mercoledì 28 febbraio 2018

Laogai

cina lavoro

Laogaï. Così vengono chiamati i campi di lavoro forzato nella Repubblica popolare cinese. Letteralmente, la traduzione significa " rieducazione per mezzo del lavoro ". A partire dagli anni '50, e seguendo il modello sovietico del gulag, Mao Zedong fece costruire in tutto il paese un grandissimo numero di questi campi di lavoro. Secondo alcune ONG, ci sarebbero oggi ancora circa quattro milioni di prigionieri detenuti in questi campi. Detenuti in condizioni estreme, questi prigionieri sono costretti a produrre delle merci, destinate anche al mercato europeo. Fra i detenuti, ci sono dei criminali, ma assai spesso per lo più si tratta di dissidenti nei confronti del Potere. Il documentario di Hartmut Idzko, "Laogaï - il gulag cinese", mette in scena la traumatica testimonianza di tre ex prigionieri di quei campi: il tibetano Ama Adhe, lo scrittore e musicista Liao Yiwu, e  Harry Wu, fondatore della  Laogaï Research Foundation.

«In pratica, tutti i prodotti a basso costo cinesi provengono dai campi di lavoro.»

cina idzko

Hartmut Idzki, per molti anni giornalista e corrispondente per l'Asia della prima rete pubblica tedesca (ARD), parla in quest’intervista del suo film, "Laogaï - il gulag cinese", del lavoro forzato in Cina, eretto a sistema, e del peso che i campi di lavoro hanno sull'economia del paese.

Arte Info: Nel tuo film, tu affronti il problema dei "laogaïs", dei campi di lavoro in Cina. Tocchi un argomento molto delicato. Hai avuto problemi a girare questo film?

Hartmut Idzko: Dopo aver saputo dell'arresto di numerosi colleghi giornalisti, non ci siamo nemmeno più arrischiati ad andare in Cina. A questo punto la situazione era talmente delicata che non c'era un solo operatore disposto a tornare con me sul posto. Le immagini si trovano presso uno dei protagonisti del documentario, Harry Wu, il creatore della fondazione di Ricerca sul Laogai. Per anni, ha continuato a suonare il campanello d'allarme riguardo la situazione catastrofica che regna nei campi di lavoro. Wu stesso è rimasto per vent'anni internato in un campo di lavoro. Alla fine, è riuscito a fuggire negli Stati Uniti. In seguito, è tornato in Cina munito di passaporto americano ed è entrato clandestinamente nei campi di lavoro per mostrare in quali condizioni si produce per l'esportazione.

Arte Info: Tu sei stato per anni un corrispondente in Asia per l'ARD. Sul posto, avevi mai sentito dire dell'esistenza di questi campi di lavoro?

Hartmut Idzko: Naturalmente, sapevo che in Cina, negli anni '50, all'epoca di Mao, c'erano numerosi campi di lavoro. Ma è stato solo dopo la mia visita al museo "laogaï", a Washington, che ho appreso che questi campi esistevano sempre, ed in gran numero. Questo è stato uno shock! Oggi, esistono più o meno un migliaio di campi, praticamente quasi uno per ogni città cinese. Si stima che attualmente vi siano internati quattro milioni di persone. Questi sono spesso degli oppositori del regime, e non delle persone condannate per reati comuni. Il governo cinese può imprigionare le persone fino a quattro anni, senza alcun processo. Più di recente, sono stati internati più di 180 attivisti per i diritti civili. Questo genere di arresti, in Cina sono all'ordine del giorno. Da noi, nel migliore dei casi, se ne parla solo un trafiletto sui giornali...

Arte Info: Perché i media europei sono così insensibili ad una simile questione?

Hartmut Idzko: A causa degli interessi economici in gioco, è evidente! La Germania, ad esempio, è il primo partner commerciale della Cina in Europa, e non intende mettere in pericolo queste relazioni. Ci troviamo ad essere, in larga misura, dipendenti dalle esportazioni cinesi.

Arte Info: In che modo i campi cinesi si distinguono dai campi di lavoro in Unione Sovietica, o da quelli tedeschi durante l'epoca nazista?

Hartmut Idzko: La grande differenza, è l'amministrazione del campo, il quale dipende dalla forza lavoro dei detenuti, cosa che non avveniva nel caso dei gulag o dei campi di concentramento. Il personale del campo non percepisce un salario versato dallo Stato, ma vive di quello che producono i prigionieri. Questo spiega il motivo per cui nei campi cinesi non abbiamo uno sterminio mirato come avveniva coi nazisti. Le guardie hanno interesse a che i detenuti rimangano in vita, per poterli sfruttare. I campi fanno parte delle amministrazioni regionali. Perciò sarebbe illusorio cercare di porre fine a questo sistema, partendo da Pechino.

Arte Info: Precedentemente, in Cina, i lavoratori forzati venivano utilizzati per la costruzione di infrastrutture e nell'agricoltura. Ora, che ruolo giocano nell'economia cinese?

Hartmut Idzko: Le cifre esatte non vengono rese pubbliche, ovviamente. Ma si può ritenere che i campi di lavoro contribuiscano massicciamente all'economia del paese. È un mercato che ammonta a miliardi. Spesso, si tratta di fabbriche moderne che vengono visitate dagli europei e nei quali si può venire direttamente a fare degli ordinativi. Ma, dietro la facciata, non vedono la prigione nella quale viene prodotta la merce: decorazioni natalizie, imballaggi per l'industria farmaceutica, abiti, animali di peluche, o parti di ricambio... Praticamente, ogni prodotto cinese a buon mercato che troviamo nei nostri supermercati è stato fabbricato in un campo di lavoro. Senza i laogaïs, la Cina non sarebbe in grado di produrre a prezzi così bassi.

Arte Info: Nel tuo film, si parla anche di traffico di organi nei campi di detenzione.

Hartmut Idzko: Si tratta di un altro affare succoso che ha a che fare con un commercio che vale milioni. In Cina, continua ad esistere la pena di morte. In passato, i condannati venivano giustiziati dopo essere stati giudicati in un processo pubblico; oggi, l'esecuzione viene praticata dietro i muri di una prigione. Ho saputo, da testimoni oculari, che durante le esecuzioni, ci sono delle ambulanze parcheggiate all'interno del campo. Subito dopo la morte, si prelevano gli organi dei condannati per poi venderli sul mercato. Da questo, traggono profitto sia gli ospedali che le prigioni.

fonte: Arte Info

cina campi

martedì 27 febbraio 2018

Fallimenti?!?

blumkin

«Una storia di lealtà e tradimento. Di delitto e castigo. L’epopea di un terrorista che era anche un poeta. Tutto questo è Jakov Blumkin. L’eroe che, sopravvissuto alle situazioni più estreme, fu tradito dal suo amore per una rivoluzionaria intrepida come lui, in nome degli interessi superiori di una Rivoluzione, essa stessa tradita. Solo adesso ho capito che ero ossessionato da lui perché volevo raccontare un fallimento: quello di una generazione, la mia, che voleva cambiare il mondo. Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole.»
Un passato bolscevico riemerge da un baule in una casa lungo la Marna. Un trasloco, una storia privata e una storia pubblica, due vite che si intrecciano, quella personale di Christian Salmon e quella di un personaggio leggendario della Rivoluzione d’Ottobre, Jakov Blumkin. Inizia così il viaggio di Salmon che insegue in tutta Europa la vita epica di Blumkin e al tempo stesso la sua stessa vita, il tempo in cui era stato anche lui un bolscevico. Un bolscevico per modo di dire, certo, ma pur sempre un bolscevico. Blumkin era un čekista e un poeta, un mistico e un assassino, fu amico dei più grandi poeti e dei boia della Lubjanka. Era l’uomo dai mille volti: ora il viso sfilato, ora appesantito; in alcune foto sembra avere vent’anni, in altre ne dimostra quaranta. Eppure era lo stesso uomo, Jakov Blumkin, alias ‘Il Lama’, alias ‘Sultano Zade’. O ‘Živoj’ che significa ‘il Vivo’, come lo aveva soprannominato Majakovskij una sera che lo aveva incontrato in uno dei caffè letterari alla moda che frequentava. Ma per altri era un personaggio di finzione inventato e lanciato nel mondo dai servizi segreti sovietici come copertura per ogni affare losco. La sua breve apparizione sulla terra resterà segnata da due colpi di pistola: quello che sparò all’ambasciatore tedesco il 6 luglio 1918 e quello che mise fine alla sua vita il 3 novembre 1929, quando non aveva ancora trent’anni. Fra queste due detonazioni, la vita di Blumkin si dispiega in un cielo di congetture, come un fenomeno luminoso che si consuma sotto i nostri occhi.

(dal risvolto di copertina di: Christian Salmon, "Il progetto Blumkin". Laterza.)

Dalla Russia con terrore
- di Wlodek Goldkorn  -

All’epoca del narcisismo come valore politico e modo di narrare il progetto dell’avvenire (votatemi e ci penserò io), fa effetto straniante leggere di un’altra epoca, cent’anni fa, dove i protagonisti della storia cercavano anonimato, cambiavano nomi, cognomi e identità perché si consideravano solo strumenti al servizio della causa. È il caso di Jakov Blumkin ebreo russo (o forse ucraino?), rivoluzionario, terrorista, agente dei servizi di sicurezza, intimo di Trotzkij, agitatore politico, poeta e via elencando.
Personaggio affascinante, misterioso, ambivalente, frequentatore di Osip Mandel’štam e di tanti altri letterati legati nel bene e nel male al mito del bolscevismo, Blumkin è stato riscoperto, o per la verità scoperto, dallo scrittore francese Christian Salmon.
Siamo nell’anno 1918, pochi mesi dopo il putsch del 6 novembre 1917 che portò Lenin, Trotzkij e compagni al potere. La Russia sovietica è assediata; la guerra civile in corso; in alcuni territori dell’ex impero zarista regna il caos; città come Kiev passano di mano una dozzina di volte tra nazionalisti antisemiti, comunisti, anarchici, generali in cerca di fama e denaro; e tutto questo al costo di indicibili crudeltà: neonati buttati fuori dalle finestre, donne stuprate, uccisioni di massa, torture. La Prima guerra mondiale non è finita e i sovietici decidono di firmare un accordo di cessate il fuoco con i tedeschi. Le conseguenze sono disastrose e il nuovo potere viene accusato nelle piazze e nelle assemblee dei soviet di aver tradito la Russia e la Rivoluzione.
In queste circostanze entra nella Storia un ragazzo di diciassette anni. Si chiama Jakov Blumkin, è nato a Odessa. Da bambino era imbevuto dei libri di Mendele Moicher Sforim, padre fondatore della letteratura yiddish, e delle leggende su Mike il Jap, il re ebreo della malavita cittadina, narrato peraltro da Isaak Babel’ nei Racconti di Odessa (e di cui in questi giorni esce con Skira Cronache dell’anno 1918, testi sull’anno cruciale della Rivoluzione). In realtà, secondo Salmon, né l’età né il luogo di nascita di Blumkin sono certi; sicuramente però il ragazzo è militante del Partito social-rivoluzionario di sinistra, coalizzato coi bolscevichi. Gli esserre (così vengono chiamati) hanno una lunga tradizione terrorista. Ed ecco che Blumkin uccide l’ambasciatore del Kaiser, il conte von Mirbach.
Lenin assicura i tedeschi che l’attentatore è stato catturato e giustiziato. E invece il giovanissimo fugge. Erra nei territori dell’Ucraina. Combatte. Viene fatto prigioniero dai nazionalisti, torturato in quanto ebreo, abbandonato più morto che vivo in mezzo a un campo, si consegna alla ?eka, i servizi segreti del nuovo potere sovietico. E qui avviene la svolta. Sempre stando alla ricostruzione di Salmon, ma l’autore dice che le versioni dei fatti sono numerose e mai certe, il ragazzo innamorato della poesia, dell’esercizio della violenza, affascinato sia dalla prospettiva dell’avvenire radioso che dal cupo messaggio del nichilismo, viene arruolato nei ranghi appunto della ?eka. Diventa uno di quei personaggi che popolano la Russia — siamo sempre nel 1918, dove nessuno scommetterebbe un soldo bucato sul futuro del bolscevismo (lo stesso Lenin rischia di morire in un attentato) — vestiti di cappotti di pelle, pistola in tasca, libri nella borsa e disponibilità a uccidere e morire. Si racconta che Blumkin fosse stato convocato da Trotzkij. Non si sa dove avvenne il colloquio: se nel treno blindato (con una parete piena di libri) del capo dell’Armata Rossa e critico letterario; o al Cremlino. Pare che parlassero un’intera notte di poesia. In ogni caso, il ragazzo terrorista d’ora in poi cambia più volte nome e gira il mondo. Sarà in Persia a fianco di un guerrigliero anti-colonialista, parteciperà a un raduno in cui i bolscevichi chiameranno i musulmani a una jihad in nome del progresso, lo troveremo in Turchia a fianco di un Trotzkij di fresco esilio. L’uomo dalle sette vite (tutte elencate) finirà fucilato in Urss nel 1929. E poi, c’è la storia dei rapporti (veri e inventati) di Blumkin con i poeti e scrittori, da Mandel’štam appunto a Esenin e alla sua compagna la danzatrice Isadora Duncan, a Majakovskij, tra delazioni, risse, minacce di morte. E infine, storia nella storia: la vicenda narrata dall’autore di come Blumkin sia finito per essere oggetto delle sue ricerche. Una vita, che sembra inventata, ma che è l’esempio di come le verità e le identità sono al plurale, inventate e celate nel mistero; contrariamente alla narrazione oggi dominante che tutto vorrebbe svelare e mettere in piazza.

- Wlodek Goldkorn - Pubblicato su Robinson del 26/11/2017 -

lunedì 26 febbraio 2018

Svegliarsi

rifkin merkel

Jeremy Rifkin: La società a costo marginale zero
- Recensione del suo ultimo libro -
di Richard Aabromeit

Ci siamo quasi! Ad un primo sguardo, si potrebbe intitolare così una critica all'ultimo libro di Jeremy Rifkin (La società a costo marginale zero. L'Internet delle cose, l'ascesa del «Commons» collaborativo e l'eclissi del capitalismo. Mondadori, p.504, 16 euro). "Uno dei più noti teorici sociali del nostro tempo" e "uno dei più importanti pensatori sociali" (come annuncia la pubblicità del libro), nonché uno dei più importanti consiglierei di molti politici attuali (incluso Bill Clinton, Angela Merker, Jean- Claude Juncker), ha scritto un nuovo libro che si distingue chiaramente dal mainstream dell'attuale analisi sociale.
Viene perfino il sospetto che a Rifkin piacerebbe essere annoverato fra i teorici e le le teoriche del gruppo dei critici del valore - questo, ovviamente, detto con ironia e con abbastanza esagerazione, ma, in ogni caso, nel suo libro scrive: «Quello che ha minato il sistema capitalista, è lo spettacolare successo dei presupposti fondamentali che lo hanno determinato. È la contraddizione immanente insita in questa forza motrice situata al cuore del capitalismo, che dapprima lo ha portato ad arrivare al altezze vertiginose e che ora lo porta alla morte».
Questo avrebbe potuto, quasi, essere stato formulato da un autore di EXIT!, anche se lo avrebbe fatto senza attribuire un cuore al capitalismo! È per questa ragione che penso che Rifkin sia uno dei pensatori, o un critico, più importanti della situazione sociale odierna, rispetto ai tanti chiacchieroni che vengono ritenuti essere di sinistra. Diciamolo fin da subito, per gli spiriti critici e interessati: il libro è più che degno di essere letto! Ma, detto seriamente, nel suo complesso, Rifkin non ha niente a che vedere con la critica della dissociazione-valore, solo che egli vede il capitalismo in maniera assai più critica di quanto facciano molti pensatori borghesi, e anche quelli del marxismo tradizionale; purtroppo, anche così, questo non cambia niente rispetto a quello che lui immagina che non solo esisterà per molto tempo, ma che sarà anche molto vivo. Quelli che seguono sono alcuni commenti critici sul suo ultimo lavoro.

I messaggi-chiave di Jeremy Rifkin
Di solito, questo è abbastanza semplice da formulare; ma, come sanno quasi tutti gli scienziati borghesi, nei dettagli non è abbastanza facile! Dapprima, Rifkin vede già oggi scomparire la pelle del capitalismo. Ma: è assai fiducioso che il suo capitalismo, così incredibilmente ambivalente, possa durare abbastanza tempo, accanto a quella che lui chiama "società a costo marginale zero", per alcuni anni, forse perfino per qualche decennio. «La lotta fra collaborativisti "prosumer" e capitalisti investitori, sebbene si trovi ancora ad uno stadio iniziale, sarà la battaglia economica decisiva della prima metà del XX secolo». Forse questa metafora vuole commemorare la Battaglia delle nazioni, avvenuta nei pressi di Lipsia nel 1813, dove venne sconfitto anche un anacronismo; solo che il capitalismo non verrà coinvolto in nessuna battaglia finale. Invece, verrà abolito da una società che avrà preso coscienza di sé e delle condizioni che si sono venute a creare, oppure, diversamente, sparirà in un caos fuori da ogni controllo e nella barbarie. Quest'ultima è già da parecchio tempo che ha avuto inizio, senza che mai da nessuna parte ci fosse qualcuno che si preparava in maniera cosciente e pianificata alla battaglia. Gli oppositori del capitalismo evocati da Rifkin, vale a dire la comunità di Internet della “società a costo marginale zero”, oppure quella dei "beni comuni collaborativi", in effetti possono sviluppare talvolta delle potenziali idee alternative di natura economica; ma - da Robert Owen a Irmi Seidl e ad Harald Welzer - senza mai essere in grado di comprendere radicalmente, in termini concettuali, l'assurdità del capitalismo, rimangono limitati nello spazio e nel tempo, e non hanno ancora superato i modelli tipo "pozzo dei desideri"; cosa che non dovrebbe essere sfuggita anche a Rifkin.
Le sue scoperte circa il processo di restringimento del capitalismo sono ancora più acute: «Immaginiamo uno scenario in cui la coerenza del funzionamento del sistema capitalista supera ogni aspettativa ed il processo concorrenziale genera una "produttività estrema", portando a quello che gli economisti chiamano "condizioni ottimali di benessere generale" - dove l'intensa concorrenza obbliga all'introduzione di una tecnologia sempre più efficiente, aumentando così la produttività fino al punto ideale in cui ciascuna unità addizionale prodotta per la vendita si avvicina ad un costo marginale di "quasi zero". In altre parole, il costo reale della produzione di ciascuna unità addizionale - senza considerare i costi fissi - sarebbe pari a zero, rendendo così il prodotto praticamente gratuito. Se si dovesse verificare questa situazione, il profitto, il combustibile che alimenta il capitalismo, si esaurirebbe.» Inoltre, sottolinea che: «Gran parte della vecchia guardia della scena commerciale non riesce ad immaginare in che modo la vita economica possa continuare a prosperare in un mondo in cui la maggioranza dei beni e dei servizi viene praticamente offerta, dove il profitto sta morendo, dove la proprietà significa molto poco ed il mercato è superfluo. Che fare?» Sì, esattamente: Che fare? E, quasi contaminato dal punto di vista marxista, sostiene che Oskar Lenge «nel 1936, al culmine della Grande Depressione» aveva sollevato la questione di sapere «se in qualche momento dello sviluppo tecnico, sarebbe il successo stesso del sistema a trasformarsi in un ostacolo al suo progresso». E se «un imprenditore introduce delle innovazioni tecnologiche che gli possano consentire di ridurre i prezzi di beni e servizi, egli ottiene un vantaggio temporaneo sui suoi concorrenti che rimangono legati a mezzi di produzione più antiquati, cosa che ha come conseguenza la svalorizzazione degli investimenti precedenti nei quali sono stati coinvolti». Facendo ricorso a John Maynard Keynes, Rifkin dice che, perciò, esiste una minaccia di "disoccupazione tecnologica".
Tutto questo sembra perfino quasi marxista. Ma è proprio in un tale contesto, in cui la "contraddizione in processo" (Marx) svolge un ruolo cruciale nell'analisi, che Rifkin omette di menzionare Marx. Forse non ne ha avuto il coraggio, o semplicemente non lo ha capito. Per precauzione, comunque egli cita Marx assai raramente. Un'altra volta: a pagina 24, dopo sedici pagine di testo, Rifkin abbandona la descrizione dei rischi della problematica fondamentale del capitalismo e si dedica al vero tema del suo libro, alla società a costo marginale zero, che costitutivamente ha a che fare con Internet, soprattutto con l'Internet delle cose.

L'Interner delle cose.
«L'Internet delle cose permetterà di connettere tutto e tutte le persone in una rete globale integrata. Persone, macchine, risorse naturali, linee di produzione, reti logistiche, abitudini di consumo, flussi di riciclaggio e praticamente tutti gli altri aspetti della vita economica e sociale saranno collegati attraverso dei sensori e del software alla piattaforma dell'Internet delle Cose.» Questa avvolgente esistenza on-line degli esseri umani deve quindi dare inizio ed a sviluppare la società a costo marginale zero, in collegamento con «Energie Rinnovabili, produzione tramite stampanti 3D, insieme ad istruzioni superiori on-line». Tutto questo porterà perciò all'«ascesa della comunità dei beni comuni collaborativi», e dovrebbe portare alla consunzione il capitalismo ancora allegramente dominante e, a sua volta, diventare «modello dominante dell'organizzazione di vita economica». In questo modo avremmo posto le basi per lo scenario sia a breve che a medio termine: il capitalismo ha cominciato a declinare a causa delle sue contraddizioni interne - i guadagni di produttività si traducono in perdite di profitto ed in merci con costi marginali (quasi) zero - il capitalismo ha iniziato la sua decadenza, ma ci sono già dei beni comuni che sono in competizione che, attraverso l'Internet delle cose, la stampante 3D, le energie alternative ed alcuni miracolosi prodotti, affrontano il capitalismo. Non abbiamo forse già avuto una "concorrenza fra sistemi", durata dal 1917 al 1991, e come è andata a finire?

La presenta storia segreta del capitalismo
Poi Rifkin, dopo una sorta di prologo, dopo aver descritto brevemente i galli e le galline da combattimento e le loro rispettive armi, per la battaglia già in corso per la supremazia nell'organizzazione economica, e che ben presto si acutizzerà, si dedica, nella I parte, alla storia del capitalismo. Penso che queste 55 pagine siano molto gradevoli da leggere e che forniscano un resoconto ricco di fatti dell'evoluzione del capitalismo, a partire dai suoi presupposti storici e fino a la presente. Nel far questo, Rifkin fornisce anche materiale che, sebbene in linea di massima sia disponibile pubblicamente, non viene usato - o viene usato solo marginalmente - e discusso da parte del mainstream della scienza economica, storica, sociale e politica. Solo per fare un esempio: nessuno dovrebbe sopravvalutare il ruolo avuto dai mulini ad acqua nella costituzione del capitalismo - e nemmeno Rifkin lo fa; tuttavia, è molto importante sapere che «alla fine del XI secolo esistevano più di 5.600 mulini ad acqua funzionanti in 34 contee dell'Inghilterra; (...) L'impatto economico è stato drammatico. Un mulino ad acqua tradizionale produceva da 2 a 3 cavalli di potenza  per circa la metà del tempo in cui il mulino funzionava. Il mulino ad acqua poteva sostituire il lavoro di 10-20 persone.» Rifkin, con quest'informazione - e ce ne offre molte altre - contribuisce a che i tentativi di spiegazione troppo unidimensionali di una storia puramente empirica (come: accumulazione originale [Karl Marx], armi da fuoco [Karl Georg Zinn], rivoluzione monetaria ecclesiastica [Christoph Türcke], possano essere messi in relazione con il sorgere del capitalismo. Quello che Rifkin non riesce a fare, tuttavia, è abbandonare il livello dei fatti tecnologici, basati su dati e sensibilmente percettibili, e concettualizzare la nascita del capitalismo. Di fronte a frasi come: «il capitalismo, come lo intendiamo oggi, non è emerso prima della fine del XVII secolo con l'introduzione dell'energia a vapore», le sue analisi assai più profonde espresse all'inizio del libro appaiono più come facenti parte di un tentativo di andare oltre il piano ideologico. Forse si può descrivere la visione di Rifkin facendo uso di una citazione di Robert Kurz: «Il carattere della fine in sé del capitalismo, vale a dire, l'irrazionalità del sistema sociale condizionato dal capitale, non viene presa in considerazione» [Robert Kurz, Das Weltkapital (Il capitale mondiale), Berlino 2005.].

La società a costo marginale vicino allo zero e l'ascesa dei beni comuni collaborativi
Rifkin continua con insistenza nella seconda e terza parte a riunire, visualizzare e presentare dati e fatti, noti quasi da tutti, ma dei quali pochi sono consapevoli, che ha già presentato con grande diligenza nella prima parte del suo libro. La seconda parte riguarda gli enormi progressi nella produttività, nell'efficienza e nell'istruzione che si sono verificati in varie aree, dell'enorme aumento dell'efficienza energetica avvenuto negli ultimi decenni, ancora una volta dell'Internet delle Cose, vale a dire il collegamento totale in rete di persone, macchine e perfino materiale, e di energia rinnovabile praticamente senza costi, così come del già menzionato "insegnamento superiore online" (MOOCs: Massive Open Online Courses). Qui il nostro autore non si sottrae a delle ipotesi abbastanza speculative. Dopo aver presentato brevemente la ricerca che ha descritto come un «nuovo metodo rivoluzionario per immagazzinare enormi quantità di dati incorporandoli nel DNA sintetico», esclama: «Questo metodo innovativo rende possibile l'archiviazione praticamente illimitata di informazioni». Rifkin considera tutti questi dati e questi fatti come estremamente interessanti (ivi incluse alcune fantasie più o meno divertenti) come parte di uno sviluppo sociale che porta le merci ad essere ormai praticamente senza costo marginale per quel che attiene alla loro produzione e distribuzione.
Mentre, dopo la recessione del 2007-2009, negli Stati Uniti c'erano circa 4 milioni di lavoratori in meno rispetto a prima, nel 2012, «l'economia degli Stati Uniti aveva già... recuperato del tutto, con un PIL di 13,6 miliardi di dollari (sulla base del 2005). È stata perfino del 2,2% - ossia di 290 mila miliardi di dollari - superiore a quello del 2007, subito prima della recessione.» «La discrepanza esistente fra il PIL in crescita e la diminuzione dei posti di lavoro sta diventando talmente pronunciata da rendere difficile continuare ad ignorarla.»  È la sua visione che lo porta a riflettere e che gli fa balenare davanti l'idea che dobbiamo trovarci «di fronte ad una mutazione epica nella natura del lavoro», come è evidenziato dal fatto che la «sostituzione del lavoro salariato di massa e quella del lavoro salariato qualificato, attraverso le tecnologie intelligenti... sta cominciando ad ostacolare il funzionamento del sistema capitalistico». Questa evidente contraddizione, che Rifkin vede con maggior chiarezza di quanto facciano molti dei suoi colleghi, non lo motiva in alcun modo a pensare in maniera critica, ma piuttosto lo spinge a trasmettere un messaggio positivo e speranzoso. Pertanto, sebbene il capitalismo abbia creato condizioni che porteranno ad abbandonarlo nel medio periodo, i lettori del suo libro non devono preoccuparsi troppo, poiché la soluzione, o la salvezza, se vogliamo credere a Jeremy Rifkin, è già in marcia: la società a costo marginale (vicino allo) zero, ossia, i beni comuni collaborativi.
Ed è esattamente su questo che Rifkin si concentra, nella terza parte del libro. Continuando nella sua persistente supposizione che il capitalismo debba perire - ma che questo potrà essere gestito e continuerà secondo le proprie regole - non sorprende affatto che egli consideri il fatto che sarebbero le cooperative, o le associazioni "comuni" di tutti i tipo, i candidati appropriati a sostituire, a lungo termine, il capitalismo. Rifkin già vede che, negli Stati Uniti, le cooperative «ormai operano praticamente in tutti i settori economici - produzione agricola ed alimentare, vendita al dettaglio, assistenza sanitaria, assicurazioni, credito, energia, produzione e distribuzione di elettricità e telecomunicazioni». Quello che Rifkin non riesce a vedere è che tutti questi beni comuni non sono riusciti a liberarsi dalla relazione di dissociazione-valore, alla cui mercede rimangono - Vale a dire che ciò che è fondamentale per tutte le alternative economiche di Rifkin è la partecipazione alla valorizzazione del valore, in una varietà sovvenzionata o patrocinata dallo Stato o da singoli individui. Non intendo negare il fatto che sotto le condizioni capitalistiche della valorizzazione del valore, possa sopravvivere un'altra "economia comune", così come possa sopravvivere un altro approccio al miglioramento e alla riparazione delle implicazioni permanenti del capitalismo; ma questo si applica anche alle organizzazioni non alternative, così come, ad esempio, ai gruppi di riflessione strategica delle grandi imprese, per i circoli di pianificazione delle banche centrali, o persino per i club di discussione riversati sul dibattito politico - lo stesso Rifkin è il fondatore ed il presidente di una di queste associazioni (la "Foundation on Economic Trends”, Washington, DC) - per non parlare delle vecchio cooperative di consumo e di credito.

Economia di accesso e di condivisione
A Rifkin, piace anche usare una sua vecchia idea, divulgata nel suo libro del 2002, "The Age of Access" (L'era dell'accesso. La rivoluzione della new economy, Milano, Mondadori, 2000). «Quel che conta, nella nuova era del capitalismo culturale, è l'accesso, la disponibilità; la proprietà diventa sempre più priva di significato rispetto all'ordine della vita sociali», scrive a pagina 183. Nella quarta parte del suo libro attuale, rivisita questo tema. Ma, avendo avuto sufficiente capacità di apprendere e svilupparsi, egli non include più questa transizione dei soggetti - dalla fissazione sulla proprietà al paradigma dell'accesso - nella descrizione di un "nuovo capitalismo", ma ora lo mette in competizione  con il capitalismo. Nello specifico, è rimasto impressionato dalla nuova "sharing economy", che considera un esempio, senza fare uso di troppe conoscenze superflue di economia aziendale: «Il car sharing libera i membri dal costo di acquisto di un veicolo e dai costi di manutenzione,assicurazione, tasse, ecc.». Ma anche se c'è un gruppo di persone che condivide delle automobili e che può smettere di pagare i costi summenzionati, anche così viene da chiedersi dove starebbe in un modello simile l'alternativa al capitalismo, al di là del trucco magico della sparizione dei costi; tuttavia, se il trucco si dovesse diffondere, allora si metterebbe fine al capitalismo, ma dopo. Non dipende solo a causa dell'enfasi irreale usata da Rifkin, nel ritrattare "l'accesso" e "l'economia della condivisione" visti entrambi come concorrenti vittoriosi del capitalismo, che questa quarta parte del libro è chiaramente la più irritante. Oltre a questo, quelle che non sono convincenti sono le sue indicazioni a proposito dell'avvento, proprio in America,  delle «cure sanitarie orientate al paziente», o di quelle che parlano della «fine della pubblicità», o addirittura quelle che parlano dei cosiddetti prestiti peer-to-peer e di «crowfunding». In questi casi, le attività ed i soggetti sono invariabilmente interessati al successo economico, e non ci sono indizi a proposito del fatto che abbiano intenzione di entrare in concorrenza sistemica con il capitalismo. Alla fine di questa parte del libro, la cosa diventa ancora più curiosa: Rifkin trasmette in maniera del tutto acritica l'opinione del "guru del management", nato a Vienna nel 1909, Peter Ferdinand Drucker, un "pensatore originale e indipendente" (secondo wikipedia.org), il quale argomenta che «i problemi cronici della povertà, dell'istruzione, del degrado ambientale, insieme a tutta una serie di altre difficoltà sociali potrebbero essere affrontate con maggior successo se venissero liberate le reti creative dell'imprenditorialità». A questo punti, Rifkin mostra forse il suo vero volto - quello per cui i suoi simpatizzanti aspettano in silenzio e dicono che è un peccato, che lui lo sa meglio!

Dell'abbondanza
Nella sezione finale, la quinta parte del libro, Rifkin torna un po' all'imponente livello della prima e della terza parte, ma, purtroppo, si ferma e rimane fermo a metà strada. Nelle prime pagine di questa sezione, prende in esame l'impronta ecologica lasciata dall'umanità e sottolinea la fame patita da miliardi di persone, le abitudini di spreco di molti americani e la distruzione ambientale degli ultimi anni. Ma attribuisce la responsabilità di questi scandali ai cosiddetti "materialisti", più di quanto non pensi che occorra cercare delle ragioni meno semplici oppure che non siano puramente etiche. Ed è nei cosiddetti millenial - i membri della generazione del millennio, ossia, coloro che sono nati fra il 1980 ed il 2000 e che a volte vengono chiamati "Generazione Y" - che Rifkin vede immediatamente il gruppo di persone che si avviano a liberarsi di questo materialismo. Secondo Rifkin, sono tali millenial a costituire essenzialmente la società a costo marginale zero, a promettere e a credere nel futuro, che gradualmente arriverà a vivere nell'abbondanza, grazie al prezzo, che si suppone andrà a tendere verso lo zero, dei beni e dei servizi.
Paradossalmente, tuttavia, è il mezzo giusto per poter controbilanciare con efficacia una distruzione ambientale causata dal consumo eccessivo: «È la scarsità a generare sovracconsumo, e non l'abbondanza. In un mondo in cui tutti vedono soddisfatte le loro necessità materiali, il timore della privazione scompare. La necessità insaziabile di accumulare e di consumare perde gran parte della sua ragion d'essere. Lo stesso vale per la necessità di prendere agli altri quanto più è possibile.» Francamente, sono d'accordo con lui su questa dichiarazione perché, a mio avviso, è psicologicamente del tutto corretta; solo il postulato stato di abbondanza, il superamento della scarsità per tutte le persone, o quanto meno per una maggioranza schiacciante, è, com'è noto, sistematicamente impossibile dentro il capitalismo, ed è stato verificato in maniera empiricamente negativa per più di duecento anni. La "società a costo marginale zero", come tentativo di soluzione, rappresenta solo un'utopia da parte di Rifkin, poiché si basa su dei fondamenti che egli ha frainteso. Sicuramente ci saranno dei successi minori, in particolare quelli relativi ai vari tentativi di economia di condivisione, come ci viene indicato anche dall'autore con vari esempi che fanno uso di materiale statistico. Tuttavia, un successo clamoroso continua a dover essere escluso, in quanto il capitalismo non fuggirà davanti alla lotta. Al contrario, il capitalismo incorporerà in forma frammentaria tutte le cosiddette alternative, dopo che potrà farlo. Se manca o se oppure viene meno la sua capacità, allora semplicemente non c'è capitalismo, con tutte le sue possibilità per le cose che hanno successo (gli inconvenienti, per quelle che ne hanno meno). E se c'è una generazione che immagina di poter vivere quasi gratis dentro questo capitalismo, dovrà improvvisamente rendersi conto che questo non può esser fatto, in quanto la base - la valorizzazione del valore -, insieme alla dissociazione, ha registrato un crollo vertiginoso, oppure è semplicemente sparita, allora si verificheranno dei comportamenti imprevedibili e non più controllabili da parte di coloro che sono stati ingannati, defraudati e truffati. Se tutto ciò fosse noto a Rifkin, o se arrivasse alle sue orecchie, il suo libro, in linea di principio, sarebbe una vera e propria delusione. Ma ho il sospetto che il suo Super-Io lo abbia rassicurato sul fatto che può ritenere conseguentemente, fino in fondo, i suoi approcci come se fossero del tutto credibili, perché sarebbero troppo terrificanti, imbarazzanti e spaventosi. Sicuramente a causa di ciò, egli di conseguenza ed in maniera imperturbabile a volte smette semplicemente di continuare a pensare, smettendo, pertanto, di mettere per iscritto dei pensieri più avanzati.

Conclusione
Rifkin riassume in maniera molto condensata le sue riflessioni sullo stato attuale del capitalismo, e circa il suo futuro, nella postfazione intitolata "Una nota personale". Qui dice: «Il fatto è che se da un lato lo spirito d’intrapresa rivolto al mercato sta contribuendo a portare l’economia verso l’azzeramento del costo marginale e la gratuità dei beni e dei servizi, questa sua azione si estrinseca in un contesto infrastrutturale reso possibile dal concorso creativo di tutti e tre gli ambiti in causa: Stato, mercato ed economia sociale dei Commons. Il contributo di chi opera in questi tre ambiti fa pensare che il nuovo paradigma economico continuerà anch’esso a vedere l’intreccio di Stato, mercato e Commons, anche se intorno alla metà del secolo attuale sarà probabilmente il Commons collaborativo a determinare il grosso della vita economica della società.». Probabilmente ci saranno problemi anche in futuro, ma per ciascuno di essi ci sarà un modo di risolverlo - se ho ben compreso l'intenzione di Rifkin. In questa postfazione, tuttavia, egli ammette anche di avere «sentimenti contraddittori rispetto alla caduta dell'era capitalistica». Pur tuttavia, egli spera con fervore: «Non si tratta propriamente di svegliarsi un giorno e scoprire che l'ordine economico è stato sradicato e sostituito da un nuovo regime». A questo posso solo rispondere: Bene, caro Jeremy Rifkin, può anch'essere che non avverrà così; tuttavia, alla fine dovremo riconoscere in quale situazione noi - tutta l'umanità - ci troviamo attualmente. Il problema sarà quello di sapere se riusciremo ad aver successo nella costituzione di una società che sia socialmente cosciente, una società che corrisponda al benessere dell'umanità, oppure se smetteremo di poter vivere in qualsiasi ordine reale, entrando in un caos del tutto incosciente e barbaro; lei, ovviamente, non si rende conto del fatto che la maggioranza dell'attuale umanità, proprio anche in America, è già sulla strada di questa stessa barbarie. Le auguro che possa, almeno, riuscire a svegliarsi!

- Richard Aabromeit - Pubblicato sulla rivista EXIT! nº 14, Maggio 2017 -

fonte: Exit!

rifkin libro

domenica 25 febbraio 2018

Anti/Nazionali

pannek naz

Nazione o Classe?
- La questione nazionale (estratti dall'edizione della Sinistra tedesco-olanderse, 2018) .
- di Philippe Bourrinet -

I - Nazione o classe? La questione nazionale
Nel 1909, come tutti i "tribunisti" [N.d.T.: dal nome del giornale "La Tribune", era il nome che veniva dato a che faceva parte della Sinistra Olandese], come i bolscevichi, Pannekoek sottolineava che il socialismo integra ogni lotta che intenda mettere fine allo sfruttamento, all'oppressione esercitata su qualsiasi popolazione, o parte di essa, dovunque nel pianeta:
«Il socialismo si pronuncia per il diritto dei popoli all'autodeterminazione, contro ogni sfruttamento ed oppressione e contro l'assolutismo.»
Posizione classica, nel movimento operaio. Ma se i marxisti di sinistra si pronunciavano contro ogni sfruttamento ed ogni oppressione di tipo nazionale e coloniale, ciò implicava che loro dovevano ricercare delle "soluzioni nazionali" a tali sfruttamenti ed oppressioni, e dovevano quindi sostenere la borghesia nazionale dei paesi che rivendicavano indipendenza o autonomia? Non c'era anche il rischio che questo «diritto dei popoli a disporre di sé stessi», elaborato a partire dalla filosofia dei Lumi, venisse cinicamente utilizzato dalle grandi potenze imperialiste, in particolare dagli Stati Uniti? (È noto che durante la guerra, i 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson, basati su questo "diritto", furono integrati nella carta della Società delle Nazioni, nel 1919. E questo principio fu applicato al fine di mantenere, non solo la colonizzazione, ma anche la predominanza delle grandi potenze capitaliste occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia.)
Questa visione dei "tribunisti" verrà profondamente modificata dallo stesso Pannekoek, a partire dal 1912, in senso rigorosamente anti-nazionale, ed internazionalista, di lotta contro il capitalismo mondiale.
Questa concezione anti-nazionalista ed internazionalista, si trova ad essere stata esposta in tutta la sua chiarezza da Marx ed Engels, nel 1848, allorché sottolinearono con forza che «i proletari non hanno patria». La categoria Classe prevaleva sulla categoria Nazione, e con questo insieme alla scomparsa dei «confini nazionali e degli antagonismi fra i popoli, storicamente transitori e destinati a scomparire». Tuttavia - in un periodo di ascesa del modo di produzione capitalista che estendeva progressivamente il suo dominio sul mercato mondiale e facendo sorgere delle nuove nazioni capitalistiche - i fondatori del marxismo lasciavano un posto alle rivendicazione delle nazionalità, nella misura in cui erano state create delle "nazioni storiche" che andavano nel senso dello sviluppo del capitalismo, e quindi della sua successiva scomparsa.
La politica dei teorici del "socialismo scientifico" era ben lungi dall'essere coerente. E portò Engels, che non si preoccupava delle sottigliezze teoriche, a schierarsi pienamente nel corso della rivoluzione del 1848. Il futuro autore de "La Dialettica della Natura", fece delle osservazioni tanto sorprendenti quanto terrificanti. Engels immaginava con gioia la scomparsa dei popoli "barbari" che pretendeva associare al panslavismo della Russia zarista. Per la maggior gloria del "Progresso", e per il più grande beneficio dei "popoli eletti" (tedeschi e magiari)...questi popoli sarebbero stati cancellati definitivamente dagli Annali della storia.
Dopo il 1870, lo stesso Engels considerava, nel 1882, che in Europa non potevano rimanere che due nazioni, la Polonia e l'Irlanda, le quali avevano «non solo il diritto ma il dovere di essere nazionali, prima di essere internazionali. Ed è proprio nell'essere più nazionali che queste due nazioni saranno più internazionali» [Lettera di Engels a Kautsky, in data 7 febbraio 1882].
E in una lettera scritta il 20 giugno 1893 al genero di Marx, Paul Lafargue, è sempre Engels a considerare che:
«Senza l'autonomia e l'unità conferita a ciascuna nazione, né l'unione Internazionale del proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di queste nazioni per dei fini comuni, possono essere realizzate».
Quest'ultima posizione, in qualche modo in contraddizione con quella che difendeva nel 1848, diverrà la posizione della Seconda Internazionale, quanto meno quella del suo Centro e della sua Sinistra. Questa posizione permise ad un Jean Jaurès, per esempio, di mettere insieme patriottismo ed internazionalismo nel suo libro, L’Armée nouvelle (1911), in cui affermava:
«Un po' di internazionalismo allontana dalla patria; molto internazionalismo avvicina. Un po' di patriottismo allontana dall'Internazionale; molto patriottismo avvicina».

Tocca a Rosa Luxemburg, nel 1896, rimettere in discussione quest'ultimo schema di Engels, per quel che riguarda la questione polacca. Per lei si trattava di «rivedere le vecchie idee di Marx sulla questione nazionale». In un articolo in polacco su «la questione nazionale e l'autonomia», sottolinea la natura di conquista propria ad ogni Stato nazionale capitalista, la cui finalità è quella del saccheggio e della rapina, e non «la tranquilla e intelligente collaborazione delle nazioni». Non è lo Stato nazionale, ma lo Stato brigante quello che meglio corrisponde allo sviluppo del capitalismo. [N.d.T.: «Kwestia narodowościowa i autonomia», in Przeglad Socjaldemokratyczny, organo teorico del SDKPiL, 1908, n° 6.]
Pertanto, Rosa Luxemburg respingeva il discorso sull'indipendenza della Polonia, in quanto contrario agli obiettivi proletari. Ammetteva, tuttavia, in circostanze eccezionali, la cosiddetta "liberazione nazionale", in particolare quella dei popoli cristiani perseguitati dall'impero ottomano, nel momento in cui avviene il primo genocidio contro gli armeni, nel periodo che va dal 1893 al 1896. Per Rosa Luxemburg, questa lotta deve non solo suscitare la simpatia umana dei marxisti contro il terrore e l'oppressione, ma va considerata come una lotta politica contro i due baluardi della controrivoluzione: l'impero russo e quello ottomano:
«I popoli cristiani - in questo caso gli armeni - vogliono liberarsi dal dominio turco, ed i socialdemocratici devono accettare questo fatto... Dobbiamo testimoniare la nostra simpatia e la nostra piena comprensione delle aspirazioni all'autonomia delle nazioni cristiane. Soprattutto, dobbiamo accogliere queste aspirazioni in quanto esse sono dei mezzi per combattere la Russia zarista, e dobbiamo insistere riguardo la loro indipendenza, tanto dalla Russia quanto dalla Turchia.»
Tuttavia, nel 1908, nel suo testo (scritto in polacco) La Questione Nazionale e l'Autonomia, Rosa Luxemburg respinge definitivamente ogni idea di conciliare "liberazione nazionale" e lotta di classe del proletariato. Era necessario respingere il concetto di "nazione" in quanto portatore dell'ideologia borghese e distruttore della coscienza di classe:
«(...) Un tale concetto di "nazione" è infatti una di quelle categorie dell'ideologia borghese che la teoria marxista ha sottomesso ad una revisione radicale, dimostrando che dietro un velo misterioso - quali sono i concetti di "libertà borghese", di "uguaglianza davanti alla legge", ecc. - si nasconde sempre un preciso contenuto storico. Nella società di classe, non esiste una nazione in quanto entità socio-politica omogenea; al contrario, ogni nazione ha delle classi con interressi e con "diritti" contrapposti ed antagonisti.»
La posizione teorica e politica di Rosa Luxemburg si trovava agli antipodi da quelle difese dai principali "tenori" dell'Internazionale, i quali lasciavano che si sviluppasse un'ideologia patriottica e nazionalista nei ranghi stessi del movimento operaio. Per cui Jaurés proclamava che il socialismo sarebbe «la patria universale dei lavoratori liberi, delle nazioni indipendenti e amici fra loro.» [Jaurès, L’Armée nouvelle, op. cit.]
Kautsky, già "centrista", sosteneva nel 1909: «Noi non siamo anti-nazionali, non più di quanto non siamo ostili, o perfino indifferenti, alla personalità» [Kautsky, in Haupt, Löwy et Weill 1974, p. 147.] Questa posizione - che venne poi ripresa nel 1919-1920 dai teorici del "nazional-bolscevismo" Laufenberg e Wollfheim - venne vigorosamente condannata dalla sinistra comunista tedesca, la quale proclamò che «la lotta del proletariato non solo è internazionale, ma è anche anti-nazionale.» [ Intervention d’Adolf Dethmann au Deuxième congrès du KAPD, août 1920.]
Convertitosi poi allo spirito della sintesi fra gli inconciliabili, Kautsky accusa perfino Otto Bauer (1881-1938), lo specialista delle nazionalità nel partito austro-ungherese, di non aver operato una «sintesi fondamentale fra nazionalismo ed internazionalismo» [Kautsky, in Haupt, Löwy et Weill 1974].
L'intervento di Pannekoek sulla questione nazionale, nel 1912, avvenne sotto forma di un opuscolo dal titolo "La lotta di classe e la nazione", ed apparve a Reichenberg, una città industriale della del Massiccio della Boemia (Sudetenland), dov'era predominante la lingua tedesca. L'opuscolo procedeva nello stesso identico senso di quello di Josef Strasser (1870-1935), membro dell'estrema sinistra austriaca. "L'operaio e la nazione", l'opuscolo che era stato simultaneamente pubblicato da Strasser in quella stessa città, era il complemento dell'opuscolo di Pannekoek, e ne era persino il prolungamento svolto in senso più radicale. Il loro intervento era un attacco globale contro le posizioni dell'austro-marxita Otto Bauer, e per suo tramite contro la penetrazione dell'ideologia nazionale nel partito socialdemocratico di Austria-Ungheria. Quel partito era una federazione di sei partiti nazionali; era diviso non in sezioni, ma in nazioni! In seno al Gesampartei[Il Partito totale], i nazionalisti più virulenti erano i separatisti cechi, che insieme ai sindacati cechi attuarono una prima secessione nel 1906. Simultaneamente, nel partito austriaco si era sviluppata una tendenza nazionalista, favorevole ad un imperialismo della Grande Germania, e quindi ad una annessione (Anschluss) al Reich.

Indubbiamente il libro di Otto Bauer, "La Questione delle nazionalità e la socialdemocrazia"(1907), era servito come copertura teorica per le tendenze nazionaliste in seno alla socialdemocrazia. Definendo la "Nazione" come comunità di linguaggio, di carattere e di destino, Otto Bauer difendeva l'idea di una propria "identità nazionale", senza tener conto dell'incessante mescolanza della popolazione nel corso dell'evoluzione storica. In una visione che in definitiva è assai vicina a quella di Kautsky e degli altri teorici dell'Internazionale, sosteneva che il progetto socialista si sarebbe concretizzato, non a partire dall'estinzione delle nazioni per poi formare in tal modo una comunità mondiale, ma attraverso una federazione delle nazioni: «l'unità internazionale nella diversità nazionale».
Nel suo opuscolo, e in maniera paradossale, Pannekoek riprendeva la definizione data da Otto Bauer della nazione: vale a dire, «l'insieme degli uomini legati da una comunità del destino in una comunità di carattere». Aggiungendovi la lingua vista come «il più importante attributo della nazione, ma tuttavia le nazioni non sono affatto identiche ai gruppi umani che hanno la stessa lingua.»
Ma la differenza fra la concezione di Otto Bauer e quella di Pannekoek - ma anche quella della Luxemburg - consiste nel fatto che la seconda, contrariamente a Bauer, che fa della "nazione" una categoria eterna, mostra, al contrario, il suo carattere transitorio:
«(...) la nazione non è altro che una struttura temporanea e transitoria nella storia dell'evoluzione dell'umanità, una delle tante forme di organizzazione che si succedono, o che si manifestano simultaneamente: tribù, popoli, imperi, Chiese, comunità, villaggi, Stati. In mezzo a tutti questi, la nazione, nella sua specificità, è essenzialmente un prodotto della società borghese, ed è insieme ad essa che sparirà.»
Ecco perché, una volta che le nazioni borghesi si sono formate sulla base dello sfruttamento del proletariato, quest'ultimo afferma di esserne il negatore. Tra borghesia e proletariato «la loro comunità nazionale di destino e di carattere scompare sempre più»; e con lo sviluppo accelerato del capitalismo, e contrariamente alle affermazioni di Bauer, è la differenza del destino sociale a creare una separazione insormontabile fra le due classi antagoniste. Riguardo al nazionalismo proletario, predominante all'epoca delle rivoluzioni borghesi, esso «perde le sue radici nel momento in cui la classe sfruttata affronta la propria borghesia che si fa carico dello sfruttamento».
E infatti, è la piccola borghesia la sola classe, oltre alla borghesia, ad avere delle reali radici nazionali ed a manifestare il nazionalismo più estremo. Qui, l'argomentazione di Pannekoek incontra con vigore quella di Josef Strasser, con i suoi "lavoratori della lingua" - i funzionari, gli impiegati, ecc. - mostra che questi hanno un interesse maggiore a mantenere un quadro nazionale che garantisca loro la sussistenza. Ma molto più di Strasser, Pannekoek sottolinea il carattere parassitario di questi strati piccolo-borghesi attaccati ai loro privilegi nazionali, i quali funzionano come una sorta di clientela plebea: «La nazione, in quanto comunità solidale, costituisce per chi ne fa parte una clientela, un mercato, un dominio di sfruttamento dove si dispone di un vantaggio rispetto ai concorrenti delle altre nazioni.» (...) «Il loro nazionalismo è quello delle cricche che lottano le une contro le altre per avere influenza sullo Stato, per il potere nello Stato». Infine, la comunità della "cultura", l'argomento finale di Otto Bauer per difendere l'idea di "identità nazionale" è un argomento falso. La sola cultura che ha valore per il proletariato di un paese non può essere altro che la cultura socialista, la quale non ha niente di nazionale e si oppone al mondo borghese nel suo insieme: «Quelli che noi chiamiamo effetti culturali della lotta di classe, l'acquisizione da parte del lavoratore di una coscienza di sé, del sapere e del desiderio di istruirsi, di elevate esigenze intellettuali, non ha niente a che vedere con una cultura nazionale borghese, ma rappresenta la crescita della cultura socialista. Tale cultura è un prodotto della lotta, la quale è una lotta contro il mondo borghese nella sua totalità».
La lotta di classe internazionale, che si sviluppa in tutti i paesi, rivela necessariamente l'essenza internazionale ed internazionalista del proletariato. Questo carattere internazionale del proletariato non smette di crescere, nell'epoca moderna, quando negli scioperi di massa, i lavoratori scambiano e mettono in comune mutualmente teoria e tattica, metodi di lotta. Per definizione, il proletariato è un solo esercito, temporaneamente disperso nei battaglioni nazionali per combattere il medesimo nemico capitalista globale: «Il proletariato di tutti i paesi percepisce sé stesso come un unico esercito, come una grande unione, che solo delle ragioni pratiche - poiché la borghesia è organizzata in Stati e di conseguenza ci sono numerose fortezze da prendere - lo hanno costretto a scindersi in più battaglioni che devono combattere separatamente il nemico». Per questa ragione, sottolinea Pannekoek, il ruolo del marxismo è stato quello di fare un'opera costante di propaganda al fine di rafforzare la coscienza di classe degli operai, il loro senso di appartenenza ad uno stesso esercito mondiale. La forza del fatto nazionale è direttamente proporzionale al soffocamento del sentimento di classe: «[Il fatto nazionale] è un ostacolo alla lotta di classe, la cui forza dannosa dev'essere quanto possibile eliminata». È questo il motivo per cui Pannekoek, seguendo Rosa Luxemburg, sosteneva un rifiuto netto di ogni indipendenza nazionale, in Europa, ed in particolare nell'Austro-Ungheria ed in Polonia. Analogamente agli antagonismi religiosi, i conflitti nazionali o inter-nazionali (fra nazioni) sono un mezzo di distrazione dalla lotta di classe. «[È] un mezzo eccellente per dividere il proletariato, per distogliere la sua attenzione dalla lotta di classe per mezzo di slogan ideologici ed impedire la sua unità di classe».

Quindi, la politica del marxismo di sinistra riguardo la questione nazionale non era un'utopia, ma una necessità sulla strada che porta il proletariato alla presa del potere su scala planetaria. Non si trattava di un appello ad una "etica" internazionalista, ma di una politica pratica rivolta contro una forza reale, l'ideologia borghese nazionalista, la cui finalità era la disintegrazione dell'esercito internazionale operaio, e in definitiva la preparazione alla guerra imperialista. Questa politica attiva dell'internazionalismo olandese, viene riassunta da Pannekoek  nei seguenti termini, frementi di tutta l'enfasi posta sul "sentimento di classe":
«A tutti gli slogan, così come a tutti gli argomenti nazionalisti, si risponderà: sfruttamento, plusvalore, borghesia, dominio di classe, lotta di classe. Se parleranno delle esigenze di una scuola nazionale, noi richiameremo l'attenzione sulla povertà dell'insegnamento dispensato ai figli degli operai che non imparano più di quanto serva loro per lavorare quando sarà il momento al servizio del capitale. Se parleranno di segnaletica e di cariche amministrative, noi parleremo della miseria che costringe i proletari ad emigrare. Se parlano dell'unita della nazione, noi parleremo dello sfruttamento e dell'oppressione di classe. Se parlano della grandezza della nazione, noi parleremo della solidarietà del proletariato nel mondo intero.»
Quest'opuscolo di Pannekoek, scritto in uno stile che è allo stesso tempo appassionato e didattico, è stato une dei discorsi più vibranti, nella Seconda Internazionale, scritti per difendere i sentimenti internazionalisti di classe contro la disgregazione di tali alti sentimenti umani da parte dell'ideologia nazionalista.
L'opuscolo del teorico olandese era in pieno accordo con quella di Josef Strasser, ma se ne discostava un po', nella misura in cui, talvolta, faceva qualche concessione a Bauer. Incontestabilmente, Pannekoek dava una chiara visione dell'avvenire socialista, affermando che l'unità economica del futuro sarebbe stata il mondo, e non lo Stato e la nazione: «Questa base materiale della collettività: la produzione mondiale organizzata, trasforma l'umanità futura in un'unica comunità del destino.»
A differenza di Josef Strasser, immaginava l'esistenza di "comunità linguistiche" in un mondo unificato. Ciò che delle "nazioni" continuerebbe a sussistere, vivrebbe nei "gruppi con la stessa lingua". le cui relazioni reciproche creerebbero un linguaggio comune.
Egli stava senza alcun dubbio reintroducendo il concetto di "nazione", sotto la forma di una "super-nazione" transcontinentale, per mantenere nei fatti una "diversità linguistica". Ma chi trarrebbe beneficio di questa "diversità", in una società che dovrebbe sfociare in un mondo unificato senza classi, mentre Pannekoek mostra nelle sue argomentazioni che solo la piccola borghesia aveva interesse a conservare la "lingua nazionale"? Si trattava in ogni caso di una questione complessa che era difficile da trattare se ci si immergeva troppo velocemente nelle "marmitte dell'avvenire"...
Più logico, Josef Strasser evocava in tutti i suoi pronostici la comparsa di una lingua mondiale unica, per cementare la nuova comunità umana:
«Mettiamo un termine alla molteplicità delle lingue, facciamo di una lingua, la lingua della comunicazione generale, che la si insegni in tutte le scuole del mondo ed essa ben presto diverrà la lingua unica e di conseguenza svolgerà la funzione della lingua in quanto mezzo di comprensione e di comunicazione.»
Nelle proposte concrete di Pannekoek c'era una certa indecisione. Per un fatto di "tattica", egli preconizzava in Austria-Ungheria, a livello internazionale (Gesamptpartei), l'unità del partito e dei sindacati, indipendentemente dalla nazionalità. Localmente, "per delle finalità di propaganda e di educazione", sosteneva una sotto-organizzazione ed un'articolazione nazionale. Per tener conto delle "particolarità linguistiche", sembrava reintrodurre timidamente il fattore nazionale fin dentro l'organizzazione politica del proletariato.
Ma simili ambiguità erano appena percettibili in questo lavoro estremamente importante di Pannekoek. Infatti, "Lotta di Classe e nazione" di Pannekoek era innanzitutto un'opera di combattimento completamente orientata contro l'ideologia nazionalista, base ideologica della preparazione della guerra mondiale. Sempre più, nota Pannekoek nel 1913 - così come d'altronde Rosa Luxemburg e i "tribunisti" - la scelta era tra l'azione di massa, l'internazionalismo, e la rivoluzione oppure fra il nazionalismo e la guerra.

- Philippe Bourrinet - Pubblicato il 4/2/2018 su pantopolis.over-blog.com -

pannek

sabato 24 febbraio 2018

freddure

Groucho

Marxista tendenza Groucho
- di Pietro Citati -

Non saprei precisamente quando sia nato il cosiddetto umorismo ebraico, che ormai, almeno negli Stati Uniti, è la forma principale di comico. Bisogna attendere sedici o diciassette secoli dopo l'inizio dell'era cristiana: i tempi di Lurija e soprattutto quelli dello chassidismo, tra le plebi orientali sul punto di partire per gli Stati Uniti. Lì nacque, almeno in parte, il riso disperato e sottilissimo di Kafka. Gli ebrei ridevano e insieme piangevano: ridevano e piangevano perché le "Sefìrot", le emanazioni divine, erano sparse nel nostro mondo, in mezzo a noi, sotto i nostri occhi, vittime e prigioniere, ed essi potevano liberarle, lavorando amorosamente e precisamente la pietra od il cuoio, o qualsiasi oggetto. Oggi l'editore Adelphi ripubblica due bellissimi libri: Groucho ed io (traduzione di Franco Salvatorelli, pagine 316, euro 12) e Le lettere di Groucho Marx (traduzione di Davide Tortorella, pagine 376, euro 20): Groucho è il terzo dei cinque fratelli Marx, vissuto tra il 1890 e il 1977 negli Stati Uniti. Sono due libri deliziosi, follemente divertenti, che invito a leggere tuffandosi ora nella realtà più minuziosa ora nell'assurdo più inverosimile - le due strade che l'immaginazione ebraica ha sempre percorso. Sono impareggiabili giochi di teatro, scritti per venire recitati davanti al complice pubblico ebraico di New York: percepiamo quasi il suono di ogni battuta, il movimento di ogni gesto, e le risa che salgono irresistibili dalla platea.
   Con infinito piacere, Groucho Marx racconta. Racconta i tempi del proibizionismo e la crisi del 1929: a tratti, sembra di leggere Fitzgerald. Un giorno il suo consulente finanziario gli disse: «Groucho, la festa è finita». I suoi amici si gettavano dai grattacieli: i gangster impazzavano per le strade; e lui fu travolto dall'insonnia. I Marx erano una famiglia povera, venuta dalla Germania yiddish: la madre «da un Paese di circa trecento anime, comprese quattro vacche, che c'erano arrivate per sbaglio». A Brooklyn Groucho si trovò amorosamente e ferocemente avvolto dalla famiglia: nessuna famiglia è più avvolgente ed amorosa di una famiglia ebraica. Aveva uno zio pieno di debiti: ottantaquattro dollari soltanto con suo padre: possedeva una palla di biliardo numero nove (rubata), una scatola di pasticche per il fegato e uno sparato di celluloide; viveva a sbafo, e fece di Groucho il suo unico erede. Un altro zio era pedicure: dopo essersi invitato a pranzo, asportava con garbo i calli accumulati dal padre di Groucho battendo i marciapiedi in cerca di lavoro: il suo onorario era modesto; venticinque cent per entrambi i piedi. Un terzo zio, che ebbe uno straordinario successo, stirava pantaloni in una ditta di Manhattan.
   Come si conviene a un ebreo di Brooklyn, il padre faceva il sarto: o meglio immaginava di fare il sarto: non prendeva mai le misure a nessun cliente: gli bastava guardarlo; e i risultati delle sue previsioni erano più o meno esatti come le previsioni di Chamberlain sul conto di Hitler. Era facile riconoscere i suoi clienti: andavano in giro con un calzone più corto dell'altro, una manica più larga dell'altra, e il bavero della giacca incerto su dove posarsi. Non aveva mai due volte lo stesso cliente: doveva andare di continuo a caccia di clienti nuovi - sempre più lontano, a Hoboken, Pasaic, Nyact e altrove, finché molte settimane la spesa del tram superava il guadagno, e i suoi calli erano duri come pietre. Con la promessa di un gelato alla crema, Groucho era incaricato di consegnare il vestito, la domenica mattina, in tempo per la Pasqua, sulla Prima Avenue. Il reddito del padre oscillava tra diciotto dollari alla settimana e niente: Groucho non sapeva bene se se ne affliggeva; ma se si affliggeva non lo dava mai a vedere. Era un uomo felice: pieno della joie de vivre della sua Alsazia nativa. Amava ridere. Spesso rideva per una barzelletta che non capiva, e dopo che gliel'avevano spiegata rideva di nuovo fragorosamente. Sempre in attesa di miracolosi colpi di scena, un giorno, sfogliando la Bussola del sarto, vide l'annuncio di un nuovo tipo di macchina per stirare i calzoni. La comprò: era velocissima: stirava un paio di calzoni in quindici secondi, ed era pronta ad accogliere valanghe di calzoni. Soltanto che il padre non aveva clienti.
   Questa parte dei due libri è bellissima, per verità, saggezza e divertimento. I libri vanno a zig zag, avanti e indietro, indietro e avanti, perché Groucho non ha la più pallida idea, come Sterne, che un libro debba portare a una fine e a una conclusione. Quello che gli importa è raccontare menzogne: menzogne e menzogne; una più grande dell'altra; perché non c'è nessuna differenza tra verità e menzogna o tra i suoi libri e quelli copiati dagli altri. Scriveva rapidamente: molto rapidamente, come i gesti e le frasi dei film di Chaplin, che adorava, e al quale credeva di assomigliare. Fu felicissimo il giorno in cui Chaplin, vincendo la propria abituale avarizia, lo invitò a pranzo: gli disse di non essere ebreo, sebbene gli sarebbe molto piaciuto esserlo. Era scozzese, inglese, gitano: non lo sapeva nemmeno lui; odiava gli inglesi ma sperava che vincessero la guerra. «È un tipo molto strano - disse Groucho - per un certo verso non ha nemmeno un barlume di senso dell'umorismo». Alla fine del pranzo avvenne qualcosa di sbalorditivo: Chaplin afferrò il conto (ammontava a trenta dollari), e lo pagò di tasca sua.
   Sempre velocissimamente Groucho Marx parla di tutto. I libri che ha letto: Piccolo campo di Caldwell, Piccole donne di Louisa May Alcott, Ben Hur, Via col vento: Rembrandt, Beethoven e Van Gogh. Conosceva perfino Finnegans Wake: non era meno lontano dalla vita di quanto lo fosse Joyce. T. S. Eliot gli scrisse per mandargli un ritratto, «che faceva la sua debita figura accanto a quelli di altri amici - W. B. Yeats e Paul Valéry»: naturalmente la lettera di Eliot era falsa. «Quando ti chiamo Tom, vuol dire che sei un misto di peso medio-massimo, un gattaccio randagio e il terzo presidente degli Stati Uniti». «Eliot ed io abbiamo tre cose in comune: 1) la passione per i buoni sigari. 2) I gatti. 3) Un debole per le freddure - un debole che io cerco di vincere da molti anni, mentre Eliot è uno spudorato, un orgoglioso freddurista».
   Non smetterei mai di citare Groucho Marx, con lo stesso piacere con cui ricordo le battute delle commedie di Shakespeare. Il varietà della sua giovinezza gli piaceva moltissimo: era molto più assurdo e svitato di quello moderno. Adorava far ridere: «a paragone dell'impresa di far ridere, le parti drammatiche del teatro sono come una vacanza di due settimane in campagna». Una volta la posizione dell'attore nella società era una via di mezzo tra una zingara chiromante e un borsaiolo. Poi il varietà scomparve, ucciso prima dal cinema, poi dalla televisione: mentre lui avrebbe voluto tornare ad immergersi nella meravigliosa e rarefatta atmosfera dell'antica Broadway.
   Allora, in vetta a tutto, c'erano i fratelli Marx: Chico, Harpo, Groucho, Gummo e Zeppo. Groucho faceva gite ciclistiche al supermercato: appariva due volte alla settimana in televisione: scriveva lettere e, chissà perché, si faceva grattare i piedi. Gli altri lo descrivevano come uno sbragato pagliaccio, pronto a qualsiasi bassezza pur di strappare una risata. «In verità - diceva Groucho - io sono uno studente invecchiato, che ambisce alla conoscenza e alla solitudine, e conduco una vita esemplare e solitaria in un'atmosfera libresca e coltissima».
   Della sua vita Groucho ricorda specialmente un evento. Un giorno, a Chicago, camminava per la State Street quando una coppia di mezza età gli venne incontro e si mise a girargli intorno. Fecero due o tre giri, guardandolo come se fosse una cometa venuta dallo spazio. Poi la donna gli si avvicinò titubante e chiese: «È lei, vero? È Groucho?». Egli annuì. Allora gli toccò timidamente un braccio e disse: «Per favore, non muoia, continui a vivere». Nelle ultime righe del libro, Groucho commenta: «si può desiderare di più?», Certo, non si può desiderare di più.

Pietro Citati - Pubblicato su Repubblica del 20 novembre 2017 -

venerdì 23 febbraio 2018

Lello e Walter

disagio

Cosa succede se un'intera generazione, nata borghese e allevata nella convinzione di poter migliorare - o nella peggiore delle ipotesi mantenere - la propria posizione nella piramide sociale, scopre all'improvviso che i posti sono limitati, che quelli che considerava diritti sono in realtà dei privilegi e che non basteranno né l'impegno né il talento a difenderla dal terribile spettro del declassamento? Cosa succede quando la classe agiata si scopre di colpo disagiata? La risposta sta davanti ai nostri occhi quotidianamente: un esercito di venti-trenta-quarantenni, decisi a rimandare l'età adulta collezionando titoli di studio e lavori temporanei in attesa che le promesse vengano finalmente mantenute, vittime di una strana «disforia di classe» che li porta a vivere al di sopra dei loro mezzi, a dilapidare i patrimoni familiari per ostentare uno stile di vita che testimoni, almeno in apparenza, la loro appartenenza alla borghesia. In un percorso che va da Goldoni a Marx e da Keynes a Kafka, leggendo l'economia come fosse letteratura e la letteratura come fosse economia, Raffaele Alberto Ventura formula un'autocritica impietosa di questa classe sociale, «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle». E soprattutto smonta il ruolo delle istituzioni laiche che continuiamo a venerare: la scuola, l'università, l'industria culturale e il social web. Pubblicato in rete nel 2015, "Teoria della classe disagiata" è diventato un piccolo culto carbonaro prima di essere totalmente riveduto e completato per questa prima edizione definitiva.

(dal risvolto di copertina di: Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, 2017 - 262 pagine)


Lotta di classe disagiata
- di Luca Mastrantonio
-

Cos’hanno in comune il conte Mascetti di Amici miei, Walter White di Breaking bad, un precario in coda per il nuovo smartphone a rate e lo stagista che paga per lavorare? Sono, in contesti e a livelli molto diversi, esponenti della «classe disagiata», il ceto medio impoverito dalla crisi, che si percepisce persino più povero di quello che è realmente, perché gli era stato promesso — o si è auto-promesso — un radioso avvenire, di crescita, di successo. Questo disagio, dovuto ad ambizioni frustrate, è diffuso tra chi vive al di sopra dei propri mezzi, all’ombra di un’infanzia dorata o abbagliato da un futuro illusorio. Colpisce soprattutto le generazioni successive ai babyboomers, in particolare i millennials che, per altro, usano spesso come sinonimo di «che imbarazzo» l’espressione «che disagio». Vale per tutti, ed è magra consolazione.
Ad esempio. Sto scrivendo questo articolo su un treno dove ho trovato un’offerta per un biglietto premium; per chi vuole, è compreso un bicchiere di prosecco, che mette subito allegria e orienta già la risposta difronte al celebre dilemma da treno alta velocità: «Dolce o salato?»; la busta del «salato» è chiusa, e questo alza le mie aspettative che, però, vengono presto deluse: dentro c’è una confezione di tarallucci, di quelle da 40 centesimi al distributore automatico in ufficio. Non ho pagato abbastanza per avere uno snack «salato» più sfizioso? O è colpa del prosecco «offerto» che mi ha tratto in inganno? Così diffuso e a basso costo che può essere affiancato ai tarallucci... Trovo la risposta in Teoria della classe disagiata, un lucidissimo saggio di Raffaele Alberto Ventura, che ha in copertina un’immagine efficace: una bottiglia di champagne vuota, con dentro un tovagliolo, a suggerire la rabbia senza combustibile della classe disagiata. Una patetica molotov scarica.
Ventura (noto su Facebook come Eschaton, il libro è pubblicato da Minimum fax) capovolge con abilità la Teoria della classe agiata, di Thorstein Veblen (Einaudi), per cui l’appartenenza alla classe agiata si manifesta attraverso beni di lusso, status symbol, oggetti che si desiderano per emulazione dei vincenti e per distinzione dai perdenti. Lo champagne, ricorda Ventura, è il tipico status symbol dei ricchi, ma oggi grazie al progresso industriale può essere prodotto in quantità maggiore, con conseguente abbattimento dei costi, maggior consumo e perdita del valore simbolico. Il lusso, per l’effetto Veblen, deve costare, sennò non è lusso.
La spinta a desiderare alcuni beni costosi per il prestigio che offrono, la riconoscibilità, il posizionamento sociale è arrivata dal boom economico liberista ma pure dall’imperativo desiderante del ‘68, che ha creato uno strano cortocircuito: le élite culturali del Dopoguerra, di sinistra, reclamavano per tutti il diritto allo champagne e al caviale, ma se ne sono appropriati spesso solo loro. La doppia morale dei radical chic ha creato false aspettative sulla cultura e le possibilità di ascesa che offre.
Ma torniamo al conte Mascetti e White. Lello Mascetti è il nobile decaduto degli Amici miei di Mario Monicelli: fino ai vent’anni si faceva vestire e spogliare dalla servitù, da sposato si è fatto un viaggio di nozze di tre anni e mezzo, portando al guinzaglio un orso. Le cose hanno preso un’altra piega, ma lui fa finta di vivere ancora in quell’epoca d’oro, delira, al punto da chiamare «castello» la catapecchia in cui vive.
Simile, ma con dinamiche e motivazioni diverse, è il caso di Walter White, eroe del disagio contemporaneo, bianco arrabbiato. Nella serie tv Breaking Bad (dal 2008 al 2013), interpretato da Bryan Lee Cranston, White è un prof di chimica la cui vita viene sconvolta dal cancro; per far fronte alle cure, si mette a spacciare. Sinossi brutale, cui sfuggono dettagli importanti: White decide di non rivolgersi a un medico convenzionato con la sua assicurazione, rifiuta per orgoglio un’altra offerta di lavoro, non vuole che la moglie lavori e non vuole rinunciare alla casa con la piscina, simbolo di quella «american way of life» rappresentata dai vicini, dai colleghi, dal cognato poliziotto con cui entra in competizione dedicandosi al narcotraffico. Dunque, la povertà di White è una povertà relativa, scrive Ventura nel libro, come quella di molti americani che hanno votato Trump. Perché il populismo attinge soprattutto alla classe media che si sente disagiata perché vuole accedere agli oggetti simboli di uno status sociale superiore, ma che costano davvero troppo.
Gli esempi di Mascetti e di White sono presi dal libro di Ventura, perché sì, anche la cultura è uno status symbol: sì il valore di un libro aumenta se l’hanno letto le persone giuste (ah, se vi piace Brunori Sas, lui l’ha letto!) e rischia di diminuire se l’hanno letto in troppi; ma tranquilli, non è in classifica, purtroppo, e alcuni prodotti culturali hanno una particolarità: non basta acquistare un libro per appropriarsi del suo valore simbolico, va letto, fatto proprio e l’intelligenza che in tanti ne possono derivare, non si inflaziona come la versione invecchiata di un cellulare dall’obsolescenza precoce.
Quello di Ventura è un libro di cui questa epoca ha bisogno come il pane, andrebbe letto dalla classe dirigente che spesso non ha strumenti per comprendere il disagio profondo degli italiani esposti a illusorie promesse di benessere e in lotta con i loro desideri di affermazione. La scrittura è brillante e il ragionamento mescola teoria economica, sociologia e letteratura, con un capitoletto finale su Checov e Kafka da applausi. Sì, serve un pizzico di coraggio per leggere un libro che mette a nudo le nostre velleità. Il retrogusto è agrodolce. Ma almeno si va oltre il solito dilemma: dolce o salato.

- Luca Mastrantonio - Pubblicato sul Corriere dell'11 Nov 2017 -

giovedì 22 febbraio 2018

AntiLavoro

anti-lavoro distruzione

Alcune precisazioni sull'anti-lavoro
- di Bruno Astarian -

Introduzione
Sul concetto di anti-lavoro regna una certa confusione. A questo non sfugge neanche il mio opuscolo «Aux origines de l’anti-travail» [Echanges et Mouvement, 2005]. La confusione consiste nel non specificare sufficientemente il concetto di anti-lavoro. Da un lato, esso consiste nel collocare nella medesima categoria dell'anti-lavoro alcuni comportamenti, come la pigrizia del lavoratore salariato che cerca normalmente di fare il meno possibile, o come la scelta secondo cui è preferibile la disoccupazione (e la sua indennità), oppure la vita ai margini. Queste pratiche di rifiuto del lavoro, di resistenza, sono vecchie come il proletariato, e non servono a definire l'anti-lavoro moderno. D'altra parte, la confusione consiste nel collocare nella categoria dell'anti-lavoro quelle pratiche di resistenza allo sfruttamento che in realtà sono pro-lavoro, come ad esempio il luddismo. Ora, io ritengo che per quanto riguarda le lotte della nostra epoca (a partire dal '68) - le quali dimostrano che il proletariato non è più la classe che si affermerà nella rivoluzione come la classe del lavoro egemonico, come quella che renderà il lavoro obbligatorio per tutti e che sostituirà la borghesia alla direzione dell'economia - sia meglio mantenere il termine di anti-lavoro.
Per meglio comprendere la specificità che dev'essere associata al termine di anti-lavoro, è necessario assumere una prospettiva storica. Precisiamo che qui siamo interessati alle lotte che si svolgono sul luogo di lavoro, le lotte contro le modalità attuali del rapporto fra i lavoratori ed i loro mezzi di produzione (assenteismo, sabotaggio, indisciplina in generale).

1 - Il luddismo
Il luddismo viene spesso identificato con una reazione spontanea e rabbiosa da parte degli operai inglesi dell'inizio del XIX secolo contro l'introduzione di nuove macchinari. Il fatto che abbiano fatto a pezzi delle macchine fa pensare ad alcune forme moderne di sabotaggio, in special modo nel contesto del lavoro alla catena di montaggio. Questa valutazione, che non è per niente esatta, spiega che il luddismo verrebbe così equiparato all'anti-lavoro.
Ricordiamo le caratteristiche principali del luddismo, che si riassumono in tre episodi, tutti avvenuti nel corso degli anni 1810:
- Gli Stockfinger (filatori di calzini) di Nottingham: oltre ai normali problemi relativi ai salari e alle tariffe, i filatori si oppongono al cut-up (cucitura fatta a partire da tessuto già filato "a maglia") ed al colting (impiego di troppi apprendisti). Le loro lotte per difendere la qualifica del proprio lavoro li porta a distruggere delle macchine (che non sono nuove). Lottano contro delle pratiche di lavoro e di sfruttamento.
- I Croppers (i tagliatori di stoffe) del West Riding: si oppongono al "gig mill" (una macchina non nuova) e allo "shearing frame" (più recente). Queste due macchine permettono di poter fare a meno del loro lavoro (molto qualificato).
- I tessitori di cotone del Lancashire: i loro caso è più complesso, in quanto mescola rivolte dovute alla fame, rivendicazioni salariali ed opposizione alla prima macchina a vapore.
La violenza contro le macchine non deve portarci fuori strada: il luddismo è pro-lavoro. Difende la qualifica contro la meccanizzazione, ma anche, e forse soprattutto, contro il lavoro di cattiva qualità (cut-up), che favorisce l'utilizzo di lavoratori non qualificati (colting), perfino delle donne! Il suo contenuto è solo apparentemente anti-lavoro. Il luddismo difende il lavoro vecchio stile. Afferma la dignità del lavoratore contro la dequalificazione e, eventualmente, contro la meccanizzazione. Tutto ciò passa attraverso un'attività politico-sindacale che si associa alla violenza contro padroni e macchine. Il luddismo è stato attivo all'interno delle correnti sindacali clandestine, e non si è opposto alle lunghe, costose ed inutili campagne di lobbyng parlamentare. Le distruzioni di macchine non erano dei movimenti di rabbia spontanei, ma delle operazioni meticolosamente organizzate. È questo che alla fine spiega il fatto che i luddisti non abbiano distrutto le macchine su cui lavoravano, ma solo quelle dei padroni o dei lavoratori colpevoli di utilizzare delle macchine proibite, sia per il fatto che fabbricavano merci di qualità inferiore, sia di lavorare al di sotto della tariffa. La rivendicazione di un lavoro di buona qualità, svolto secondo i metodi del lavoro qualificato e remunerato in maniera adeguata, ecco cosa caratterizzava il luddismo.

2 - Il sabotaggio secondo Pouget e Smith
Pouget ha fatto entrare il sabotaggio nel discorso sindacale al congresso della CGT del 1897. Il suo opuscolo, "Il Sabotaggio", da allora ha visto un numero incalcolabile di riedizioni. Pouget viene regolarmente ricordato come il precursore degli OS (operai specializzati, in realtà non qualificati) di oggi. Spesso, il suo sabotaggio viene indicato come fondatore dell'anti-lavoro. Bisogna guardarlo più da vicino: il sabotaggio invocato da Pouget (1911) non è anti-lavoro, è anti-padrone.
Pagate al lavoratore un un buon salario, ed egli ti fornirà quel che ha di meglio, e come lavoro e come condotta.
Pagate al lavoratore un salario insufficiente, e voi non avrete più il diritto di esigere la migliore qualità e la più grande quantità di lavoro che vi ha permesso di ottenere un cappello da 5 franchi per 2 franchi e mezzo.
Peuget vuole innanzitutto dimostrare che il sabotaggio è un modo efficace per piegare i padroni riguardo le questioni di salario, ecc. Inoltre, il sabotaggio dimostra che sono i lavoratori produttivi, attraverso i loro sindacati, a gestire la produzione. Il sabotaggio di Pouget non è arrabbiato e distruttivo. È calcolato, preparato. Partecipa del controllo che i lavoratori hanno rispetto al proprio lavoro, sia in quanto tecnica, sia in quanto organizzazione collettiva.
Nel suo opuscolo, Pouget cita numerosi esempi, che praticamente riguardano tutti dei lavoratori qualificati. E spesso non sono dei veri e propri casi di sabotaggio, ma si tratta di idee, di proposte che riguardano ciò che i lavoratori potrebbero fare. Il suo sabotaggio arriva a sostegno delle rivendicazioni, in preparazione di uno sciopero (come prevenzione rispetto ai sindacati "gialli").
Per Pouget, il sabotaggio è soprattutto rallentamento della produzione. Egli menziona anche la bassa qualità del lavoro (per coloro che lavorano al montaggio), quindi il danno alle merci prodotte. La distruzione parziale o totale, reversibile o meno, dei mezzi di produzione viene citata meno spesso. Ma anche in questi casi, nei confronti del lavoro non c'è una particolare ostilità. E Pouget cita, approvandolo, un sindacalista ferroviario:
«Bisognerebbe che dei compagni, fra i professionisti, i quali, conoscendo meglio il funzionamento del servizio, sapessero trovare i luoghi sensibili, i punti deboli, colpendoli a colpo sicuro senza mettere in atto delle distruzioni imbecilli e, per mezzo delle loro efficace azione, svelta ed intelligente oltre che energica, renderebbero, con un solo colpo, inutilizzabile per alcuni giorni l'attrezzatura indispensabile...»
Negli Stati Uniti, il testo di Pouget è stato in gran parte ripreso da Walker C. Smith, membro degli Industrial Workers of the World. Ma Smith è più esplicito di Pouget per quel che riguarda la disposizione pro-lavoro del sabotaggio. Egli si basa sulla padronanza che hanno i lavoratori sui processi di produzione, per arrivare ad invocare un "sabotaggio costruttivo": il sabotaggio organizzato rafforza la solidarietà  fra i lavoratori, e conferisce loro un controllo supplementare sulla produzione. Per cui chiama sabotaggio costruttivo il fatto di migliorare discretamente la qualità dei prodotti che vengono venduti ai lavoratori, e che i padroni adulterano per aumentare i loro profitti. E conclude:
«Se la situazione evolverà secondo il corso attuale, ivi compresa la possibilità di un controllo sempre maggiore da parte dei lavoratori sull'industria, allora la tattica di lotta si svilupperà in base a ciò, ed il sabotaggio costruttivo farà parte di tutto questo.»
Alla svolta del XX secolo, il sabotaggio ha partecipato all'affermazione della centralità del lavoro nella società capitalistica dell'epoca. I lavoratori (almeno quelli che vengono menzionati in entrambi i testi) hanno una relativa autonomia per quel che riguarda la loro attività. Certo, esercitano un ferreo controllo sui loro ritmi e sulla loro qualità. I lavoratori sanno come vengono tecnicamente prodotte le merci. Il sabotaggio consiste nel fare abbassare la quantità e/o la qualità, cosa che ovviamente infastidisce il padrone. Ma questo sabotaggio dà anche prova della possibilità di un controllo da parte dei lavoratori sulla produzione e, per estensione, sulla società nel suo insieme. Il sabotaggio di Pouget e di Smith fa parte del progetto programmatico della rivoluzione operaia.
«Per quanto attiene ai processi di produzione, noi siamo in possesso dell'industria, E tuttavia noi non abbiamo né la sua proprietà né il suo controllo, a causa di un'assurda fede nel diritto di proprietà.» [ WC Smith, Sabotage, its history, philosophy and fonction, 1913.]
La lotta dei luddisti si inscrive in un movimento più generale di formazione dei sindacati e dei partiti della classe operaia inglese. Allo stesso modo, il "sabotaggio costruttivo" fa parte dello sviluppo del movimento operaio in quello che dovrebbe diventare un grande esercito disciplinato capace di prendere il potere, L'evoluzione verso il sindacalismo industriale va in tal senso. Le lotte degli operai qualificati sindacalizzati sono state un momento di formazione del sindacalismo industriale. In realtà, con la resistenza degli operai specializzati, essendo frazionata in piccoli gruppi di lavoratori relativamente specializzati, alcuni conflitti si sono potuti sviluppare solo federando più sindacati di mestiere sotto un medesimo ombrello.
Nello stesso stabilimento, o nella stessa città, gli operai sono divisi in più sindacati professionali, e la condizione del successo delle loro rivendicazioni è che il loro astenersi dal lavoro non si limiti alla loro specialità, né al loro stabilimento. La pratica degli scioperi spontanei di solidarietà, contro il parere dei sindacati, farà sì che essi evolvano verso il sindacalismo industriale, al fine di prevenire ed inquadrare questi movimenti.
«Le azioni di solidarietà fra macchinisti, fonditori, lucidatori, pulimentatori, fabbri, modellatori e stagnini sono sempre stati frequenti. Una lega che riuniva i loro leader sindacali nazionali, esisteva fin dal 1894. Ma il movimento per il raggruppamento formale di una federazione dotata di consigli localo, che ha avuto inizio nel 1901 ed è sfociato in una convenzione nel 1906, mirava a promuovere l'arbitraggio dei conflitti e la negoziazione congiunta, sopprimendo sia gli scioperi di solidarietà che la spinta a raggruppare i sindacati.» [David Montgomery : Workers control in America, Cambridge 1979] Il movimento operaio evolve poco a poco verso un'affermazione sempre più centrale ed organizzata della classe. Il sabotaggio costruttivo s'inscrive in questa logica. Lo scopo delle pratiche di rallentamento e di sabotaggio non è quello di rifiutare il lavoro. «La principale preoccupazione dei rivoluzionari è quella che il sabotaggio distrugga il potere dei padroni in maniera tale che i lavoratori acquisiscano un maggior controllo industriale.» (WC Smith). Lungi dall'essere anti-lavoro, il sabotaggio è parte della preparazione del proletariato all'egemonia del lavoro nella società futura.
Prima di cambiare periodo storico, notiamo di passaggio che "Il Diritto all'Ozio" di Paul Lafargue non è un testo anti-lavoro, ma un testo che rivendica il lavoro con moderazione.

anti-lavoro fabbrica

3 - La resistenza al lavoro di fronte alla OST (Organizzazione Scientifica del Lavoro) e al fordismo
Segnaliamo qui anche "Il lavoro è un crimine" di Herman Schuurman, pubblicato negli anni '20 dal gruppo olandese Mokers Groep. Questo testo è notevole per la sua epoca. Esprime il disgusto per il lavoro senza rivendicare il tempo libero. È contro la scuola, contro lo sport, contro i lunghi scioperi, contro il periodo di transizione, per il furto, per il sabotaggio. Ma i Mokers Groep sviluppano queste idee in assenza di qualsiasi movimento reale che si muova in tale direzione, nella società olandese di quell'epoca. Il suo anti-lavoro non riesce perciò a svincolarsi dai principi consiliaristi, e si riduce pressoché ad un'attività individuale.

3.1 - Dalle origini al '68
Notiamo innanzitutto che la resistenza all'introduzione dell'OST, da parte degli operai di mestiere (che l'OST voleva eliminare), non ha dato origine a delle lotte di massa. Ma ha spinto, ancora una volta, il sindacalismo americano alla transizione verso i sindacati d'industria, attraverso delle "system federations", una sorta di inter-sindacati di mestiere, i quali si formano soprattutto nelle lotte contro l'introduzione del cronometraggio.
A sua volta, la resistenza degli operai non qualificati (quelli che l'OST mirava a sfruttare) è stata rapida.
Ricordiamo come il famoso "Five Dollars Day" proposto da Ford nel 1914 non sia affatto un regalo. Ford stava cercando di risolvere un enorme problema di turnover, legato al lavoro alla catena di montaggio: fra ottobre 1912 e ottobre 1913, aveva dovuto assumere 54.000 operai per coprire 13.000 posti di lavoro. E quel giorno di gennaio del 1914, in cui Ford annuncia la giornata di lavoro di 8 ore a 5 dollari, ci sono delle risse fra gli operai per poter entrare in fabbrica. Ford approfitta di questo entusiasmo per scegliere i candidati in funzione della loro moralità, mandando nelle case più di 100 sociologhi per identificare gli alcolizzati, quelli le cui case sono più o meno decorose ed i bambini più o meno ben tenuti. Quindi istituisce dei corsi di inglese obbligatori per gli immigrati più recenti, e fa una grande festa per la consegna dei primi diplomi ottenuti, con una parata di seimila operai che celebrano questo "americanisation day".
Malgrado l'entusiasmo degli operai, ivi compresi i lavoratori qualificati, per i salari del fordismo, i vicoli che derivano dall'OST e dalla catena di montaggio non ci mettono molto a far sì che compaiano delle forme di lotta specifiche. Il turnover massiccio c'è già, anche prima della prima guerra mondiale. Negli anni '20, uno studio sull'OST (ed in parte sul fordismo) denuncia le pratiche di imbroglio e frenata. L'autore spiega come queste pratiche si siano sviluppate a partire dalla debolezza e dall'incapacità dei capi ad opporvisi per il fatto che sono già soddisfatti per gli importanti guadagni di produttività ottenuti grazie al solo cronometraggio. Ed anche lui si stupisce del fatto che «a volte, il frenaggio è semplicemente il risultato di una perversità: una disaffezione nei confronti del lavorare con entusiasmo.» [Stanley Matthewson : Restriction of output among unorganized workers, New York 1931].
L'autore stesso pensa che il modo giusto di lottare contro il frenaggio che si può osservare nelle fabbriche taylorizzate, è passare al fordismo. Quindi, è il nastro trasportatore che determina il ritmo del lavoro, che non può essere frenato. Cita, tuttavia, il caso di una fabbrica fordizzata nella quale gli operai hanno una serie di gesti da fare che risulta essere troppo lunga, cosicché si verificano dei ritardi. Periodicamente, gettano un pezzo negli ingranaggi della catena, in modo che essa si arresti. È qui che, a partire da questo momento, appare una forma di sabotaggio che di fatto è anti-lavoro.
Il capitalismo del dominio formale ha spossessato l'artigiano dei suo mezzi di produzione, ma gli ha lasciato la sua qualifica. Il dominio reale del capitale sul lavoro mette in atto un secondo spossessamento con cui priva il lavoratore salariato delle sue qualifiche.
Nel lavoro alla catena di montaggio, il lavoratore non ha alcun controllo né sui tempi né sui metodi di lavoro (si vedrà più avanti come questo "secondo spossessamento" non avviene di colpo, ed il capitale continua a cercare di eliminare quel che rimane dell'autonomia del lavoratore fordizzato o post-fordizzato). Il lavoro diviene un gesto elementare, la cui natura ed il cui ritmo sono controllati dal macchinario. Le qualifiche del lavoro sono state integrate nella macchina, nel capitale fisso. Se il lavoro vivente vuole aggiustare la quantità del suo gesto, ha solo un'opzione: fermarsi. Se vuole aggiustarne la qualità, l'unica sua opzione è quella di sabotare. Al contrario, se l'operaio vuole lavorare - perché ha bisogno di soldi - la sua unica qualifica è quella di "non fermarsi". In queste condizioni, essere contro il capitale, significa essere necessariamente contro il lavoro, le cui caratteristiche si trovano nel macchinario. Non si tratta di voler lavorare per sé stessi. I lavoratori qualificati del XIX secolo potevano opporre al capitale un progetto di società fondata su quello che erano. Per gli Operai Specializzati del XX e del XXI secolo non è così. Non hanno un progetto cooperativista o auto-gestionale.
Quel che rimane attribuito al lavoro vivente, i gesti ripetitivi che vengono imposti ai lavoratori e che li esauriscono fisicamente e psichicamente, questi gesti non sono motivo di alcun orgoglio, bensì di disgusto, di rifiuto.
Il sabotaggio, che è stato uno dei mezzi di cui il proletariato si è servito per lottare contro il capitale, continua a servire, ma diventa anti-lavoro. Il sabotaggio alla Pouget/Smith dimostrava che i lavoratori avevano il controllo tecnico della produzione, e che a loro per realizzare il socialismo mancava perciò solo il controllo dei mezzi di produzione.
Oggi, il sabotaggio dimostra solamente una cosa, ed è che tutte le vecchie qualifiche dei lavoro vivente gli si oppongono in maniera antagonistica nel capitale fisso. La lotta contro il capo, per mezzo del sabotaggio o dell'assenteismo, è diventata in maniera indissociabile lotta contro il lavoro. Questo è ciò che spiega la mancanza di rispetto nei confronti dello strumento del lavoro e l'indisciplina cui si assiste nel contesto della crisi del modello fordista degli anni '60 e '70. A differenza dei luddisti, gli OS attaccano le macchine sulle quali lavorano.

3.2 - Nel '68
La crisi del '68 è stata determinata dal fatto che il capitale ha principalmente cercato l'aumento della produttività per mezzo dell'aumento dei ritmi ed attraverso il degrado generale delle condizioni di lavoro, anziché con l'attuare il superamento significativo della soglia dell'automazione oppure abbassando i salari, come poi farà più tardi.
Negli Stati Uniti, è stato coniato il termine di "negrizzazione" per designare le modalità di aumento della produttività: sostituire dei lavoratori bianchi con un numero più esiguo di lavoratori neri che svolgeranno la stessa quantità di lavoro.

3.2.1 - Sabotaggio
Il sabotaggio e l'assenteismo sono le forme salienti dell'indisciplina generale che regna nelle fabbriche fordiste degli anni del '68. E non solo in Italia, anche se è lì che i lavoratori si spingono più lontano. Ad esempio, alla FIAT, gli operai abbandonano il loro posto di lavoro e si raggruppano per formare dei cortei interni che poi marciano nella fabbrica, senza preavviso e senza sindacati. Per obbligare le persone a partecipare, quelli che sfilano in corteo utilizzano una corda con la quale "accerchiano" coloro che sono rimasti alla catena di montaggio, trascinandoli così nel corteo. Avviene anche che forzino le porte che separano i reparti e che si espandano nelle officine vicine. I capisquadra sono del tutto impotenti a far prevalere la disciplina.
Nelle officine, avvengono anche delle gare di corsa con i carrelli elevatori. Dopo il 1973, nelle officine si vedrà l'apparizione di mense selvagge che offrono bevande e giornali agli operai. Non appena avviene un qualche scontro, i pezzi di ricambio lavorati con precisione servono da armi e da munizioni. Dal punto di vista dei capi e dei padroni, le officine sono diventate ingovernabili.
L'esempio americano dello stabilimento della GM (General Motors) di Lordstown, del 1972, è famoso.
Costruito nel 1966 in una regione alla periferia di Detroit, viene progettata con lo scopo di eliminare i compiti faticosi. L'azienda paga dei buoni salari, ma impone un ciclo di lavoro di soli 40 secondi, contro quello che di solito è circa di un minuto. Alla fine del 1971, dopo uno sciopero, nel tentativo di recuperare il ritardo, la direzione licenzia 800 operai (su 8.000), senza cambiare la velocità della catena di montaggio.
È a partire da questo momento che la qualità si deteriora. L'aumento dei ritmi, tuttavia, rimane relativo. Martin Glaberman [in False Promises, a review, in Liberation, février 1974] sottolinea il fatto che a Lordstown viene praticato il "doubling-up": due operai, consecutivamente, alla catena di montaggio, svolgono successivamente l'uno il lavoro dell'altro, oltre al proprio lavoro, di modo che ciascuno possa fare delle pause supplementari. Come viene spiegato assai chiaramente da Ben Hamper [in: Rivet Head, Tales from the Assembly Line, Fourth Estate, Londres, 1992], che lo ha praticato abbondantemente nella fabbrica di Flint in cui ha lavorato otto anni a partire dal 1978, il "doubling-up" è concepibile solo a partire da un tacito accordo con il caposquadra. E si suppone anche che i tempi individuali siano sufficientemente larghi.
Questo non vuol dire che i ritmi di Lordstown non si fossero fortemente degradati, rispetto alla media dell'epoca. Ma vuole semplicemente dire che c'era ancora una riserva di produttività. Il sabotaggio della qualità, si vede nelle vetture da revisionare che si accumulano in un parcheggio alla fine della catena di montaggio. A volte arrivano fino a duemila, al punto che bisogna fermare la produzione per poter disingorgare il parcheggio. Di fronte alla crescente indisciplina, al sabotaggio e all'assenteismo, i sindacati sono impotenti. Corrono dietro al movimento senza riuscire ad inquadrarlo. Questo suscita l'interesse della sinistra, in Francia, negli Stati Uniti, in Italia. Non otterrà un successo duraturo, né riuscirà a formare dei "sindacati di sabotaggio", o altre organizzazioni stabili.
C'è un elemento essenziale che condanna la sinistra al fallimento: da un lato, i lavoratori sono (relativamente) ben pagati, e dall'altro non hanno alcun desiderio di riformare la loro fabbrica. A fronte del degrado delle condizioni di lavoro ed all'aumento dei ritmi, la loro esasperazione è reale. Ma essa si esprime più attraverso il sabotaggio e l'assenteismo che per la partecipazione ai comitati per la salute e per la sicurezza. In questo modo, la macchina sindacale finirà per respingere, o fagociterà, senza difficoltà i candidati "radicali" alla riforma del sindacato.

anti-lavoro mirafiori

3.2.2 - Assenteismo
L'assenteismo é sempre stato un problema per i capitalisti. Non appena il proletariato può essere dispensato dal lavorare, si assenta. Lo può fare più o meno facilmente a seconda della situazione (piena occupazione o disoccupazione).
Si stima attualmente che l'assenteismo ha un costo che va dall'1% all'1,87% della massa salariale, nel settore privato (in quello pubblico, l'1%). In Italia, l'assenteismo è diventato un grosso problema nelle fabbriche italiane a partire dall'inizio degli anni '70. A tal punto che il presidente della Repubblica dovette allora parlarne nel discorso televisivo di fine anno 1972:
«GLI ITALIANI AMANO LAVORARE E TROVANO NELLA QUOTIDIANA FATICA L'EBBREZZA DI CONCORRERE AL PROGRESSO DEL PROPRIO PAESE.ED È PROPRIO PER RENDERE OMAGGIO A QUESTA GENERALE VOLONTÀ DI LAVORO DEL POPOLO ITALIANO CHE NOI DOBBIAMO RESPINGERE LE TENTAZIONI LASSISTICHE CHE SI SONO MANIFESTATE, AD ESEMPIO, IN QUESTO ANNO CON TALUNE INAMMISSIBILI PUNTE DI ASSENTEISMO DAL LAVORO.»
Alla Fiat, il tasso di assenteismo arrivò al 25%: ogni giorno, mancava un quarto del personale! Cosa facevano gli assenti? Lavoravano al nero? In tal caso, si può definire anti-lavoro il loro assenteismo? Oppure si riposavano? Indubbiamente, facevano un po' di entrambe le cose.
Ad ogni modo, la Fiat fece un accordo con i sindacati affinché lottassero contro l'assenteismo, in cambio del diritto ad essere informati sui progetti di investimento del gruppo. Ma i sindacati non sono riusciti a disciplinare i lavoratori. Negli anni del 1968, l'assenteismo si differenziava soprattutto dall'assenteismo in generale per il suo tasso assai elevato, così come per quello che ho definito assenteismo di sciopero.
Questo tipo di assenteismo appare con gli scioperi americani del 1936-1937 nel settore dell'automobile.
Per quel che riguarda le fabbriche della General Motors a Flint, le occupazioni avvengono secondo il modello militare. Disciplina, manutenzione delle attrezzature e dei locali, autodifesa, niente alcol, niente donne, niente distrazioni. La mensa di Flint è arrivata a servire un massimo di duemila pasti. Questo ci dà solo un'idea del numero di occupanti solo se teniamo conto dei numerosi scioperanti non occupanti che sono andati a mangiare lì. In realtà, gli occupanti alla Flint Fisher Body n°2 il 5 gennaio erano 450, ed il 26 gennaio erano 17. «Il problema che dovevano affrontare gli organizzatori non era quello di convincere gli occupanti ad andarsene perché era difficile nutrirli o perché erano necessari altrove, quanto piuttosto quello di avere abbastanza uomini all'interno, in modo da essere in grado di tenere le fabbriche.» [Sidney Fine : Sit Down, Ann Arbor 1969. p. 168]. I permessi erano limitati ed un certo numero di occupanti venivano trattenuti  contro la loro volontà. Alcuni membri dell'United Auto Workers che lavoravano in altre imprese erano venuti a partecipare all'occupazione. Sul quotidiano locale, venivano pubblicati degli articoli che spiegano alle donne che la presenza dei loro uomini nella fabbrica era assolutamente indispensabile.
Il messaggio è chiaro: gli operai sono d'accordo a scioperare, ma preferiscono non stare dentro la fabbrica. A loro non importa di occupare e controllare le macchine. Non si identificano con il loro lavoro. È una reazione che è stata osservata anche in Francia, nel maggio-giugno 1968. Le fabbriche occupate erano quasi deserte. E quando alla fine si dovette tornare a lavorare, ci furono delle battaglie durate più giorni come a Renault Flins (1 morto) o alla Peugeot Sochaux (2 morti).
Ma l'occupazione della Fiat Mirafiori del marzo 1973 contraddice questo punto di vista? Ricordiamo velocemente cosa è successo.
Siamo in un periodo di negoziati per il rinnovamento dei contratti collettivi. Da mesi, i sindacati organizzano a turno degli scioperi ed altri movimenti minori, sia per esercitare pressione sulla gestione che per contenere la pressione che proviene dai lavoratori.
Ma, riguardo a quest'ultima, perdono colpi, allorché nel corso di un'assemblea di operai senza sindacalisti, il 23 marzo 1973, viene presa la decisione di bloccare l'uscita delle merci dalla porta 11 di Mirafiori Nord. Il lunedì 26, il piano viene applicato nel giro di un'ora. Il 27, avviene il secondo tentativo. Si è diffusa la voce dell'iniziativa alla porta 11, ed altri operai entrano nel movimento. Man mano, il movimento si allarga. Il 29, il blocco delle porte di Mirafiori Nord e Sud è completo. Anche le strade vicine vengono bloccate, e gli operai istituiscono il pagamento di un pedaggio per finanziare la loro lotta. Dopo il week end, il blocco riprende il lunedì 2 aprile, ma i sindacati e la direzione negoziano un accordo urgente che possa disinnescare il conflitto. Gli operai ottengono un aumento salariale (+ 16 mila lire), ma nell'accordo non vengono nemmeno menzionati gli altri punti che li riguardano (durate del lavoro, categorie, reintegrazione degli operai licenziati). I sindacati hanno avuto un contentino, dal momento che gli operai hanno ottenuto il diritto ad un congedo di formazione di 150 ore che viene affidato ai sindacati.
Per tre giorni, quindi, Mirafiori sarebbe stata "occupata". È questa la parola che viene usata da molte parti. Ma non c'è alcuna rivendicazione auto-gestionale da parte degli operai.
La loro attività per lo più era quella di bloccare il flusso di merci e di lavoratori (poiché era necessario impedire di passare a coloro che volevano entrare a lavorare) piuttosto che considerare una ripresa della produzione, che non veniva messa in discussione, non più della manutenzione delle macchine. Questo episodio di lotta alla Fiat è stato considerevole, soprattutto per il fatto che gli operai circolavano nelle officine gridando degli slogan che non avevano alcun senso. Se è vero, si può gridare il proprio rifiuto di identificarsi con il lavoratore? Ecco perché non bisogna lasciarsi fuorviare parlando di occupazione. È più corretto parlare di blocco della fabbrica. Ed in questo caso, gli operai sono stati senza dubbio in anticipo sui tempi.
Detto ciò, occupata o bloccata, la fabbrica era in sciopero. C'è stato un assenteismo dello sciopero? Non ho trovato molti dati in proposito su questo episodio di Mirafiori. Tutte le fonti che ho utilizzato sottolineano che i gruppi della sinistra sono stati assai poco sull'iniziatica del movimento, ed i sindacati ancora meno. Sembra che si sia formato un corteo interno di diecimila lavoratori, quindi si è diviso per poter andare a bloccare (o a tentare di bloccare) dei portali di Mirafiori Nord. Quanti sono stati quelli che alla fine sono rimasti isolati in questo primo blocco che - ricordiamocelo - è durato un'ora? Impossibile saperlo. In ogni caso, allora la fabbrica aveva 60 mila dipendenti. Dov'erano durante il blocco?

- Conclusione provvisoria
L'indisciplina che regna nelle fabbriche fordizzate del '68, oggi è difficilmente immaginabile. Né i sindacati né la direzione potevano controllarle. Il capitale è stato in grado di farlo solamente procedendo ad attuare quegli investimenti e quelle delocalizzazioni davanti alle quali è dovuto arretrare fin dove si trova a causa del loro costo. Ma le fabbriche erano diventate ingovernabili, le concessioni troppo onerose che erano state accordate agli operai non erano bastate a farli rientrare nei ranghi.

Così, alla Fiat, a metà degli anni '70, i padroni avevano concesso:
- forti aumenti salariali
- ogni cambiamento del posto di lavoro doveva essere discusso dalla direzione e dal lavoratore
- diminuzione dell'orario di lavoro
- le ore per le riunioni sindacali e per la formazione venivano pagate
- 4 delegati ogni mille lavoratori
- ogni investimento destinato all'aumento della capacità doveva essere localizzato nel sud del paese
- il salario al Sud = al salario al Nord

Per quel che riguardava la Renault, nella medesima epoca, le concessioni erano le seguenti:
- forti aumenti salariali
- soppressione del salario secondo il turno
- creazione di una nuova categoria "professionale di fabbrica"
- pagamento mensile generale
- alcuni tentativi di riorganizzazione del lavoro in gruppi semi-autonomi, che non ha avuto seguito

Tutto questo finirà con la delocalizzazione. Combinata dovunque con la disoccupazione che si sviluppa rapidamente a partire dalla fine degli anni '70, imporrà la sottomissione agli operai.
 
I metodi tradizionali usati dai proletari per resistere alla pressione padronale in fabbrica, sono passati dall'essere pro-lavoro (Pouget), com'erano nel caso dei lavoratori qualificati, all'anti-lavoro, nel caso degli operai specializzati.
Il luddismo è stato uno delle basi della formazione del sindacalismo di mestiere. Le lotte degli operai qualificati contro l'introduzione dell'OST (organizzazione scientifica del lavoro) hanno contribuito alla trasformazione del sindacalismo di mestiere nel sindacalismo d'industria. Le lotte degli operai specializzati degli anni '60 non hanno prodotto alcuna nuova forma di organizzazione. Ma hanno modificato il contenuto del sabotaggio, eliminando qualsiasi forma di orgoglio operaio, attraverso la pratica di un sistematico menefreghismo, non rispettando né lo strumento di lavoro né la delega sindacale né la gerarchia.
Il sabotaggio, in particolare, ne è uscito trasformato, nella misura in cui il lavoro viene dequalificato e perde il controllo dei suoi ritmi e dei suoi gesti. Da pratica ragionata da parte di lavoratori assai spesso qualificati, sindacalmente inquadrati, che appoggiavano rivendicazioni principalmente salariali, è diventata protesta rabbiosa, distruttrice, da parte di operai non qualificati che protestano soprattutto contro le loro condizioni di lavoro. Questo sabotaggio degli operai specializzati si inscrive in un'indisciplina più generale che dimostra l'assenza di identificazione degli operai nel proprio lavoro. I sindacati non riescono ad inquadrare questo movimento indisciplinato, ed è l'assenteismo di sciopero a mostrarlo chiaramente.
Abbiamo definito queste pratiche come anti-lavoro tanto per esprimere il disgusto nei confronti di un lavoro noioso e che non richiede alcuna competenza, quanto per sottolineare il fatto che sulle basi di questo movimento di rabbia e di indisciplina non si è avuta nessuna organizzazione operaia. L'impossibilità. da parte delle vecchie organizzazioni del movimento operaio, di farsi carico delle pratiche dell'anti-lavoro non ha portato alla costruzione di nuove organizzazioni di massa, malgrado gli sforzi dell'estrema sinistra in tal senso. Il termine di anti-lavoro esprime quindi anche il fatto che il comunismo non può essere visto come una società di lavoratori associati in una "economia libera".

anti-lavoro bangladesh

4 - Anti-lavoro nel post-fordismo?
Quello su cui ci si può interrogare attiene a se l'indisciplina degli anni '60 e '70 sia sopravvissuta alla grande ondata di ristrutturazione che è seguita. In un testo del 2010, avevo risposto in proposito, senza mezzi termini, sostenendo che, dopo un periodo di riflusso, l'anti-lavoro era tornato in forze. Forse è necessario tornarci sopra.
Dopo un periodo di arretramento, i padroni hanno risposto all'indisciplina del proletariato in vari modi: ristrutturazione del processo fordista del lavoro, automazione parziale, delocalizzazione del fordismo tradizionale verso dei paesi con manodopera a basso costo. La svolta avviene a metà degli anni '70.

4.1 - Anti-lavoro contro il fordismo esternalizzato
La delocalizzazione è stato uno dei modi attraverso cui il capitale ha rimesso in riga la forza lavoro indisciplinata degli anni '60 e '70. Le delocalizzazioni sono avvenute principalmente verso l'Asia.
Il capitale ha trovato lì una forza lavoro alla quale ha potuto imporre quei metodi di lavoro che gli operai rifiutavano in Occidente. Ma, nel giro di qualche anno, questi nuovi operai specializzati hanno reagito allo stesso modo in cui avevano reagito i loro predecessori. Salvo diversa indicazione, gli esempi che seguono si riferiscono alla Cina.

4.1.1 - Violenza, rabbia distruttiva: alcuni esempi

Foxconn Chengdu - Gennaio 2011: Una rivolta nel complesso fabbrica/dormitorio che conta 22 mila lavoratori. Le cause sono i salari insufficienti - soprattutto dopo che c'è stata una delocalizzazione a Shenzen, dove il salario minimo è di 1200 yuan, contro i 950 di Chengdu - e le cattive condizioni di vita nei dormitori. Il dormitorio dove avviene la rivolta è di 18 piani, 24 camere per piano, 8 lavoratori per camera. Non ci sono ascensori, né acqua calda, e l'elettricità è insufficiente, ecc.


Foxconn Taiyuan - Settembre 2012: I dormitori vengono saccheggiati, gli spacci interni saccheggiati, vengono incendiate delle autovetture come protesta contro la brutalità del personale di sicurezza. I salari di base erano appena stati aumentati da 1550 a 1800 yuan al mese.


Fugang Electronics (Dongguan) - Gennaio 2013: Le cucine e la mensa vengono saccheggiate dai mille operai  che fanno il turno di notte. Perché i prodotti alimentari sono marci.

Va notato che tutti questi movimenti hanno luogo all'esterno delle fabbriche. Quello che segue è un esempio contrario, ma che avviene senza rabbia e senza distruzioni. Si tratta di sabotaggio? Nel senso di un rallentamento concertato?:

Denso (Guangdong) - Luglio 2010: Questa fabbrica in cui lavorano mille operai salariati (soprattutto donne) fabbrica parti per l'industria automobilistica. Per 3 giorni, i lavoratori sono entrati in fabbrica dopo aver timbrato, ma non sono andati al loro posto di lavoro.
Invece, hanno vagato per le officine, con calma, senza fare alcun danno, poi, alla fine del loro turno di lavoro, hanno timbrato e se ne sono andati. Il terzo giorno, la direzione ha concesso loro un importante aumento.

4.1.2 - Turnover in aumento (dal 10 al 25%)
4.1.3. - Assassinio dei capi (Thongua Steel, 2009)

Nel corso delle manifestazioni contro l'ingresso di un gruppo privato nel capitale di questa acciaieria, un gruppo di operai se la prende con il capo e lo bastona a morte. La privatizzazione di Thongua viene annullata.

4.1.4 - Sleep-in: Jalon Electronics - Giugno 2010

Ad un aumento dei salari, il 1° giugno, segue un innalzamento dei ritmi, il 3 giugno, quando già anche il vecchio ritmo era diventato impossibile da mantenere. La reazione dei lavoratori, che sono esausti, è quella mettersi collettivamente a dormire sul loro posto di lavoro.

4.1.5 - Indisciplina

Ondata di scioperi nella ZES (Zona Economica Speciale) di Dalian, nel 2005. Commento di un quotidiano economico:
«Sebbene i lavoratori non abbiano esplicitamente dei leader, hanno sviluppato una strategia di organizzazione senza capi. Dal momento che i lavoratori hanno degli interessi largamente condivisi e condividono il senso di sofferenza, essi reagiscono a dei segnali sottili. Alcuni lavoratori ci hanno spiegato che, quando sono scontenti, basta che qualcuno si alzi in piedi e gridi "Sciopero!" perché tutti gli operai della catena di montaggio di alzino in piedi, come per fare un'ovazione, e fermino il lavoro».

Siemens 2012: 4 operai licenziati per assenteismo. La fabbrica entra in sciopero. La direzione minaccia di conteggiare le ore di sciopero come assenza. Gli operai bloccano la fabbrica.

Tutto ciò fa un po' pensare all'Italia degli anni '70. L'aver trasferito in Cina le condizioni di lavoro prevalenti in Occidente negli anni '70, fa apparire delle reazioni simili a quelle che avevano avuto gli operai specializzati occidentali.
Ma siamo un po' lontani da un'atmosfera all'italiana. Le lotte che abbiamo citato, per lo più rimangono isolate, e non attaccano direttamente il sistema produttivo, e in generale non si svolgono nella fabbrica. In anni più recenti, le lotte si sono moltiplicate parecchio, ma per lo più rimangono a livello di rivendicazione e di negoziazione.
Questo va ricollegato alla recessione, che sta chiudendo molte fabbriche e che fa apparire lo spettro della disoccupazione. Senza dubbio, bisogna riferirsi anche alla domanda di rappresentanza sindacale, con l'ACFTU (centrale sindacale controllata dallo Stato) o senza di esso.
Tutto questo non va nella direzione dell'anti-lavoro. Un indice che misura fra i proletari cinesi il grado di accettazione o di disperazione, è quello del moltiplicarsi dei suicidi o della minaccia di suicidio al fine di ottenere soddisfazione (in particolare per il pagamento dei salari arretrati). Nel caso delle fabbriche cinesi, si può dire che l'anti-lavoro specifico degli operai specializzati del sistema fordista esiste, ma rimane limitato e frammentato.

4.1.6 - Nessuna autogestione nelle fabbriche abbandonate dai padroni,
che pure sono a debole composizione organica (tessile, giocattoli...)

4.1.7 - Il caso del Bangladesh
Nel 2010, ho citato il caso delle rivolte operaie in Bangladesh come di un caso di anti-lavoro. In realtà, in questo paese in cui la disoccupazione è elevata, si vedono degli operai che manifestano contro i loro padroni (il più delle volte per delle questioni di salario) e che bruciano o distruggono delle fabbriche. Concludevo, sottolineando «il carattere fortemente paradossale di questi movimenti che difendono la condizione salariale distruggendo i mezzi di produzione».
Questo punto di vista è stato criticato da Red Marriott in un commento su Libcom. Per lui, il termine anti-lavoro dev'essere riservato alle rivolte degli anni '60 e '70. Per di più, il contenuto rivendicativo delle lotte degli operai di Dacca vieterebbe di parlare di anti-lavoro.

Va innanzitutto notato che i metodi di lotta nel settore tessile del Bangladesh non sono cambiati. Alcuni esempi:
- Maggio 2010, avvengono numerosi blocchi stradali e manifestazioni per sostenere una rivendicazione salariale, Vengono vandalizzate almeno 8 fabbriche.
- Luglio 2010, viene vandalizzata una fabbrica dagli operai per ottenere il licenziamento di 7 dirigenti, fra cui il padrone, a causa del loro cattivo comportamento nei confronti degli operai, ed in particolare nei confronti delle operaie.
- Ottobre 2010, il governo crea una polizia industriale specializzata nel mantenere l'ordine nei quartieri operai e nelle Zone Economiche Speciali di Dacca, Chittatong, Gazipur, ecc. Sembra che questo spieghi il periodo di calma durato fino a maggio del 2012.
- Maggio 2012, in una fabbrica del gruppo Hameem, si espande la voce che un lavoratore è stato sanzionato per aver utilizzato il suo telefono durante il lavoro e che per questo è stato messo in prigione, torturato e ucciso. I lavoratori si riuniscono in assemblea in fabbrica. Interviene la polizia speciale e ne consegue una battaglia campale, barricate, blocchi stradali, viene dato fuoco alla fabbrica, indetti scioperi nelle fabbriche vicine, ecc.
- Giugno 2012, scioperi e proteste alla Narayanganj e all'Ashulia, per ottenere aumenti salariali. Vengono attaccate dieci fabbriche. C'è un blocco massiccio (che interessa 300 fabbriche). Ma il 17 giugno migliaia di lavoratori dell'Ashulia chiedono la riapertura delle fabbriche.
Novembre 2013, dopo diverse settimane di scioperi e manifestazioni per ottenere un aumento salariale, i lavoratori trovano una serrata. Deve intervenire la polizia per impedire che gli operai saccheggino le fabbriche.
Giugno 2014, Gli operai delle Dynamic Sweater Industries, a Savar, vengono malmenati per aver richiesto un aumento di salario. Saccheggiano due piani dello stabilimento, rubando mobili e telecamere di sorveglianza.

In tutte queste lotte, quello che sorprende è vedere la reattività dei lavoratori delle fabbriche non coinvolte nel conflitto iniziale. Questa solidarietà pressoché istantanea è anche il segno di una grande indisciplina della totalità della classe operaia.
D'altra parte, si vede l'importanza della questione salariale. Gli operai domandano costantemente degli aumenti salariali (e persino la riapertura delle fabbriche). Ma ciò non impedisce che i loro metodi di lotta arrivino a distruggere dei mezzi di produzione, cosa che la dice lunga circa l'idea che si son fatti del loro lavoro. Non hanno "rispetto per lo strumento di lavoro", né del discorso politico-rivoluzionario. Le lotte continuano ad essere la loro preoccupazione immediata. Ciò malgrado, i loro metodi, il loro contenuto concreto, mantengono il discorso dell'anti-lavoro.
Red Marriott si ferma al fatto che i lavoratori chiedono degli aumenti salariali per poi, probabilmente, considerare le loro lotte come non rivoluzionarie. Su questo punto non ha torto, ma il punto non è questo. L'anti-lavoro non è la rivoluzione, né il suo inizio, né il suo modello. È una forma di lotta che indica che la rivoluzione non avrà come contenuto quello di far accedere la classe lavoratrice ad una posizione egemonica nella quale sostituirà la classe borghese. E tutto questo lo indica nel quadro delle attuali forme della lotta dei lavoratori non qualificati.
Le pratiche anti-lavoro si inscrivono nel corso quotidiano della lotta di classe. E in quanto tali non hanno alcun potenziale rivoluzionario. Non sono altro che un'indicazione del contenuto della contraddizione proletariato/capitale. In un momento insurrezionale intenso e relativamente generalizzato, il sabotaggio della produzione, l'assenteismo di fabbrica o di sciopero, l'indisciplina nei confronti dei padroni e dei sindacati continueranno ancora ad essere all'ordine del giorno? Ne dubito.
Uno dei motivi per cui, secondo il mio interlocutore, non si può mettere nella stessa categoria la rivolta degli operai specializzati degli anni '60-'70 e le lotte del Bangladesh, è che gli operai specializzati avevano i salari più elevati dell'epoca, soprattutto nel settore dell'automobile, mentre i salari del Bangladesh sarebbero i più bassi del mondo (cosa indubbiamente vera).
Il confronto è traballante, Poiché, in Bangladesh, c'è un'offerta di posti di lavoro nel settore tessile, il che vuol dire, relativamente parlando, che i salari non sono poi così malvagi se paragonati ad altre possibili fonti di reddito. D'altra parte, Red Marriott mi rimprovera per non aver tenuto conto delle differenze fra le società (industriale sviluppata, o sottosviluppata), e del contesto (sottoccupazione di massa, povertà, ecc.)
Ma non è questo quello che qui ci interessa. Quando il capitale trasferisce in Asia il taylorismo ed il fordismo, lo fa per sfruttare questa differenza esistente fra le condizioni sociali di partenza e quelle di arrivo. Va dove può trovare una manodopera a buon mercato e in abbondanza.
Quello che qui ci interessa, sono solamente le modalità di sfruttamento del lavoro che viene proposto, e che viene imposto a questa nuova classe operaia. Questa classe operaia ha bisogno di lavorare, e accetta le condizioni del capitale. Viene perciò catturata in una forma della contraddizione proletariato/capitale che la porta necessariamente a riscoprire i metodi di lotta di coloro che li hanno preceduti in Occidente. Io non tengo conto delle differenze sociali fra l'Italia del 1970 ed il Bangladesh del 2010 perché voglio seguire gli effetti del taylorismo/fordismo nella sua traslazione geografica.
Ma se si volesse considerare nel loro insieme quelle che sono le società in cui si è installato il fordismo tradizionale, dopo il 1980, e lo si volesse soprattutto fare nella prospettiva di un processo rivoluzionario, allora ci sarebbe molto da dire. Ho provato a farlo, in maniera semplificata, nel mio studio sulla Cina.

anti-lavoro mezzi pubblici

4.1.8 - Trasporto pubblico
A partire da qualche anno, si assiste a delle rivolte di massa contro le cattive condizioni imposte ai proletari per quel che riguarda il trasporto pubblico che serve a collegare il loro luogo di residenza con il luogo di lavoro. Ecco alcuni esempi:

- Pretoria, Maggio 2005: Uno sciopero degli autisti impedisce ai lavoratori di tornare a casa alla fine della giornata di lavoro. Vengono bruciati 6 autobus. Nell'arco di 21 ore, viene firmato un accordo per la ripresa parziale del servizio.

- Buenos Aire, Maggio 2007: I continui ritardi dei treni suburbani causano una rivolta nella stazione di Constitución, che viene saccheggiata e parzialmente incendiata. I negozi all'interno della stazione vengono depredati.

- Bogotà, Marzo 2012: La città è stata dotata di una rete modello di autobus, strutturata in azienda. Una modesta protesta contro le tariffe troppo alte, da parte di studenti, ai quali ben presto si uniscono dei teppisti, insieme all'affollamento di passeggeri a causa di ritardi, si trasforma in una rivolta. Cinque stazioni vengono saccheggiate, le casse rapinate, i vetri infranti, le video camere di sorveglianza rubate.

- Mumbai, Gennaio 2015: I continui ritardi scatenano una protesta da parte dei passeggeri. Vengono saccheggiate le casse, i bancomat e le macchine per i biglietti (vengono rubati denaro e ticket). I veicoli vengono bruciati, dieci treni danneggiati. Sono almeno 12.000 le persone coinvolte negli incidenti che riguardano almeno due stazioni.

- Johannesburg, Luglio 2015: I ritardi dei treni provocano una rivolta. Due treni ed un stazione, vengono incendiati.

In un mio testo del 2010, ho considerato il fatto queste rivolte facevano parte dell'anti-lavoro. Infatti, in realtà il tempo di trasporto è tempo di lavoro non pagato. D'altra parte, i trasporti pubblici sono il collegamento fra i sobborghi e le fabbriche, o gli uffici, e non si vede il motivo per cui dovrebbero essere risparmiati dalla rabbia dei proletari quando i sobborghi ed i luoghi di lavoro non lo sono. E infine, anche perché stipare i proletari nei mezzi pubblici è un momento di umiliazione quotidiano che si ripete due volte al giorno.
Tali erano i miei argomenti a favore delle rivolte contro i trasporti pubblici viste come una forma di anti-lavoro. Sarebbe stato più logico collegarle a quelle pratiche anti-proletariato di cui ho parlato prima nel testo. Dal momento che queste rivolte avvengono fuori dalla fabbrica.
Ma come avviene nell'anti-lavoro vero e proprio, distruggono un elemento necessario alla riproduzione del proletariato. Nelle loro stazioni periferiche, i proletari chiedono dei trasporti che funzionino in maniera appropriata, però distruggono strutture e treni. Si tratta del medesimo paradosso che abbiamo rilevato, ad esempio, rispetto al Bangladesh, ma che qui riguardano un momento extra-lavorativo della riproduzione del proletariato. Attaccando la navetta che copre il tragitto fra lavoro e casa, il proletariato attacca quello di cui ha bisogno per vivere come proletario. Al di là dell'esasperazione del tutto comprensibile, bisogna vedere in queste pratiche, che finiscono solo per aggravare la situazione dei proletari, la medesima cosa che viene indicata dall'anti-lavoro propriamente detto, vale a dire la prova della possibilità e della necessità dell'auto-negazione del proletariato per superare la contraddizione sociale del capitalismo.
Allo stesso modo in cui l'anti-lavoro annuncia che il proletariato non farà la rivoluzione operaia che era stata prevista dal programma proletario, a loro volta, le pratiche anti-proletarie annunciano che questa rivoluzione non verrà fatta come affermazione della cultura proletaria, ma come la sua distruzione. Per cultura proletaria, intendo tutte le forme di vita e di pensiero che costituiscono la riproduzione del proletariato nella società capitalista. Le rivolte del 2005 nelle banlieue francesi sono una pratica anti-proletaria, così come lo sono le distruzioni da parte dei proletari dei loro propri quartieri, così come avviene nelle rivolte nel ghetto.

4.2 - Anti-lavoro nei paesi industrializzati

Nei paesi industrializzati, la messa in riga del proletariato è avvenuta per mezzo della disoccupazione e della trasformazione post-fordista del processo lavorativo immediato. Riguardo quest'ultimo, il modello produttivo della Toyota è stato considerato come un modello perfetto che riunisce una spietata ricerca del guadagno di produttività con il coinvolgimento dei lavoratori nel continuo miglioramento dei metodi di produzione (gruppi di qualità). In realtà si tratta del modo in cui il padrone riesce a catturare e a recuperare l'ultima astuzia personale che avevano gli operai specializzati per riuscire a recuperare qualche secondo su un ciclo di lavoro già molto breve. Siamo in presenza di un nuovo livello di spossessamento dei lavoratori. Pur essendo assai poco qualificati, essi avevano, nel fordismo classico, delle astuzie per poter guadagnare tempo e potersi riposare. L'immissione degli operai nei team incaricati di un compito collettivo più grande di quello del vecchio operaio specializzato, la polivalenza che ciò presuppone ci sia fra gli operai della squadra (cosa diversa dalla cosiddetta ricomposizione del lavoro), la costrizione al continuo miglioramento del processo lavorativo, la rigida sorveglianza degli operai, dell'uno nei confronti dell'altro e da parte del capo team, ecc., fa sì che, non appena individuate, quelle astuzie vengano subito integrate nella definizione della postazione di lavoro, e che nel giro di qualche secondo vengano recuperate dal padrone.
Tommaso Pardi descrive il modo in cui il management attraverso lo stress consista nel dare degli ordini contraddittori e lasciare che se la sbrighi il lavoratore. Ad esempio, se c'è un problema nella sua postazione di lavoro, il lavoratore può ignorarlo e può permettere che passi un pezzo di cattiva qualità. Questo è contrario all'esigenza della qualità costante ed il difetto verrà ricondotto alla sua postazione. Ragion per cui verrà quindi sanzionato. Certo, il lavoratore può anche tirare una leva e fermare la catena per chiedere che il suo problema venga risolto. Ma verrà malvisto. Il livello di funzionamento della catena viene visualizzato continuamente, e tutti possono vederlo. Non appena scende al di sotto del 95 o del 90%, tutti sanno che ci saranno delle ore supplementari obbligatorie. Perciò, fermare la catena non è un buon modo per farsi degli amici. Conclusione: sbrigatevela da soli per non avere problemi...
In sostanza, il post-fordismo è un fordismo che corregge le sue imperfezioni al fine di lottare contro le ultime tracce di questo bighellonare che all'inizio aveva provocato quel che era stato l'approccio di Taylor. Non sono a conoscenza di esempi di lotta di fabbrica che si opponga specificamente a queste forme di subordinazione. Probabilmente ce ne sarà qualcuna, e senza dubbio rimangono ad un livello assai limitato, dal momento che i progressi dell'informatica rendono continuamente sempre più stretta la sorveglianza dei lavoratori.
Uno studio fatto su Angry Workers of the World su Amazon in Polonia ed in Germania, racconta di alcune lotte per il rinnovo dei contratti temporanei. I lavoratori erano riuscisti a rallentare per due volte il lavoro, nonostante lo stretto controllo digitale dell'attività. Questo rimane assai limitato. Il problema di aziende come Amazon è sempre più quello di aumentare la velocità. Secondo Angry Workers of the World , i robot sono ancora troppo cari. Cosa che ci pone in una situazione come quella verificatasi all'epoca del fordismo della fine degli anni '60: gli investimenti in capitale fisso sono troppo onerosi, perciò i guadagni di produttività vanno fatti attraverso l'aumento dei ritmi - Con l'importante differenza che la disoccupazione viene mantenuta a livelli di massa, e fa così in modo da rimandare il momento in cui la situazione esploderà. Visto che per il momento, il modello tiene grazie al vasto esercito lavorativo di riserva disponibile. Al momento di picco della sua attività, Amazon Polonia e Germania cercherà lavoratori fino in Spagna ed in Portogallo.

anti-lavoro neri

Conclusione
Ho detto precedentemente che dovevo chiarire la mia posizione espressa nel 2010, e mi sembra che ci siano almeno tre elementi da sottolineare:
  Da un lato, l'anti-lavoro dev'essere distinto dall'ordinario rifiuto del lavoro. Quest'ultimo si inscrive nella resistenza quotidiana del proletariato in tutte le epoche. Fa parte di quelli che sono i mezzi della sua sopravvivenza rispetto alla spossatezza e allo sfinimento a causa di un padrone. Il proletariato preferisce lavorare meno, se non punto, ogni volta che sia possibile. Questo è l'effetto dell'esteriorità del lavoro salariato rispetto al lavoratore. Oggi, il rifiuto del lavoro esiste a livelli di massa e, nei paesi centrali, il welfare arriva in suo aiuto. Dato il carattere di massa della disoccupazione e delle condizioni assai dure del lavoro post-fordista, il turnover dei proletari fra disoccupazione (indennità, anche cattiva) e lavoro (insostenibile a lungo termine) è una cosa buona per il capitale. Inoltre, anche i capitalisti più conservatori hanno cominciato a riflettere sull'istituzione di un salario universale. Senza dubbio gli economisti si domandano a che livello di miseria bisognerà collocare questo salario universale per fare in modo che la pressione della disoccupazione continui a costringere i proletari a lavorare da Amazon e da altri sfruttatori post-fordisti. Nel frattempo, non voler lavorare e preferire vivere ai margini quando si può è un comportamento normale del proletario, ma che non è particolarmente critico della società attuale.

- D'altra parte, mettere in una prospettiva storica alcune pratiche di lotta nella fabbrica, come il sabotaggio, l'assenteismo e l'indisciplina in generale, rivela una trasformazione del contenuto di queste pratiche dal pro all'anti-lavoro.
Bisogna periodizzare la storia del sabotaggio, che non sempre è stato anti-lavoro. Quando ha raggiunto un certo grado di dequalificazione, il lavoro ha finito per trovarsi in opposizione a sé stesso nella misura in cui si oppone al capitale, ivi compreso anche nelle sue lotte quotidiane.
Il sabotaggio diventa irrispettoso dei mezzi di produzione, e distrugge ciò che consentiva ai sabotatori di lavorare. Pugeot non è arrivato fino a quel punto. Era immerso in una cultura operaia che l'anti-lavoro, allargandosi fino all'anti-proletariato, rifiuta tanto quanto rifiuta il lavoro. Vanno riconsiderate le vecchie pratiche, in apparenza molto radicali, dal punto di vista del superamento del movimento operaio tradizionale. Pouget e Lafargue sono degli esempi di autori ancora frequentemente citati da dei commentatori che, d'altro canto, rivendicano l'auto-negazione del proletariato ed il superamento del lavoro. Questo non è coerente.

- Infine, l'anti-lavoro è tornato in forze negli anni recenti?
Le osservazioni fin qui mostrano che, con alcune eccezioni, le lotte che possono essere definite come anti-lavoro, nel periodo recente avvengono al di fuori della fabbrica propriamente detta. Nel caso del fordismo tradizionale che si è trasferito nei paesi in via di sviluppo, o nei paesi emergenti, quando le lotte attaccano i mezzi di lavoro, lo fanno all'esterno, come avviene in Bangladesh. In Cina, le distruzioni colpiscono più frequentemente le mense ed i dormitori, piuttosto che le officine. 
Occorre quindi constatare che le lotte anti-lavoro non si sono sviluppate nelle fabbriche, con un'ondata comparabile a quella che c'è stata in Occidente negli anni '60-'70. Nei paesi industrializzati, le fabbriche sono tranquille. Il rigido controllo sui lavoratori per mezzo della digitalizzazione e della disoccupazione ha finora impedito che qualsiasi vertenza lavorativa. In queste condizioni, si può azzardare che un movimento proletario che rimettesse seriamente in discussione le condizioni attuali della riproduzione del rapporto proletariato/capitale sarebbe allo stesso tempo anti-lavoro e anti-disoccupazione.
Per attaccare il lavoro cui è costretto, il proletariato dovrà contemporaneaente negare che il fatto che la disoccupazione sia un ostacolo insormontabile.  E Soprattutto, questo movimento ingloberà nel suo Maelstrom anche il cuore dello sfruttamento capitalistico, vale a dire le fabbriche e gli uffici dei paesi centrali. L'ingresso dei lavoratori produttivi in una fase di lotte generalizzate, se non (addirittura) insurrezionali, mostrerà con ogni probabilità che l'anti-lavoro degli operai specializzati degli anni del '68 è stata solamente una prima bozza.

- Bruno Astarian - Dicembre 2016 - Pubblicato su Paris-luttes.info -

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