mercoledì 23 maggio 2018

Diari camuffati…

imre

« Wittgenstein. A Vienna non c'è traccia di lui. In compenso, in lui - in Wittgenstein - mi trovo dappertutto a Vienna. Una concisione elevata a perversione, l'odio dell'ebreo per sé stesso (in fondo, si tratta della migliore opportunità per poter studiare al livello più nobile, più elevato, il modo in cui è emerso, e funziona, l'antisemitismo); in generale, l'insicurezza dell'autovalutazione, come risultato fatale di tutti i calci ricevuti dal padre e dallo Stato, improvvisamente, ad un certo punto del percorso forzato che porta alla distruzione, diventa fertile e fruttuosa - il pensiero come tentativo di sovrapporsi, il pensiero come vendetta, come l'ultimo sguardo, colmo di disprezzo e di lucidità, che il fuggiasco rivolge al suo passato.
Mahler - diceva lui (Wittgenstein) - era una cattivo compositore. Mentre traduco questa cazzata, metto su il disco della sesta sinfonia. In un'intervista, Thomas Bernard dice che - al contrario di suo nipote Paul - Ludwig Wittgenstein era “unmusikalisch” (non aveva orecchio musicale). Ma non si tratta solo di questo. "Una cosa è seminare idee, un'altra, coglierle", sto traducendo das Vermischte Bemerkunge: ora, Wittgenstein non era disposto ad accogliere le idee di Mahler, secondo me, perché Mahler era ebreo. Così diventa facile fraintendere un'opera. Oppure: le opere sono così fragili? No, sono molto più fragili ancora. Ogni comprensione è un fraintendimento. Possiamo dire allora che è il fraintendimento a mantenere vive le opere? No, questo sarebbe difficile da sostenere.
» (Imre Kertész, Io, un altro. Cronaca di una metamorfosi. Bompiani)

Anche qui, come nel caso di Sándor Márai a Weimer, la situazione si ripete. E si ripeterà fin quando ci sarà letteratura: lo scrittore davanti alla città, visitando e rivisitando quello che, nella città, è allo stesso tempo sia estraneo che familiare (il parossismo di questa situazione consiste nella relazione che ha Thomas Bernard con l'Austria, e che Kertész non solo cita, ma conosceva bene). L'esposizione che ne fa Kertész, in "Io, un altro" si espande e si complica a partire da tre percorsi simultanei e paralleli: il primo, ha a che fare con il rapporto che ha, da ebreo-ungherese, con la lingua tedesca, di cui egli fa uso nella sua attività professionale post-Shoa (come traduttore e, in questo caso specifico, come traduttore di Wittgenstein); in secondo luogo, Kertész riflette continuamente sulla recente dissoluzione dell'universo sovietico avvenuto a partire dal 1989, ed il suo libro fa il rendiconto di una serie di viaggi in delle città che vivono ancora in parte sotto l'ombra del regime sovietico; in terzo luogo, il libro, che si presenta come un romanzo autobiografico, è, in larga misura, un diario camuffato, un diario che non indica alcuna data, che non segna direttamente il passare del tempo nel calendario (ma che, eppure, funziona come accumulazione di registrazione di giorni, mesi e anni che passano).

Nessun commento: