venerdì 6 aprile 2018

Ultimo atto

berlino

Uno dei primi best-seller tedeschi pubblicato nel 1947 e poi dimenticato. Il racconto degli ultimi giorni della Germania nazista, attraverso gli occhi di un gruppo di clandestini oppositori del regime, nelle settimane che precedono la resa. Una testimonianza letteraria del crollo di una nazione.
«I nazisti» dice Lassehn il disertore «sono riusciti a equiparare il nazismo con la nazione tedesca, a diffondere l’opinione che la fine del nazismo debba significare anche la fine della Germania e del popolo tedesco. Ho avuto parecchi compagni d’armi che dichiaravano del tutto apertamente di non avere simpatie per il nazismo ma che si trovavano nella situazione d’emergenza di dover difendere la Germania».
Questo libro, pubblicato una prima volta nel 1947 poi dimenticato (forse non a caso), è per tanti versi sorprendente. Tratta infatti la questione controversa della resistenza dei tedeschi al nazismo. Giorno per giorno, ora per ora si descrivono le ultime settimane della Berlino di Hitler, dalla metà di aprile del 1945. I quartieri, le grandi strade, i luoghi pubblici, i parchi, i mezzi di trasporto, come si trovavano sotto i colpi distruttivi dell’avanzata degli alleati. E i contatti, i colloqui, e tutte le strane situazioni di socialità che si creano nel rimescolio della catastrofe imminente. E i discorsi davanti ai portoni e nei negozi, le file per il cibo, le tessere del razionamento. E gli amori concitati. Le famiglie sfasciate o ricomposte. Ma tutto questo visto dalla strada e con gli occhi di un gruppo di clandestini. Sono disertori che fuggono la guerra e vanno poco a poco prendendo coscienza, semplici disperati emarginati dal totalitarismo, vecchi socialdemocratici o comunisti da sempre oppositori che per un decennio sono usciti ed entrati da carceri e campi di concentramento, credenti la cui coscienza religiosa si ribella, ebrei scampati, comuni cittadini che non ne possono più. Aspettano la fine; girovagano per la città distrutta in una specie di viaggio al termine della notte. Ma intanto cercano di sfuggire alla caccia di Gestapo e di SS, di sottrarsi agli occhi delle spie e dei delatori; e operano, ognuno come può, con sabotaggi o azioni di propaganda, per accelerare la caduta del terrore. Portatori di valori diversi e di opinioni divergenti, sanno anche instancabilmente discutere tra di loro, costruendo – dentro la cronaca di una città che muore, dentro il resoconto storico di ciò che resta del nazismo, dentro lo spaccato di una società sconvolta dalla consapevolezza della fine di tutto – il romanzo delle idee degli antinazisti di cui forse le narrazioni dei nostri tempi hanno parlato troppo poco.

(dal risvolto di copertina di: Heinz Rein: Berlino. Ultimo atto, Sellerio)

Rein, dialoghi a caldo su una capitolazione
- di Cecilia Bello Minciacchi -

La carta geografica su cui studiare le imponenti manovre militari della Grande Germania è ormai ridotta alla mappa topografica di Berlino: nella legenda la scala è sensibilmente cambiata. E cambiate sono le forze in campo: ragazzi non addestrati ma indottrinati, vecchi, malati. Da quasi tre anni ormai, dalla fiera resistenza incontrata a Mosca e dalla penosa rovina subita a Stalingrado, la strategia tedesca si è fatta difensiva e, nonostante sforzi e dispendio di vite, ha continuato inesorabilmente ad arretrare. È l’aprile del 1945 e Berlino, che pure è sempre stata una città piena di soldati, «in guerra e in pace, in marcia di partenza e rimpatriati, soldati vittoriosi e sconfitti», impeccabili nelle parate, festeggiati tra fiori nel 1914, partiti «senza canti né suoni» nel 1939, è percorsa ora da un nuovo tipo di soldato, mai visto lì e neppure immaginato, «il soldato stanco, con la barba incolta, sudicio, esausto, affamato: la bestia da prima linea». Con l’ulteriore e terminale differenza che non si può arretrare più, non c’è più entroterra dove continuare a riparare: la prima linea è ora simbolicamente e concretamente anche la linea estrema. Sono le ultime stanche battute della sanguinosa pantomima che Heinz Rein generosamente racconta trascorsi pochi mesi dalla capitolazione in Berlino. Ultimo atto (a cura di Mario Rubino, Sellerio «La memoria», pp. 896, € 18,00). Che certi toni siano da farsa, in quella storia, è innegabile, sebbene da farsa nerissima. Mentre la popolazione civile e le milizie racimolate per coercizione soffrono, i bollettini ufficiali lavorano d’artificio sulla verità somministrando incongruenze: «L’attacco è stato vittoriosamente respinto, la località purtroppo è andata perduta». Inventano truppe di alleggerimento alle porte di Berlino, e per convincerne la popolazione stampano finti volantini destinati ai battaglioni in arrivo e come per caso, a demoniaca bella posta, smarriti nelle strade. La popolazione ha sentimenti alterni: è stanchissima, affamata, prostrata, ma ancora pronta a riaccendersi di speranza all’enfasi di Goebbels e alla fedeltà pretesa dal Führer. L’idolatria dell’uomo-massa non è ancora sopita, gli invasati persistono, benché tutti i segni – anche a non voler avere occhi per vedere – siano quelli di un’imminente, ignominiosa disfatta.
La «travagliata» città di razionamenti e rovine, di profughi, freddo e cenere, che Helga Schneider aveva conosciuto negli ultimi anni di guerra, quand’era bambina, e più tardi narrato attenta alla sua infanzia nel Rogo di Berlino (Adelphi, 1995), trova nelle pagine di Rein descrizioni ampie e minuziose, tremendamente adulte, dolentissime e didattiche, e scritte a caldo. Finale Berlin (questo il titolo originale) aveva visto la luce a puntate sulla Berliner Zeitung, tra la fine del 1946 e l’inizio del ’47. Il ritmo narrativo è lentissimo, caratterizzato da una commistione di articolati dialoghi (o riflessioni) e descrizioni del disfacimento, punteggiati dai bollettini radio e dai fogli informativi prodotti nel Führerbunker, testimonianze che da sole, avrebbe considerato Walter Benjamin, hanno il pregio dell’evidenza, della «cosa da mostrare» che parla da sé, tanto risultano accecanti (non solo oggi), e in nevrotica malafede, i contenuti offerti ai cittadini stremati.
Il racconto è al presente, eccetto alcune incursioni memoriali funzionali allo sviluppo. Il punto di vista è interno a una variegata cellula di resistenza in clandestinità, uno dei gruppi sabotatori che evitò di difendere la capitale per non prolungarne distruzione e martirio.
Berlino è un corpo dilaniato da due anni di bombardamenti: i puntoni dei tetti volati via sono «come costole a cui è stata strappata la pelle; le finestre sono occhi con le palpebre abbassate», le capriate «ossa fuori da un cadavere».
Heinz Rein, all’anagrafe Reinhard Andermann (Berlino 1906 – Baden Baden ’91), giornalista sportivo colpito sotto il nazismo dallo Schreibverbot e dall’internamento, poi vissuto fino agli anni cinquanta nella DDR, aveva realizzato un’opera esemplare animata sia dal bisogno di comprendere sia dalla finalità etica. L’ansia, l’ossessione di capire come un’intera nazione avesse potuto sacrificarsi a una «macchina totalitaria accumulatrice di potere e divoratrice di individui», per dirla con Hannah Arendt, è affidata a uno dei protagonisti, il disertore ventiduenne Joachim Lassehn. Nei dialoghi interiori e con i compagni – un oste mai corrotto dalla propaganda, un deputato di sinistra, perseguitato e torturato, e la sua coraggiosa moglie, un medico di rara solidarietà, un ex compagno di scuola soldato dubbioso e intristito – il giovane cerca di resistere «alla soluzione nichilista» che considera tutta la vita «un’assoluta insensatezza» e inizia a sviscerare questioni esistenziali, sociali e politiche.
Comprende, così, che le «divinità naziste» sono soltanto «borghesucci incarogniti, avidi sanguinari» e che codardi non sono i disertori «ma coloro che eseguono tutti gli ordini impartiti, per crudeli e brutali che siano».
Questo libro, che fonde documenti, esperienze di prima mano e invenzioni narrative, è insieme un osservatorio scrupoloso, un romanzo di formazione, un dramma e un’inchiesta etica. È un racconto retoricamente tenuto, addolorato e sontuoso. Ha passo e intenti di un dialogo platonico mentre giorno per giorno, dal 14 aprile al 2 maggio, mette in luce moventi di classe e discute la colpevolezza di «tutto il popolo tedesco», mostrando che «le forme della vita civilizzata si sono infrante», che sono crollate pure le facciate. Che le donne, sfinite dalle privazioni e dal terrore, hanno la saggezza di dirsi «meglio un russo sulla pancia che un palazzo sulla testa», e gli ideologi quella di ammettere che «soltanto una completa disfatta può eliminare la dittatura hitleriana».
Su tutto, e la si direbbe un’astuzia, un’efficacia del libro, «il tempo sgocciola con pesantezza plumbea», mentre ciò che resta dei civili languisce o muore nelle cantine, e «il piccolo borghese traviato di Braunau» cura la regia dell’«orribile e dozzinale operetta del suicidio».

- Cecilia Bello Minciacchi - Pubblicato su Alias del 24/9/2017 -

Nessun commento: