domenica 20 maggio 2018

Chiacchiere insensate

cioran

Fra il Seicento e la fine del Settecento, nasce e si sviluppa in Francia un genere che subito raggiunge picchi mai eguagliati in seguito: il ritratto. In poche righe vengono disegnati profili non meno memorabili di quelli di certi personaggi di romanzo. Ma qui si tratta, molto spesso, di persone illustri. Di questi scritti Cioran era un conoscitore portentoso: nessuno dunque meglio di lui avrebbe potuto, attingendo al vasto giacimento dei mémoires, allestire una galleria al tempo stesso così personale e così essenziale: dall'ineguagliabile Saint-Simon, «anima equatoriale», a Madame du Deffand, soavemente feroce sulla marchesa du Châtelet; da Madame de Genlis – che ritrae un Rousseau acrimonioso, ipocrita e vanitoso – a Rivarol, implacabile su Mirabeau; da Talleyrand, «moralista demoniaco», a Madame de Staël e a de Pradt, che vede lo spirito di Napoleone come «un guazzabuglio metà manto regale, metà costume da arlecchino»; da Chateaubriand, che infierisce su Talleyrand, a Benjamin Constant e a Sainte-Beuve – per terminare con Tocqueville. Con una luminosa osservazione a fare da guida: «Il ritratto come genere è nato per lo più dal risentimento e dall'esasperazione dell'uomo di mondo che ha frequentato troppo i suoi simili per non aborrirli».

(dal risvolto di copertina di: E.M. Cioran, Antologia del ritratto, Adelphi)

Dame, statisti e reverendi l'arte del ritratto secondo Cioran
- di Pietro Citati -

Nell'anno 1937 E. M. Cioran abbandonò la Romania, dove era nato nel 1911, e insieme abbandonò i suoi sentimenti e le sue idee letterarie e politiche, che tuttavia continuarono ad affascinarlo e a perseguitarlo. Andò a Parigi. Visse in miserabili, miserabilissimi piccoli hôtel nel quartiere latino, dove nello stesso tempo abitavano Hannah Arendt, Walter Benjamin, Joseph Roth e altri emigrati antinazisti.
La mattina presto Cioran andava alla Bibliothèque Nationale, dove per anni lesse, anzi ingoiò come dice l'Apocalisse, innumerevoli libri di ogni genere. Non conosceva soste né limiti. Da quelle frenetiche e geniali letture giovanili è nata la bellissima Antologia del ritratto (Adelphi, traduzione di Giovanni Mariotti, pagg. 312 euro 15), pubblicata in anni successivi. Egli si era lasciato alle spalle la giovinezza drammatica, desiderosa di assoluto e di lacrime.
Come Samuel Beckett, apprese a scrivere mirabilmente il francese. Diventò uno scrittore francese, con radici nel tardo Seicento e nel Settecento, sebbene quella lingua diventasse, tra le sue mani, qualcosa di romantico, fantastico e apocalittico. Nemmeno negli ultimi libri rivelò chiaramente cosa dovesse alla Francia e ai francesi: certo il dono della conversazione con gli amici (era un mirabile, divertentissimo conversatore), la leggerezza e una specie di appassionata indifferenza. Ma la Francia era un paese molto più reticente e misterioso di quanto egli credesse. La amava e la detestava in modo egualmente furibondo, specie durante la notte, quando, divorato dall'insonnia e dall'ansia, percorreva le piazze e le strade di Parigi.

L'antologia di Cioran inizia con alcune mirabili pagine tratte dai Mémoires di Louis de Saint-Simon: il duca di Noailles, il reverendo Dubois e il Reggente. Sullo sfondo si avverte ancora l'eco degli ultimi, sinistri e tenebrosi anni del regno di Luigi XIV: la sottigliezza di Madame de Maintenon e poi di Madame de Montesson. Ma, come Proust, egli ama soprattutto Saint-Simon. Pensa che sia stato il più grande ritrattista di ogni tempo e di ogni lingua. Ama e venera la sua invidia indiscriminata e incandescente: la sua gelosia: il suo furore: la sua volontà di dominare: quel pozzo senza limite e senza fondo di tenebre: quell'io immenso, dilatato più di qualsiasi ego; e i mirabili scorci. Saint-Simon si sentiva chiuso e ristretto in qualsiasi luogo e in qualsiasi forma ed evadeva in uno spazio superiore ad ogni luogo. Anche Cioran cerca di evadere: dovunque, da qualsiasi parte, pur di non abitare il tediosissimo qui ed ora.
Subito dopo Saint-Simon, ecco la grande, e sconosciuta Madame de Staal-Delauney: Grimm: Madame du Deffand: Marmontel: Rivarol: gli sconosciuti Étienne Dumont e Brissot (Cioran ama gli sconosciuti): Madame Vigée Le Brun, Madame de Staël: Madame de Remusat: il grande e sconosciuto De Pradt, Chateaubriand: Ioubert: Benjamin Constant – fino ad Alexis de Tocqueville, col quale, un po' improvvisamente, l'antologia si conclude. La materia ritrattata non potrebbe essere più vasta. Non solo Rousseau, Mirabeau, Madame de Roland. Ecco Talleyrand: «Prima di essere calato in una cripta », scrive velenosamente Chateaubriand, «la mummia di Talleyrand è stata per poco esposta a Londra, come rappresentante della monarchia-cadavere che ci regge. Immaginate un Monsieur de Talleyrand, povero ed oscuro, senz'altra dote, oltre all'immoralità, e l'incontestabile vacanza salottiera: mai, certo, si sarebbe udito parlare di lui. Spogliate Monsieur de Talleyrand del gran signore incanaglito, del prete ammogliato, del vescovo degradato; che gli resta? La sua reputazione e i suoi successi sono conseguenza di quelle tre depravazioni ».

Ed ecco Napoleone. Pochi ritratti di Napoleone sono più belli e inquietanti di quello di Dominique Dufour de Pradt, ecclesiastico, uomo politico, polemista. «Lo spirito di Napoleone era vasto, ma alla maniera degli Orientali. Seguendo un'inclinazione naturale, si volgeva verso Oriente, se appena gliene veniva offerta l'occasione; tuttavia un'inclinazione contraria lo faceva ricadere, con tutto il suo peso, in dettagli che si potrebbero definire ignobili. Il primo impulso era sempre grande: il secondo piccolo e vile. Magnificenza e grettezza tenevano ognuno un cordone della sua borsa; e qualcosa di analogo si può dire del suo spirito che, creato tanto per la grande scena del mondo quanto per le tavole di un teatro ambulante, può essere convenientemente rappresentato da un guazzabuglio metà manto regale, metà costume da arlecchino. Dotato di una sagacia meravigliosa, infinita: di uno spirito prensile, sfavillante, capace di affrontare qualsiasi questione stabilendo rapporti nuovi, o fino a quel momento inavvertiti; prodigo di immagini piene di vita, pittoresche, di espressioni animate e, per così dire puntute, rese più penetranti dalle inesattezze del linguaggio; sofistico, sottile, straordinariamente mobile… Mescolando nelle forme bizzarre che gli erano proprie quanto c'è di più elevato e di più vile tra i mortali, di più maestoso nello splendore della sovranità con quanto c'è di più ignobile e di più abietto – si mostra come una specie di Giove Scapino: personaggio mai apparso prima sulle scene del mondo». Giove Scapino: sembra di leggere Guerra e Pace con la sua feroce ironia.
Cioran è un grande lettore di ritratti. Nessuno li sceglie meglio di lui: l'inizio, la fine, i passaggi, gli scorci. Ma non scrive ritratti. Sebbene abbia letto tutti i suoi saggi ed aforismi, non conosco profili firmati da lui, tranne, forse, un rapidissimo scorcio di Guido Ceronetti al Jardin de Luxembourg. Cioran non è un moralista né un ritrattista: entrambe queste figure sono indissolubilmente legate al tempo: al momento, all'occasione, al lampo che passa e scompare. Nel profondo e nelle superfici dell'animo, Cioran è invece uno scrittore metafisico: ama i buddisti e Pascal; e coltiva, sebbene rabbiosamente, il regno dell'Essere. Ma, con una parte del suo sguardo, si concede il delizioso piacere di chiacchierare e chiacchierare, guardando e scrutando i divertentissimi e insensati volti degli uomini.

- di Pietro Citati - Pubblicato su Repubblica del 30/10/2017 -

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