lunedì 30 ottobre 2017

Errori grammaticali

checov

«Per quanto si riferisce a me, non provo appagamento alcuno per il mio lavoro, perché lo trovo meschino» scriveva Čechov all'amico Suvorin nel 1888. «Se è ancor troppo presto per lamentarmi, non lo è mai abbastanza per domandarmi: mi occupo di una cosa seria o di sciocchezze?». Il viaggio che, armato solo del passaporto e di una tessera di corrispondente di «Novoe vremja», intraprenderà due anni più tardi per studiare la vita dei deportati nella colonia penale di Sachalin è la drastica risposta a questo interrogativo. Sbarcato ai confini del mondo, in un luogo dove Puškin e Gogol' sono incomprensibili e inutili e «l'anima è invasa da quel sentimento che, forse, ha già provato Odisseo mentre navigava per mari sconosciuti», Čechov riuscirà – malgrado il boicottaggio delle autorità e un clima che «predispone ai pensieri più foschi» – a penetrare nell'inferno della katorga e a denunciare, con una precisione e un'obiettività dietro le quali fremono pietà e indignazione, il fallimento di un sistema dominato da ingiustizia e corruzione, e colpevole di infliggere «il grado infimo di umiliazione sotto il quale un uomo non può scendere». Ma riuscirà anche a fissare nitidissime visioni di sconvolgente bellezza: le contadine che nella valle dell'Arkaj, per ripararsi dalla pioggia, si legano intorno al capo gigantesche foglie di bardana e «sembrano scarabei verdi»; le lunghe strisce di sabbia che separano il Golfo di Nyj dal mare tetro e malvagio; i giljaki, dai larghi sorrisi beati che possono lasciare posto a un'aria «dolorosamente pensierosa, un po' come le vedove»; le donne ainu dalle labbra tinte di blu, chine sui pentoloni come streghe a rimestare la zuppa di pesce.

(dal risvolto di copertina di: Anton Čechov: L'isola di Sachalin, a cura di Valentina Parisi, Adelphi, euro 22)

Il dottor Cechov alla scoperta del più infernale lager zarista
- Lo scrittore si recò sulla sperduta isola di Sachalin per trasformare in letteratura il dolore dei carcerati-
di Davide Brullo

Sachalin è un errore grammaticale. «Nel 1710 alcuni missionari di Pechino disegnarono su ordine dell'imperatore cinese una mappa della Tataria». Presso l'estuario di un fiume, i geografi appuntano Saghalien-angahata, «che in mongolo significa rupi del fiume nero». La mappa sbarca in Francia, viene incorporata tra le nuove conoscenze giunte dal lontano Oriente. Con un piccolo, esemplare, errore: Saghalien, che «con tutta probabilità si riferiva a una scogliera», diventa Sachalin, cioè il nome dell'«isola nel suo complesso».
Così, da un «innocente fraintendimento» nasce il più immaginifico e feroce progetto concentrazionario di era zarista: una legione di prigioni, disseminate lungo quell'isola lontana, nel mare orientale, tra la Russia estrema e il Giappone, simile a un coccodrillo, che costituisce l'incipit dei Gulag, le mirabili carceri di Stalin.
«A parte l'Australia in passato e la Caienna ai nostri giorni, Sachalin è l'unico luogo in cui sia possibile studiare una colonizzazione fatta con dei criminali... Sachalin è un luogo di inammissibili sofferenze». Anton Cechov era descritto da tutti quelli che lo conoscevano come l'uomo più buono della terra. Quanto a lui, Anton, figlio di un droghiere fallito e violento, si laureò in medicina nel 1884, tra estenuanti ristrettezze economiche, ed era ossessionato dal male. Amava studiare, con chirurgica pazienza «solo le persone indifferenti sono in grado di vedere le cose chiaramente», appunta, come monito etico per lo scrittore l'umanità del sottosuolo, i malvagi, i vili, i colpevoli. Nel 1890 Cechov sta ottenendo i primi successi come scrittore di sketch narrativi, e pur con qualche inciampo comincia la carriera da drammaturgo. Appena due anni prima ha scritto uno dei suoi racconti indimenticabili, La steppa. Cechov ha trent'anni, deve mantenere la vasta famiglia sconciata dai debiti, decide di rischiare tutto e parte per andare dove nessuno s'è mai arrischiato, a Sachalin, l'inferno dei deportati. «Dai libri che ho letto e leggo, risulta che abbiamo fatto marcire nelle nostre prigioni milioni di persone per nulla, senza riflettere, in modo barbaro. Oggi l'intera Europa civilizzata sa che i responsabili non sono i carcerieri, ma ognuno di noi; e la cosa non dovrebbe riguardarci, non dovrebbe interessarci? No, vi assicuro che il viaggio a Sachalin è necessario», scrive all'amico editore Aleksej Suvorin, che tenta di far desistere lo scrittore da quel progetto inutile, massacrante, forse letale per la sua carriera.
La letteratura russa, in fondo, si fonda sul contrasto al potere dominante, è radicata nella tenebra della prigionia. Come sommo precedente letterario, Cechov ha le Memorie di una casa morta, il muscolare reportage in cui Dostoevskij dettaglia, nel 1861, gli anni di confino e di lavori forzati in Siberia (dal 1850 al 1854), accusato di collusione con gli antizaristi. In seguito ci saranno i libri di Vasilij Grossmann e di Varlam Salamov, di Aleksandr Solzenicyn, di Nadezda Mandel'stam. Cechov, però, ha in mente qualcos'altro.
Ricaccia la morale ai margini del racconto sull'ergastolo, ad esempio: «sono profondamente convinto che tra cinquanta o cent'anni si guarderà al carattere perpetuo delle nostre pene con la stessa perplessità e lo stesso imbarazzo che oggi destano in noi lo strappare le narici o il tagliare un dito della mano sinistra» lasciando balenare la pura realtà dei fatti, degli uomini. Così, sullo sfondo maestoso di una «natura inimitabile, imponente e meravigliosa» e onnivora, Cechov dà vita, con la precisione di un miniaturista, a migliaia di esistenze perdute. Scopriamo, così, in questo libro che rivela al suo interno almeno una decina di romanzi possibili, la storia di «Manina d'Oro», «una donna minuscola, magra, con i capelli già bianchi e il viso sciupato, da vecchia», che «un tempo era talmente bella da far perdere la testa ai suoi carcerieri» e un giorno «ha tentato la fuga travestita da soldato» e probabilmente ha ucciso un bottegaio e rubato «56mila rubli ai danni del colono ebreo Jurovskij». Poi c'è l'ergastolano Pischikov che «ha ucciso a staffilate sua moglie, una donna colta che era al nono mese di gravidanza, dopo averla torturata per sei ore» e «la fanciulla Ul'jana» che «aveva ucciso il suo bambino e l'aveva seppellito» e che era convinta di essere assolta dai giudici perché il pupo l'aveva «soltanto sepolto vivo». Alcuni carcerati sono surreali, hanno i tratti di un pupazzo di Dickens: i due fratelli, ex principi persiani, ad esempio, «finiti qui per un omicidio commesso nel Caucaso», che «vanno in giro vestiti alla persiana, sfoggiando alti berretti di astrakan», oppure il «vecchietto che, fin dal primo giorno trascorso sull'isola, si è sempre rifiutato di lavorare; a tutt'oggi nessuna misura coercitiva ha avuto la meglio sulla sua invincibile ostinazione, autenticamente ferina».
Il viaggio di Cechov dura sette mesi. Due anni dopo pubblica L'isola di Sachalin (ora ripubblicata, dopo le antiche edizioni Mursia, Editori Riuniti e Mondadori, da Adelphi, per la cura di Valentina Parisi, pagg. 464, euro 22). Il libro, allora, passò sotto silenzio, come un alieno, una deviazione dal corso canonico della letteratura. Oggi, così ricco di descrizioni vivide, di dati scientifici e di acuti antropologici è di una attualità sconvolgente, pare scritto dopo i rapporti di Giuseppe Tucci, i viaggi funambolici di Fosco Maraini, i colti appunti di Bruce Chatwin, onore al genio che fa sbandare ogni cronologia. Al termine della gita nelle carceri e nelle colonie dei prigionieri, Cechov si ricorda di essere un medico e stila un capitolo sul Sistema sanitario di Sachalin. Dopo un lungo repertorio delle malattie dei deportati, «comincio a visitare i malati in ambulatorio». Cechov si siede su una seggiola e cura i prigionieri. Dopo aver descritto il male, è come se volesse salvare l'umanità intera. Come se volesse debellare per sempre il male dal mondo. La letteratura, ora, ormai, non basta più.

- Davide Brullo - Pubblicato sul Giornale del 15/6/2017 -

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