lunedì 26 marzo 2018

Due libri sugli algoritmi…

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"Lenin e Zuckerberg sono due rivoluzionari, l'uno appartiene al Novecento, l'altro al secolo che miliardi di persone stanno vivendo dentro la sua sfera. Anche Lenin ha avuto negli anni venti-trenta del Novecento una sterminata massa di credenti ma poi, quasi alla fine del Novecento, le statue erette in suo onore sono state fatte a pezzi, con l'accusa di non aver cambiato lo stato delle cose o al contrario di aver tentato di farlo. L'altro - i cui antenati venivano anch'essi dalla vecchia Europa - appartiene al tempo nuovo che ha contribuito a plasmare. Ed è consapevole delle conseguenze. Il Novecento è il focus del libro, dove è data rilevanza a ciò che è accaduto ma che poteva diversamente accadere. Ben altri poteri premono sul XXI secolo, emerso dalle macerie dell'altro ed è un tempo nuovo su cui gli Zuckerberg decidono per i loro follower cosa fare, cosa avere, cosa sapere. Come non pensare." (Dalla premessa al libro di Rita di Leo)

(dal risvolto di copertina di: Rita Di Leo: Cento anni dopo, 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse.)

Nell’oceano degli algoritmi senza reti umane
- di Luciana Castellina -

Il libro già dal titolo – Cento anni dopo, 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg (Ediesse, pp. 144, euro 12) – è spiazzante, non crediate dunque di poterlo leggere in autobus. La tesi finale di Rita Di Leo è tuttavia chiarissima, perciò vale la pena di fare la fatica per vedere come l’autrice ci è arrivata. In sostanza questa: quanto segna il passaggio del secolo è il ritorno dell’essere umano da animale politico ad animale asociale, e così si compie il percorso inverso che era stato imboccato nel tentativo di far maturare la capacità di convivere con i propri simili.
Gli sconfitti sono i Lenin, i Di Vittorio, i ministri laburisti laureati a Cambridge, i socialdemocratici tedeschi e svedesi, chi nel bene e nel male – ognuno a proprio modo – ha cercato di creare l’uomo politico, consapevole delle proprie responsabilità collettive. Tutti ormai fantasmi che ora assistono impotenti dalle loro tombe alla vittoria della teologia della tecnica che è riuscita a reclutare i loro stessi successori, abbacinati dagli algoritmi.
Il «balletto Excelsior» (il famoso spettacolo teatrale di fine ’800 che glorificava le magnifiche sorti del progresso suscitato dalla rampante borghesia industriale) è tornato sul proscenio. Per festeggiare il fatto che, sebbene l’idea stessa di una scienza che avrebbe liberato l’uomo dalla schiavitù si sia rovesciata, non suscita più reazioni.
In questo anno in cui più che commemorare il cinquantesimo del ’68 quell’insorgenza viene sotterrata questa conclusione è un epitaffio crudele. Il ’68 è stato importante proprio perché, con anticipazione (e certamente anche molta approssimazione), aveva intuito che la modernità nell’orizzonte del capitale avrebbe portato barbarie. «La scienza e la tecnica non sono neutrali» è stato non a caso uno dei suoi slogan più significativi. Ma quello era comunque un messaggio ottimista, perché indicava una via d’uscita: contemporaneamente si riconosceva infatti che era il capitale quello che chiudeva le porte che scienza e tecnica aprivano. La lotta al capitalismo poteva dunque rispalancarle. Oggi invece una simile ipotesi è tramontata, in quanto ormai del tutto irrealistica.
Non solo perché nell’89 il capitalismo ha vinto ma è stato così anche perché il socialismo sovietico era cresciuto dentro il suo stesso universo, proprio come la sua classe operaia. Il «golem» scavato nella creta della classe operaia («il golem operaio» archetipo dell’intera società socialista di cui parla Rita nel suo libro) si prevedeva che avrebbe dovuto operaizzare tutta la società e che l’operaio, in quanto operaio, sarebbe stato capace di far funzionare al meglio politica ed economia. E però le aspettative che erano state caricate sulle sue spalle sono andate deluse, e così sono stati travolti tutti coloro che su di lui avevano puntato per i loro progetti, l’intera sinistra. In primo luogo le sue sirene ( che Rita Di Leo chiama Platone), vale a dire gli intellettuali. In particolare gli intellettuali-politici che pretendevano di rappresentarlo.
Quanto è accaduto nel frattempo è non solo il fallimento del golem-operaio ma la scomparsa dei soggetti che avrebbero potuto compiere l’impresa a lui affidata dalle «sirene Platone», perché i Khomeini degli algoritmi hanno trionfato, hanno chiuso col passato ancora popolato dall’uomo politico, e la «legittimazione dello stato di natura, la asocialità, sono diventate le pietre miliari del tempo nuovo che nulla accetta del vecchio».
Il risultato è dunque aver cancellato ogni progetto di universo alternativo, ogni teoria e ogni esperimento inteso a superare i comportamenti negativi, un obiettivo che aveva impegnato secoli. Esserci riusciti costituisce una vera «rivoluzione» tanto che, in confronto, l’ottobre e l’89 francese appaiono bazzecole. Il futuro non interessa più. Per sbagliato che fosse, nell’agire dell’operaismo stalinista c’era un progetto di società alternativa: al Khomeini degli algoritmi delle sorti dell’umanità, del futuro, non importa niente.
Non è accaduto perché è stato ripristinato un comando sull’esercito sconfitto, ma perché quell’esercito è scomparso. Il prevalere dell’economia sulla politica ha infatti annullato – dice Rita – la sua essenza collettiva. E crudissima è la sua descrizione di questo assassinio: le fabbriche, certo, qualche volta ci sono ancora, ma dentro non c’è più la classe operaia, ci sono infinite varietà di lavoratori catalogati (e perciò regolati e pagati) in mille modi diversi, molti ormai considerati autonomi piccoli imprenditori di sé stessi o giornalieri di fantomatici appaltatori, sparito il contratto collettivo. Non servono più come produttori, bensì come consumatori; e per questo vengono tenuti in vita in qualche modo. Unificati da questa condizione che li rende tutti omologati, sciti e sunniti, jihadisti e cristiani che siano: tutti con scarpe Adidas, comprate su Amazon, pagate con Paypal, più l’un l’altro sconosciuti e connessi nei social, tanto più soli e disperati. Questa è la disumanizzazione, perché nella solitudine ci si incista nel proprio buco socio-culturale: nell’oceano degli algoritmi sono affogate le reti umane che un tempo addestravano l’uomo a convivere, a prendere in considerazione l’altro da sé, a usarlo come risorsa critica di sé stesso. Così l’uomo torna allo stato di natura, cioè alla asocialità, che la politicizzazione aveva combattuto.
E tutto questo in un contesto in cui il drone diventa l’archetipo del tempo, secondo una prassi che consegna persino il potere di fare la guerra a uno scienziato che decide, con i suoi algoritmi, il destino di esseri umani che non conosce, così come nulla sa dei luoghi lontanissimi dove essi abitano.
Spariti anche i luoghi fisici dove abita il potere, e anche quelli dove abitava chi voleva abbatterlo: palazzi d’inverno e fabbriche. Insomma: la lotta di classe messa in clandestinità, affondati i becchini del capitale che il sistema stesso produceva. Cosi come gli intellettuali-politici, ridotti al silenzio, o a un servizio servile del potere, perché spariti sono coloro che avrebbero dovuto rappresentare.
Lenin e i telefonini, il golem operaio e il golem algoritmico, la rivoluzione d’ottobre e la vittoria del capitalismo: il quadro disegnato da Rita Di Leo è apocalittico ma denso di verità traumatiche. Il suo scritto si può assumere come un disperato grido di impotenza; o, invece, come un accorato appello a ripensare tutto. In grande, come la questione richiede. È una scelta che dipende da noi.

- Luciana Castellina - Pubblicato sul Manifesto del 15.2.2018 -

moneta di leo

Una storia di mutevoli rapporti di forza tra uomini della moneta, della spada, del lavoro, dei libri, fra élite economiche ed élite politiche. Queste pagine descrivono una parabola che attraverso il feudalesimo, il nazionalismo, l’imperialismo, il socialismo, la democrazia e la finanziarizzazione dell’economia, giunge al tempo nuovo dell’ information technology. Grazie agli algoritmi dopo secoli di subalternità dell’economia al potere politico, si è passati al conflitto per la guida della società, che vede prevalere gli «uomini della moneta» con una vittoria di cui la stessa costruzione europea è massima espressione.

(dal risvolto di copertina di: L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo - di Rita Di Leo - Il Mulino.)


L’inarrestabile ascesa degli uomini della moneta e degli artisti dell’algoritmo
- di Massimiliano Panarari -

Il potere e le élites. Il lavoro della studiosa di geopolitica Rita di Leo (professore emerito di Relazioni internazionali dell’Università La Sapienza, e già tra gli animatori dell’operaismo negli anni Sessanta e Settanta) ha ruotato spesso intorno a questa coppia di concetti. E la propensione definitoria e per l’individuazione di categorie generali emerge con forza anche da questo suo ultimo libro, "L'età della moneta", nel quale analizza la storia occidentale sotto il profilo dell'alternarsi dei sistemi e delle gerarchie di potere. Una storia concettuale dei rapporti di forza, e dei loro detentori, che vede il susseguirsi dei conflitti tra uomini della spada  (l'aristocrazia), della moneta, del lavoro (le classi lavoratrici) e del libro (i chierici e gli uomini di cultura).
    Il volume dipinge una serie di affreschi consacrati soprattutto alle mutazioni di ruolo e all'inarrestabile scalata degli uomini della moneta, i quali si svincolano dal rapporto servo/padrone dell'età feudale, si affermano, si dividono e combattono tra tipologie diverse, rovesciando definitivamente le relazioni con la politica, di cui non hanno più bisogno da qualche decennio grazie all'inarrestabile dominio della finanza. Gli uomini della moneta cominciano a consolidare la loro influenza nelle vesti del mercante, il quale - dall'offerta di merci e beni per i castellani fino al finanziamento delle guerre dei monarchi - mette in crisi la concezione dell'autarchia economica e della comunità-borgo. E inaugura la stagione di un loro agire direttamente politico, scaturito da quello economico e dal maturare della convinzione che l'economia dello scambio, per fortificarsi ed estendersi, abbia bisogno di servirsi degli strumenti della politica, che vengono utilizzati per spazzare via il «potere comunitario», come lo chiama l'autrice - una «reminiscenza» che si fa oggetto di eterno ritorno, e che vediamo ritornata prepotentemente alla carica in questa nostra epoca di populismo e sovranismi vittoriosi.
    I mercanti, progenitori della borghesia, sono i protagonisti della «grande trasformazione» della società occidentale e del suo trapasso nella modernità, come tutta una parte della sociologia  - da Ferdinand Tönnies a Karl Polanyi - ha messo in evidenza. L'uomo della moneta dall'irrefrenabile ascesa sociale ha vissuto una sequenza di metamorfosi. Nell'America del Nord - il suo habitat più naturale, dal momento che non esisteva un sistema feudale da scalzare -, ha innescato la «rivoluzione manageriale», con i suoi rinnovati circuiti educativi (il master in business administration, l'Mba), la sua ideologia e la sua fede nell'idealtipo del new economic man, che ha trovato uno dei propri profeti in Alfred Sloan, presidente dal 1923 della General Motors (ed il miglior aedo nel padre della business history Alfred Chandler). Il management - espressione peculiare della nazione che ha inventato le corporation, convertendole in un tratto della propria identità anche culturale - ha edificato una burocrazia (come avveniva negli imperi del passato), ed è diventato uno degli snodi fondamentali dei processi decisionali in tutti i Paesi ove la grande impresa ha identificato il modello economico dominante (o quello da prendere ad esempio).
    E, così, il Secolo breve ha visto fronteggiarsi due paradigmi di pianificazione, quello manageriale Usa (l'economic planning, basato sul perseguimento di un'ininterrotta innovazione tecnologica e gestionale) e quello sovietico, immensamente più statico. Dove, nell'interpretazione dell'autrice, gli uomini dei libri non hanno potuto mettere in discussione il sistema a causa dell'ortodossia, e l'esperimento messo in atto da Lenin sarebbe pertanto imploso per la scelta del piano deciso dal partito al potere, quello di fare concorrenza all'economia capitalista sul suo stesso terreno, sebbene da una «prospettiva socialista». Ne derivava così la sconfitta epocale dell'uomo del lavoro nel suo conflitto con quello della moneta, il quale, in concomitanza con il tempo di questa vittoria (gli anni Ottanta), procedeva alla dismissione dell'industrialismo per abbracciare la finanza con la sua logica dell'investimento a breve termine - in controtendenza rispetto alle prescrizioni del management novecentesco - e l'information technology, e si circondava di una nuova figura sociale, quella dell'«artista dell'algoritmo».
    Nell'ultima parte, di Leo affronta il tramonto del ruolo pubblico dell'intellettuale, e la deriva di una sinistra che si ritrova priva di una teoria alternativa a quella dell'homo oeconomicus: «Gli uomini del lavoro appaiono essere divenuti quasi ovunque estranei alle visioni dei filosofi-re, e immersi nell'antropologia culturale degli uomini della moneta».
    Un libro con una precisa matrice e un ben definito perimetro ideologici che, alla lettura, lasciano a volte un retrogusto di eccessivo determinismo, ma che offre anche grandi quadri talora suggestivi, e sui quali vale, in ogni caso, la pena di riflettere.

- Massimiliano Panarari - Pubblicato su Tuttolibri del 24/3/2018 -

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