giovedì 14 dicembre 2017

L'organizzazione della vertigine

siriaj

La guerra come esperienza sensibile: le motivazioni esistenziali della Jihad
- di Romain Huët -

Il testo che segue, è il risultato di una serie di "soggiorni etnografici", durati diversi mesi, in seno a brigate di combattenti in Siria (2012, 2014) ed in Iraq (2017). Questa ricerca è tuttora in corso e mira essenzialmente ad un approccio alla quotidianità dei combattenti, al fine di comprendere le loro traiettorie biografiche, le loro normali relazioni con il mondo, con gli altri e con sé stessi. In definitiva, queste ricerche tentano di identificare le mediazioni sociali, storiche e contestuali che organizzano l'esperienza della guerra. Sperano così di poter arrivare ad una teoria della riflessività e della soggettività in tempo di guerra, vale a dire, arrivare a comprendere quelle che sono le razionalità generali delle azioni, degli obiettivi, dei comportamenti e delle forme di vita dei combattenti. Questo testo, più che a fornire dei risultati relativi ad una ricerca, punta a formulare una nuova ipotesi relativa alla dimensione sensibile della guerra.

Le spiegazioni sociologiche e politiche relative al passaggio di combattenti stranieri nella jihad, all'inizio seguono due prospettive differenti. La prima cerca di identificare i fattori del contesto sociale che spiegano il passaggio di alcuni dentro il percorso di radicalizzazione jihadista (disuguaglianze sociali, esclusioni, discriminazioni, esperienze di ingiustizia subita, ecc.). La seconda prospettiva, mira ad analizzare il processo e la dinamica delle violenze basandosi su un profilo sociologico relativo al percorso dei candidati alla jihad. La maggior parte degli studi concordano su una diagnosi che favorisce l'esperienza bellica (frustrazioni e crisi sociale). In breve, esistono delle configurazioni sociali specifiche che creano delle condizioni favorevoli alla violenza.
Ovviamente, queste spiegazioni sono importanti e necessarie. Tuttavia, il fine di questo testo si discosta rispetto a tali spiegazioni sociologiche tradizionali. Si tratta di mettere in discussione le motivazioni soggettive in grado di spingere dei giovani occidentali ad unirsi allo Stato islamico per combattere sui fronti siriano ed iracheno. Tra queste motivazioni, una è intrinseca alla guerra in quanto «esperienza sensibile». L'ipotesi, che non basta a sé stessa e che non è in grado di rispondere alla domanda nella sua globalità, è che la guerra sarebbe l'occasione per un'esperienza sensibile del mondo che non solo attrae gli esseri che si trovano in attesa di una «riparazione esistenziale», ma allo stesso tempo li trattiene nella lotta armata soprattutto a causa delle scintille esistenziali che accende.
Quindi, quest'articolo si concentra sulla dimensione sensibile della guerra in quanto essa affascina ed attrae. Del resto, sono pochi coloro i quali riescono a sottrarsi a questa curiosità riempita dalla paura, dal momento che non riesco ad immaginare uno spettacolo più inquietante di quello che vede giovani uomini, in buona salute e lucidi, determinati a gettare via la loro vita in nome, ad esempio, dello Stato islamico ed a subire il potere spietato di una passione insensata.

La guerra come «esperienza esistenziale»
Il famoso scrittore tedesco E. Jünger ha molto insistito su questa dimensione. Per lui, la guerra è un'esperienza esistenziale e filosofica. Essa risveglia e fa uscire l'individuo fuori dalla banalità esistenziale cui si era precedentemente adattato. Coinvolto nella guerra, l'uomo viene scosso da un'idea che lo prende fino al punto che da arrivare a credere che il «futuro» è superiore alla vita. Esponendosi quotidianamente alla perdita, la soggettività del combattente assume una forma strana e minacciosa; egli diventa insensibile alla propria morte, così come a quella del suo nemico.
I combattenti dello Stato islamico, abituati alle pratiche dell'attentato suicida, rivelano quest'idea in maniera particolare. Come ha ricordato Judith Butler (2016), il combattente muore insieme alle sue vittime in una «intimità thanato-politica assoluta». L'atto è simultaneamente auto-determinazione ed auto-annientamento. Per Judith Butler, l'attentato suicida è un atto relazionale, se non addirittura il «paradigma dell'esposizione assoluta all'Altro». Egli uccide con il suo proprio corpo e la sua morte sopravviene insieme a quella dell'altro. È una «morte che lo fonde con quella del suo nemico», precisa l'autrice. Quest'esposizione è talmente eccessiva da divenire insensibile alla sensibilità di questo Altro. Il gesto è assoluto. Non amministra soltanto la morte. Riduce in brandelli il suo stesso corpo ed il corpo di quello che lui ha inventato come suo nemico (Mbembe, 2006).
Questo fatto del processo che porta a togliere delle vite e ad offrirsi in questo modo alla morte, è del tutto sconcertante. Ha costituito un argomento privilegiato per la filosofia, per la sociologia, o anche per la psicologia. Nel profondo, l'enigma risiede e può essere formulato nel modo seguente: come fa un uomo comune a superare la sua ripugnanza per il crimine e ad accettare di uccidere e morire per dei motivi che non sono strettamente individuali? In che modo, sviluppa una tale tolleranza all'orrore fino al punto che la morte diventa un modo di vivere? Come fanno gli uomini a familiarizzare con il male radicale? (Arendt; Myriam Revault d'Allonnes)

L'uso dei miti per giustificare la morte
Una prima ipotesi consiste nel supporre che l'adesione della ragione ad un'ideologia rende possibile l'orrore. I combattenti ricorrono a dei miti per poter rendere accettabile, perfino desiderabile, l'orrore. Riguardo lo Stato islamico, ad esempio, si è convenuto di pensare che i loro strumenti di propaganda e le loro visioni religiose costituiscono le principali mediazioni che rendono possibile la formazione di una tale soggettività combattente.
L'attaccamento assoluto al mito religioso costituirebbe non solo un fattore di coinvolgimento ma, soprattutto, un modo di sopprimere l'orrore che il reale della guerra ispira. La religione aiuterebbe perciò a staccarsi dal mondo e ad attuare una riqualificazione di esso. Per gli analisti che hanno acquisito questa spiegazione, la religione costituirebbe soprattutto una risorsa di senso nel momento in cui il mondo appare assurdo, se non addirittura del tutto ingiustificato nella sua forma attuale. Non solo la mediazione religiosa renderebbe intellegibile ciò che è assurdo, ingiusto e privo di senso, ma andrebbe ancora più lontano. Permetterebbe di addomesticare l'inquietante e l'indeterminato. In Siria, per esempio, si constata che il registro religioso si è accresciuto man mano che si esauriva la forma del pensiero rivoluzionario. Fondamentalmente, la religione è sorta nel momento in cui la rivoluzione è stata sconfitta (Romain Huët)
Questa spiegazione è insufficiente. Si può perfino supporre che non ci sia nessuna ragione di credere che i candidati alla jihad siano necessariamente degli essere atomizzati, manipolati e del tutto sotto l'influenza dell'ideologia religiosa. Evidentemente, la ragione religiosa - qualunque essa sia - gioca un ruolo importante. Solo che il rapporto con i religiosi jihadisti non è necessariamente uno stretto legame.
È anche abbastanza probabile che il jihadista viva la sua esperienza religiosa con una certa distanza. A partire dagli studi di Émile Durkheim (1912), sappiamo che l'uomo religioso non adora veramente i suoi dei, i suoi spiriti o le sue forze sovrannaturali. Piuttosto, adora la società, la forza della sua comunità. Secondo questo punto di vista, aderire allo Stato islamico equivale ad aderire ad una totalità sociale, ad una forza comune, ad una corpo politico estremamente coeso che sarebbe quindi una fonte di esaltazione e di fascinazione collettiva.
Lo Stato islamico, in quanto organizzazione tagliata fuori dal mondo nel senso che è «sola contro tutti», offre una compensazione narcisistica all'essere debole e senza forza. Infatti, prima del suo coinvolgimento nella guerra, quell'essere si è trovato probabilmente dentro tutta una serie di impotenze, di umiliazioni subite, e di piccole contingenze che si sono accumulate e che sono state in grado di produrre dei profondi disallineamenti fra lui ed il mondo. Di fronte alla constatazione della sua propria debolezza strutturale e della sua difficoltà ad appropriarsi del mondo, sarebbe quindi incline a cercare delle compensazioni narcisistiche in un'organizzazione collettiva onnipotente.

La Jihad come compensazione narcisistica
T.W Adorno (1966) ha utilizzato il concetto di «narcisismo collettivo» per spiegare l'avvento dei sistemi totalitari. Ciò designa un meccanismo generale di identificazione rigida con un gruppo sociale ristretto, vale a dire una tendenza ad aggrapparsi ad un sistema di convinzioni rigide al fine di restaurare l'individuo in preda all'esperienza dell'impotenza. Per Adorno, l'individuo si sottomette a dei poteri collettivi, a delle persone autoritarie, a dei mondi estremamente regolati fino al punto che l'esistenza viene fatta oggetto di una codifica precisa, in quanto sente già l'abisso sotto i suoi piedi e dal momento che non arriva a realizzare sé stesso, o a tracciare da sé solo la strada della sua autonomia. Si lascia allora facilmente vincere e portare verso un movimento totalitario.
Secondo quest'idea, il candidato alla guerra è la figura di un essere non è ancora sconfitto. In un certo qual modo, l'esistenza radicalmente incompleta porta ad aderire a dei feticci, ad una ricerca fatta di certezze e di illusioni. Aderendo allo Stato islamico, l'individuo viene allora sollevato dalla sua posizione di umiliazione. La compensazione narcisistica risiede principalmente in questo fantasma dell'espressività del soggetto potente, in pieno possesso di sé stesso, che agisce sul corso della storia, essendo sostenuto da una totalità sociale. La vita appare allora sotto una nuova luce: esisterebbe una vita in cui le azioni hanno un senso, una verità cui attaccarsi, un ribaltamento possibile contro l'oppressore. Il jihadista incarna quindi la figura narcisistica del soggetto potente che si auto-rassicura e che agisce per l'avvento di un mondo voluto, per la trascendenza e per la rottura nel corso della storia.
Quindi, questa prima ipotesi suggerisce per inciso che il coinvolgimento jihadisti trova le sue ragioni nell'evidenza della realtà. L'evidenza della realtà designa un mondo che non offre alcuna presa concreta sull'esistente. Nella misura in cui l'individuo viene privato della sua capacità di intervenire sul corso delle cose, questi sarebbe tentato di cercare degli spazi che non solo presentano delle riserve di senso, ma soprattutto dei mondi che si aprono all'azione. Alla fine, lo Stato islamico offre un mondo praticabile.
Probabilmente, uno dei punti di forza particolarmente sorprendente dello Stato islamico è quello di essere riuscito a dare l'immagine di un mondo ristretto in cui l'unità è di una tale potenza che annulla ogni domanda rimasta ancora aperta sull'esistenza. All'interno delle brigate, i combattenti vivono in totale promiscuità. La solidarietà si radicalizza particolarmente proprio perché ciascuno possa prendere l'abitudine di superare sé stesso per affrontare il combattimento. In questo modo si proteggono dagli attentati della realtà. Innegabilmente, la guerra è un'esperienza della comunità.
Ma soprattutto, ed è questo il punto su cui vorrei insistere, lo Stato islamico rende il mondo appropriabile; nel suo seno, la vita ha uno scopo preciso. Si occupa un posto, si ha un ruolo in questo mondo, e si assumono delle precise responsabilità. Sia che un individuo si occupi di un compito minore (controllo ai check-point, sorveglianza alle prigioni, i necessari ruoli domestici svolti nella vita comune, ecc.), o maggiore (combattimento, attività di intelligence), c'è questa convinzione di mettere in atto delle azioni che avvengono nel mondo reale. L'insieme degli atti quotidiani ha senso per quel che riguarda la lotta esistenziale e politica portata avanti dallo Stato islamico.
Ciò fornisce questo sentimento nuovo ed inaspettato della necessità stessa della sua esistenza e riempie le vene di sangue caldo. In breve, il combattente sente di esistere e di essere destinato ad un avvenire. È questa «capacità ritrovata» che potrebbe spiegare la facilità con cui il combattente si dispone alla sua nuova vita, ad un mondo devastato dalla guerra, e alle rovine in mezzo alle quali si svolge la sua vita quotidiana.

La guerra crea una situazione di spossessamento del rapporto normale col mondo
La seconda ipotesi è quella che la guerra è un'esperienza esistenziale particolare. Infatti, la guerra ha questo di specifico, che essa ci ricorda con forza la fragilità delle forme sociali e della vita. Il reale viene reso fragile, e la vita è continuamente minacciata. Detto in altri termini, la guerra genera una situazione quasi-permanente di spossessamento del normale rapporto col mondo. Il mondo perde ogni suo valore proprio per diventare un luogo incerto e sottomesso ai pericoli delle distruzioni umane. Gli uomini sperimentano così il collasso concreto del mondo - cosa che può confermarli nel loro attaccamento alla guerra.
Questo collasso è innanzitutto materiale. Nelle zone del fronte, il paesaggio è polveroso, i muri sventrati, le strade devastate. Gli edifici appaiono precari ed incerti. Eppure, di solito in tempo di pace, la loro solidità e la loro capacità di durare garantirebbe la stabilità di questo mondo. Lo spazio antropologico è uno spazio esistenziale disposto secondo i monumenti, gli uffici amministrativi, le abitazioni, ecc. Ma ora tutti questi riferimenti materiali possono crollare in qualsiasi momento come è recentemente avvenuto nel caso dell'esplosione della moschea di Mosul.
Nella guerra, quelle che si innalzano sono soprattutto le rovine. Queste oggettivizzano la fine di un mondo o, quanto meno, lo de-realizzano. Il mondo appare fisicamente confuso. Evidentemente, le rovine espongono il soggetto ad una esperienza sconvolgente; quella di uno spossessamento del sé e di una soffocante sensazione di irrealtà. Per dirlo in altre parole, sono l'esperienza sbalorditiva di una realtà che collassa.
Per i nuovi arrivati nei territori della jihad, questo paesaggio instabile potrebbe dar ragione alla loro fede nella fine di un mondo e nel doloroso avvento di uno nuovo. Privato della certezza di un mondo, il combattente si espone ad un disorientamento ancora più grande e potrebbe quindi attaccarsi più fermamente ad una qualsiasi verità del suo nuovo gruppo di appartenenza. Infatti, come può affrontare da solo questo patto notturno dell'esistenza? Come può familiarizzarsi nella solitudine con questa realtà collassata?
Questa rottura della sua relazione ordinaria col mondo viene vista anche dal punto di vista della sua costruzione biografica. E Jünger spiegava che la guerra fa avvenire un nuovo «io». Il propagandisti lo hanno capito bene, poiché si sforzano di mitizzare la figura del combattente. Questa figura deve essere desiderabile e deve voler essere imitata. Perciò il combattente viene presentato come un essere dotato di virtù eccezionali. In qualche modo, egli ha sconfitto la condizione umana; l'attaccamento smisurato alla vita mediocre, la paura di restare ferito e della morte, ecc. Ormai egli sente la su vita come autentica poiché esprime un rapporto passionale con le sue idee fino al punto che la sua intera esistenza è consacrata all'avvento di tali idee. I propagandisti hanno preso l'abitudine di aumentare il coraggio del combattente che sente l'idea nel suo corpo fino al punto di offrirlo sempre al pericolo.
La figura del combattente è seducente in quanto incarna questa possibilità che ha l'uomo di superare sé stesso nel nome di un'idea. Nello stesso movimento, per contrasto, viene messa in luce anche l'inconsistenza ontologica, la mancanza di essere, la poca essenza, e le deboli convinzioni dell'essere che non sente più l'idea nel suo corpo.

Essere trasportati in un «altrove» in un godimento individuale e collettivo
Questa rottura della relazione ordinaria con la vita non è solo un fantasma mediatico organizzato dai comunicatori dello Stato islamico. Concretamente, l'ingresso in guerra è letteralmente l'entrata in un mondo. Questo equivale alla possibilità di attraversare un universo, di essere trasportati altrove in un godimento individuale e collettivo.
Dapprima, il godimento viene sperimentato a monte del viaggio poiché gli ostacoli alla realizzazione della jihad sono numerosi e non sono solo morali. Aspettando di partire, si deve essere in grado di condurre una vita clandestina. Il candidato alla jihad è tenuto a nascondere i suoi progetti, ad unirsi in segreto alle reti jihadiste, mentre prepara concretamente il suo viaggio. In breve, per il candidato alla jihad, la clandestinità diventa un modo di vivere. Le forme del segreto e della clandestinità garantiscono l'importanza dell'impresa. Provano questo potere esoterico di rendersi invisibili, di nascondersi, di rendersi incomunicabili al fine di liberarsi, in solitudine, dal potere della società e dei suoi divieti.
Per il nuovo jihadista, l'ingresso concreto nella guerra è perciò i momento di una rottura con la vita precedente: una vita incompleta ed incompresa, che ha mancato le sue finalità essenziali e che sempre rimasta al di fuori di sé stessa, nella quale tutto sembrava ristagnare o in cui niente aveva realmente inizio. La guerra apre verso un altrove, che ha anch'esso i suoi ordini e le sue determinazioni, che intensifica la sensazione di esistere nel mezzo della notte. Questi combattenti condividono indubbiamente l'idea secondo la quale è meglio vivere in un possibile incerto piuttosto che nei falsi rifugi della vita ordinaria la cui unica funzione è quella di fornire una rassicurazione momentanea, conservare la vita invece di realizzarla.
Dal tumulto infernale della terra, gli uomini emergono trasformati nella loro visione del mondo, nei loro sensi e nella loro sensibilità. Li fa diventare altri. I combattenti ostentano nuovi abiti. Cambiano aspetto. Appaiono più vecchi, i loro occhi segnati e stanchi. Vanno avanti grazie alle loro nuove responsabilità. La personalità si afferma. Il cuore batte più caldo dentro il petto mentre la vita si trova immersa in un rischio permanente. DI questi tempi si riflette poco. I recenti servizi fotografici realizzati da Quentin Sommerville e Riam Dalati illustrano proprio l'evoluzione di un jihadista e la rappresentazione di sé stesso che egli ha scelto di fare.

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In breve, quello che innanzitutto provoca la guerra, è la sensazione di essersi svegliati. Come se. in passato, il combattete avesse solo stupidamente vegetato in uno spazio di vita più ristretto. Essere diventato «attore della storia»; e quindi ora è in contatto con la grandezza e scopre la forza che lo attraversa dell'essere impegnato per una causa. In questo senso, lo fa diventare un nuovo «io».
Il combattente diventa un essere nuovo che ora si trova in questo istante decisivo della guerra e delle sue trasformazioni quotidiane. Coglie tutta la novità della sua esistenza; delle sue finalità, del suo stile di vita, dei suoi rapporti di socialità, dei suoi paesaggi, ecc. La guerra si presenta sotto la forma di un'avventura necessaria, benché incerta. Questo gli farà trovare in un modo o nell'altro una vita per sé stesso. D'ora in poi, non sarà costretto a delle attività che non ha scelto, che non gli piacciono, e perciò non è preoccupato. Non dovrà più adattarsi ad una vita che gli è estranea. Questa sensazione di essere più vicino alla sua essenza è una compensazione che spezza la morsa della paura che prima opprimeva i suoi desideri.
Fa ormai parte di un gruppo fortemente unito che lo sottrae ad ogni solitudine. L'odio e l'amarezza, accumulata in tanti anni, torna alla superficie dell'individuo e degli affetti condivisi. L'avversario prima inafferrabile viene ora riconosciuto. Ora, lo si può afferrare alla gola. L'ira contro il mondo insensato illumina la sua strada. Il coinvolgimento nella guerra è una forma di protesta contro la vita non voluta.

La guerra è «gioia» e organizzazione della vertigine
Ma la guerra non è semplicemente una riparazione esistenziale del passato. È anche l'occasione di una gioia. È la gioia del danno al nemico, la gioia della resistenza in un contesto di profonde asimmetrie militari. La consistenza della lotta armata risiede nel fatto che le distruzioni confermano un fardello di realtà. Il corso abituale delle cose viene interrotto. L'effetto della guerra si offre allo sguardo e rende visibile la fragilità «malgrado tutto» del nemico e dei suoi edifici. La guerra produce un'esperienza di un genere particolare: dispone all'esistenza, vale a dire che apre ad un individuo la possibilità di sperimentare una vita radicalmente altra.
In primo luogo, da un punto di vista puramente sensibile, la guerra presuppone una certa eccitazione in quanto la vita viene sempre messa in gioco. Nell'affrontarsi, il combattente arriva al nocciolo duro del reale. È un modo di afferrare il reale, o piuttosto, di ritrovare il reale del mondo. Le lamentazioni dei paesi nemici commossi dalle loro morti in seguito agli attacchi terroristici aggiungono ancora altra gioia alla gioia di invertire i registri del potere. Da parte del nemico, si piangono anche delle vite.
La guerra offre quindi un'intensità rara: la gioia del caos e dello scuotimento del mondo. È la gioia di una realtà che viene fisicamente messa in pericolo. Lo scopo di questa azione sta inscritto in sé stessa assai più che in un'ipotetica fede nella vittoria del Califfato e del suo dominio su alcuni territori.

Epifanie esistenziali
Il fine è più morale che politico. Appare quindi come una «morale dell'intensità». In questa lotta per la vita, indubbiamente il combattente sente questa sensazione di vivere veramente. La sente fisicamente, con tutta l'intensità dei suoi sensi: adrenalina, stanchezza, logoramento, ferite, corpi attraversati dalla lotta. Lo sente anche a livello spirituale nella misura in cui la possibilità della morte è una questione essenziale che si ripete giorno per giorno nella sua consapevolezza. La guerra è l'occasione per sentirsi vivo e per uscire dalla quotidianità.
Nell'era dell'intensità, come suggerisce Thierry Garcia (2016), non sorprende affatto che la jihad attragga, nella misura in cui permette di esperire una vita «fuori dall'ordinario » impegnando l'essere nella sua totalità verso un fine preciso. In qualche modo, la jihad propone ai combattenti delle epifanie esistenziali, delle quali altrimenti verrebbero privati. Il combattente si trova in quella sua esperienza perché tale esperienza esiste in quanto salto rispetto alla sua vita precedente. Egli ha abbandonato tutto ed ha cambiato tutto: i suoi progetti, la sua visione del mondo, il suo ambito esistenziale, il suo corpo biologico, le esigenze immediate della sua vita ordinaria. Il suo coinvolgimento è un appello in senso ampio, sebbene si incastri nella ristrettezza morale ed intellettuale del mondo jihadista. Questo entusiasmo per la guerra costituisce la narrazione personale e collettiva del disordine, del caos e del ricominciare.

La vertigine della distruzione
La guerra costruisce anche la vertigine attraverso il tentativo di distruggere per un momento la stabilità dell'ordine sociale che aveva abituato ciascuno all'impotenza. Essa è vertigine poiché il momento del combattimento intenso porta a ciascuno questa sorta di panico voluttuoso. È lo stordimento dell'annientamento della realtà, lo scuotimento dei sensi in cui si vedono gli edifici materiali crollare in rovina ed offuscare la visione.
Nel corso del combattimento, l'uomo si spoglia di ogni sua paura, di ogni terrore, come si spogliasse di un pesante mantello nero. Una tale esperienza esistenziale mescola paura e godimento.
In un certo qual modo, la guerra è un'organizzazione della vertigine. Essa organizza una relazione attiva con il mondo che simbolizza, e ne tenta la distruzione per poter rendere possibile ricominciare. La guerra non è solto un'effrazione; è il tripudio dell'impadronirsi del reale. Dopo tutto, in fondo, in tempo di guerra si riflette assai poco; è l'oblio di sé, l'assorbimento di sé stessi nell'azione e nell'alleanza con gli altri. È inebriamento, ubriachezza, disordine dei sensi e organizzazione della vertigine.

- Romain Huët - Pubblicato il 3 luglio 2017 su The Conversation -

fonte: The Conversation

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