venerdì 2 febbraio 2018

Zero

STEVENSON LIBRO

Ispirato all’ondata di attentati che colpì l’Europa fin de siècle e in un’atmosfera di continua minaccia, Stevenson trovò ispirazione per il terrorista Zero – protagonista di questo romanzo – ritagliandolo sulla personalità di O’Donovan Rossa, una delle figure eminenti del movimento nazionalista irlandese. Terzo e fondamentale volume conclusivo delle New Arabian Nights, questo romanzo è un intreccio di avventure che si muovono fra autoconservazione, brama di possesso, desiderio di supremazia. Il terrorista del romanzo, così inafferrabile, insidioso e misterioso, evoca fin troppo da vicino quanto ci intimorisce in questi ultimi tempi. È il trionfo della parte anarcoide e ribelle del personaggio colpevole, quel criminale verso il quale in qualche modo Stevenson non è avaro in fatto di simpatia e curiosità.

«(...) Non avevano ancora superato l’angolo del giardino, quando s’arrestarono di botto udendo una cupa esplosione violentissima, accompagnata e seguita da un fracasso assordante. Voltandosi, Somerset fece appena in tempo a vedere il palazzetto squarciarsi in due, vomitando fiamme e fumo, per poi subito crollare al suolo sprofondando nelle cantine. E contemporaneamente, l’onda d’urto lo gettò violentemente a terra. (...

(dal risvolto di copertina di: Robert L. Stevenson, Il terrorista (The Dynamiter), Mattioli 1885)

Stevenson, bombe irlandesi, terrore a Londra
- di Viola Papetti -

Le bombe degli anni ottanta dell’Ottocento ebbero un effetto immediato forse più sulla letteratura che sulla politica. Il romanzo, così esposto e contagiato dalla cronaca, da «fatti e sangue» del giorno, trovò storie sensazionali e inedite scene di terrore urbano. Anche Robert L. Stevenson, appartenente alla disancorata stirpe dei viaggiatori letterari, narratore di mitiche figure di pirati, orfani, serial killers, donne fatali, insidiosi e misteriosi luoghi dell’immaginario, cedette al fascino del bruciante realismo del «dinamitardo», specializzato in bombe fatte in casa e orologi ballerini.
Virginia Woolf si chiedeva con fastidio perché la sua prosa fosse tanto lodata e antologizzata, Chatwin lo considera uno scrittore mediocre. Tuttavia le circostanze esotiche della vita e della morte, il realismo irreale  (o il possibile irreale) – come è stata definita la sua scrittura astratta e allucinata – lo rendono unico e sorprendente. «Sento i personaggi parlare, ne comprendo le azioni, e mi pare che la narrativa sia soprattutto questo».
Aveva dichiarato guerra all’aggettivo, morte al nervo ottico, fidando solo sulla sua elegante, suadente sensibilità di inventore di miti. Come nel caso di questo romanzo di rinnovata attualità, scritto in collaborazione con la moglie Fanny Van de Grift, Il terrorista (titolo originale The Dynamiter), a cura di Livio Crescenzi (Mattioli 1885, pp. 249, € 16,00).
Quando una brutta congiuntivite aveva causato a Stevenson una parziale cecità, Fanny lo aveva intrattenuto con storie vere o inventate, alla maniera di una moderna Sherazade. Chatwin, nella recensione alla biografia di Pope-Hennessy, riconosce in lei il partner dominante della coppia, «l’infermiera devota, dalla volontà di ferro … e sembra che preferisse il ruolo di infermiera a tutti gli altri»; dopo la morte dello scrittore fu la vedova isterica del martire. Sargent nel ritratto del 1885, in cui un magrissimo Stevenson cammina in salotto guardando chi lo guarda, la colloca di scorcio, all’estremità del quadro, seduta, sotto un velo dorato.
Nella Coppa d’oro, Henry James, amico di famiglia, traccia un divertito ritratto della coppia: «Lui dava l’idea di un’abitudine alle isole tropicali, di un’eterna poltrona di vimini, di un governatorato esercitato all’ombra di vaste verande; la sua testa era come un vaso d’argento rovesciato; gli zigomi e le setole dei suoi baffi erano degni di Attila l’Unno … Forse, sotto lontani e confusi climi, in antiche campagne di crudeltà e licenza, aveva avuto rivelazioni tali e conosciuto tali sbigottimenti da non aver più altro da imparare». Nel romanzo sono la coppia degli Assingham, e possiamo anche udire la loro conversazione: «aguzza, ellittica, ingegnosa, fatta di pointes, allusioni e piccoli enigmi, dove i personaggi giocano un perfetto e crudele gioco di scherma, l’oscurità brilla per un istante, e poi torna a estendersi».
In Inghilterra tutto l’Ottocento fu segnato dalla lunga, sanguinosa storia della lotta per i diritti della classe operaia: si sperimentarono le prime forme di sindacato, dal Cartismo del 1838 al Trade Union Act del 1871, quando fu ottenuto il riconoscimento della loro posizione giuridica.
Ma alla fine del secolo l’apertura di nuovi mercati rese più difficile la situazione economica: aumentò la disoccupazione, si inasprì ancora di più lo scontro. Un anno drammatico fu il 1884-’85, inaugurato da una grande esplosione a Victoria Station in febbraio, e altre bombe scoperte a Charing Cross, Paddington, Ludgate Hill. Una quarta fu trovata inesplosa sotto la colonna di Nelson a Trafalgar Square; riuscì solo in parte l’attacco a Scotland Yard. Un attentato alla Camera dei Comuni nel 1885 fu sventato dalla condotta eroica di due poliziotti. I quotidiani offrivano concitati resoconti, l’opinione pubblica era allarmata. Chi erano i colpevoli?
Di certo gli irlandesi, ossia la Fratellanza Feniana, la società segreta fondata nel 1858 a Chicago, che lottava per una repubblica irlandese indipendente dal Regno Unito. Tre irlandesi erano saltati in aria quando la loro bomba sul lato sud-ovest del London Bridge esplose prima del tempo. Un tipo di dinamite imperfetta era già utilizzabile prima che Alfred Nobel la perfezionasse nel 1886; difficile era anche regolarne l’accensione. Altri sospettati erano i nichilisti russi, ma il loro teatro d’azione era sul continente. Anonimi restavano gli anarchici, probabilmente singoli membri della vessata classe operaia che già Shelley aveva cantato nel Mask of Anarchy (1810) dopo il feroce ‘massacro di Peterloo’, a Manchester, quando forze di polizia avevano caricato con furia omicida dimostranti inermi. «L’inferno è una città che sembra Londra, / piena di gente e tutta fumo; / persone d’ogni sorta rovinate, / divertimento poco o niente; / giustizia scarsa, e ancora meno pietà».
Gli Stevenson avevano scritto nel 1882 le tre storie su un terzetto di incoscienti dinamitardi, ma solo nel 1885 furono pubblicate in More New Arabian Nights quando il clima politico era cambiato; il tono divertito richiedeva un atto di contrizione e nell’introduzione lodarono i due poliziotti eroici Cole e Cox che avevano disinnescato una bomba. «La storia … non dimenticherà il signor Cole mentre trasporta l’esplosivo a mani nude, né il signor Cox che con sangue freddo arriva in suo aiuto». Il primo e il terzo racconto, le avventure di Challoner e di Desborough, mescolano varie suggestioni: il gotico, il fantascientifico, l’umorismo, la già sperimentata scenografia del paesaggio da incubo, della sedia elettrica mortale, della valigia esplosiva, e la svolazzante presenza della graziosa dinamitarda dai tanti nomi – probabile contributo di Fanny. Di Fanny potrebbe essere anche la stanza della bella cubana: «il cui intenzionale disordine era contrassegnato da qualcosa di deliziosamente semibarbaro nella disposizione generale e nel colore. Era piena di stoffe delicate, pellicce e tappeti e sciarpe di colori vivaci; la mensola del cammino era disseminata di strani ed eleganti gingilli, su un ripiano una lampada antica, e sul tavolo una noce di cocco su una base d’argento, piena, quasi a metà, di pietre preziose …».
La seconda avventura del timido Somerset raggirato dall’astuto irlandese, il cinico e patetico dinamitardo Zero, è sicuramente di Stevenson, che non si è lasciato sfuggire l’ambiguo eroismo del personaggio. Malgrado l’ostilità della maggior parte dell’opinione pubblica, a Zero vengono offerti buoni motivi per giustificare la sua condotta: la libertà e la pace della sua povera Irlanda, una vita difficile, tanti insuccessi, i pericoli e le fatiche. «Non sapete, forse, che le sostanze chimiche sono proverbialmente instabili e volubili come le donne, e che i meccanismi ad orologeria sono capricciosi come il diavolo stesso? Non vedete che in faccia porto i segni dell’ansia? Non vedete i capelli bianchi che porto in testa?» Somerset, che dovrebbe sentirsi disonorato da quella strana liason, gli offre la definitiva scusa ideologica:
«L’onore? Cosa sarà mai l’onore? Una finzione, un’invenzione … sì ma il crimine cos’è? Anche il crimine è una finzione e un’invenzione, che la sua mente emancipata dai pregiudizi rigettava». Forse è il cinismo del letterato che induce Stevenson a difendere Zero, la figura del dinamitardo che, come il pirata, il duellante, il giocatore, l’assassino, agisce fuori dell’ordine sociale e da quella sfida è reso indistruttibile.

- Viola Papetti - Pubblicato su Alias dell'19.11.2017 -

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