domenica 29 aprile 2018

Chiacchiere

blanchot

«Chi scava il verso incontra l'assenza degli dèi»: così Maurice Blanchot dà voce a chi ha avuto il privilegio e insieme la sventura di essere colpito dall'anatema della letteratura. Blanchot scende negli abissi della disperazione di Mallarmé, indaga le contraddizioni di un Kafka annientato dalla solitudine, scandaglia l'infinito mormorio della scrittura automatica surrealista, si smarrisce insieme a Rilke e al suo Orfeo, simbolo dell'orgogliosa trascendenza poetica. Saggio di lapidaria verticalità filosofica, "Lo spazio letterario" si interroga sul significato dell'opera, sull'identità dello scrittore, sull'ispirazione poetica. Enigmi al cospetto dei quali, lo si avverte fin dalle prime pagine, Blanchot lotta come fossero i suoi demoni, con lucida ossessione, e che finisce per consegnare purificati alla loro nuda essenza. Il punto di partenza coincide con quello di arrivo, ovvero lo scacco dello scrittore: l'origine dell'opera è irraggiungibile per chi scrive e il desiderio di avvicinarne il centro diventa vocazione, imperativo, tormento, perché trascina in una regione estranea al mondo e a se stessi. Una regione in cui non si può dire «io», in cui bisogna abbandonare tutto e morire di morte anonima per dare alla luce un'opera che nel suo essere è già altro da sé. Apparso nel 1955 e ora presentato dal Saggiatore in una nuova traduzione e con uno scritto di Stefano Agosti, Lo spazio letterario ha fatto del suo autore la punta di diamante della critica letteraria del Novecento e una figura di riferimento per intellettuali come Barthes, Foucault, Lacan e Derrida. Il suo fascino non manca ancora oggi di spalancare la riflessione sulla scrittura, sul difficile ruolo di chi si trova a duellare con l'impossibilità della parola, a spingersi in quell'esperienza che è incessante ricerca e mai approdo. Cancellato l'autore, destituito il lettore, quel che resta è il silenzio dell'opera.

(dal risvolto di copertina di: Maurice Blanchot, Lo spazio letterario. Il Saggiatore)

blanchot cover

Orfeo nel labirinto di Blanchot
- di Mario Andrea Rigoni -

Desta sorpresa che un’intera e solidale costellazione di pensatori, scrittori e critici francesi — Blanchot, Foucault, Derrida, Levinas, Bataille, Lacan e altri — dopo avere dominato la cultura speculativa e letteraria a incominciare dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si sia oggi quasi completamente eclissata. Eppure quel massiccio successo, correlato alla fortuna delle cosiddette «scienze umane» (linguistica, antropologia, psicanalisi), non solo durò alcuni decenni, non solo investì vari Paesi ma, declinato in Europa, conobbe un tardivo revival nelle università americane.
Le cause del suo esaurimento dipendono in buona parte dall’attuale rifiuto non solo delle ideologie ma anche delle teorie, più che mai quando esse precipitano nell’orfismo fumoso o nel manierismo accademico, come è progressivamente accaduto alla critica francese degli anni Sessanta e Settanta: eppure essa sollevava temi e prospettive per nulla desueti o banali, alcuni addirittura essenziali, che non ne giustificano l’oblio. Tale deve essere l’opinione di Stefano Agosti, il linguista e critico letterario che più precocemente e acutamente si occupò in Italia di Foucault e di Derrida e che adesso ha promosso e accompagnato con una rigorosa postfazione la nuova versione di un libro fondamentale di Maurice Blanchot, risalente al 1955 e apparso in Italia per Einaudi vent’anni dopo (Lo spazio letterario, buona traduzione di Fulvia Ardenghi, edito da il Saggiatore).
  Suggestioni molteplici e complesse sono all’origine della visione letteraria di Blanchot (1907-2003) e della critica che da lui è ispirata. La prima, probabilmente, è una lettura in negativo del concetto hegeliano-marxiano del lavoro: se, nella storia, il lavoro trasforma gli oggetti materiali ma resta pur sempre nell’ambito del definito e del limitato, nella finzione letteraria esso apre invece lo spazio indefinito e illimitato, tutto esteriore e neutro, dell’immaginario, dal momento che la negazione operante nella parola investe il mondo nella sua totalità.
Non solo, come per Saussure, il segno linguistico, divenuto arbitrario, rompe con la cosa significata ma, come già per Mallarmé, sopprime la cosa stessa e, con la cosa, il soggetto che parla. La questione che per conseguenza si pone non è più quella dello scrittore e dell’opera, ma quella del linguaggio in quanto scrittura e lettura autonoma, sorta di rovescio o di controcanto dell’esegesi teologica e simbolica tradizionale, fondata sulla duplice autorità del testo della natura e del Testo sacro.
La letteratura moderna, nata col romanticismo, vive di questo annientamento, che presuppone innanzitutto la scomparsa di un Logos originario e creatore, capace di assegnare un inizio, un senso e una fine al discorso umano: la parola, emancipata dal suo tradizionale compito rappresentativo e comunicativo, espressivo e retorico, diventa allora anonima potenza de-creatrice o contro-creatrice, intrattenimento e mormorio incessante, la «disprezzabile chiacchiera» che, secondo il Monologo di Novalis, meditato sia da Blanchot sia da Heidegger, costituisce «il lato infinitamente serio della lingua».
In questa prospettiva Blanchot attira e interpreta vari scrittori e poeti: in particolare, oltre a Mallarmé, suo riferimento originario ed essenziale, Kafka, Hölderlin e Rilke. Tuttavia, il caso più clamoroso e più nuovo di rilettura promosso, insieme con Blanchot, dalla critica francese di quegli anni, riguarda forse l’opera mostruosa di Sade, nella quale il trompe-l’oeil della pornografia, della violenza e dell’assassinio più iperbolici sarebbe solo un’allegoria del movimento della negazione, più precisamente del linguaggio che distrugge tutte le determinazioni al di fuori di sé: Dio, la natura, gli esseri.
È lampante che l’ossessione centrale di Blanchot riguarda il rapporto del linguaggio con la morte (La letteratura e il diritto alla morte è il titolo di uno dei suoi saggi più chiarificatori). Nello Spazio letterario, libro labirintico e arrovellato, tale rapporto si stringe attorno alla figura e allo sguardo di Orfeo, al quale l’autore dedica sei «pagine stupende», come scrisse nel 1961 Bobi Bazlen in una delle sue straordinarie Lettere editoriali (Adelphi). Il mitico cantore, dice Blanchot, «non vuole Euridice nella sua verità diurna e nel suo incanto quotidiano, ma la vuole nella sua oscurità notturna, nel suo allontanamento, col suo corpo rinchiuso e il volto sigillato, vuole vederla non quando lei è visibile ma quando è invisibile (…). È solo questo che egli è venuto a cercare negli Inferi».

- Mario Andrea Rigoni - Pubblicato sul Corriere del 16/4/2018 -

Nessun commento: