconda ragione per cui nella nostra storia il fuoco è diventato centrale, e meno ovvio allo sguardo degli occhi contemporanei: l'abbiamo usato per adattare ai nostri scopi tutto il paesaggio che ci sta intorno. I cacciatori-raccoglitori, mentre si muovevano, avrebbero usato il fuoco per ripulire il terreno e prepararlo così ad una più rapida crescita, attirando nuove piante. Avrebbero anche usato il fuoco per spingere e far muovere gli animali. Hanno usato così tanto questa tecnologia che - ritiene Scott - dovremmo datare la fase corrispondente alla terra dominata dall'uomo, il cosiddetto Antropocene, a far tempo dal momento in cui i nostri antenati hanno cominciato a dominare questo nuovo attrezzo.

Scott suggerisce che noi non attribuiamo sufficiente importanza alla tecnologia del fuoco, in quanto nel lungo periodo non diamo troppo credito all'ingegnosità dei nostri antenati - il 95% della storia umana - un periodo durante il quale la maggior parte degli esseri della nostra specie erano dei cacciatori-raccoglitori. «Dal momento che il fuoco umano in quanto architettura del paesaggio non viene registrato nei nostri resoconti come avrebbe dovuto, forse è per questo che i suoi effetti si sono diffusi per centinaia di millenni, usato da popoli "precivilizzati", noti anche come "selvaggi"», scrive Writes. Per dimostrare il significato del fuoco, fa riferimento a quello che abbiamo trovato in alcune caverne in Sudafrica. I primi strati delle caverne, quelli più antichi contengono scheletri interi di carnivori e molti frammenti di ossa masticati provenienti dalle cose che allora mangiavamo, compresi noi stessi. Poi viene lo strato risalente a quando avevamo scoperto il fuoco, e i proprietari delle caverne cambiano: gli scheletri umani ora sono interi, e quelli dei carnivori sono frammenti di ossa. È il fuoco a costituire la differenza fra mangiare ed essere mangiati.
Gli esseri umani anatomicamente moderni sono stati in circolazione da circa duecentomila anni. Per la maggior parte del tempo, abbiamo vissuto come cacciatori-raccoglitori. Poi, circa dodicimila anni fa arriva quello che viene generalmente considerato come il momento che separa il prima e il dopo rispetto alla nostra ascesa a dominatori del pianeta: la rivoluzione neolitica. Con questo abbiamo adottato quello che, secondo le parole di Scott, è tutto il "pacchetto" dell'innovazione agricola, in particolare l'addomesticamento degli animali come la mucca ed il maiale, ed il passaggio dalla caccia e dalla raccolta alla semina ed alla coltivazione dei semi. Fra le colture, le più importanti sono stati i cereali - grano, orzo, riso e mais - che rimangono tuttora la base della dieta umana. I cereali hanno consentito alla popolazione la crescita e la nascita delle città, e, quindi, lo sviluppo degli Stati e la nascita delle società complesse.
La storia che viene raccontata in "Against the Grain" rivede pesantemente questa narrazione ampiamente diffusa. La specialità di Scott non è la prima storia umana. Il suo libro si è concentrato su un punto di vista scettico rispetto alla formazione agricola dello Stato; la traiettoria dei suoi interessi può essere tracciata a partire dai titoli dei suoi libri, da “The Moral Economy of the Peasant” ("L'economia morale del contadino") a “The Art of Not Being Governed” ("L'arte di non essere governati").  Il suo libro più noto, "Seeing Like a State" ("Vedere le cose dal punto di vista dello Stato"), è diventato un punto di riferimento per gli scienziati politici, e costituisce una feroce critica della pianificazione centrale e del "modernismo spinto", dell'idea secondo la quale i funzionari che sono al centro dello Stato ne saprebbero di più rispetto alle persone che governano. Scott sostiene che gli interessi di uno Stato e gli interessi di soggetti spesso non solo sono differenti, bensì opposti. Il progetto della collettivizzazione agricola di Stalin «ha funzionato abbastanza bene come mezzo attraverso cui lo Stato poteva determinare i modelli di coltivazione, fissare i salari rurali reali, appropriarsi di una larga parte di qualsiasi cosa venisse prodotta, e castrare politicamente la campagna»; ed ha anche ucciso milioni di contadini.

argomenti AGAINST-THE-GRAIN

Il nuovo libro di Scott trasporta queste idee nel passato profondo, e si basa sulle ricerche esistenti per arrivare a sostenere che la nostra non è affatto una storia di progresso lineare, e che la linea temporale è assai più complicata, e che le sequenze causali della versione standard sono tutte sbagliate. Focalizza il suo resoconto sulla Mesopotamia - diciamo, grosso modo, su quello che è l'Iraq odierno - dal momento che è «il cuore di quelli che sono stati i primi Stati "incontaminati" del mondo»; il termine "incontaminato" qui significa che quegli Stati non recavano tracce di insediamenti precedenti, ed era la prima volta che esistevano simili organizzazioni sociali. Sono i primi Stati che hanno avuto dei documenti scritti, e sono diventati un modello per altri Stati nel Vicino Oriente ed in Egitto, cosa che li ha resi doppiamente rilevanti per tutta la storia successiva.
La grande novità che emerge dalla recente ricerca archeologica, riguarda il lasso di tempo intercorso fra la "sedentarietà" (vivere in comunità sedentarie stabili) e l'adozione dell'agricoltura. La scuola precedente sosteneva che era stata l'invenzione dell'agricoltura a rendere possibile la sedentarietà. Le prove dimostrano che ciò non è vero: c'è stato un enorme gap - quattromila anni - a separare i «due addomesticamenti chiave» degli animali e dei cereali, dalla prima economia agraria basata su questi addomesticamenti. I nostri antenati hanno esaminato a lungo ed attentamente le possibilità dell'agricoltura, prima di decidere di adottare questo nuovo modo di vivere. Ed hanno potuto pensarci così a lungo perché vivevano in un'era notevolmente abbondante. Così, allo stesso modo, come viene suggerito dalla prima civiltà nella Cina della valle del fiume Giallo, anche la Mesopotamia era un territorio umido, come il suo nome ("in mezzo ai fiumi") suggerisce. Nel Neolitico, la Mesopotamia era una zona umida del delta, laddove il mare arrivava per molte miglia nell'entroterra dell'attuale costa.
Si trattava di un paesaggio generoso per gli esseri umani, che offriva pesci e gli animali che predavano i pesci, terreno fertile grazie alle regolari inondazioni, uccelli migratori, e prede migratrici che viaggiavano lungo le rotte dei fiumi. Lì vennero stabilite le prime comunità stanziali perché il territorio offriva una rete altamente diversificata di fonti di cibo. Se un anno falliva una fonte di cibo, ce ne sarebbe stata un'altra. Perciò, l'archeologia mostra che il "pacchetto neolitico" di addomesticamento ed agricoltura non ha portato all'insediamento delle comunità, antenate delle nostre moderne città e paesi. Quelle comunità sono esistite per migliaia di anni, nelle generose condizioni dei territori umidi, prima che l'umanità si dedicasse all'agricoltura intensiva. La dipendenza da una coltura di cereali, densamente coltivata, era molto più rischiosa, e non c'è da stupirsi che abbiano aspettato qualche millennio prima di fare il cambiamento.
Allora, perché i nostri antenati sono passati da questa complessa rete di risorse alimentari alla produzione concentrata di una singola coltura? Questo non lo sappiamo, anche se Scott specula sul fatto che in questo possa essere stato coinvolta una qualche sollecitazione climatica. Ad ogni modo, due cose sono chiare. La prima è che, per migliaia di anni, la rivoluzione agricola è stata, per la maggior parte delle persone che l'hanno vissuta, un disastro. I reperti fossili dimostrano che per gli agricoltori la vita era più dura di quanto lo fosse per i cacciatori-raccoglitori. Le loro ossa forniscono le prove di uno stress alimentare: erano meno alti, più malati, il loro tasso di mortalità era più alto. Il fatto di vivere in prossimità di animali domestici aveva portato a contrarre malattie che hanno incrociato la specie, causando caos e distruzione nelle comunità densamente popolate. Scott non le chiama città, ma «campi multispecie di reinsediamento del tardo neolitico». Chi mai sceglierebbe di vivere in uno di essi? Jared Diamond ha definito la Rivoluzione Neolitica come «il peggior errore della storia umana». La cosa sorprendente circa un'affermazione del genere è che, fra gli storici dell'epoca, non è mai stata molto controbattuta.

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L'altra conclusione che possiamo trarre dalle prove, dice Scott, è che esiste un legame diretto e decisivo fra la coltivazione di cereali e la nascita dei primi Stati. Non che i chicchi di cereali fossero gli unici prodotti alimentari dell'umanità; solo che erano gli unici che incoraggiassero la formazione degli Stati. «La storia non registra alcun Stato legato alla manioca, né al sagu, alla batata, alla banana, all'albero del pane o alla patata dolce», scrive. Cosa c'era di così speciale nel grano? La risposta ha senso per chiunque abbia familiarità con un modello 740: il grano, diversamente dalle altre colture, è facile da tassare. Alcune colture (patate, patate dolci, manioca) sono sepolte e quindi possono essere nascosti agli esattori delle tasse, e che, anche se vengono scoperte, hanno bisogno di essere scavate individualmente e faticosamente. Altre colture (soprattutto, legumi) maturano ad intervalli diversi, oppure forniscono raccolti che avvengono attraverso tutta una stagione di crescita, piuttosto che lungo una traiettoria che procede dall'acerbo al maturo - in altre parole, l'esattore delle tasse non può arrivare una volta e prendere tutto il dovuto. Solamente i cereali sono, secondo le parole di Scott, «visibili, divisibili, valutabili, conservabili, trasportabili, e "razionabili"». Ci sono altre colture che hanno alcuni di questi vantaggi, ma solo i cereali li posseggono tutti, e perciò il grano diventa «il principale amido alimentare, l'unità di tassazione in natura, e la base per l'egemonia di un calendario agrario». Ora il fisco può arrivare, valutare i campi, stabilire un livello di tassazione, e poi tornare ed essere sicuro che avrà la sua parte di raccolto.
È stata la capacità di tassare e di estrarre un surplus dalla produzione dell'agricoltura che, secondo la narrazione di Scott, ha portato alla nascita dello Stato, ed anche alla creazione di società complesse con gerarchie, divisione del lavoro, mansioni specialistiche (soldati, preti, servitori, amministratori), e ad un'élite che presiede a tutto questo. Dal momento che i nuovi Stati richiedevano un'enorme quantità di lavoro manuale per irrigare le coltivazioni di cereali, hanno richiesto anche delle forme di lavoro forzato, inclusa la schiavitù; e dal momento che il modo più semplice di procurarsi schiavi era quello di catturarli, gli Stati hanno avuto una nuova propensione ad intraprendere guerre. Alcune delle prime immagini della storia umana, provenienti dai primi Stati della Mesopotamia, consistono di schiavi che vengono fatti marciare mentre recano delle lunghe catene al loro collo. Se aggiungiamo questo alle frequenti epidemie e alle cattive condizioni generali di salute delle prime comunità insediate, non è difficile capire come ultimamente sia opinione generale che la Rivoluzione Neolitica sia stata un disastro per la maggioranza delle persone che l'hanno vissuta.
Guerra, schiavitù, dominio delle élite - tutto questo è stato reso più facile grazie ad una nuova tecnologia di controllo: la scrittura. «È praticamente impossibile concepire perfino i primi Stati senza che vi sia una tecnologia di conservazione sistematica dei registri numerici», sostiene Scott. Tutte le cose buone che associamo alla scrittura - il suo utilizzo a fini culturali, per l'intrattenimento, per la comunicazione e per la memoria collettiva - erano ancora distanti nel futuro. Per un mezzo migliaio di anni dopo la sua invenzione, in Mesopotamia, la scrittura è stata usata esclusivamente per la contabilità: «lo sforzo massiccio per rendere leggibile ai suoi governanti ed ai suoi funzionari del tempio, una società, la sua manodopera, e la sua produzione, attraverso un sistema di annotazione, per estrarre da essa grano e lavoro». Le prime tavolette consistono di «liste, liste, liste», dice Scott, e i soggetti di quelle registrazioni sono, in ordine di frequenza, «orzo (in quanto razioni e tasse), prigionieri di guerra, schiavi maschi e femmine». Walter Benjamin, il grande critico culturale ebreo tedesco, che si suicidò mentre cercava di scappare dall'Europa controllata dai nazisti, affermava che «non esiste alcuna documentazione della civiltà che non sia allo stesso tempo anche una documentazione della barbarie». Quello che intendeva dire, è che ogni cosa complicata e meravigliosa che l'umanità abbia mai fatto, se la guardi abbastanza a lungo, ha un'ombra, una storia di oppressione. In quanto semplice fatto storico, per quanto sembri giusto, è stato un lungo e traumatico viaggio che va dall'invenzione della scrittura fino alla discussione al tuo club del libro a proposito dell'ultimo lavoro di Jodi Picoult.

Conseguentemente, dobbiamo ripensare a cosa intendiamo quando parliamo di antiche "epoche oscure". La domanda posta da Scott è precisa: «"oscura" per chi e sotto quali aspetti?». La documentazione storica mostra che le prime città ed i primi Stati erano soggetti ad improvvise implosioni. «Nei circa cinque millenni di sedentarismo sporadico prima degli Stati (sette millenni, se includiamo il sedentarismo pre-agricolo in Giappone ed in Ucraina)», scrive Scott, «gli archeologhi hanno registrato centinaia di locazioni nelle quali c'erano stati degli insediamenti, che poi erano stati abbandonati, e poi forse reinsediati, e poi di nuovo abbandonati». Questi eventi di solito vengono definiti come "collassi", ma Scott ci invita a ispezionare da vicino anche quel termine. Quando gli Stati collassano, e smettono di essere costruiti stravaganti edifici, le élite non gestiscono più le cose, i documenti scritti non vengono più conservati, e la massa della popolazione va a vivere da qualche altra parte. In tal caso, tratta di un collasso, in termini di standard di vita, per la maggior parte delle persone? Secondo i calcoli di Scott, gli esseri umani vivevano principalmente al di fuori della sfera di competenza degli Stati fino a circa l'anno 1600 A.C. Fino a quella data, da cui partono gli ultimi due decimi dell'1% della vita politica dell'umanità. «poteva succedere che gran parte della popolazione mondiale non avesse mai visto quello che era il segno distintivo della presenza dello Stato: un esattore delle tasse».
La domanda circa che cosa significava vivere al di fuori della cultura stabile di uno Stato, è quindi importante ai fini della valutazione complessiva della storia umana. Se quella vita fosse, come la descriveva Thomas Hobbes, «cattiva, brutale e breve», questa è un'informazione vitale al fine di riuscire ad elaborate una narrazione di come siamo arrivati ad essere quelli che siamo. Sostanzialmente, la storia umana diverrebbe una semplice storia di progresso: la maggior parte di noi era disgraziata per la maggior parte del tempo, poi abbiamo sviluppato la civiltà, e tutto ha cominciato ad andare meglio. Ma nel caso che la maggior parte di noi non era disgraziata ed infelice per la maggior parte del tempo, ecco che allora l'arrivo della civiltà diventa un evento un po' più ambiguo. In una colonna del libro mastro, avremmo lo sviluppo di una cultura materiale complessa che permette le glorie della scienza moderna e della medicina e le meraviglie dell'arte che abbiamo accumulato. Nell'altra colonna, avremmo le cose meno buone, come la peste, la guerra, la schiavitù, la stratificazione sociale, tutte cose governate da spietate élite che spadroneggiano, e Simon Cowell!
Per sapere cosa significa vivere come viveva la gente per la maggior parte della storia umana, dovresti trovare uno di quei posti dove sono ancora vive le pratiche tradizionali di caccia e raccolta. Dovresti passarci lì molto tempo, per essere sicuro che quella che stai vedendo sia realmente un'esperienza vissuta; e, idealmente, avresti bisogno di un metro di paragone, persone che siano simili ai tuoi cacciatori-raccoglitori, ma che vivono in maniera diversa, in modo che tu possa avere un "controllo" scientifico che ti permetta di escludere locali incidenti di circostanza. Fortunatamente per noi, l'antropologo James Suzman ha fatto esattamente questo: ha trascorso più di vent'anni visitando, studiando, e vivendo in mezzo ai boscimani del Kalahari, nel sud-ovest dell'Africa. Si tratta di una storia che racconta nel suo nuovo libro, “Affluence Without Abundance: The Disappearing World of the Bushmen” ["Benessere senza abbondanza: Il mondo che scompare dei Boscimani"].
I Boscimani hanno attratto per molto tempo l'interesse di antropologhi e scienziati. Circa 150.000 anni fa - 150.000 anni dopo che erano emersi i primi esseri umani anatomicamente moderni - c'era un gruppo di Homo sapiens che viveva nell'Africa meridionale. I Boscimani, o Khoisan, sono ancora lì: l'evoluzione più antica sull'albero genealogico umano. (Il termine "Boscimano", che una volta veniva considerato dispregiativo ora viene usato dal loro stesso popolo e dallo ONG, «che ora viene chiamato ad evocare un insieme di stereotipi positivi, anche se romantici», annota Suzman, anche se alcuni Khoisan preferiscono usare il termine "San"). Le prove genetiche suggeriscono che, per gran parte di quei 150.000 anni, essi sono stati la più grande popolazione di esseri umani biologicamente moderni. La loro lingua utilizza dei clic palatali, come un "tsk", che viene fatto spingendo indietro lingua a partire dai denti anteriori mentre si succhia delicatamente l'aria, ed il "clic" che viene fatto premendo la lingua contro l'arcata della bocca, spingendola poi improvvisamente verso il basso. Tutti ciò fa aumentare l'affascinante possibilità che il linguaggio dei clic sia la più antica varietà linguistica sopravvissuta.

argomenti boscimani

Suzman ha visitato per la prima volta i Boscimani nel 1992, ed è andato a vivere con loro due anni più tardi, come parte della sua ricerca per il dottorato. Il gruppo che conosce meglio sono gli Ju/’hoansi (il segno fonetico ' rappresenta un tsk), dei quali sopravvivono ancora fra gli otto e i diecimila, occupando le zone di confine fra la Namibia ed il Botswana. I Ju/’hoansi rappresentano circa il 10% della popolazione totale dei Boscimani dell'Africa australe, e si dividono in un gruppo nord, che mantiene un significativo controllo sulle loro terre tradizionali - e che quindi hanno ancora la possibilità di praticare la caccia e la raccolta - ed un gruppo sud, che sono stati privati delle loro terre e sono stati "reinsediati" in modi di vita moderni.
La ricerca di Suzman sui Boscimani, sposa in maniera notevole le idee di "Against the Grain" di Scott. Per i Boscimani, l'incontro con la modernità è stato disastroso: il ritratto che fa Suzman degli Ju/’hoansi spossessati, alienati, sofferenti, nei loro miserabili campi di reindesiamento rende chiaro tutto questo. Ciascuno dei due libri conferma, l'uno rispetto all'altro, la narrazione di quella nuova sinistra tecnologia chiamata scrittura. Il mentore boscimano di Suzman, !A/ae, «aveva notato che ogni volta che cominciava a lavorare in qualsiasi nuova fattoria, il suo nome sarebbe stato inserito in un registro degli occupati, un documento che nel corso dei decenni aveva assunto un grande potere mistico fra i Ju/’hoansi delle fattorie. I segreti posseduti da quei registri avevano evidentemente il potere di dare o togliere la paga, di assegnare le razioni, e determinare i diritti di un individuo a stare in una particolare fattoria».
Ne risulta che cacciare e raccogliere è un buon modo di vivere. Uno studio del 1966 ha rilevato che, per fornire un'adeguata riserva di cibo, in media questo impegna un Ju/’hoansi  solo per circa 17 ore la settimana; altre 19 ore vengono spese per attività e compiti domestici. L'apporto calorico medio dei cacciatori-raccoglitori era circa di 2.300 al giorno, vicino alla quantità raccomandata. in quell'epoca, negli Stati Uniti, queste cifre erano attinenti ad un'analoga settimana lavorativa di 40 ore di lavoro e di 36 ore di lavoro domestici. I Ju/’hoansi non accumulano eccedenze; consumano tutto il cibo di cui hanno bisogno, quindi si fermano. Mostrano quello che Suzman chiama «una fiducia incrollabile» nel fatto che il loro ambiente soddisferà i loro bisogni.
La rete di fonti di cibo che viene utilizzata dai cacciatori-raccoglitori Ju/’hoansi, è proprio esattamente quella che Scott attribuisce alla popolazione neolitica, una dieta complessa, con una vasta gamma di proteine animali, inclusi porcospini, kudu, gnu, ed elefanti, e 125 specie di vegetali commestibili, con diversi cicli stagionali, nicchie ecologiche, e risposte alle fluttuazioni metereologiche. I cacciatori-raccoglitori hanno bisogno non solo di un almanacco annuale non scritto di conoscenza dietetica, ma anche di quello che Scott definisce come una «libreria di almanacchi». Come egli suggerisce, la diminuzione nella complessità dovuta al passaggio dalla caccia-raccolta all'agricoltura domestica è altrettanto grande della diminuzione dovuta al passaggio dall'agricoltura domestica alla routine lavorativa di assemblaggio su una linea di produzione.
Qui, la novità consiste nel fatto che la vita della maggior parte dei nostri progenitori era migliore di quanto pensiamo. Aduliamo noi stessi, credendo che la loro esistenza fosse così spaventosa e che quella nostra, moderna, sia a confronto così grande. Eppure, tuttavia, ci troviamo dove siamo, e viviamo nel modo in cui viviamo, ed è possibile domandarsi se qualcuna di queste illuminanti conoscenze a proposito dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori possa esserci utile. Suzman si chiede la stessa cosa. Discute il famoso saggio di John Maynard Keynes, del 1930, "Possibilità economiche per i nostri nipoti”. Keynes ipotizzava che se il mondo avesse continuato a diventare più ricco noi avremmo naturalmente goduto di uno standard di vita elevato mentre avremmo fatto molto meno lavoro. Keynes pensava che «il problema economico» di avere abbastanza per vivere sarebbe stato risolto, e che «la lotta per la sussistenza» sarebbe finita:
«quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudo-morali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione Denaro il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali».
Il mondo è diventato davvero più ricco, ma è difficile vedere un qualsiasi cambiamento nella morale e nei valori. Il denaro ed il sistema di valori intorno alla sua acquisizione rimangono del tutto intatti. L'avidità è ancora valida.

La ricerca sui cacciatori-raccoglitori, che vivono giorno per giorno e non accumulano eccedenze, dimostra che l'umanità può vivere più o meno come suggerisce Keynes. Solo che stiamo scegliendo di non farlo. Suzman suggerisce che una chiave per quell'abilità perduta, o a cui abbiamo rinunciato, risiede nel feroce egualitarismo dei cacciatori-raccoglitori. Ad esempio, la cosa più preziosa che può fare un cacciatore, è tornare con la carne. A differenza delle piante raccolte, i cui proventi sono «non soggetti ad alcuna rigida convenzione relativa alla loro condivisione», la carne cacciata viene distribuita accuratamente secondo il protocollo, e le persone che mangiano la carne che viene data loro devono essere scortesi con essa. Questo rituale viene chiamato «insultare la carne», ed è stato progettato per essere sicuri che il cacciatore non si monti la testa e non cominci a pensare di essere migliore di chiunque altro. «Quando un giovane uccide molta carne», ha detto un Boscimane all'antropologo Richard B. Lee, «comincia a pensare a sé stesso come se fosse un capo o un grande uomo, e pensa del resto di noi come a dei servi o a degli inferiori... Noi non possiamo accettare questo». Gli insulti sono progettati per «raffreddare il suo cuore e renderlo gentile». Per questi cacciatori-raccoglitori, scrive Suzman, «la somma dei singoli interessi personali e la gelosia che su di essi vigila ha costituito una feroce società egualitaria, dove lo scambio proficuo, la gerarchia, e la significativa disuguaglianza materiale non venivano tollerati».
Questo impulso egualitario, suggerisce Suzman, è fondamentale perché il cacciatore-raccoglitore possa vivere quel genere di vita, alle proprie condizioni, una vita prosperosa, ma senza abbondanza, senza eccessi e senza che vi sia acquisizione competitiva. L'ingrediente segreto sembra essere l'imbrigliamento positivo dell'impulso umano generale all'invidia. «Se per noi la precondizione che ci farà abbracciare un mondo post-lavoro, è questo tipo di egualitarismo, allora  ho il sospetto che sarà difficile da raggiungere». Certo, ci sono un bel po' di cose che noi possiamo imparare dal più antico ramo esistente dell'umanità. ma questo non significa che siamo sul punto di mettere in pratica questa conoscenza. Un utilizzo socialmente positivo dell'invidia, oggi, potrebbe essere una tecnologia altrettanto utile del fuoco.

- John Lanchester - 18 settembre 2017 -

fonte: communists in situ