giovedì 30 novembre 2017

La crisi siamo noi!

compagni

Risposta a Badiou: Che cosa dopo la politica?
- di Jehu -

Considera i seguenti autori conosciuti, i quali, in qualche modo, hanno affrontato e discusso le conclusioni relative alla teoria del valore di Marx:

- Negri e Hardt
- Foucault
- Lefebvre

- (aggiungi qui il tuo "teorico" preferito)

Sulla base di ciò che questi autori hanno scritto, domandati: come fare a sbarazzarci della schiavitù salariale? Ne hanno una qualche idea? Ad esempio, qual è la soluzione proposta da Negri ed Hardt riguardo al problema dell'abolizione della schiavitù salariale? Quella di Foucault? Quella di Lefebvre? Voglio dire, questi tizi hanno scritto libri molto interessanti. E fino a quando ti limiti a cercare una qualche lettura serale, va tutto bene.
Ma cos'hanno da dire a proposito dell'abolizione della schiavitù salariale che possa essere rilevante rispetto a quello che stai cercando di fare? Quale strategia suggeriscono? C'è una di queste persone che può darti un qualche suggerimento su come fare a smettere di essere uno schiavo salariato? Qualcuno di loro si rivolge direttamente a te e ti parla delle tue condizioni in quanto schiavo salariato?
Dimmi in quale dei loro libri, Negri ed Hardt dicono, «Se tu non vuoi essere uno schiavo, fai questo, questo e questo.» Cioè, quale che siano le tue critiche rispetto a Marx, quanto meno lui ha detto, «Se voi non volete essere schiavi, unitevi in un partito politico, vincete la lotta per la democrazia ed usate il potere dello Stato per emanciparvi.»
Foucault fornisce qualche idea su come porre fine alla schiavitù salariale? Lo fa David Harvey? E allora, perché li leggi? In cosa consiste l'interesse che hai per le loro idee? Vuoi passare davvero il resto della tua vita a leggere persone che non hanno nessuna idea di come fare a mettere fine alla schiavitù salariale?

Badiou ed il rifiuto della politica
Ho chiesto questo perché Alain Badiou ha pubblicato recentemente un saggio nel quale si propone di affrontare il problema di come liberarci dalla schiavitù salariale. Nel suo saggio, Badiou respinge esplicitamente la partecipazione alla politica elettorale. Parlando a proposito dei recenti risultati elettorali in Francia, Badiou ha detto:
«Dobbiamo restare indifferenti alle elezioni, le quali, tutt'al più, comportano una scelta puramente tattica fra due cose: astenersi dalla partecipazione a questo spettacolo "democratico", oppure sostenere questo o quel concorrente per motivi circostanziali - cosa che, per l'appunto, dobbiamo definire secondo il contesto di una politica comunista (sic), un contesto che non ha niente a che fare con i rituali del potere dello Stato.»
Secondo Badiou, noi dobbiamo lavorare attivamente ad una "politica comunista", che non ha niente a che fare con l'attuale Stato.
Qui, il termine "politica comunista" è incoerente. Chiaramente, Badiou la sta usando come tappabuchi. Penso che Badiou intenda dire "comunismo", e non "politica comunista". L'utilizzo del termine "politica comunista" evoca delle richieste allo Stato, e non si può fare a meno che abbia un tale effetto. Puoi dire che la politica comunista non ha niente a che fare con lo Stato, ma la gente continuerà a pensare la politica nei termini dello Stato.
Quindi, come fa il comunismo a differenziarsi dalla politica incentrata sullo Stato? I lassalliani (socialdemocratici) non ci vedono nessuna differenza. Il leninisti, al contrario, pensano che tutta la politica sia borghese, tranne quella portata avanti da un partito di avanguardia. Badiou, a suo merito, sembra voler evitare entrambi questi due fallimenti del 20° secolo, ma ci dà poco altro da cui partire.
Ci offre questo suggerimento:
«Permettetemi di ricordare i principi della seconda strada: stabilire, contro la proprietà privata, delle forme collettive di controllo dei mezzi di produzione, di credito e di scambio; una polimorfia del lavoro, qualcosa che in particolare venga minato dall'opposizione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale; che ha come una delle conseguenze, l'internazionalismo; e forme di controllo popolare che lavorano per mettere fine allo Stato separato.»
Un movimento che ha come scopo dichiarato quello di abolire lo Stato separato? Badiou vuole una comune, ma, per qualche strana ragione, non lo dice esplicitamente, almeno non lo fa in questo saggio. Anziché dire semplicemente, «Dobbiamo sostituire lo Stato separato con una comune di produttori sociali», usa la goffa locuzione, «politica comunista».
Il comunismo è ciò che fa una comune. La sua attività è la comunizzazione di tutte le relazioni sociali.

Dopo la politica, cosa?
Come alternativa alla politica elettorale, Badiou offre la tipica strategia di sinistra.
1 - Una situazione storica instabile (guerra o calamità ecologica), precipita la società in una profonda       prolungata crisi politico-economica.
2 - Alla società si presenta una scelta fra capitalismo o comunismo;
     accompagnata da nuove forme di controllo popolare che sostituiscono l'attuale Stato.
3 - La ribellione di una minoranza che paralizza il potere dello Stato, già minato dalla crisi.
4 - L'emergere di un'organizzazione in grado di rovesciare lo Stato e sostituirlo col comunismo.

Il problema con la strategia della sinistra, così come viene descritta da Badiou - in particolare il punto 3 - sta nel fatto che Engels e Marx l’avevano dichiarata obsoleta giù più di cento anni fa. Sebbene Engels e Marx non avrebbero scommesso i loro due centesimi sulla discussione a proposito della strategia, la Comune di Parigi aveva praticamente dimostrato che barricate ed insurrezione erano una strategia ormai defunta. Al suo posto, Marx ed Engels avevano proposto che la classe operaia dovesse organizzarsi in un partito e conquistare il potere politico.
Ad ogni modo, sfortunatamente è proprio questa la strategia proposta da Marx ed Engels che Badiou (e molti altri comunisti) dichiara ora obsoleta. Se l'insurrezione era già obsoleta nella seconda metà del 19° secolo, ed il partito politico si è rivelato obsoleto nella seconda metà del 20° secolo, a quanto pare sembra che ora siamo usciti fuori di testa. Il punto n°3 della lista di Badiou - la rivolta popolare - è un enorme buco che nessuno sembra sapere come fare a riempirlo. Tutto quello che veramente sappiamo del punto n°3 è che può essere riempito o da pallottole o da schede.
Probabilmente non ci troviamo sul punto di stare per rovesciare uno Stato moderno per mezzo della forza delle armi, e sicuramente non accadrà che andando a votare in un'elezione faremo esistere il comunismo.

Anarchici e strategia
Un'aggiunta anarchica innovativa alla discussione sulla strategia, è l'idea di uno sciopero generale. Gli anarchici, quando coerenti, hanno a lungo rifiutato la partecipazione a qualsiasi forma di politica elettorale. Piuttosto che occupare lo Stato esistente facendo uso di mezzi politici, molti anarchici suggeriscono che la classe operaia dovrebbe semplicemente rifiutarsi di andare a lavorare per il capitale per mezzo di uno sciopero generale. La strategia è potente in quanto, direttamente o indirettamente, tutte le classi parassitarie e lo Stato stesso dipendono dal lavoro salariato. Il lavoratore salariato viene sfruttato direttamente dal capitale ed il plusvalore estratto viene diviso fra gli sfruttatori sotto forma di profitto, di rendita e di entrate fiscali. Se la classe operaia riuscisse ad astenersi dal lavorare per il capitale facendo uno sciopero generale, sostanzialmente chiuderebbero il rubinetto che alimenta gli sfruttatori. La strategia dovrebbe produrre una crisi che inghiottirebbe le classi sfruttatrici.
Il problema con questa strategia è che essa richiede un altissimo livello organizzativo e di coscienza tra la classe operaia. Il lavoratori devono essere preparati ad un lungo sciopero e a battersi contro l'intervento militare, la sovversione politica e le defezioni nelle proprie file.
Per definizione, la classe operaia non è in grado di sopravvivere per un lungo periodo di tempo senza vendere la sua forza lavoro. Il modo di produzione è strutturato in modo tale che il lavoratore abbia poco più di quello di cui ha bisogno per vivere settimana dopo settimana. Qualsiasi magro mezzo di sostentamento abbia accumulato al di là di questo, in un conflitto prolungato si esaurirebbe rapidamente.
C'è un limite al tempo durante cui la classe operaia può resistere al bisogno di vendere il proprio lavoro, e tale limite è determinato dallo sviluppo delle forze produttive. Più alto è lo sviluppo delle forze produttive, più bassi sono i salari dei lavoratori è più breve è la durata del tempo in cui possono tenere duro. Le stime che ho visto suggeriscono che i lavoratori nelle economie capitaliste più avanzate possono tener duro non più di un mese o due. Nella maggior parte dei casi, sono costretti a tornare al lavoro per quando è dovuto il pagamento dell'affitto o del mutuo.
Sembrerebbe perciò che la classe operaia non abbia né la capacità militare né quella politica di mettere fine alla schiavitù salariale, né abbia i mezzi per tirarsi fuori dalla relazione salariale. Ciò potrebbe spiegare perché tutte le proposte concrete per poter attualmente porre fine al lavoro salariato ed alle relazioni esistenti, come quella che propone Badiou, scoppiettano e muoiono impotentemente. Manca una vera strategia secondo la quale possiamo mettere fine al lavoro salariato.
La strategia migliore che le persone possono escogitare è quella che proviene dal fatto che la società esistente precipita improvvisamente in una catastrofe profonda e prolungata nella sua forma di una grande guerra o di un cambiamento climatico. Badiou fa riferimento alle guerre che hanno preceduto la Comune di Parigi, la rivoluzione sovietica e la Repubblica popolare cinese. Quelle guerre hanno vuto l'effetto di scuotere alla radice la società esistente, aprendo la strada affinché la classe operaia potesse opportunisticamente affermare la propria pretesa di potere.
Ma chi è che oggi vuole una replica degli orribili eventi che hanno portato alla fondazione della Repubblica popolare cinese (80 milioni di morti) o all'Unione Sovietica (20 milioni di morti)? O cosa ancora più importante, fare affidamento su eventi catastrofici spontanei su larga scala ci deruba dell'iniziativa per poter creare la nostra propria storia.

La classe operaia deve abolire sé stessa
Con questo approccio, c'è un problema ancora più profondo: per la prima volta, Marx ed Engels sembrano suggerire che attualmente la classe operaia non metta fine alle altre classi sociali. Quest'idea viene espressa in maniera più chiara nel capitolo 32 del Capitale, volume I. Se esaminiamo il capitolo ne dettaglio, vediamo che Marx sostiene che le classe sfruttatrici mettono fine a loro stesse, attraverso un processo di accumulazione capitalistica che comincia con la distruzione dei produttori individuali e che finisce con i capitali che si uccidono a vicenda.
Marx può essere (ed è stato) letto come colui che dice che i proletari non mettono fine ai capitalisti; piuttosto, mettono fine a sé stessi in quanto classe.
Ciò suggerirebbe che la strategia di cui oggi abbiamo bisogno non si concentrerà sulle forme di lotta necessarie a rovesciare lo Stato (militare o politico), ma le forme di lotta al fine che il proletariato abolisca sé stesso. Una strategia di questo tipo è coerente con il nostro precedente presupposto che riguarda i limiti dell'insurrezione e delle elezioni come strada che porta al comunismo. La classe operaia non può abolire sé stessa facendo uso di mezzi militari, e di certo non può semplicemente votare per decretare la fine della sua esistenza. La classe operaia non può nemmeno rifiutare di dare il suo lavoro agli sfruttatori a causa do certi limiti ben definiti poiché alla fine deve mangiare.
Tuttavia, quello che la classe operaia può fare è negare ai suoi sfruttatori il surplus di tempo di lavoro, il plusvalore da cui dipendono le classi parassitarie. Ancora una volta, per quanto lontano si possa andare in questa direzione, è determinato dal livello di sviluppo delle forze produttive. Ma qui c'è una differenza: mentre lo sviluppo delle forze produttive riduce i mezzi disponibili per la classe operaia, per sopravvivere ad uno sciopero generale, il livello di sviluppo delle forze produttive incrementa l'impatto che ha sugli sfruttatori trattenere il tempo di lavoro.
Ad un certo punto dello sviluppo delle forze produttive, la parte più grande della giornata lavorativa può essere eliminata senza mettere a repentaglio la magra sussistenza della classe operaia. Tale eliminazione di surplus di tempo di lavoro costringe le classi parassitarie a quello che Marx aveva chiamato, «una lotta fra fratelli ostili.» La riduzione del tempo di lavoro in eccesso abbassa il tasso di profitto, e ciò porta alla concentrazione e alla centralizzazione di capitali, alla bancarotta ed al collasso finanziario.
Andrew Kliman e la sua scuola della caduta del saggio di profitto ha sostenuto a lungo che la caduta del tasso di profitto conduce alla crisi, ma devono ancora essere in grado di applicare quest'asserzione alle loro idee strategiche. Una caduta nel tasso di profitto viene prodotta non solo dalla sovraccumulazione di capitale; può anche essere prodotta artificialmente attraverso un'azione energica sul proletariato per far loro trattenere la parte di surplus del loro tempo di lavoro.
Se la scuola della caduta del saggio di profitto ha ragione, il proletariato ha il potere di creare quel genere di crisi politico-economica che Badieau sostiene essere necessaria a far crollare il sistema. In altre parole, possiamo creare artificialmente quella sorta di «situazione storica instabile, che scuote fortemente le soggettività conservatrici».

Azione diretta
Ma qui abbiamo un inversione nella strategia proposta da Badiou. Anziché aspettare una guerra, o che avvenga spontaneamente una catastrofe economica o ecologica, possiamo creare una massiccia crisi sociale cambiando direttamente la coscienza della classe lavoratrice per mezzo della nostra azione diretta.
Come funziona la cosa? Passerò a spiegare il meccanismo economico più tardi, ma lo si trova già descritto nel capitolo 15 del III volume del Capitale.
Il punto che voglio affrontare adesso è quello del meccanismo sociale, quello dell'azione diretta.
La politica ha a che fare con la lotta di classe, ma qui in realtà non c'è nessuna lotta di classe in corso. In primo luogo, il proletariato deve porre fine alla produzione di plusvalore come condizione per la vendita della sua forza lavoro. Almeno in teoria, la classe operaia può decidere quanto a lungo lavorerà in cambio dei salari, ed imporrà al capitale questo limite.
Naturalmente questo richiede organizzazione e coscienza che, ad essere completamente onesti, ancora non esiste. Dobbiamo creare quest'organizzazione e questa coscienza per mezzo della nostra azione diretta. Ci sono ben poche possibilità che possa sorgere spontaneamente. La coscienza della necessità di mettere fine alla produzione di plusvalore come condizione per il salario non è data dal modo di produzione. Piuttosto, ogni lavoratore sa che il suo salario dipende dalla capacità del suo datore di lavoro di realizzare un profitto.
L'idea secondo la quale la nostra sussistenza dipenda necessariamente dal profitto dei capitalisti, è proprio ciò che dev'essere messo in discussione attraverso la nostra azione diretta. Un tale sforzo, con ogni probabilità, sarà foriero di conflitti, anche violenti, dal momento che andremo a confutare quello che ciascun lavoratore ritiene sia una condizione della sua sopravvivenza. Dobbiamo fare uso di metodi di azione improntati alla pazienza, necessariamente non violenti, per convincere le persone che all'inizio penseranno che stiamo cercando di farli morire di fame.
Faccio sempre riferimento al movimento anti-segregazione, poiché la risposta della maggior parte dei bianchi del sud degli Stati Uniti, rispetto ai primi tentativi di mettere fine alla segregazione , è stata quel tipo di risposta violenta che dovremo aspettarci. Sebbene i lavoratori neri cercassero semplicemente di far valere i loro diritti contro lo Stato, la maggior parte dei lavoratori bianchi considerava quelle azioni come se fossero un attacco diretto rivolto contro di loro. In molti casi attaccavano i loro colleghi neri che non stavano facendo nient'altro che esigere quei diritti di cui gli altri lavoratori già godevano.
Contro di noi, non dobbiamo aspettarci meno violenza di quella che si è vista durante i periodi peggiori degli anni 1960. Il fatto è che noi stiamo cercando di convincere le persone a smettere di fare qualcosa che loro ritengono sia una precondizione essenziale per la loro sopravvivenza fisica. Non prenderanno in considerazione un'idea simile, senza che ci sia una reazione estrema.

Diventare la crisi
Cosa stiamo cercando di fare attraverso la nostra campagna di azione diretta? Stiamo cercando di determinare la più grande alterazione nelle coscienze che ci sia mai stata nella storia dell'umanità. Non possiamo produrre una simile rivoluzione nella coscienza della classe operaia con la forza delle armi, ma solo attraverso delle leggi.
Dobbiamo confrontarci direttamente con la classe operaia, coinvolgerli, e spiegare loro pazientemente che non devono essere più la classe operaia. Questo comporta necessariamente il fatto che dev'essere impedito loro di dedicarsi alla vendita della loro forza lavoro e di creare plusvalore per le classi parassitarie. Un tale compito non è molto diverso dall'impedire che durante uno sciopero i lavoratori disoccupati agiscano come crumiri. La differenza sta nel fatto che qui chiediamo ai lavoratori solo di astenersi dal lavorare per una parte della settimana lavorativa; non chiediamo loro di smettere del tutto di lavorare. All'inizio, questo sarà per poco più di un giorno alla settimana; un giorno stabilito in anticipo, annunciato pubblicamente, in modo da limitare il tempo di lavoro ad una durata prestabilita.
Quel che è importante, è rendere noto a tutti i lavoratori, il più ampiamente possibile, che cosa intendiamo fare con la nostra azione diretta. Il nemico lo sa già. Dobbiamo essere sicuri che anche ogni lavoratore lo sappia. Questo permetterà ad ogni lavoratore di prendere parte all'astensione dal lavoro a modo suo, collettivamente o individualmente, a seconda delle circostanze. Alcuni potranno solo limitarsi a che lo spostamento verso il loro luogo di lavoro venga impedito da noi. Altri potrebbero solo lavorare più lentamente. Altri ancora possono interrompere il lavoro tutti insieme o darsi malati. Col tempo, anche loro si uniranno all'azione.
Il punto è quello di impedire ripetutamente la produzione del plusvalore, in un dato giorno, per una dato periodo di tempo, ogni settimana, per qualsiasi lavoro che superi - diciamo - le 30 o le 28 ore settimanali.

L'impatto di questa strategia sul capitale
Quale sarà l'impatto che avrà questa strategia sul capitale e sul proletariato?
In primo luogo, secondo la teoria di Marx, una riduzione forzata delle ore di lavoro colpirà più duramente il capitale finanziario, dal momento che quel settore è costituito quasi interamente di crediti cartacei. Questo dovrebbe essere per noi di estremo interesse, considerato che ho visto stime secondo le quali ora il mercato dei derivati ammonterebbe a più di 1,2 milioni di miliardi di dollari. Questo corrisponde a circa 15 volte il valore totale annuo del PIL mondiale. Questo mercato è altamente indebitato, del tutto deregolamentato e basta solo un movimento molto piccolo (forse un calo del 3% nella caduta del saggio di profitto) nel valore di questi derivati per far crollare l'intero schema di Ponzi [N.d.t.: Lo schema Ponzi è un modello economico di vendita truffaldino che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi "investitori", a loro volta vittime della truffa]. Un crollo di tale portata costringerebbe immediatamente lo Stato ad intervenire per salvare il settore finanziario, e sarebbe una replica del 2008.
Una modesta riduzione del tempo di lavoro di solo un giorno su 40 ore di lavoro settimanale, taglierebbe del 20% il tempo di lavoro totale, ma avrebbe un impatto maggiore rispetto a quello del 20% sui profitti. Per esempio, se il tasso di plusvalore è del 100%, una riduzione del 20% del tempo di lavoro ridurrebbe del 40% il valore del plusvalore. La massa di valore disponibile per essere distribuito fra le classi parassitarie cadrebbe in misura proporzionale. Ci sarebbe una lotta fra i capitali, da parte di ciascuno allo scopo di minimizzare l'impatto che una tale caduta avrebbe sui loro profitti, e spingerebbe le perdite verso gli altri capitali. Questa lotta si estenderebbe oltre le imprese capitaliste, fino ad includere il capitale finanziario, le proprietà immobiliari e le entrate fiscali dello stesso Stato.
In questo modo, l'intero strato dei parassiti che vivono al di fuori del lavoro della produzione verrebbe trascinato dentro il conflitto per dividersi una torta sempre più piccola di plusvalore.

L'impatto di questa strategia sul lavoro salariato
In secondo luogo, nel capitolo 15, Marx riserva molta attenzione all'impatto che una simile crisi avrebbe sulla classe operaia. Egli spiega che una crisi, causata da un tasso di profitto in caduta, porterebbe ad una disoccupazione ancora maggiore. Nel caso della classe operaia che si astiene dal lavorare, tuttavia, l'occupazione non dovrebbe diminuire, dal momento che la crisi viene provocata da una caduta nel plusvalore determinata da una riduzione delle ore di lavoro. L'impatto della crisi dovrebbe essere completamente assorbito dal capitale, che lascerebbe pressoché intatti i salari della classe operaia. Certo, ci sarebbero alcuni cambiamenti nell'occupazione, nella misura in cui alcune compagnie falliscono, ma questo viene più che compensato da una maggiore occupazione complessiva. Il capitale sarà costretto ad utilizzare l'esercito del lavoro di riserva, attirando milioni di nuovi lavoratori nella produzione.
Dal momento che il capitale non può ripristinare il tasso di profitto licenziando lavoratori, deve allora incrementare gli investimenti in macchinari migliori, in scienza, tecnologia ed organizzazione, per poter intensificare lo sfruttamento del lavoro. Marx chiama questo sforzo "l'incremento della densità del tempo di lavoro" e discute su come essa funziona nel capitolo 15 del I volume. L'analisi tratta dei limiti alle ore di lavoro nell'Inghilterra degli anni 1840. Nel nostro caso, un impatto simile deriverebbe dagli sforzi della classe operaia per ridurre il proprio orario di lavoro, non per mezzo della legge. Sebbene imposto dall'azione diretta della classe operaia, anziché dalla legge, il risultato dovrebbe essere lo stesso. Il capitale, se deve produrre profitto, dovrà produrlo facendo uso di meno lavoro di quanto ne usasse prima.
Il tempo libero della classe operaia - il comunismo - viene incrementato.

- Jehu - Pubblicato il 23 ottobre 2017 su The Real Movement -

fonte: The Real Movement

mercoledì 29 novembre 2017

Contro le Tenebre

robot

« Si è molto parlato degli impatti che avranno congiuntamente sul nostro futuro, la Crisi Climatica e le nuove tecnologie di Automazione dei posti di lavoro. Come si inseriscono in questo quadro le relazioni capitaliste di proprietà e la produzione, e la politica, specificamente per quanto attiene alla Lotta di Classe? Sarà sufficiente la possibilità di un'automazione quasi generalizzata per garantire che avvenga questa automazione? E quale sarà l'impatto che essa avrà sulle condizioni di vita delle persone? A partire dalla fine del capitalismo, sulla base di questi elementi, quale tipo di scenari ci possiamo aspettare? »

(da: Peter Frase, " Four Futures: Life After Capitalism" ["Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"].)

Il testo che segue è l'introduzione al libro di Peter Frase, "Four Futures: Life After Capitalism", pubblicato nel 2016. Il testo è un'espansione delle idee contenute nell'articolo originale, del 2011, "Four Futures" [qui tradotto e pubblicato col titolo « E dopo? »]. Le idee sono fondamentalmente le stesse, ma il libro continua ed approfondisce diverse questioni che il testo originale toccava solamente, ed altre che non toccava nemmeno. Vale la pena leggerli entrambi

Nel XXI secolo due spettri si aggirano sulla Terra: lo spettro della catastrofe ecologica e quello dell'automazione.
Nel 2013, un osservatorio del governo degli Stati Uniti ha registrato, per la prima volta nel registro storico, che la concentrazione atmosferica globale di anidride carbonica aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm). Questa soglia, che in tre miliardi di anni la Terra non aveva superato, annuncia, nel secolo in corso, mutazioni climatiche in aumento. Il Gruppo di controllo intergovernativo sui Cambiamenti Climatici [“Intergovernmental Panel on Climate Change”] prevede la diminuzione del ghiaccio oceanico, l'acidificazione degli oceani, ed una crescente frequenza degli eventi legati alla siccità e a tempeste estreme.
Allo stesso tempo, le notizie di progressi tecnologici nel quadro di un'elevata disoccupazione e di salari stagnanti hanno prodotto preoccupati allarmi riguardo gli effetti dell'automazione sul futuro del lavoro. All'inizio del 2014, i professori del MIT Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee hanno pubblicato "The Second Machine Age: Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies" [qualcosa del tipo, "La seconda era della macchina: lavoro, progresso e prosperità in un'epoca di brillanti tecnologie"]. Viene valutato un futuro nel quale la tecnologia dei computer e la robotica sostituiscono il lavoro umano , non solo nei settori tradizionali come l'agricoltura e l'industria, ma anche in settori che vanno dalla medicina, al Diritto, fino ai trasporti. Nell'Università di Oxford, un'unità di ricerca ha pubblicato una dichiarazione ampiamente divulgata che stima che oggi circa la metà dei posti di lavoro negli Stati Uniti sono vulnerabili all'automazione.
Queste preoccupazioni gemelle sono, in molti sensi, diametralmente opposte. La paura del cambiamento climatico è la paura di avere poco: prevede una scarsità di risorse naturali, la perdita di terre coltivabili e di ambienti abitabili - e, infine, la morte di una Terra che può sostenere la vita umana. La paura dell'automazione è, perversamente, la paura di avere troppo: un'economia completamente robotizzata che produce così tanto, con così poco lavoro umano, da non esserci più alcuna necessità di lavoratori. Stiamo realmente affrontando, allo stesso tempo, una crisi di scarsità ed una crisi di abbondanza?
L'argomento di questo libro è quello che ci troviamo di fatto davanti ad una crisi duplice così contraddittoria. Ed è l'interazione di queste due dinamiche a rendere il nostro momento storico così instabile ed incerto, tanto pieno di promesse quanto di pericoli. Nei capitoli che seguono, cercherò di mostrare alcune delle possibili interazioni fra queste due dinamiche.
In primo luogo, però, bisogna mostrare quelli che sono i contorni dell'attuale dibattito circa l'automazione ed il cambiamento climatico.

L'ascesa dei Robot
« Welcome Robot Overlords, Please Don't Fire Us? » ["Bene arrivati padroni robot, per favore non ci licenziate"], si legge nel titolo di un articolo pubblicato nel 2013 dalla rivista "Mother Jones". Il testo, del commentatore liberale Kevin Drum, esemplifica un fenomeno di copertura verificatosi negli anni recenti, che analizza la rapida propagazione dell'automazione e dell'informatizzazione in tutti i settori dell'attività economica. Queste storie tendono a oscillare fra meraviglia e orrore per quel che riguarda le possibilità di tutti questi nuovi aggeggi. In testi come quelli di Drum, il rapido progresso nell'automazione annuncia la possibilità di un mondo con una qualità di vita migliore e con più tempo libero per tutti; ma, alternativamente, annuncia disoccupazione di massa ed il continuo arricchimento da parte dell'1%.
Non si tratta qui, in nessun modo, di una nuova tensione. Il racconto popolare di John Henry e del martello a vapore, che ha avuto origine nel XIX secolo, descrive un lavoratore ferroviario che tenta di fare una gara contro un trapano di acciaio alimentato a vapore, e che vince  - solo per poi cadere morto a causa dello sforzo. Ma ci sono diversi fattori che si sono riuniti per accentuare le preoccupazioni sulla tecnologia e sui suoi effetti sul lavoro. Il mercato del lavoro, sempre più ridotto in maniera persistente dopo la recessione, ha generato un'ansietà generalizzata e diffusa per quel che riguarda la perdita del posto di lavoro. L'automazione e l'informatizzazione sta cominciando a raggiungere industrie professionali e creative, che per molto tempo sono sembrate immuni, ed ora minacciano di colpire i posti di lavoro proprio dei giornalisti che parlano di questi problemi. Ed il ritmo del cambiamento, per molti appare essere più veloce che mai.
"The Second Machine Age" ["La seconda era delle macchine"] è un concetto sostenuto da  Brynjolfsson e McAfee. Nel loro libro con lo stesso nome, argomentano che, proprio come la prima era delle macchine - la Rivoluzione Industriale - ha sostituito i muscoli umani con la forza della macchina, l'informatizzazione ci ha permesso di ampliare immensamente, o perfino di sostituire, «la capacità di usare il nostro cervello per comprendere e modellare i nostri ambienti». In questo libro e nel suo predecessore,"Rage Against the Machine" [qualcosa fra "Corsa contro la macchina" ed un gioco di parole col nome della band Rage Against Machine], Brynjolfsson e McAfee sostengono che i computer ed i robot stanno rapidamente penetrando ogni settore dell'economia, e stanno prendendo il posto del lavoro umano, sia nelle funzioni altamente qualificate che in quelle a basso livello. Quel che è centrale per la loro visione, attiene all'elaborazione come informazione digitale di gran parte del mondo, dai libri e la musica fino alle reti stradali, ora disponibili in una forma che può essere copiata e trasmessa istantaneamente in tutto il mondo quasi gratuitamente.
Le applicazioni che questo tipo di dati ci permettono sono enormemente varie, soprattutto in combinazione con i progressi della robotica e con i sensori del mondo fisico. In uno studio ampiamente citato prodotto dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, in cui viene svolta un'analisi dettagliata delle differenti professioni, i ricercatori dell'Università di Oxoford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne hanno ipotizzato che il 47% degli attuali posti di lavoro negli Stati Uniti sono suscettibili di sostituzione da parte dell'automazione grazie agli attuali sviluppi tecnologici. Stuart Elliot, dell'OCDE, utilizza la medesima fonte di dati, ma con un approccio differente che riguarda una finestra di tempo più lunga, e suggerisce che tali numeri potrebbero arrivare perfino all'80%. Questi numeri sono il risultato si di decisioni  soggettivi di classificazione che di metodologie quantitative complesse, per cui sarebbe un errore riporre troppa fede in qualsiasi numero esatto. Anche così, dovrebbe essere chiaro che la possibilità di un rapido approfondirsi dell'automazione in un futuro prossimo è ben reale.

Brynjolfsson e McAfee sono forse i più noti profeti dell'automazione veloce, ma il loro lavoro si inserisce in un genere che sta esplodendo. Ad esempio, l'imprenditore di software, Martin Ford esplora un terreno similare nel suo lavoro del 2015, "Rise of the Robots" ["L'ascesa dei robot"]. Il libro si basa in gran parte della medesima letteratura ed arriva a molte delle stesse conclusioni a proposito della marcia dell'automazione. Le suo conclusioni sono molto più radicali - un Reddito di Base Universale garantito, che verrà discusso più avanti in questo libro, occupa un posto di rilievo: gran parte dei suoi rivali letterari, per contrasto, offrono al massimo qualche sciocchezza a proposito dell'istruzione.
Che ci siano molte porse che stanno scrivendo sull'automazione rapida e socialmente distruttiva non significa che questa sia una realtà imminente. Come ho detto precedentemente, l'ansietà circa le tecnologie per economizzare lavoro è in realtà una costante che attraversa tutta la storia del capitalismo. Ma non possiamo, di fatto, vedere molte indicazioni secondo le quali ci sia ora la possibilità - se non necessariamente la realtà - di ridurre drasticamente la necessità di lavoro umano. Alcuni esempi dimostreranno le diverse aree nel quale il lavoro umano sta venendo ridotto o interamente eliminato.
Nel 2011, l'IBM è andata sotto i riflettori con il suo super-computer Watson, che ha gareggiato e vinto contro avversari umani nel gioco e nello spettacolo Jeopardy. Sebbene questa fosse solo una mossa pubblicitaria un po' futile, ha anche dimostrato il fatto che Watson è idoneo anche per altri compiti più di valore. È già stata testata la tecnologia per aiutare i medici ad elaborare gli enormi volumi di letteratura medica allo scopo di poter meglio diagnosticare i pazienti, che era in realtà lo scopo originale del sistema. Ma esso viene lanciato anche come "‘Watson Engagement Advisor" ["Consulente all'Occupazione Watson"], che viene destinato al servizio di assistenza ai clienti e alle applicazioni di supporto tecnico. Nel rispondere alle domande dei clienti posteo in linguaggio naturale in forma libera ["free-form natural language queries"], quest'applicazione avrebbe il potenziale per sostituire i lavoratori dei call center (molti dei quali in posti come l'India) che attualmente svolgono tale lavoro. La revisione dei documenti legali, un processo che consuma una quantità enorme di tempo e che tradizionalmente viene realizzato per mezzo di legioni di avvocati principianti, è l'altra promettente applicazione tecnologica.
L'altra area di progresso rapido è la Robotica, l'interazione delle macchine con il mondo fisico. Nel corso del XX secolo, sono stati fatti grandi progressi per quel che attiene allo sviluppo su larga scala di robot industriali, del tipo di quelli che potrebbero operare su una linea di montaggio di automobili. Ma solo recentemente hanno cominciato a sfidare le aree in cui si distinguono gli esseri umani: raffinate abilità motorie e pilotaggio su terreni fisici complessi. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sta ora sviluppando macchine per cucire controllate da computer per evitare la manutenzione da parte della Cina come fonte per le uniformi. Fino a pochissimi anni fa, le automobili senza pilota venivano considerate al di là della portata delle nostre capacità tecniche. Ora, la combinazione della tecnologia dei sensori e delle banche dati di mappature complete sta per rendere ciò realtà, per quel che riguarda progetti come la flotta autonoma di Google. Intanto, una compagnia chiamata Locus Robotica ha lanciato un robot che può elaborare richieste all'interno di giganti magazzini, sostituendo potenzialmente quei lavoratori che attualmente lavorano, in condizioni assai spesso brutali, per Amazon ed altre compagnie.
L'automazione va avanti anche sul fronte della stessa agricoltura, che nell'antichità consumava la quota maggiore di lavoro umano, ma che ora costituisce una piccola frazione dei posti di lavoro, soprattutto negli Stati Uniti e negli altri paesi ricchi. In California, i cambiamenti nelle condizioni economiche messicane e la repressione alla frontiera hanno avuto come conseguenza la scarsità di mano d'opera. Questo ha spinto gli imprenditori agricoli ad investire in nuovi macchinari che possano svolgere anche compiti delicati come la raccolta della frutta, che finora avevano bisogno della precisione della mano umana. Questo sviluppo illustra una ricorrente dinamica capitalistica: quando i lavoratori diventano più forti e più ben pagati, aumenta la pressione sui capitalisti per automatizzare le attività. Quando c'è un'immensa riserva di mano d'opera agricola migrante a basso salario, una raccolta di frutta del costo di $100.000 appare come un'indulgenza stravagante, uno spreco. Ma quando i lavoratori scarseggiano e possono esigere salari migliori, l'incentivo a sostituirli con del macchinario si intensifica.

La tendenza all'automazione attraversa tutta la storia del capitalismo. In anni recenti è stato silenziato ed un po' abbandonata, a causa dell'enorme iniezione di forza lavoro a buon mercato ricevuta dal capitalismo globale dopo il collasso dell'Unione Sovietica e la virata verso il capitalismo da parte della Cina. Ma ora anche le stesse compagnie cinesi stanno affrontando la scarsità di forza lavoro e cercano nuove forme per automatizzare e robotizzare.
Si possono fare moltissimi esempi. Robot anestesisti per sostituire medici. Una macchina per produrre panini con hamburger che può sostituire i dipendenti di McDonald. Stampanti 3D di grande formato che possono fabbricare case intere nell'arco di un giorno. Ogni settimana porta nuove cose curiose.
L'automazione è destinata ad avanzare ancora di più, fino alla forma più antica e più fondamentale del lavoro delle donne. Negli anni 1970, la teorica femminista radicale Shulamith Firestone parlava a proposito di nutrire i neonati negli uteri artificiali, come di un modo per liberare le donne dalla loro posizione di dominate nei rapporti di riproduzione. Fantasticate a quell'epoca, simili tecnologie stanno diventando realtà. Scienziati giapponesi hanno avuto successo nel far crescere delle capre a partire da uteri artificiali, e nella gestione di embrioni umani, per un periodo arrivato a 10 giorni. Altri esperimenti relativi all'applicazione di questa tecnologia sui bambini umani sono stati limitati sia dalla legge che dalla scienza; il Giappone vieta la gestazione artificiale degli embrioni umani per un periodo superiore a quattordici giorni. Molte donne trovano sconcertante una tale prospettiva, e preferiscono l'esperienza di una gravidanza. Ma di certo molte altre preferirebbero essere liberate da un tale fardello.
La maggior parte di questo libro darà per scontata l'ipotesi degli ottimisti dell'automazione, secondo cui nell'arco di pochi decenni potremo vivere in un mondo stile Star Trek dove - come afferma Kevim Drum nella rivista Mother Jones - «i robot potranno fare tutto quello che fanno gli umani, e lo faranno senza lamentarsi, 24 ore al giorno», e «la scarsità di beni di consumo comuni è una cosa del passato». Tali affermazioni sono suscettibili di essere delle iperboli, cose che vanno bene per le ipotesi di questo libro: il mio approccio è deliberatamente iperbolico, e tratteggia dei tipi ideali semplificati al fine di illustrare dei principi fondamentali. Non importa se assolutamente tutto verrà fatto dai robot, ma che una grande quantità di lavoro attualmente svolto da umani si trova in procinto di essere automatizzata.
Ma la cosa rimane ancor molto controversa per quanto riguarda la velocità a cui l'automazione può andare avanti e quali processi saranno soggetti ad essa. Quindi, prima di immergerci nelle possibili conseguenze sociali di questo processo, vorrei tratteggiare alcuni dei rapidi recenti sviluppi nella cosiddetta "seconda era delle macchine" nella quale viviamo. Si tratta di un proseguimento - o, come la vedono alcuni, solo di un'estensione - della prima era delle macchine dell'automazione industriale su larga scala.

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Paura di un pianeta meccanico
Le obiezioni alle profezie ed ai timori riguardo un'ampia automazione rientrano in tre categorie. Alcuni dicono che le preoccupazioni per le nuove tecnologie sono esagerate e pretenziose, e che nella maggior parte dei settori ci troviamo ancora molto lontani dall'essere in grado di sostituire il lavoro umano. Altri, seguendo un argomento tradizionale che deriva dal pensiero economico dominante, affermano che i come avvenuto per i precedenti episodi di rapida crescita della produttività anche questi sfoceranno semplicemente in nuovi tipi di lavoro ed in nuovi posti di lavoro, non porteranno ad una massiccia disoccupazione, e anche questa volta non sarà diverso. Infine, alcuni a sinistra la considerano solo un'ossessiva attenzione per degli scenari futuristici di automazione, come una distrazione da quei compiti politici più urgenti come l'investimento e lo stimolo governativo, e il raggiungimento di migliori condizioni nell'ambiente lavorativo e salariale.

La morte del Lavoro Umano: Una Grande Esagerazione?
Quelli che ritengono che si dia un'importanza esagerata alla tecnologia, normalmente si rifanno alle statistiche pubbliche sulla crescita della produttività. Un'adozione su larga scala di robot e macchinari, dovrebbe apparire come un rapido aumento, nelle statistiche che misurano la produttività proveniente dalla manodopera - vale a dire, la quantità di prodotto che può essere generato dal lavoratore. Ma in realtà, in anni recenti, il tasso di crescita della produttività è stato relativamente basso. Negli Stati Uniti, il "‘Bureau of Labor Statistics" riporta che dal 2007 al 2014 il tasso di variazione annuale è stato solamente dell'1,4%. Si tratta di un ritmo più lento di quello che c'era in qualsiasi momento degli anni precedenti, e la metà di quel che si era visto durante il boom della crescita negli anni del dopoguerra.
Questo porta alcuni ad affermare che le descrizioni aneddotiche relative ai grandi risultati nella robotica e nell'informatica sono ingannevoli, poiché in realtà non vengono tradotti in risultati economici. Gli economisti Tyler Cowen e Robert Gordon Sono strettamente associati a questo punto di vista. Doug Henwood, del "Left Business Observer", difende un'ipotesi simile, dalla parte della sinistra.
Per economisti più conservatori come Cowen e Gordon, il problema è soprattutto tecnico. Le nuove tecnologie non sarebbero poi così incredibili, quanto meno da un punto di vista economico, paragonate ad invenzioni come l'elettricità o il motore a combustione interna. Secondo Cowen, raccogliamo ancora "i frutti dei rami più bassi", e a meno che non riusciamo a trovare dell'altro, siamo destinati ad una crescita lenta per tutto il futuro prevedibile.
I critici di sinistra, come Henwood e Dean Baker del "Center for Economic and Policy Research", non attribuiscono i problemi alla tecnologia, ma alle decisioni politiche. Per loro, dare la colpa all'automazione per il debole recupero economico dopo la recessione del 2008, è una distrazione di fronte a quello che è il problema reale, che riguarderebbe le politiche governative, le quali non si sono focalizzate a sufficienza sullo stimolo fiscale e sulla creazione di posti di lavoro, impedendo così il raggiungimento della piena occupazione. Da questo punto di vista, preoccuparsi per i robot vuol dire sia sia controfattuali (poiché la crescita della produttività è in ribasso) che politicamente reazionari.

Ma ci sono altri, compresi Brynjolfsson e McAfee, che affermano addirittura che, anche se all'orizzonte non c'è nessuna grande scoperta fondamentale, c'è molto da guadagnare a perfezionare e a ricombinare le scoperte già esistenti. Questo è un modello storico comune; ad esempio, molte delle nuove tecnologie che abbiamo scoperto durante la Grande Depressione, economicamente non sono ancora state sfruttate del tutto fino al boom del dopoguerra. Inoltre, anche quelle trasformazioni che non si riflettono in termini numerici sul Prodotto Interno Lordo (PIL) possono ancora contribuire alla nostra ricchezza nazionale - come avviene con il gigantesco volume di informazioni liberamente e rapidamente disponibili su Internet, le quali hanno aumentano immensamente la mia efficienza nello scrivere questo libro.
Ai critici di sinistra della narrativa dell'automazione, possiamo offrire una risposta più complessa: la loro analisi è rigorosamente corretta, ma non guarda abbastanza lontano. Questo perché le recenti tendenze della produttività possono ancora essere lette come se fossero i riflessi di una curiosa tensione fra l'equilibrio dell'economia nel breve periodo ed il suo potenziale a lungo termine.
Le prime due recessioni del XXI secolo hanno portato a dei recuperi deboli, caratterizzati da salari stagnati e ad un'alta disoccupazione. In questo contesto, l'esistenza di un'immensa riserva di disoccupati e di lavoratori con un basso salario agisce come un disincentivo per gli imprenditori ad automatizzare i processi. Dopo tutto, perché sostituire un lavoratore con un robot, se il lavoratore costa meno? Ma un corollario di un tale principio è che, se i salari dovessero cominciare a salire ed il mercato del lavoro a restringersi, gli imprenditori comincerebbero a rivolgersi alle nuove tecnologie che sono attualmente in via di sviluppo, anziché pagare il costo della manodopera aggiuntiva. Come sostengo nei capitoli seguenti, attualmente, i veri impedimenti a che ci sia un mercato del lavoro più solido sono politici, non tecnologici.

L'Eterno Ritorno dell'Automazione
Per generazioni gli economisti dominanti hanno portato avanti la medesima argomentazione circa il presunto pericolo che l'automazione rappresenta per la forza lavoro. Se alcuni lavori venissero automatizzati - affermano - la forza lavoro verrebbe liberata per poter occupare altri nuovi, e forse migliori, tipi di lavoro. Si riferiscono all'agricoltura, che un tempo occupava la maggior parte della forza lavoro, ma che ora in un paese come gli Stati Uniti occupa soltanto intorno al 2% della forza lavoro. Il declino dell'occupazione nell'agricoltura ha liberato lavoratori che sono andati nelle fabbriche a costituire la grande economia manifatturiera industriale della metà del XX secolo. E la successiva automazione e delocalizzazione dell'industria, a sua volta, ha portato ad un'esplosione nel settore dei servizi.
Perché, allora, oggi sarebbe diverso? Se il robot si prende il posto di lavoro, sicuramente ci sarà un'altra cosa all'orizzonte. Chi sostiene tale posizione, può fare riferimento a precedenti ondate di ansietà riguardo l'automazione, come quella che c'è stata negli anni 1990 e che ha prodotto libri come "The End of Work" di Jeremy Rifkin, e "The Jobless Future" di Stanley Aronowitz e Bill DeFazio. La stessa cosa era successa quando, nel 1948, il matematico e cibernetico Norbert Weiner, nel suo libro "Cybernetics", metteva in guardia circa il fatto che con «la seconda rivoluzione industriale, questa volta cibernetica», ci stavamo avvicinando ad una società nella quale «l'essere umano medio non avrà niente da vendere che possa valere il denaro di qualcuno ». Sebbene molti posti di lavoro sono di fatto andati persi a causa dell'automazione, ed il tasso di disoccupazione è cresciuto ed è diminuito con i cicli economici, la crisi sociale dovuta ad un'estrema disoccupazione di massa che molti di questi autori avevano previsto non è arrivata.
È ovvio, questo è quel genere di argomento che può essere svolto solo da alture accademiche, mentre si ignora il dolore e le sofferenze causate ai lavoratori reali che vengono dislocati, indipendentemente dall'essere o meno in grado di trovare un nuovo lavoro, eventualmente. E ci sono perfino alcuni che fanno parte del mainstream che sospettano, forse, che stavolta sarà davvero diverso. L'editorialista del New York Times, e vincitore del premio Nobel, Paul Krugman è forse il personaggio di maggior spicco a dare voce a simili dubbi. Ma il problema dell'analisi tradizionale consiste nel fatto che essa rappresenta il processo come se si trattasse di un'inevitabilità scientifica, quando in realtà stiamo parlando di una scuola sociale e politica.
Oggi, la maggior parte delle lotte lavoriste sono rivolte ad aumenti salariali ed a benefici o a miglioramenti delle condizioni di lavoro. Ma fino all'epoca della Grande Depressione degli anni 1930, anche i movimenti socialisti e lavoristi lottavano per (e conquistavano) riduzioni progressive nella durata della giornata di lavoro. Nel XIX secolo, il movimento per le dieci ore ha aperto la strada al movimento per le 8 ore di lavoro. Ancora negli anni 1930, l'American Federation of Labor era a favore di una legge che riducesse la settimana lavorativa a 30 ore. Ma dopo la seconda guerra mondiale, per una serie di ragioni, la riduzione del lavoro è gradualmente sparita dall'agenda lavorista. La settimana di 40 (o di 40 e rotte) ore è stata data per scontata, e la questione  è diventata quella di sapere solamente quanto sarebbe stata remunerata.

Questo avrebbe sorpreso l'economista John Maynard Keynes, il quale negli anni 1930 aveva ipotizzato che le persone nel nostro tempo avrebbero lavorato solo 15 ore la settimana. Ciò significherebbe lavorare meno di un terzo della settimana di 40 ore lavorative che viene ancora ampiamente considerata come un modello. E comunque, a partire dall'epoca di Keynes, la produttività è più che triplicata, e quindi sarebbe stato possibile approfittare di tale crescita sotto forma di tempo libero per le masse. Ma ciò non è avvenuto, non perché sia tecnicamente impossibile, ma a causa dei risultati delle scelte politiche e delle lotte sociali del XX secolo.
Alcuni sostengono che è valsa la pena mantenere così alte le ore di lavoro, perché ha reso possibile tutto l'apparato del nostro mondo moderno che Keynes non avrebbe mai nemmeno immaginato, come gli smartphone, i televisori a schermo piatto, e Internet. Poiché quando la maggioranza delle persone pensa di lavorare meno ore, essi pensano che sacrificherebbero l'apparato della nostra società capitalista avanzata, tutte cose che essi apprezzano, come i loro smartphone e i loro televisori.
Questo può essere vero fino ad un certo punto, e dipende dal grado di riduzione del lavoro di cui stiamo parlando. Ma ridurre il tempo di lavoro può anche ridurre il costo della vita, in quanto questo ci dà il tempo di fare cose per le quali, diversamente, dovremmo pagare qualcuno per farle, e riduce costi come la dislocazione che dobbiamo pagare solo per andare al lavoro. Ed inoltre, la nostra attuale società è piena di lavori che non aggiungono nulla alla prosperità umana e che esistono soltanto per arricchire i conti di altre persone - cose come i prestiti per lo studio (che non esisterebbero se l'istruzione fosse gratuita) e i tanti posti in grandi banche che facilitano la speculazione, pericolosa e destabilizzante.
In ogni caso, se decidessimo di rendere la riduzione del lavoro una priorità sociale, potremmo ridurre gradualmente le ore in base all'aumento della produttività, di modo che le persone possano gradualmente lavorare sempre meno, mantenendo lo stesso standard di vita.
E anche se alcuni potrebbero preferire di continuare a lavorare di più per accumulare sempre più cose, probabilmente molti non lo faranno. Anche se non potremo mai arrivare alla pura utopia del post-lavoro, possiamo certamente avvicinarci ad essa. Diminuire la settimana di lavoro da 40 ore a 30 ci farebbe muovere in tale direzione. Lo stesso avverrebbe con qualcosa tipo un Reddito Universale di Base, che garantisca un reddito minimo ad ogni cittadino, indipendentemente dal lavoro o da qualsiasi altro obbligo legato ai regimi tradizionali di welfare.

Tecnofilìa come Tecnica di Distrazione
Anche supponendo che, nel lungo periodo, le questioni e le possibilità politiche poste dall'automazione siano reali, un buon argomento può essere quello circa il come affrontiamo sfide a breve termine più significative. Come si è detto precedentemente, la crescita della produttività - che dà indicazioni per quel che riguarda il numero di lavoratori realmente necessari per l'economia - negli ultimi anni è stata di fatto molto debole. Inoltre, la mancanza di crescita di posti di lavoro dopo le recenti recessioni economiche può essere plausibilmente attribuita  non ai robot, ma ai fallimenti delle politiche governative.
Questo perché, a breve termine, la mancanza di posti di lavoro non può essere attribuita all'automazione, ma alla mancanza di ciò che nel gergo degli economisti è noto come "domanda aggregata". In altre parole, la ragione per cui i datori di lavoro non assumono più lavoratori è perché non ci sono abbastanza persone che comprano i loro prodotti, la ragione per cui le persone non stanno comprando i loro prodotti è perché non hanno abbastanza soldi - o perché non hanno un posto di lavoro, o perché i loro salari sono molto bassi.
La soluzione a questa situazione, secondo le tradizionali teorie economiche keynesiane, è che il governo aumenti la domanda attraverso una combinazione di politica monetaria (abbassando i tassi di interesse), di politica fiscale (investimenti governativi nella creazione di posti di lavoro, per esempio, attraverso la costruzione di infrastrutture), e regolamentazione (come un salario minimo più alto). E anche se i governi, dopo la Grande Recessione del 2008, hanno abbassato i tassi di interesse, non lo hanno fatto in combinazione con un investimento sufficiente alla creazione di posti di lavoro, portando così ad una "ripresa senza occupazione", il cui prodotto - ossia, la quantità di beni e di servizi pubblici - ha cominciato nuovamente a crescere lentamente, ma l'occupazione non è tornata ai suoi livelli pre-recessione.
Non dissento dal fatto che i rimedi keynesiani tradizionali rimangono importanti e necessari, laddove arrivano. E condivido la preoccupazione secondo la quale, in alcuni casi, lo spettro del futuro robot viene usato dal centro e dalla destra per distrarre l'attenzione dai problemi a breve termine dei disoccupati, per far loro sembrare che la disoccupazione e la sottoccupazione di massa siano semplicemente inevitabili.
Ma continuo anche a pensare che valga la pena parlare di che cosa potrebbe significare per tutti noi un futuro altamente automatizzato. In parte perché, al contrario degli scettici, credo davvero che le possibilità date dalle tecnologie addizionali all'economia del lavoro si stanno sviluppando rapidamente, anche se ancora non si stanno facendo strada dentro l'economia in una forma che si rifletta nelle statistiche relative alla produttività. E anche perché, se venissero superati gli ostacoli a breve termine delle insufficienti politiche economiche di austerità e di stimolo governativo, avremmo ancora di fronte la questione politica che ci troviamo di fronte dalla rivoluzione industriale: le nuove tecnologie di produzione porteranno ad un maggior tempo libero per tutti, o rimarremo bloccati in un ciclo nel quale i guadagni di produttività saranno solo a beneficio di pochi, mentre il resto di noi lavorerà più duramente che mai?

Lo spettro dei cambiamenti climatici
Finora, ho discusso solo a proposito di uno dei problemi che ho citato all'inizio, la minaccia costituita dalla tecnologia che sostituisce i lavoratori. Ma il secondo problema, la crisi ecologica, è almeno altrettanto importante per quel che riguarda il futuro del capitalismo e della specie umana. Il consenso scientifico a proposito del cambiamento climatico è evidente. Le emissioni umane di carbonio stanno riscaldando l'atmosfera, facendola arrivare a temperature molto alte, a condizioni climatiche estreme, e alla crisi dovuta a mancanza di acqua e di altre risorse essenziali. Le differenze di opinione riguardano principalmente la gravità degli effetti, quanto saranno distruttivi per la civiltà umana, e il come (o perfino il "se") sarà possibile adeguarsi a simili rotture.
Senza dubbio, molti lettori staranno pensando che questo non sposta di un centimetro i limiti del dibattito, dal momento che esistono coloro che negano completamente l'esistenza del cambiamento climatico causato dall'uomo. Certamente queste persone esistono, sono sostenuti da interessi corporativi che hanno portafogli enormi ed hanno importanti sostegni all'interno dei grandi partiti politici. Ma sarebbe un errore scambiare queste persone per degli interlocutori che propongono un dibattito scientifico serio. La piccola frangia di commentatori e di scienziati che promuovono teorie negazioniste possono anche essere sinceri nelle loro affermazioni riguardo la ricerca della verità, ma i loro finanziatori devono essere considerati dei cinici, le cui azioni seguono un'agenda differente.
Come vedremo in un capitolo successivo, la questione chiave sul cambiamento climatico non è se esso si stia verificando, ma è piuttosto quella di chi sopravvivrà al cambiamento. Anche negli scenari peggiori, gli scienziati non stanno affermando che la Terra diverrà del tutto inabitabile. Quel che avverrà - e che sta avvenendo - è che le lotte per gli spazi e per le risorse si intensificheranno via via che l'ambiente si degraderà. In questo contesto - e soprattutto in concomitanza con le tendenze tecnologiche discusse sopra - potrebbe essere possibile che una piccola élite continui ad inquinare il pianeta, proteggendo il proprio benessere, e condannando così alla miseria la maggioranza della popolazione mondiale. È una simile agenda, e non un serio coinvolgimento con la scienza climatica, quella che spinge i titani delle corporazioni in direzione del negazionismo.
Ma non tutti i capitalisti sono compromessi con il negazionismo. Alcuni che riconoscono l'importanza del cambiamento climatico, tuttavia, insistono sul fatto che possiamo avere fiducia nel funzionamento del libero mercato, per poter generare una soluzione. Ma anche se questo non è del tutto assurdo, è abbastanza fuorviante - dal momento che gli eco-capitalisti illuminati finiscono per non essere poi così diversi dai trogloditi negazionisti.
Gli imprenditori, ci garantiscono, troveranno nuove tecnologie verdi che ci allontaneranno dalla dipendenza dei combustibili fossili, senza l'intervento governativo. Ma in molti casi, queste innovazioni riguardano soluzioni verdi di alta tecnologia che sono accessibili sono ai ricchi. Allo stesso tempo, soluzioni realmente globali vengono respinte, anche quando, come nel caso della tassazione del carbonio, si tratta di soluzioni apparentemente "di mercato". Le iniziative che eccitano gli eco-capitalisti sono, invece, quei progetti fantastici di "geo-ingegneria" che tentano di manipolare il clima, nonostante l'efficienza incerta e gli sconosciuti effetti collaterali di simili procedimenti. Come avviene per i fratelli Koch e la loro cricca negazionista, gli eco-capitalisti sono preoccupati soprattutto della preservazione delle loro prerogative e degli stili di vita delle élite, anche se danno alla loro agenda una riverniciatura più ambientalista. Torneremo su tutto questo nel capitolo 4. Ora torno allo scopo specifico di questo libro.

Politica al Comando
Perché mai - potrebbe chiedersi il lettore - sarebbe necessario scrivere un altro libro sull'automazione e sul futuro post-lavoro? Negli ultimi anni, l'argomento si è trasformato in un sottogenere;  Brynjolfsson e McAfee ne sono solo un esempio. Altri esempi includono "Rise of the Robots" di Ford e gli articoli di Derek Thompson su "Atlantic", di Farhad Manjoo su "Slate", e di Kevim Drum su "Mother Jones". Ognuno insiste sul fatto che la tecnologia sta rapidamente rendendo obsoleto il lavoro, ma accennano vagamente a dare una risposta al problema che è quello di garantire che la tecnologia porti ad una prosperità condivisa, piuttosto che ad una crescente disuguaglianza. Tutt'al più, come Brynjolfsson e McAfee, ricadono in familiari sciocchezze liberali: l'imprenditorialità e l'istruzione permetterebbero a tutti di prosperare, anche se tutti i nostri attuali posti di lavoro saranno stati automatizzati.
Quello di cui si sta parlando in tutte queste narrazioni, quello che voglio iniettare in questo dibattito, è la politica, e specificamente la lotta di classe. Come ha rilevato Mike Konczal dell'Istituto Roosevelt, queste proiezioni di un futuro post-lavoro vanno nella direzione di un nebuloso utopismo tecnocratico [che continua ad essere anche il pensiero di Keynes], una «proiezione in avanti del fordismo-keynesiano del passato», nel quale, «la prosperità porta ad una ridistribuzione che a sua volta porta al tempo libero e ai beni pubblici». Quindi, anche se la transizione potrebbe essere difficile riguardo alcuni punti, dovremmo in fin dei conti essere contenti degli sviluppi tecnologici sempre più accelerati ed avere fiducia nel fatto che tutto andrà per il meglio, nel migliore dei mondi possibili.
Questo panorama ignora quelle che sono le caratteristiche centrali che definiscono la società nella quale attualmente viviamo: le relazioni di classe e di proprietà capitalistiche. Chi trae beneficio dall'automazione, e chi perde con essa, sono in ultima analisi conseguenze non dei robot stessi, ma di coloro ai quali i robot appartengono. Quindi, è impossibile comprendere il dispiegarsi della crisi ecologica e gli sviluppi nell'automazione senza comprendere in tutto questo una terza crisi attraverso la quale le prime due vengono mediate: la crisi dell'economia capitalista - né il cambiamento climatico e né l'automazione possono essere comprese come problemi (o soluzioni) in sé. Invece, quel che è pericoloso è il modo in cui si manifestano in un'economia dedicata alla massimizzazione dei profitti e della crescita, nella quale il denaro ed il potere vengono mantenuti nelle mani di una piccola élite.
Nel mondo, la crescente disuguaglianza di ricchezza e reddito è diventata oggetto sempre più crescente dell'attenzione degli attivisti, dei politici, e dei commentatori sui media. Occupy Wall Street ha fatto riecheggiare lo slogan "siamo il 99%", richiamando l'attenzione sul fatto che nel corso dei decenni tutta la crescita economica è stata accumulata da parte dell'1%, o meno, della popolazione. L'economista Thomas Piketty ha messo a segno un improbabile best-seller con "Capital in the 21st Century", un grosso trattato sulla storia della ricchezza e della prosperità di un mondo sempre più disuguale.
Le due crisi che ho descritto riguardano fondamentalmente anche la disuguaglianza. Riguardano la distribuzione della scarsità e dell'abbondanza, riguardano chi pagherà il prezzo del danno ecologico e chi godrà dei benefici di un'economia automatizzata altamente produttiva. Esistono modi di affrontare l'impatto umano sul clima del pianeta, ed esistono modi per garantire che l'automazione assicuri prosperità materiale a tutti, anziché impoverimento e disperazione per la maggioranza. Ma questi possibili futuri esigono un tipo di sistema economico ben diverso da quello che è diventato dominante a livello globale alla fine del XX secolo.

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Quattro Futuri
Nel suo documentario di tre ore sulla rappresentazione di Los Angeles nei film, "Los Angeles Plays Itself", lo studioso di cinema Thom Andersen suggerisce che «se possiamo apprezzare i documentari per le loro qualità drammatiche, forse possiamo apprezzare anche i film di fiction per le loro rivelazioni documentarie.» In questo libro ho cercato di incorporare questo punto di vista.
Non si tratta di un normale testo di saggistica, ma non è neanche fiction, e neppure farà si che io venga inserito in un nuovo genere "futurista". Piuttosto si tratta di un tentativo di usare gli attrezzi delle scienze sociali combinandoli con quelli della fiction speculativa al fine di esplorare lo spazio delle possibilità nel quale si svilupperanno i nostri futuri conflitti politici. Possiamo definirla come una sorta di "fantascienza sociale".
Un modo utile per differenziare la scienza sociale dalla fantascienza, consiste nel fatto che la prima attiene alla descrizione del mondo che esiste, laddove la seconda specula su un mondo che potrebbe esistere. Ma in realtà, entrambe sono una miscela di immaginazione e di investigazione empirica, che si uniscono in modi diversi. Entrambe tentano di comprendere fatti empirici ed esperienze vissute come qualcosa che è formato da forze strutturali astratte - e non direttamente percepibili.
Alcuni tipi di fantascienza sono più di altri in sintonia con le particolarità delle struttura sociale e dell'economia politica. In "Star Wars", in realtà non ci importa dei dettagli a proposito dell'economia politica galattica. E quando l'autore cerca di dar loro corpo - come fa George Luca nel ridicolizzato prequel di "Star Wars" - queste serve solo ad incasinare la storia. In un mondo come quello di "Star Trek", al contrario, questi dettagli sono davvero importanti. Sebbene superficialmente, sia "Star Wars" che "Star Trek" possono sembrare favole di viaggi spaziali e di eroismo che si assomigliano, sono due tipi di fantascienza fondamentalmente diversi. La prima esiste solamente per i suoi personaggi e la sua narrativa mitica, mentre la seconda pretende di inserire i suoi personaggi in un mondo sociale, riccamente e logicamente strutturato.
Questo è in relazione a (e trascende) una distinzione che viene comunemente fatta, fra i fan della fantascienza, tra fantascienza "hard" e "soft". La prima si suppone che sia più plausibile grazie al suo basarsi sulle scienze attuali. Ma questa distinzione riflette solo il preconcetto dei fan tradizionali e il loro feticizzare le scienze naturali. La distinzione più importante, come ho accennato, è quella fra storie che prendono sul serio la costruzione del loro mondo, e quelle che non lo fanno. Così quella che di solito viene chiamata fantascienza "soft" a volte racconta storie avventurose nello stile di "Star Wars", ma a volte fa un uso molto più ricco delle scienze sociali. Allo stesso tempo, molta di quella che si presume sia la sua controparte più "hard" descrive in dettaglio l'esegesi della Fisica insieme ad una comprensione ingenua, o totalmente convenzionale, delle relazioni sociali e del comportamento umano. La serie dei romanzi "Fall Revolution" di Ken MacLeod, che racconta una storia di convulsioni politiche e di colonizzazione spaziale, si basa sulla sua comprensione dell'economia politica marxista e sui suoi trascorsi personali nel movimento socialista scozzese degli anni 1970. È su questa base, piuttosto che a partire da una ricerca sulla fisica dei viaggi spaziali e sul terraforming di Marte, cose che conferiscono "durezza" ai suoi romanzi.

La fantascienza come strumento di analisi e di critica sociale risale almeno a "La macchina del tempo", di H.G. Wells - se non addirittura a "Frankenstein", di Mary Shelley - ma il settore si è arricchito soprattutto negli ultimi anni. Per quel che riguarda la cultura popolare, questo lo si può vedere nell'enorme successo di fiction distopiche giovanili come "Hunger Games" e "Divergent". Ma mentre queste storie sono allegorie relativamente trasparenti della società di classe in cui viviamo, non è difficile trovarne altre che si sono spinte ancora più avanti rispetto ai limiti del genere, speculando sulle implicazioni a lungo termine delle attuali tendenze. L'interazione tra reale e potenziale si manifesta con maggior forza nelle fiction ambientate nel futuro prossimo da quegli autori che collocano le loro storie solo a pochi passi dal presente, come avviene con William Gibson nella sua serie di romanzi dell'inizio del XXI secolo ("Pattern Recognition" ["L'accademia dei Sogni"], "Spook Country" [Guerreros], "Zero History"), con Cory Doctorow in "Homeland" ed in "Walkaway". In questi romanzi ricorre spesso il significato assunto dalla tecnologia informatica, dall'automazione, dalla vigilanza, dalla distruzione ecologica - temi che risuonano in tutti questi libri.
Hanno cominciato ad emergere anche le implicazioni politiche dei diversi mondi immaginati. Charless Stross è sia un autore di fantascienza che un blogger assiduo sotto una veste più social-scientifica. La sua critica è rivolta in special modo al sotto-genere dello "steampunk". Asserisce che questo sotto-genere rappresenta una sorta di XIX secolo idealizzato, pieno di zeppelin e di marchingegni a vapore, ma nasconde le principali relazioni di quell'epoca: la miseria dickensiana della classe lavoratrice e gli orrori del colonialismo. Ma Stross, ed altri come Ken MacLeod e China Miéville, hanno usato la fiction rispetto al futuro, al passato, e a mondi alternativi, per dipingere un quadro più completo riguardo i conflitti sociali e di classe.
A mio avviso, sono preferibili i futuri immaginari rispetto a quelle opere di "futurismo" che tentano di predire direttamente il futuro, oscurandone l'incertezza e la contingenza ad esso inerente e che, in questo modo, trattano il lettore come se fosse un idiota. Nelle aeree discusse in questo libro, un futurista paradigmatico sarebbe qualcuno come Ray Kurzweil, che predice con sicumera che nel 2049 i computer raggiungeranno un'intelligenza simile a quella umana, con ogni sorta di conseguenti trasformazioni globali. In genere tali pronostici finiscono per essere non convincenti come profezie e insoddisfacenti come fiction. La fantascienza sta al futurismo come la teoria sociale sta alla teoria della cospirazione: un'impresa assai più ricca, più onesta e più umile. Oppure, per dirla in un altro modo, è sempre più interessante leggere una spiegazione che procede dal generale al particolare (teoria sociale) o dal particolare al generale (fantascienza), piuttosto che cercare di andare dal generale al generale (futurismo) o dal particolare al particolare (cospirazionismo).
Rosa Luxemburg, la grande teorica e organizzatrice socialista dell'inizio del XX secolo, ha reso popolare uno slogan: «La società borghese si trova ad un bivio, o la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie.» Ciò è tanto più vero oggi di quanto non sia mai stato. In questo libro, vi suggerisco non solo due, ma quattro risultati possibili - due socialismi e due barbarie, se preferite. I quattro capitoli che seguono possono essere considerati come ciò che il sociologo Max Weber chiamava "tipi ideali": modelli puri e semplificati di come può essere organizzata la società, progettati mettere in luce alcune questioni chiave con cui ci confrontiamo oggi e che affronteremo nel futuro - parte scienza sociale parte fantascienza. La vita reale, è ovvio, è sempre molto più complicata, ma un "tipo ideale" serve a mettere a fuoco alcune questioni specifiche, mettendone da parte altre.
Il fine è quello di sviluppare una comprensione del nostro presente e mappare in forma stilizzata i possibili futuri. La supposizione che sta alla base è che una tendenza all'automazione crescente continuerà in tutti i settori dell'economia. Inoltre, non condivido la supposizione che è stata fatta dalla maggioranza degli economisti del XX secolo, secondo la quale: anche se alcuni lavori sono stati eliminati dalla meccanizzazione, il mercato genererà automaticamente nuovi posti di lavoro sufficienti a compensare le perdite.
Nello spirito di lavorare con dei "tipi ideali", faccio una supposizione possibilmente ancora più forte: ogni necessità di lavoro umano relativo al processo di produzione può essere eliminata, ed è possibile vivere una vita di puro tempo libero mentre le macchine svolgono tutto il lavoro. In realtà, questo non è logicamente possibile, se stiamo immaginando un mondo in cui le macchine ci servono, anziché controllarci come avviene con le macchine nel film "Matrix". Quanto meno, dovremo fare un po' di lavoro per gestire e mantenere le macchine. Tralascio tutto il lavoro umano per evitare di impantanarmi in un dibattito che ha sempre tormentato la sinistra sin dalla rivoluzione industriale: come una società post-capitalista amministrerebbe il lavoro e la produzione in assenza di capi capitalisti con il controllo sui mezzi di produzione. Questo è un dibattito importante (e ancora in corso), ma se lo tralascio posso chiarire meglio le questioni che mi preoccupano. Così, la costante, nella mia equazione, è che il cambiamento tecnologico tende all'automazione perfetta.

star-trek

Se l'automazione è la costante, la crisi ecologica ed il potere di classe sono le variabili. La questione ecologica riguarda, più o meno, semplicemente quanto andrà a finir male in seguito agli effetti del cambiamento climatico e dell'esaurimento delle risorse. Nella migliore delle ipotesi, il passaggio alle energie rinnovabili si combinerà con i nuovi metodi per migliorare ed invertire i cambiamenti climatici, e di fatto sarà possibile usare tutta la nostra tecnologia robotica perché ci fornisca un alto standard di vita per tutti. In altre parole, lo spettro di possibilità va dalla scarsità all'abbondanza.
La questione del potere di classe si riduce a come finiremo per affrontare le enormi disuguaglianze di ricchezza, di reddito e di potere politico nel mondo di oggi. Nella misura in cui i ricchi sono in grado di mantenere il loro potere, vivremo in un mondo in cui loro sfruttano i benefici della produzione automatizzata, mentre il resto di noi paga il prezzo della distruzione ecologica - se riusciamo a sopravvivere. Nella misura in cui possiamo muoverci in direzione di un mondo di maggior uguaglianza, il futuro sarà caratterizzato da una qualche combinazione di sacrificio e di prosperità condivisi, a seconda di dove ci troviamo nell'altra dimensione, ecologica.
Pertanto, il modello postula che possiamo finire in un mondo che può essere di scarsità o di abbondanza, insieme a gerarchia oppure ad uguaglianza. Questo genera quattro possibili combinazioni, secondo una tabella di 2 X 2:

                       Abbondanza    Scarsità

Uguaglianza  Comunismo       Socialismo

Gerarchia      Rentismo        Sterminismo

Simili esercizi non hanno precedenti. Una tipologia del genere la si può trovare in un articolo del 1999 di Robert Costanza su "The Futurist" [Robert Costanza, “Will It Be Star Trek, Ecotopia, Big Government, or Mad Max?”, The Futurist 33: 2, 1999, p. 2]. Qui, abbiamo quattro scenari: Star Trek, Grande Governo, Ecotopia e Mad Max. Per Costanza, però, i due assi sono "visione del mondo e politica", da una parte, e "vero stato del mondo", dall'altra. In questo modo, le quattro caselle vengono riempite secondo le preferenze ideologiche umane che corrispondono alla realtà: per esempio, nello scenario del "Grande Governo", il progresso verrebbe limitato dai modelli di sicurezza, dal momento che gli "scettici tecnologici" negherebbero la realtà delle risorse limitate.
Il mio contributo a questo dibattito consiste nel sottolineare il significato del capitalismo e della politica. In questa visione, sia la possibilità di limiti tecnologici che le restrizioni politiche di una società divisa in classi, sono restrizioni "materiali". Ed è l'interazione fra esse a determinare la strada da prendere.
L'esistenza del capitalismo - in quanto sistema di potere di classe, con un'élite governante che cercherà di preservare sé stessa in ogni futuro possibile - è dunque un tema centrale strutturante di questo libro, un tema che ritengo sia assente da quasi tutti gli altri tentativi di comprendere la traiettoria di un un'economia post-industriale altamente automatizzata. Gli sviluppi tecnologici ci forniscono un contesto per le trasformazioni sociali, ma non le determinano mai direttamente; il cambiamento è sempre mediato attraverso le lotte per il potere tra masse di persone organizzate. La questione riguarda chi è che vince e chi è che perde, e non - come avviene per gli autori tecnocratici come Costanza - chi ha la visione "corretta" della natura oggettiva del mondo.
Quindi, per me, quello di abbozzare i molteplici futuri è un tentativo di lasciare un posto in cui il politico è contingente. La mia intenzione non è quella di affermare che un futuro finirà per apparire automaticamente grazie al funzionamento magico di fattori tecnici ed ecologici provenienti dall'esterno. Al contrario, significa insistere sul fatto che il luogo in cui finiremo per arrivare sarà il risultato della lotta politica. Al giorno d'oggi, l'intersezione di fantascienza e politica viene spesso associata alla Destra "libertaria" ed alle sue fantasie techno-utopiche deterministe; spero così di rivendicare la lunga tradizione della Sinistra che mescola la speculazione immaginativa con l'economia politica.

Il punto di partenza di tutta quest'analisi è quello secondo cui il capitalismo finirà e che, come ha detto la Luxemburg, o abbiamo «la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie». Perciò questo esperimento mentale è un tentativo di valutare i socialismi ai quali possiamo arrivare se una Sinistra che risorge riesce ad avere successo, e le barbarie alle quali potremmo essere condannati se falliamo.
Ciò non significa impegnarsi in una escatologia secolare che stabilisce una data sicura per la fine del capitalismo - troppi socialisti e predicatori apocalittici hanno commesso questo errore. È troppo semplicistico pensare a delle fini diverse in ogni caso; etichette per i sistemi sociali come "capitalismo" e "socialismo" sono astrazioni, e non esiste un momento singolo nel quale possiamo dire in maniera definitiva che uno si trasforma nell'altro. La mia visione è più vicina a quella del sociologo Wolfgang Streeck:

« La mia immagine della fine del capitalismo - una fine che credo stia già arrivando - è quella di un sistema sociale in cui vige uno smantellamento cronico, per ragioni che gli sono proprie, indipendentemente da un'alternativa praticabile. Anche se non possiamo sapere esattamente quando e come il capitalismo scomparirà e a che cosa assisteremo in seguito, quel che conta è che non c'è nessuna forza a disposizione che sia in grado di invertire quelle che sono le tre tendenze distruttive - la caduta della crescita, la disuguaglianza sociale e l'instabilità finanziaria - e di impedire loro di rafforzarsi reciprocamente.» ( "How will capitalism end?" (Come finirà il capitalismo?) di Wolfgang Streeck )

Ciascuno dei quattro capitoli che seguono è dedicato ad uno dei quattro futuri: comunismo, rentismo, socialismo e sterminismo. Oltre che delineare un futuro plausibile, ciascuno di questi quattro capitoli enfatizza un tema chiave che è rivelante per il mondo in cui ora viviamo, e che assumerebbe un'importanza particolare per quel futuro specifico. Il capitolo sul comunismo si sofferma sul modo in cui costruiamo senso quando la vita non è centrata sul lavoro salariato e su quelle gerarchie e conflitti che sorgono in un mondo non più strutturato sulla narrativa principale del capitalismo. La descrizione del "rentismo" è in gran parte una riflessione sulla proprietà intellettuale e su che cosa avviene quando la forma della proprietà privata viene applicata sempre più a modelli immateriali ed ai concetti che guidano la nostra cultura ed economia. La narrativa sul socialismo parla della crisi climatica e della nostra necessità di adattarci ad essa; ma anche di come il modo in cui una parte della vecchia sinistra si aggrappa alle nozioni di natura e di mercato, ci impedisce di vedere che né la feticizzazione del mondo naturale, e né l'odio per il mercato sono necessariamente sufficienti, e nemmeno rilevanti, per tentare di costruire un mondo ecologicamente stabile al di là del capitalismo. Infine, la narrazione dello "sterminismo" è la storia della militarizzazione del mondo, un fenomeno che comprende tutto, a partire dalla guerra in Medio Oriente, fino a ragazzi neri che vengono fucilati dalla polizia per le strade delle città statunitensi.
Ci stiamo già allontanando rapidamente dal capitalismo industriale, così come lo intendevano nel XX secolo, e ci sono poche possibilità che si possa tornare in quella direzione. Ci muoviamo verso un futuro incerto. Spero di riuscire a fornire un contesto ampio per quel che riguarda il futuro, ma non voglio creare nessuna sensazione di certezza. Sono d'accordo con David Brin, che ha scritto fantascienza, ma che ha ricevuto anche l'etichetta di "futurista", quando dice di essere «molto più interessato ad esplorare più le possibilità che le probabilità, perché lì possono accadere molte più cose di quanto realmente accada.»
L'importanza di valutare le possibilità, anziché le probabilità, risiede nel fatto che questo mette al centro la nostra azione collettiva, mentre fare previsioni certe basandosi sulle probabilità incoraggia solo la passività. Nello stesso saggio, Brin cita "1984" di George Orwell, come una "profezia di auto-prevenzione" [nell'originale, “self-preventing prophecy”] che ha contribuito a prevenire lo scenario che descriveva, impedendo che si realizzasse. Ora alla luce della "Guerra al Terrorismo" e delle rivelazioni dell'ex-analista della NSA (National Security Agency) Edward Snowden, a proposito della vigilanza dell'Agency, ci si potrebbe chiedere quanto sia stata davvero auto-preventiva quella profezia, ma comunque in generale il punto rimane.
Se questo libro darà in qualche modo un piccolo contributo a rendere auto-preventivi gli oppressivi futuri che vi vengono descritti - e a rendere auto-realizzabili le alternative egualitarie a tali futuri - allora avrà servito al suo scopo.

- Peter Frase -


fonte: O Minhocário "O progresso é a concretização de Utopias." – Oscar Wilde

martedì 28 novembre 2017

Trittico

Broch

«Un giorno, ho scoperto i romanzi di Ernesto Sabato; ne "L'angelo dell'Abisso"(1974), che trabocca di riflessioni come quelle dei romanzi dei due grandi viennesi [Broch e Musil], egli dice testualmente: nel mondo moderno, abbandonato dalla filosofia, frammentato da centinaia di specializzazioni scientifiche, il romanzo rimane come l'ultimo osservatorio da cui si può abbracciare la vita umana come un tutto. Mezzo secolo prima di lui, dall'altra parte del pianeta, il Broch de "I sonnambuli", il Musil de "L'uomo senza qualità". avevano pensato la stessa cosa. Nell'epoca in cui i surrealisti elevavano la poesia al rango di essere la prima fra tutte le arti, essi concedevano al romanzo tale posto supremo (Milan Kundera, “Il Sipario”, Adelphi)

«L'errore del surrealismo è consistito nel credere che bastasse la rivolta e la distruzione, che bastasse la libertà totale. No, non basta la libertà. Perché una volta che la libertà si trova nelle nostre mani, dobbiamo sapere cosa farcene di questa nostra libertà. Dal momento che finché si tratta solo di distruggere, tutto procede per il meglio e facciamo anche esperienza di una certa gioia. Perciò, la logica fine di un surrealista conseguente è il suicidio o il manicomio, e perciò dobbiamo rendere omaggio a quegli uomini che, come Nerval o Artaud, sono stati conseguenti fino alla fine. Ma né la follia né il suicidio possono essere una vera soluzione per l'essere umano. È qui, su questo punto, che ci allontaniamo dal surrealismo.» (Ernesto Sabato, "Uomini e ingranaggi: riflessioni sul denaro, la ragione e il collasso del nostro tempo"(1951)

«Il poema epico ed il dramma sono, secondo la loro essenza, anti-individualisti o, nel migliore dei casi, a-individualisti. Solo col romanzo - il romanzo italiano è ancora in buona parte pre-individualista -, solo con Cervantes avviene che la totalità dell'individuo, si potrebbe dire quasi perfino la sua totalità lirica, sia arrivata ad una comprensione totale, illimitata, sia internamente che esternamente, adeguata sia psicologicamente che socialmente. La forma del romanzo era pronta anche per essere l'arte adeguata al XIX secolo, e a sviluppare nel suo naturalismo individualista la massima fioritura.» (Herman Broch, L'arte ed il suo stile alla fine del XIX secolo)

lunedì 27 novembre 2017

Il capitale automatico

macron

Quella che segue è la traduzione della postfazione all'ultimo libro di Tom Thomas, "Le capital automate", in uscita in Francia a fine novembre per le "Editions Jubarte". Inutile sottolineare che naturalmente l'analisi e le considerazioni espresse più avanti, si attagliano benissimo anche alla situazione italiana, pure in mancanza [per ora] del "fattore Macron"!


A proposito di "Populismo": un commento delle elezioni del 2017 in Francia
- Tom Thomas -

Queste elezioni sono un'occasione per tornare al termine "populismo", termine mistificante come si vedrà, ma abbondantemente utilizzato dai media per stigmatizzare il "Front Nazional" ed il partito degli "Insoumis". La crescita esponenziale dell'influenza di questi partiti riguardo un numero non trascurabile di proletari, ha in effetti mostrato assai bene quanta importanza abbia avuto sostenere che non serva a niente sostituire, come essi sostengono, dei dirigenti del "Comitato per la politica monetaria" (MPC) con degli altri dirigenti che affermano di essere "anti-sistema", mentre aspirano solo a dirigere loro stessi quel sistema con lo scopo dichiarato di stimolarne meglio la sua "crescita", vale a dire la valorizzazione e l'accumulazione di capitale.
Questo piccolo libro ci ha ricordato il modo in cui l'opera geniale di K. Marx consente di affermare che, nel Comitato per la politica monetaria, è il movimento di auto-valorizzazione del capitale -  in altre parole, il capitale che esiste solo in quanto valore che si valorizza - a dirigere gli agenti della produzione; e non loro a dirigere il capitale. Loro, vale a dire principalmente coloro che occupano i posti più elevati nel mondo aziendale, nei media, nella finanza e, in particolare, negli apparati dello Stato, e che si sforzano di assicurare una riproduzione sempre più allargata del capitale (la sua accumulazione). Loro sono - e non possono essere altro se non - i «funzionari del capitale».
Fra l'altro, queste elezioni sono state, sia per la crescita dei voti "populisti" che per la crescita dell'astensione, una manifestazione dell'aggravarsi della crisi politica. Questa tendenza si accompagna in maniera evidente a quella del costante degrado, dovuto alla crisi, della situazione delle masse popolari. Vale a dire, dovuto alle decisioni che devono necessariamente essere prese da quei funzionari, per cercare di rilanciare la valorizzazione del capitale, senza tuttavia poter ottenere questo risultato a causa degli ostacoli che vi si frappongono, fra i quali, al primo posto abbiamo la drastica diminuzione della quantità di lavoro produttivo di valore che il capitale può utilizzare, diminuzione dovuta al livello elevato raggiunto grazie al progresso della scienza applicata alla produzione (sviluppo dei macchinari automatizzati). Cosa che li porta a dover ampliare sempre più questo degrado, l'impoverimento delle masse, nel mentre che allo stesso tempo indurisce il lato totalitario e poliziesco del potere borghese al fine di contenere la resistenza suscitata da una tale politica (un indurimento che aumenterà ulteriormente se la resistenza assumerà consistenza). In un modo di produzione in cui viene non solo generato lo Stato che deve garantire la valorizzazione del capitale, ma viene generata anche l'ideologia che lo Stato deve e può assicurare, nel momento in cui questa crescita, l'occupazione, il livello di vita, la salute, in breve, il benessere generale, non sorprende affatto che i partiti politici che lo governano - ed in generale coloro che sono la sedicente "élite" - siano ritenuti responsabili di ottenere il contrario, e siano di conseguenza screditati. E lo sono ancora di più quando, in una simile situazione di impoverimento, il carrierismo, il nepotismo, le prebende, i privilegi - tutte cose che sono moneta corrente in quest'ambiente - appaiono ancora più insopportabili di quanto lo fossero prima.
L'astensionismo record registrato a queste elezioni, straordinariamente di massa fra la popolazione proletaria, indica come l'esperienza si faccia strada poco a poco: non è con questo tipo di elezioni che può migliorare la situazione. Per circa il 50% dei francesi che sono in età di poter votare, e che l'hanno fatto, la stragrande maggioranza lo ha fatto a favore di partiti che si sono presentati come «dégagistes» (gli "Insoumis" ed il Fronte National, "En Marche"). Questa propensione al «dégagisme» [«rovesciamento totale»] è una tendenza che si sta diffondendo un po' dappertutto nel mondo, e che si riflette in una formula apparentemente radicale che è di moda in numerosi paesi: «che se ne vadano via tutti». Come se tutto ciò potesse servire a cambiare qualcosa, se non il fatto che le funzioni dei capitalisti non verrebbero più garantite dalle stesse persone di prima.

Nel 2013, ho scritto in "La montée des extrêmes, de la crise économique à la crise politique": «È assai probabile che [...] le forze politiche tradizionali dell'alternanza destra-sinistra, che, ormai da molto tempo, non costituiscono più un'alternativa, siano ormai screditate al punto da dover cedere il posto ad una di quelle forze che vengono definite come "populiste", "protestatarie", "estremiste"». Non avevo previsto che, per contrattaccare tale eventualità, - benché non rimettesse in discussione il "Comitato per la politica monetaria" (MPC), cosa che non le conveniva poiché accentuerebbe indubbiamente il caos economico, rovinando ulteriormente il processo di valorizzazione - la borghesia sarebbe stata così furba da surfare anch'essa l'onda del "dégagisme", costruendo, in modo semplice e rapido, su tutti i principali mezzi di comunicazione, la candidatura di un Macron ed il movimento "En Marche"; vale a dire, sostituendo la zuppa col pan bagnato, il vecchio personale screditato con lo stesso personale più giovane, ma deciso ad applicare la medesima politica. Un successo che tuttavia è stato assai relativo, dal momento che solo un magro 15% di elettori francesi, quasi tutti borghesi, ha votato a favore di questa manovra. Ciò detto, l'esperienza Macron non farà altro che allontanare in maniera molto provvisoria l'ascesa del cosiddetto "populismo", dal momento che non sarà altro che ricerca, accentuata, della tendenza al degrado accelerato delle condizioni di vita del proletariato, ed anche della piccola-borghesia. Poiché, se il Fronte National egli Insoumis hanno anche il "dégagisme" nei loro programmi, non si accontenteranno di cambiare i dirigenti screditati. Cercheranno di intercettare la rabbia, proponendo un'altra politica che sarebbe una sedicente soluzione alla crisi della valorizzazione del capitale. In particolare, promettono di stimolare una crescita del capitale che venga messa al servizio di un popolo che si suppone vada al potere per mezzo dei suoi intermediari. Questo dovrebbe avvenire attraverso un rafforzamento del ruolo dello Stato che, organizzando un ritorno al protezionismo ed al nazionalismo, dominerebbe i mostri della finanza, del liberismo, delle multinazionali, ed obbligherebbe il capitale a ridurre i dividendi, ad investire, ad assumere, ad aumentare i salari (diretti ed indiretti), a finanziare i servizi pubblici, ecc.. E per di più, al colmo della stupidità e della falsità, tutto ciò nel momento stesso in cui le condizioni oggettive della sua valorizzazione sono, storicamente ed inesorabilmente, in via d'estinzione.
Nella misura in cui questo cosiddetto "populismo" attira nella sua rete una parte non trascurabile di coloro i quali sono infuriati nel vedere che la situazione si deteriora sempre più implacabilmente, e quanto questa situazione sia particolarmente reazionaria e pericolosa, in quanto è assai efficace nello sviare nel soffocare la lotta di classe, vale allora la pena ricordare che cosa serve per poter combatterlo meglio.
Osserviamo innanzitutto che questi tribuni dalla gola forte che si rivolgono al "popolo" perché occupi a suo profitto il posto delle "élite" fanno confusione. Per loro, il popolo esisterebbe come un'unità reale, come se ci fosse un interesse comune in quel 99% che per loro sono il popolo, a fronte di quell'1% che sono l'oligarchia. Come se questa parola magica che apre tutte le porte potesse far sparire la realtà delle classi sociali contrapposte o, quanto meno, gli interessi divergenti e contraddittori. L'utilizzo che fanno di questa parola non è il risultato di una semplice opportunità data dal linguaggio. Per loro, "popolo" si riferisce all'idea di una vera e propria comunità di individui, che ha ovviamente anche come nome quello di Nazione, di Patria, puri prodotti dell'ideologia borghese, se ne esiste una. Il popolo è nazionale, e la Nazione deve difendersi contro le Nazioni concorrenti, contro l'oligarchia cosmopolita (globalista) senza Patria, contro gli stranieri, ecc..

Ma la cosa più importante non è che ci siano degli ideologhi e leader populisti che tentano di fare esistere e di dar vita al mito del popolo unito in un comune nazionalismo. Il fatto è che, per combatterlo, bisogna comprendere perché, su quali basi materiali, numerosi individui, ivi compresi i proletari, vi aderiscono. E queste basi sono quelle dei rapporti di produzione che definiscono il capitale e generano le ideologie del «feticismo della merce» e dello Stato che sono state brevemente spiegate in questo piccolo libro.
Come è stato qui ricordato, la cosa più importante di riferisce al fato che, nel "Comitato per la politica monetaria" (MPC), è il capitale - i quale esiste solo come «valore che si valorizza» - ad imporre necessariamente ed implacabilmente le leggi di questa valorizzazione agli agenti della produzione, ed il ruolo dei capitalisti e dei loro Stati è quello di fare del loro meglio perché ciò riesca. Ma dal momento che questi agenti vedono l'economia solo come relazioni fra le merci, che loro conoscono solo attraverso delle forme apparenti del valore che non sembrano avere alcun rapporto con la sua sostanza (il lavoro socializzato sotto la forma del lavoro astratto), forme apparenti quali i prezzi, i profitti, il tasso di interesse e di cambio, ecc., essi credono fermamente che si tratti di forme naturali, eterne, che regolano questi rapporti fra cose, fra le merci. E che tutto ciò sia calcolabile, gestibile razionalmente. Non sanno che in realtà non fanno altro che proporre che quel che pensano sia (e sovente si sbagliano) la miglior valorizzazione del capitale, la sua maggior riproduzione possibile. Tutto ciò mentre ignorano quella che è l'unica base: il lavoro umano produttivo del plusvalore. Da qui, per esempio, la loro totale incomprensione della crisi attuale ed il loro essere impotenti a risolverla. Si tratta della conseguenza della loro incapacità di comprendere - e ciò avviene perché significherebbe mettere in discussione, cosa che si scontra con i loro interessi di classe - che l'economia è determinata dalle relazioni di proprietà e di produzione fra gli uomini, dai quali risulta un modo di divisione del lavoro e dei prodotti (del loro scambio). L'economia non è una scienza naturale, ma è storica e politica.
La seconda cosa designa l'ideologia secondo la quale lo Stato non sarebbe altro che un apparato tecnico, amministrativo, che potrebbe quindi, nelle mani di un governo ad hoc, "popolare", assicurare una gestione razionale ed equa del«l'economia» (come se essa potesse essere qualcosa di diverso dalla valorizzazione del capitale) e messo così al servizio di un mitico «interesse generale». Ad esempio, per i "populisti" basterebbe solo che lo Stato decidesse di modificare a beneficio dei lavoratori il rapporto tra salari e profitti, e/o reinvestire una più larga parte dividendi, anziché distribuirlo agli azionisti, e/o svalutare la moneta uscendo dall'euro, per rilanciare la crescita del capitale, creare dei posti di lavoro ed il benessere per tutti.
Come abbiamo visto, le basi materiali di questi feticismi, di queste ideologie che ne derivano, sono le relazioni commerciali e capitaliste di proprietà, altrimenti dette di produzione. Sono queste a far sì che tali relazioni fra degli uomini prendano la forma apparente di rapporti fra cose, fra merci. E come inoltre abbiamo visto, ne consegue anche che, lungi dal poter dirigere l'economia, sono gli uomini ad essere diretti dalla volontà del valore-soggetto, dal movimento inesorabile dell'auto-valorizzazione del capitale automatico. Nel "Comitato per la politica monetaria" (MPC) il processo di produzione non esiste altro che come supporto del processo di valorizzazione. Il capitale esiste solo come valore che si valorizza. Il capitalista, come funzione ed unica qualità ha solo quella di essere il più efficace possibile nella messa in opera della valorizzazione del capitale che egli personifica, e se fallisce spariscono entrambi. Voler perseguire una politica contraria a queste leggi senza pretendere di abolire ciò su cui si basano, significa andare incontro al caos ed al fallimento. D'altronde tutti gli economisti, di destra come di sinistra, non fanno che spiegare, ciascuno con le proprie ricette (liberali, sociali, keynesiani, monetaristi, ecc.) che cosa andrebbe fatto affinché la crescita del capitale - per cui del PIL, della valorizzazione - sia la più alta possibile.

Che cos'è allora il "populismo"? È il fatto che una massa eterogenea di individui chiamata "popolo" reagisca alla crisi che colpisce tutti - ed è questo il loro unico punto comune - seguendo le dichiarazioni mistificatrici della stessa ideologia borghese. E lo fa prendendole alla lettera, spingendone i suoi miti fino all'estremo. Soprattutto rivolgendosi allo Stato, in quanto è esso, secondo quest'ideologia, che dovrebbe poterlo fare e rappresentare l'interesse generale, che dovrebbe costringere i capitalisti ed il capitale (che suppone siano solamente dei mezzi di produzione, delle cose di cui si può disporre a piacere) a servire il popolo, a preferire «l'essere umano» piuttosto che i profitti, a sviluppare la produzione indipendentemente dalla valorizzazione, ed altre sciocchezze del genere. Fanno uso del linguaggio cosiddetto di sinistra, che consiste nel pretendere di poter innalzare il livello di vita del popolo ripristinando l'autorità dello Stato sull'economia, e la grandezza della Nazione disprezzata e calpestata dai capitalisti apolidi (globalisti). Un funesto inganno, che nondimeno costituisce il fattore soggettivo della loro popolarità.
La borghesia dominante ha fabbricato ed usato a suo uso e consumo il termine "populismo" al fine di stigmatizzare. Da parte delle élite al potere, si è voluto condannare con disprezzo le esigenze delle persone che non capiscono niente delle leggi cosiddette "economiche", e per cui le leggi della valorizzazione sono naturali, indipendenti dai rapporti sociali, e non specifiche al "Comitato per la politica monetaria" (MPC). Secondo loro, solo delle persone ignoranti, eccitate da dei demagoghi, si opporrebbero cercando di "detronizzare" le élite che applicano quelle leggi. E che élite! Talmente saggi da non aver per niente compreso quali sono le cause della più grande crisi della storia del capitalismo, così come sono assolutamente impotenti ad impedirne l'aggravarsi. Al contrario, tutte le misure che prendono per tentare di raggiungere il loro scopo non fanno altro che riunire tutte le condizioni di tale aggravamento, fra le altre cose sotto le sembianze di un prossimo e gigantesco crack finanziario. Non riescono a capire perché il movimento storico ed automatico della valorizzazione del capitale è sul punto di auto-bloccarsi, in quanto è il capitale stesso che distrugge le sue basi: il lavoro umano produttore di plusvalore.
Protestare contro le misure di pauperizzazione generalizzata che continuano ad essere aggravate dalla borghesia, è il minimo, «il minimo sindacale» come si suol dire. Non è questo ciò che si può rimproverare agli individui che sono attratti dai partiti "populisti". E se fra di loro esiste effettivamente ancora molta ignoranza per quanto attiene alle cause della situazione, non è certo peggiore dell'ignoranza mostrata delle arroganti élite che loro vorrebbero "detronizzare". Perciò, ovviamente, la critica da sviluppare nei confronti del cosiddetto "populismo" è del tutto differente da quella che viene rivolta ad esso dalle "élite" intellettuali, economiche, politiche e mediatiche borghesi che, aggiungendo alla loro crassa ignoranza un'incredibile pedanteria, «scoreggiano ben più in alto dei loro culi»!
Gli è che, in quanto estremismo borghese, il "populismo" non solo non apporta alcuna soluzione praticabile alla crisi della valorizzazione del capitale (e su questo le cosiddette élite borghesi hanno ragione, salvo che anch'esse si trovano nella medesima situazione) ma, peggio ancora, e come d'altra parte è stato dimostrato dall'esperienza degli anni 1930, questo estremismo è la preparazione ad una sorta di neofascismo del 21° secolo. Diciamo piuttosto, poiché lo sviluppo del capitalismo oggi non è affatto lo stesso di allora (questo punto verrà sviluppato ulteriormente), vediamo una rapida accelerazione della tendenza storica del capitalismo al totalitarismo, conseguenza di una forte accentuazione della concentrazione del capitale che ha generato la crisi, e come risposta all'aggravarsi degli antagonismi  che la crisi implica.

Ho inserito questo breve commento a proposito delle elezioni del 2017 in Francia, come postfazione al mio libro attuale, perché essa illustra assai bene il fatto che capire perché il lavoro concreto che si socializza come lavoro astratto, i prodotti nei quali il lavoro si oggettivizza come valore di scambio e come denaro, perché il valore è un soggetto automatico, perché il capitale è auto-valorizzazione, perché tutte queste sono delle questioni importanti per la lotta di classe: poiché, fra le altre cose, significa comprendere che il suo fine non è quello di rimpiazzare dei funzionari del capitale con altri funzionari, come propongono i "populisti", ma di abolire il capitale in quanto relazione di produzione e di appropriazione.

- Tom Thomas - Pubblicato su Démistification il 20 Ottobre 2017 -

fonte: Démistification