giovedì 29 giugno 2017

Venezuela

venezuela

A proposito della situazione reale in Venezuela, e soprattutto a proposito della «modernizzazione di recupero» (Robert Kurz) alter-capitalista che si cela dietro il "naso-finto" della "rivoluzione bolivariana piace tanto all'anti-capitalismo tronco di sinistra ed ai sotto-rami neo-leninisti, terzo-mondialisti, anti-imperialisti tronchi (l'alter-imperialismo del campismo uscito dalla guerra fredda) e decisamente populista, si può consigliare il libro di Rafael Uzcategui, "Venezuela : révolution ou spectacle?" (éditions Spartacus, 2011) - egli stesso giornalista e militante di lunga data di "El Libertario".

Malgrado le delusioni causate da un secolo, e malgrado i crimini che sono stati commessi in suo nome, il socialismo continua a suscitare la speranza di una vita migliore, in una società libera ed egualitaria. Inoltre, quando in un paese ricco di petrolio com'è il Venezuela, un governo forte di consecutive vittorie elettorali, annuncia che si è impegnato sul cammino del socialismo, di un socialismo nuovo, ecco che attira su di sé, da tutto il mondo, il sostegno entusiasta di una parte della sinistra.
Ma un veemente discorso contro l'Impero degli Stati Uniti, l'odio che gli viene testimoniato da alcuni dei suoi avversari, le vendite a buon mercato di petrolio a dei regimi amici, le espropriazioni di imprese locali o straniere sono sufficienti a giustificare un simile entusiasmo?
Rafael Uzcátegui, militante libertario venezuelano, collaboratore da molto tempo a "El Libertario", periodico anarchico di Caracas, e responsabile del servizio di inchiesta di PROVEA, un'organizzazione venezuelana di difesa dei diritti umani, non la pensa così. A proposito di quello che i dirigenti chiamano il "processo bolivariano", ci dice: «Due grossolane interpretazioni di questo processo sono in competizione sullo scenario mondiale: da un lato, si afferma che il governo di Caracas si è impegnato in una serie di trasformazioni radicali che sfoceranno nel "socialismo del XXI secolo", una traiettoria cui si oppongono i politici ed i valori dell'imperialismo capitalista; dall'altro lato, al contrario, si afferma che il presidente Chávez è un dittatore che instaura con la forza il comunismo in Venezuela.
Entrambe le interpretazioni, come cercheremo di dimostrare, sono false.»

In questo libro, in una forma semplice, si troveranno degli elementi - sulla vita quotidiana, sui rapporti fra il governo e le organizzazioni ed i movimenti sociali - che possano permette di ricollocare le politiche condotte dal regime venezuelano nel loro doppio contesto, quello della storia del Venezuela e quello della contemporanea globalizzazione economica. Vi potremo trovare anche una chiara visione d'insieme sulle condizioni di una situazione sociale radicale nel nostro paese.

(dal risvolto di copertina di: Rafael Uzcategui, Venezuela: révolution ou spectacle? éditions Spartacus, 2011)

Venezuela. La révolution comme Spectacle
Sommaire
Ière partie : La vie quotidienne au Venezuela bolivarien

1. Le regard des intellectuels de gauche étrangers
2. Pourquoi tant de violence
3. La situation des travailleurs
4. Les programmes sociaux

IIème partie : L'excrément du diable
5. Un pays transformé par le pétrole
6. Un contexte, la mondialisation

IIIème partie : La politique bolivarienne
7. Le populisme
8. Les mouvements sociaux comme acteurs du changement
9. Le processus politique bolivarien

Conclusion : Le triomphe du Spectacle et le chantier qui s'ouvre

venezuela libro

Appello dal Venezuela agli anarchici d'America Latina e del mondo
- La solidarietà è assai più che le dichiarazioni scritte -
Collectif éditorial de El Libertario

Ci rivolgiamo a tutte le espressioni del movimento libertario, in particolare a quelle di questo continente, non solo per attrarre la loro attenzione sulla situazione che stiamo vivendo in Venezuela, ma anche perché riteniamo che sia urgente che l'anarchismo internazionale si esprima in maniera più energica riguardo queste drammatiche circostanze, attraversi posizioni ed azioni degne di ciò che l'ideale anarchico ha saputo storicamente produrre in termini di parole ed azione.
È deplorevole che, mentre da un lato il governo chavista - oggi guidato da Maduro - affiancato dalle sue casse di risonanza all'estero, e dall'altro, gli oppositori della destra ed i socialdemocratici, portano avanti delle campagne chiassose per poter vendere all'opinione pubblica mondiale le loro visioni altrettanto parziali e cariche di interessi del potere, mentre molte voci anarchiche fuori dal Venezuela rimangono in un mutismo che alla fine equivale ad un'accettazione di quello che i diversi avidi pretendenti al potere dello Stato vogliono imporre come "verità". Noi sappiamo che le voci amiche non dispongono dei media che sono a disposizione degli statalisti di vario genere, ed i compagni affrontano delle realtà complesse in cui ci sono dei temi e delle problematiche che, a causa della loro urgenza, richiedono le loro più immediate preoccupazioni. Ma noi riteniamo che questa difficoltà non dovrebbe essere un ostacolo a ciò che, in qualche modo per quanto modesto sia, esprime l'attenzione, l'interesse e la solidarietà a proposito di ciò che avviene in Venezuela ed anche per quanto riguarda ciò che l'anarchismo divulga in questo paese.

Facendo un breve riassunto di ciò che oggi dice l'anarchismo locale, la situazione attuale rivela la natura fascista del regime di Chávez - e del suo successore Maduro -, e di questi governi militari che abbiamo sempre denunciato attraverso "El Libertario". Questo regime si è appoggiato alla criminalità, al traffico di droga, al saccheggio, alla corruzione, l'arresto degli oppositori, la tortura, le sparizioni che si aggiungono ad una disastrosa gestione economica, sociale, culturale ed etica. Chávez è arrivato ad imporre la sua leadership messianica e carismatica, finanziata per mezzo dell'aumento del prezzo del petrolio, ma dopo la sua morte e con la fine della ripresa economica, il cosiddetto "processo bolivariano" si è sgonfiato, dal momento che era fondato soltanto su delle basi precarie. Questa "rivoluzione" si è inscritta nella tradizione della rendita inaugurata all'inizio del XX secolo dal dittatore Juan Vicente Gómez, poi continuata dal militare Marcos Pérez Jiménez e che non è finita con l'avvento del sistema democratico rappresentativo.

Alcuni, a livello internazionale (Noam Chomsky ne è il migliore esempio), si sono rimangiati il loro iniziale sostegno all'autoritarismo venezuelano per arrivare oggi a denunciarlo senza mezzi termini. Tuttavia, assistiamo con grande preoccupazione al silenzio di numerosi anarchici, di questo continente e degli altri, sugli avvenimenti in corso nel Venezuela. Un proverbio dice: «Chi tace acconsente!», cosa che si applica perfettamente quando avviene che si affama e si reprime nel sangue un popolo e coloro che dovrebbero protestare contro tutto questo non dicono niente o quasi.
Noi facciamo appello a tutti quelli che sventolano la bandiera libertaria affinché si pronuncino, se non l'hanno già fatto, sulla nostra tragedia. Non c'è nessuna giustificazione per l'indifferenza se si ha una visione anarchica del mondo. Il contrario equivale a coprire la farsa governativa, dimenticando ciò che hanno detto gli anarchici di tutte le epoche sul degrado del socialismo autoritario al potere. Forse in passato, il miraggio "progressista" del chavismo ha potuto ingannare perfino alcuni libertari, ma essere conseguenti con le nostre idee rende oggi impossibile continuare a sostenere una simile convinzione.

Ci troviamo in presenza di un governo agonizzante e repressivo, senza più alcuna legittimità, che cerca di aggrapparsi al potere, ripudiato dall'immensa maggioranza della popolazione, che assassina per mezzo delle sue forze repressive e dei suoi gruppi paramilitari, che, inoltre, favoriscono i saccheggi. Un governo di corrotti che fa del ricatto alimentare, venduto a prezzi di mercato nero, che partecipa ad ogni genere di malversazione, un governo di "boliborghesi" [N.d.T.: https://en.wikipedia.org/wiki/Boliburgues%C3%ADa ] e di militari arricchitisi con la rendita petrolifera e con l'ecocidio minerario. Un governo che uccide con la fame e l'assassinio, mentre applica una regolamentazione economica brutale in linea con il capitalismo transnazionale, a cui puntualmente paga un criminale debito estero.

È tempo di smantellare le manovre di pseudo informazione per istigazione  di quelli che controllano o aspirano a controllare lo Stato venezuelano, e a tal fine, speriamo di poter contare sul sostegno attivo di individualità e di collettivi libertari, sia in America Latina che nel resto del pianeta. Ogni dimostrazione di solidarietà anarchica sarà benvenuta per il movimento anarchico venezuelano, che è certamente piccolo e lotta contro innumerevoli difficoltà, ma che, nella situazione attuale, apprezzerà enormemente sapere che in un modo o in un altro possiamo contare sull'appoggio dei compagni del resto del mondo, sia per la riproduzione e per la diffusione delle informazioni che noi, anarchici del Venezuela, produciamo, generando delle prese di posizione e delle riflessioni che possano smantellare le visioni che gli autoritari di destra e di sinistra tentano di imporre, oppure - cosa che sarebbe molto meglio - promuovendo e sostenendo delle azioni nei loro rispettivi paesi, in cui si condanni la situazione di carestia e di repressione che attualmente esiste in Venezuela. Oggi più che mai, la vostra presenza e la vostra voce sono necessarie in tutti gli scenari in cui è possibile denunciare la tragedia in cui è precipitato il popolo venezuelano.

- La rédaction de El Libertario - [ http://periodicoellibertario.blogspot.com/ ]

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

mercoledì 28 giugno 2017

Racconto popolare

mann adorno

«Quale forma più felice di quella del lungo aforisma, o Short Essay, del suo Minima Moralia! L'ho mai ringraziata per il libro? Considero tutto possibile! Per giorni sono rimasto magneticamente incollato al libro, fino al punto che ogni volta è per me una nuova lettura affascinante, di cui però si può godere solo a piccole dosi, una delizia concentrata. Dicono che una stella nella costellazione di Sirio, di colore bianco, è costituita da una materia talmente intensa che, qui da noi, un suo pollice cubico peserebbe una tonnellata. Per questo possiede anche un impressionante campo gravitazionale, simile a quello che avvolge il suo libro. Ed oltre a questo, i titoli che, con la loro calda seduzione, precedono e anticipano quelle sorprendenti formazioni di pensiero. Non appena abbiamo finire di dire che "Per oggi è abbastanza!", ecco che occheggia il titolo vibrante, tipico del racconto popolare, e finiamo per correre in direzione della prossima avventura.»

(Lettera di Thomas Mann a Theodor Adorno, scritta dalla California, dove allora viveva, il 9 gennaio del 1952)

martedì 27 giugno 2017

Abolizionisti!

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Abolire il lavoro salariato entro il 2027: è possibile un simile movimento?
- di Jehu -

Voglio essere assolutamente chiaro su ciò di cui sto parlando:
I comunisti devono portare avanti una battaglia per ridurre a zero, nei prossimi dieci anni, le ore di lavoro; abolire completamente il lavoro salariato come istituzione entro dieci anni e realizzare il pieno comunismo in Nord America ed in Europa entro una data certa: il 2027.
Ai fini di questa discussione, definisco il pieno comunismo come la completa abolizione del lavoro salariato: come la fine della domanda di lavoro in quanto condizione per l'accesso ai mezzi di consumo; per sostituire questo sistema con il libero accesso ai mezzi di consumo; e sostituire l'attuale società, basata sul lavoro salariato, con una società fondata sul principio del «ciascuno secondo la sua capacità a ciascuno secondo la sua necessità.»
Questa sostituzione dovrebbe includere l'abolizione sia della moneta sia dello Stato esistente.

Questo è possibile? Sto chiedendo un qualche obiettivo utopico che non può essere raggiunto nella realtà? Ci sono parecchie obiezioni di ordine generale alla possibilità di porre fine in dieci anni al lavoro salariato, così come l'ho delineato sopra.

In primo luogo, c'è l'obiezione secondo cui la completa abolizione del lavoro salariato non è tecnicamente fattibile. Quest'obiezione, sebbene vigorosa, si dilegua di fronte a tutte le teorie economiche attuali. Se l'abolizione del lavoro salariato non è tecnicamente fattibile, alloraperché mai i capitalisti oggi impiegano miliardi di dollari l'anno per promuovere la crescita economica e la piena occupazione? Perché la crescita economica e la creazione di posti di lavoro costituiscono l'obiettivo centrale di tutte le politiche economiche in ogni paese del pianeta, oggi, senza eccezione alcuna? In assenza di un simile intervento, sostenuto ed aggressivo, da parte degli stati, il lavoro salariato potrebbe collassare già adesso.
Oggi, lo Stato è l'unica cosa che permette di mantenere il lavoro come mezzo per produrre ricchezza materiale, e lo sanno tutti. Allora perché accettiamo l'idea che l'accesso ai mezzi di consumo debba rimanere dipendente dal lavoro salariato? Oggi si richiede la politica economica dello Stato proprio perché il lavoro salariato è sopravvissuto alla sua utilità in quanto mezzo per produrre ricchezza materiale.

In secondo luogo, c'è l'obiezione secondo cui l'idea non è politicamente fattibile. Questa potrebbe essere un'obiezione ragionevole se stessimo presentandoci alle elezioni, ma non lo stiamo facendo. Perché i comunisti si dovrebbero preoccupare del fatto che l'abolizione del lavoro salariato non sia politicamente fattibile? Visto che non ci interessa una funzione nell'attuale Stato, perché dovremmo scegliere la nostra posizione basandoci su cosa è politicamente popolare nell'urna elettorale.
Quel che è popolare nell'urna elettorale e quello che è necessario per mettere fine alla schiavitù del lavoro salariale sono due questioni separate e distinte. Per fare un'analogia, se basiamo la nostra posizione su cosa sia politicamente popolare, i neri dovrebbero essere ancora seduti sul retro degli autobus. Che razza di  obiezione è quella che afferma che non possiamo sostenere la completa abolizione del lavoro salariato perché essa non ottiene molti voti? Quale comunista, anche solo nella sua mente, potrebbe mai fare questo genere di obiezione?

In terzo luogo, c'è l'obiezione che una riduzione delle ore di lavoro causerebbe una grave crisi economica. Quest'obiezione, secondo noi ha maggiore validità delle due obiezioni precedenti. Una riduzione delle ore di lavoro causerebbe un grave crisi economica. Ma ridurre le ore di lavoro causerebbe una crisi economica perché l'economia attualmente si basa sullo sfruttamento della classe operaia. Ogni misura che riduce lo sfruttamento della classe operaia in un'economia basata sullo sfruttamento della classe operaia deve gettare a capofitto l'economia nella crisi.
Lasciami argomentare che questa non è la nostra preoccupazione. Il fatto che la fine dello sfruttamento della classe operaia potrebbe gettare l'economia in una crisi non ci preoccupa più di quanto nel 1860 ci avrebbe preoccupato il fatto che la fine della schiavitù avrebbe gettato l'agricoltura del sud degli Stati Uniti in una crisi economica prolungata. Non siamo neppure minimamente preoccupati del fatto che le imprese ed i governi faranno bancarotta per mancanza di profitti e di ricavi. Oggi, come nel 1860, siamo preoccupati solo dell'emancipazione della classe operaia, le cui condizioni materiali miglioreranno a spese sia delle imprere che dei governi.
Ridurre le ore di lavoro comporta un forte cambiamento nella distribuzione del prodotto sociale dal capitale, e dallo Stato, alla classe operaia. Questo non è un errore. È una caratteristica. È esattamente quello che stiamo cercando di fare: spostare il prodotto sociale dal capitale alla classe operaia. Per secoli, la classe operaia ha portato il peso di ogni crisi. Questa è la nostra occasione per costringere il capitale e lo Stato a farsi carico di tali costi.

In quarto luogo, c'è l'obiezione secondo cui, per quanto tecnicamente e politicamente fattibile, dieci anni sono un periodo troppo breve. La mia risposta all'obiezione che dieci anni sono troppo pochi per poter mettere fine al lavoro salariato è: «Come fai a saperlo?» Puoi citare un singolo studio mai pubblicato che dice che per la fine del lavoro salariato ci vorranno altri 50 anni? 100 anni? 1000 anni?
La tua obiezione corrisponde agli stessi atteggiamenti gradualisti che hanno caratterizzato l'opposizione alla fine della segregazione e delle leggi anti-gay. Per i gradualisti, ogni cambiamento è troppo veloce perché essi in realtà si oppongono ad ogni cambiamento. A questi gradualisti, rispondo con quello che disse ai gradualisti del suo tempo il dottor King:
«Sappiamo per dolorosa esperienza che la libertà non viene mai data volontariamente dall'oppressore; dev'essere richiesta dagli oppressi. Francamente, ho ancora da trovare una campagna di azione diretta in cui impegnarmi che fosse "opportuna" secondo il punto di vista di quelli che non hanno eccessivamente sofferto per la malattia della segregazione. Per anni fino ad ora, ho sentito la parola "Aspetta!" Risuona nell'orecchio di ogni negro con lancinante familiarità. Questo "aspetta!" significa quasi sempre "Mai." Dobbiamo venire a vedere, in compagnia dei vostri illustri giuristi, che "la giustizia troppo a lungo ritardata è giustizia negata."»

Il vostro gradualismo è solo un altro modo, travestito da simpatia, per dire alla classe operaia di non chiedere una fine al loro sfruttamento. La sola ragione per non domandare un'immediata fine del lavoro salariato è un desiderio, più o meno nascosto, di vederlo restare al suo posto.
A mio, avviso, nessuna di queste obiezioni ad un movimento per abolire il lavoro salariato entro il 2017 possiede un solo brandello di validità.

- Jehu - Pubblicato su The real movement il 25/6/2017 -

fonte: The Real Movement

lunedì 26 giugno 2017

Troppo poveri?!?

attica

Perché la classe operaia è diventata la più grande nemica del "lavorare meno"
- di Jehu -

Uno dei più grandi problemi del convincere i lavoratori a ridurre le loro ore lavorative consiste nel loro focalizzarsi sul denaro piuttosto che su quello che il denaro può comprare. Se un operaio lavora 40 ore la settimana e guadagna 10 dollari l'ora, una riduzione della settimana lavorativa da 40 ore a 10 ore ridurrebbe il suo salario nominale da 400 a 100 dollari. I lavoratori possono fare un semplice calcolo, e la matematica inequivocabilmente dice loro che una riduzione delle ore di lavoro si traduce in una riduzione dei salari nominali. Nessun operaio accetterebbe una riduzione del suo salario nominale, a meno che non fosse costretto a farlo per una qualche ragione. La cosa non è sorprendente, dal momento che l'economia fascista keynesiana si fonda su questa reazione di buon senso dell'operaio che lo porta a ricadere nei salari nominali. Inutile dire che per i comunisti questo è un grosso problema.

Nella sua "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta", Keynes sottolinea il fatto che il lavoratore farebbe resistenza ad una caduta del suo salario nominale, ma non la farebbe rispetto ad una caduta del suo salario reale, purché tale caduta non sia troppo estrema e purché il suo salario nominale rimanga inalterato. Dal momento che i lavoratori oppongono resistenza ad una caduta dei loro salari nominali, ma tendono ad ignorare una caduta dei loro salari reali, Keynes suggerisce l'inflazione dei prezzi, vale a dire, diminuendo il valore di ciò che questi salari nominali potrebbero comprare. Questa è un'efficace strategia per poter mantenere i profitti, poiché l'inflazione svaluta il potere di consumo della classe operaia nel suo complesso, mentre gli operai si battono per difendere il potere di acquisto dei loro salari nominali attuando solamente una lotta limitata alla loro particolare azienda.
Mentre l'inflazione lavora contro tutti i lavoratori, e lavora contro di loro tutti insieme, il terreno della lotta viene spezzato in molte aziende separate, frammentate, disperse. Una parte dei lavoratori, confinati in una data impresa o industria, può essere in grado di mantenere il potere di acquisto dei loro salari nominali, ma questo non è mai vero per quella vasta maggioranza, la quale, nella maggior parte dei casi, non è nemmeno organizzata e quindi non è in grado di combattere. La grande maggioranza dei lavoratori vede collassare il potere d'acquisto dei propri salari nel momento in cui l'inflazione si mangia il loro potere di consumo. Col tempo, anche coloro che sono sindacalizzati vedono i loro salari sotto attacco, anche sulla base dei motivi che stanno causando l'inflazione. Le vittime della politica del governo che tende a svalutare la valuta vengono colpevolizzati in quanto causa della svalutazione della moneta.

Salari reali vs. Salari nominali
Questa è quella parte della Teoria Generale di Keynes che molti comunisti vogliono ignorare. È già abbastanza deplorevole che molti comunisti non menzionino neanche gli argomenti portati avanti da Keynes nella sua Teoria Generale e che soprattutto siano anche assai di più coloro che non si sono nemmeno curati di leggerla.
Quel che è peggio della pura ignoranza dei comunisti, è che Keynes aveva ragione: La maggior parte dei lavoratori non può dire quale sia la differenza fra salari nominali e salari reali e confonde una caduta nei salari nominali con un taglio ai loro salari reali. Essi assumono che una riduzione dei loro salari nominali dovuta alla riduzione delle ore di lavoro significhi una riduzione nel loro salario reale.
Fino a ché persiste tale confusione, è quasi garantito che non ci sarà mai una significativa riduzione delle ore di lavoro, e ci sarà assai meno comunismo.
Il comunismo è semplicemente il punto in cui i salari vanno a zero; oppure, alternativamente, il punto in cui il lavoro non è più richiesto in quanto mezzo per accedere ai mezzi di consumo. Se le persone considerano un male il fatto che i salari vadano verso lo zero, non si potrà mai arrivare al punto in cui il lavoro non viene più richiesto per poter accedere ai mezzi di consumo. Letteralmente, le due affermazioni sono la stessa cosa.

Per poter affrontare questo problema, i comunisti devono comprendere le argomentazioni della Teoria Generale di Keynes, ma non devono avere alcun desiderio di impararla. L'unica parte delle argomentazioni di Keynes di cui il 99% dei comunisti si preoccupa è quella che riguarda la parte in cui Keynes dice che il governo può creare posti di lavoro. Per qualche strana ragione non entra nella loro testa il fatto che il governo crea posti di lavoro deprezzando la valuta e, di conseguenza, i salari reali della classe operaia. È facile raddoppiare l'occupazione quando ti limiti a dividere fra due lavoratori il salario di un lavoratore. È questo tutto quel che si limita a fare la politica economica keynesiana, ma capirlo sembra che sia al di là della capacità di comprendere dei comunisti.

Chi sopporta il costo di una depressione
Le argomentazioni di Keynes poggiano su un errore fondamentale; un errore che serve gli interesse del capitale, piuttosto che della classe operaia. Secondo le argomentazioni di Keynes, il problema della disoccupazione potrebbe essere ridotto prendendo il salario reale di un lavoratore e dividendolo fra due lavoratori. Entrambi i lavoratori verrebbero allora impiegati, seppure percependo metà del salario reale di un lavoratore.
Questa divisione del salario reale fra due lavoratori non ha bisogno di incidere sui salari nominali, per il semplice motivo che, sganciando la valuta dall'oro, i salari nominali non hanno bisogno di avere alcuna relazione con i salari reali. Quello che il lavoratore continuerebbe a prendere come salario nominale rimarrebbe invariato, sebbene il salario reale - quello che può essere acquistato con tale moneta - cadrebbe. Dal momento che il lavoratore non vedrebbe alcun cambiamento nel suo salario nominale, solo più tardi, dopo che gli effetti della svalutazione si saranno diffusi nell'economia, egli potrebbe accorgersi che il suo salario monetario non arriva in fondo al mese come faceva prima. Il deprezzamento della valuta è separato sia nel tempo che nello spazio, dall'attuale caduta che avviene nei salari reali.
Questo genere di svalutazione della moneta che colpisce i salari reali, era già avvenuta ancor prima che Keynes scrivesse la sua Teoria Generale. Franklin Delano Roosvelt (FDR), che, per qualche strana ragione, viene considerato come un'icona della sinistra radicale, aveva svalutato la moneta nel 1933, proprio come Keynes avrebbe poi sostenuto più tardi. Una delle sue prime azioni, dopo essere stato eletto nel 1933, è stata la legge nota come Executive Order 6102, che confiscava l'oro e, cosa assai più importante, svalutava il dollaro da 20,67 dollari per ogni oncia d'ora, a 35 dollari. Si trattava di una svalutazione del 40%, ed aveva l'effetto immediato di imporre un taglio nei salari del 40%.
Se non avete mai sentito parlare di questa misura, non è affatto sorprendente: non c'è un solo economista marxista che oggi ne abbia mai parlato, eppure l'efficacia della misura era stata immediata: la fase di contrazione della Grande Depressione finì quasi immediatamente. Industria ed occupazione cominciarono a recuperare quasi immediatamente.

Come avrebbe spiegato Keynes più tardi, era stata la riduzione del salario reale, non dei salari nominali, ad aver posto fine alla depressione. In generale ed in larga misura, i salari nominali rimanevano inalterati e sia i comunisti che la classe operaia in generale sembravano non essersi accorti delle gravi implicazioni che la misura aveva sui salari reali.
L'errore di Keynes, ad ogni modo, consisteva nell'asserzione che questo era il solo mezzo per porre fine alla depressione. È ovvio che, dividendo fra due lavoratori il salario reale di un lavoratore, sarebbe stato possibile raddoppiare l'occupazione al costo dello stesso salario reale. Ma è altrettanto vero ed ovvio che tagliare a metà le ore di lavoro di un operaio renderebbe possibile raddoppiare l'occupazione al costo del medesimo salario reale. Ma è anche vero che tagliare a metà le ore di lavoro di un operaio permetterebbe l'occupazione di due lavoratori.
La distinzione fra le due misure è che nel primo caso (tagliare i salari reali) la classe operaia ha sostenuto con il proprio consumo tutto il peso della crisi, mentre, nel secondo caso, è stata la classe capitalista, con i suoi profitti, che ha sostenuto il peso totale della crisi.
La questione non è mai stata quella di come porre fine alla Grande Depressione, ma quale classe avrebbe pagato il costo di porre fine alla Grande Depressione. Tagliare ore di lavoro ha l'effetto di ridurre il surplus di tempo di lavoro dell'operaio e, quindi, il profitto del capitale. Raddoppiare la forza lavoro tagliano a metà le ore non ha alcun effetto sulle ore totali di lavoro, ma riduce il surplus di tempo di lavoro. Se dopo una riduzione delle ore di lavoro, il capitalista vuole estrarre la stessa quantità di plusvlaore, allora deve introdurre delle misure per intensificare il lavoro - maggior efficienza e più macchinario, scienza, tecnologia, ecc..
Il primo effetto immediato di una riduzione delle ore di lavoro è che il tasso di profitto diminuisce notevolmente, cadendo in misura assai più che proporzionale. L'effetto di una forte caduta del tasso di profitto, viene descritta da Marx nel Capitale, volume III, capitolo 15 e non ne discuto qui se non menzionando pochi effetti rimarchevoli: concentrazione e centralizzazione del capitale, sviluppo accelerato delle forze produttive, crisi finanziaria e creditizia, bancarotta dei capitali minori, ecc..
Vale la pena ricordare che la riduzione delle ore lavorative, piuttosto che la svalutazione monetaria, è stata la misura adottata dal movimento operaio americano negli anni 1930. A differenza dei radicali odierni, la classe operaia di quell'epoca rifiutava Keynes ed aveva abbracciato la riduzione delle ore di lavoro.

La classe operaia è troppo povera per ridurre le ore di lavoro?
In realtà, una società capitalista apparirà sempre troppo impoverita per essere in grado di sostenere il comunismo, dal momento che il capitalismo impoverisce ogni cosa per aumentare i profitti.
Affermare che i bassi salari della classe operaia impediscono la riduzione delle ore di lavoro, assomiglia a premiare i capitalisti per il loro spietato sfruttamento. Equivale a dire che per il capitale avere successo consiste nel diminuire il salario degli occupati, e rende ancora più impossibile abolire il lavoro salariato. Effettivamente, i capitalisti possono sempre fare causa comune contro la riduzione delle ore di lavoro, costringendo a mantenere i più bassi salari possibili per la classe operaia.
Se mantenere la classe operaia in povertà, di per sé non è un obiettivo volto a massimizzare i profitti, eppure esso acquisisce questa ulteriore razionalità. I capitalisti ed i loro agenti possono puntare alla povertà del lavoratore per dimostrare come meno ore di lavoro sia per loro un obiettivo finanziariamente impossibile! L'argomentazione che il lavoratore stesso non può permettersi meno ore di lavoro, è probabilmente l'affermazione più efficace e potente che mai sia stata fatta contro di essa.
Anche se quest'argamentazione fosse vera, equivarrebbe all'argomento per cui i capitalisti possono impedire indefinitamente il comunismo semplicemente mantenendo i lavoratori in uno stato di povertà. Argomento che effettivamente incoraggia i capitalisti ad imporre i vincoli più draconiani rispetto al potere di consumo della classe operaia, per tenerla sotto controllo.

Per i comunisti, accettare quest'argomento è il colmo dell'ipocrisia, della tracotanza e del tradimento. Ma è proprio questo genere di ipocrisia, di tracotanza e di tradimento che si trova dietro tutte le proposte di limitare la nostra lotta alle domande immediate per il miglioramento delle nostre condizioni di classe, e ad affrontare solo più tardi l'abolizione del lavoro salariato. Tanto più efficaci sono gli sforzi dei capitalisti volti a mantenere i lavoratori in condizioni di povertà, tanto più si pone l'obiettivo finale dell'emancipazione.
Ora sono quasi cinquant'anni che abbiamo visto all'opera solo questo modello: Più i capitalisti impongono richieste irragionevoli alla classe operaia, tanto più i radicali limitano la loro agitazione alla difesa contro queste irragionevoli richieste ed evitano di porre la questione della completa emancipazione.
La difesa contro le irragionevoli richieste del capitale viene posta in opposizione all'emancipazione, come se l'emancipazione nom includesse il rovesciamento di tutte le richieste, ragionevoli o irragionevoli che siano, del capitale: come se, in altre parole, misure come la fine del sistema del welfare non fosse già implicita nella fine del sistema della schiavitù salariale; come se, in qualche modo, volessimo liberarci dal sistema salariale, ma tenerci il welfare, che è un suo necessario complemento.

Con comunisti come questi, chi ha bisogno di Keynesiani?
A mio avviso, queste idee non provengono in prima istanza dai comunisti, ma sono il risultato del fatto che i comunisti incanalano in maniera acritica le idee generate dall'interno della classe operaia stessa. La classe operaia è assolutamente dipendente dai termini e dalle condizioni della vendita della sua forza lavoro per poter sopravvivere, e l'idea di essere troppo povera per il comunismo è il prodotto di tale dipendenza. Qualsiasi cosa che sembra minacciare la vendita della forza lavoro appare ai lavoratori come una minaccia per la loro sopravvivenza fisica.
I lavoratori non hanno bisogno dei comunisti per fare i conti: meno ore di lavoro significa salari più bassi. Se fosse una semplice questione di matematica, nessuno avrebbe mai avuto bisogno dei comunisti per qualcosa: abbiamo dei calcolatori dentro i nostri smartphone.

Però, il lavoro dei comunisti non è quello di fare i conti per la classe operaia, ma mostrare loro perché la matematica sia sbagliata. Non serve la scienza per risolvere le domande del buon senso comune della vita quotidiana. La scienza ci serve quando il senso comune della vita quotidiana fallisce. Come avviene con l'idea che meno ore di lavoro portino ad un maggior impoverimento della classe operaia.
È perfettamente ovvio che se le mie ore di lavoro vengono tagliate da 40 a 30, allora riceverò un corrispondente taglio del mio salario e sprofonderò nella povertà. Ma se estendiamo questo a tutti i lavoratori, ecco che la composizione diventa erronea: l'idea che ciò che è vero per un lavoratore deve essere vero se viene applicato a tutti i lavoratori insieme.

Nel primo caso, il risultato è che i salari cadono. Nel secondo caso, è che i risultati crescono.
Se tutti i lavoratori si mettono insieme e rifiutano ogni lavoro che ecceda le 30 ore, ecco che avremo l'esatto risultato opposto di quello che accadrebbe se lo farebbe un solo singolo lavoratore. Ciò avviene perché il rifiuto del lavoro che eccede le 30 ore settimanali da parte di tutti i lavoratori, avrebbe l'effetto di ridurre le ore totali di lavoro che vengono offerte sul mercato per la produzione capitalista. Per compensare tale ridotta offerta di tempo lavorativo, i capitalisti dovranno assumere lavoratori aggiuntivi e quindi apportare nuovi salari. Ridurre l'insieme delle ore di lavoro offerte porta ad un risultato assai diverso da quello di ridurre l'offerta di ore di lavoro individuali. Mentre la povertà di un lavoratore individuale non può essere risolta attraverso meno lavoro, la povertà di un'intera classe può essere risolta se tutti loro lavorano meno.

È questa la logica che sta dietro ogni sciopero industriale e perfino dietro la formazione dei sindacati.
In un sindacato, i lavoratori si riuniscono insieme e riducono collettivamente il loro tempo lavorativo finché non vengono soddisfatte le loro richieste. Più inclusivo il sindacato, più efficace la sua azione. Nessun lavoratore può arrivare a questa conclusione osservando a quel che succede se lui lavora meno, dal momento che le due cose non funzionano allo stesso modo.
Quel che è strano è che anche i comunisti non riescono a vedere questa cosa e arrivano a pensare solamente come avviene nel caso individuale. Questa non è scienza, questo è un ragionamento secondo il buon senso. Il ragionamento secondo il buon senso ci può aiutare quando cerchiami di decidere quanto tempo utilizzare per la cura di un membro della famiglia, ma non può aiutarci quando si tratta di emancipazione. Se lo possiamo combinare in un sindacato locale - limitare il nostro lavoro ed ottenere salari più alti - cosa ci fa pensare che fare la stessa cosa per tutta la classe operaia dovrebbe portare a salari più bassi?
I comunisti sanno che questo è l'effetto della combinazione che è il motivo per cui loro supportano la sindacalizzazione, ma per qualche strana ragione lo dimenticano quando pensano all'emancipazione.

- Jehu - Pubblicato su The Real movement il 23/6/2017 -

fonte: The real movement

domenica 25 giugno 2017

Navi

CMUV-naufragioUlisse

Weber sulla nave di Platone
- di Mauro Bonazzi -

Ci sono testi che conviene rileggere, di tanto in tanto, per la loro capacità di illuminare i problemi con cui gli uomini hanno sempre a che fare. A questo servono i classici, del resto. Come La scienza come professione, ricavato da un discorso che Max Weber tenne circa un secolo fa, in una Germania piegata dalla guerra e ormai sprofondata nell’isteria. Un titolo dimesso per un tema forse importante, ma di certo non fondamentale. In realtà un’analisi lucidissima della modernità e dei suoi problemi, insieme a una riflessione su quale sia il ruolo degli intellettuali in una società in crisi. Argomenti di cui si torna ciclicamente a discutere, come testimoniano il libro recente di Paolo Di Paolo "Tempo senza scelte" (Einaudi) e ancora di più quello di Sarah Bakewell "Al caffè degli esistenzialisti" (Fazi). Figure controverse come poche, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, non hanno mai avuto paura di far sentire la propria voce, esaltando il modello dell’intellettuale pubblico, sempre pronto a prendere posizione, deciso a «invadere il lettore», come ha dichiarato Roberto Saviano in una recente intervista. Con una passione inattesa in un severo professore tedesco dell’età guglielmina, Max Weber aveva scelto di percorrere un’altra strada.

La grande crisi dall’età moderna sta tutta nell’incapacità di accettare il politeismo dei valori, scriveva Weber. Piaccia o no, la nostra epoca è segnata in modo indelebile dalla circolazione di idee e principi differenti, incompatibili tra di loro, ma tutti ugualmente legittimi. Libertà o uguaglianza, solidarietà o benessere, le ragioni dell’individuo o quelle della comunità: la scelta dell’uno va a detrimento dell’altro. È un fatto che non ha senso contestare e da cui si dovrebbe partire per trovare soluzioni concrete: è inutile sperare di tornare a un mondo omogeneo e coeso, retto da un unico sistema di valori. Eppure proprio questo gli uomini finiscono per fare: incapaci di sopportare le situazioni d’incertezza che inevitabilmente si creano, si affannano in cerca di risposte nette, anelano alla guida che promette soluzioni facili, cadendo in illusioni più o meno dolorose. In quegli anni, a Monaco di Baviera, fu proclamata un’effimera repubblica dei soviet, annunciata, scrivevano i suoi capi Ernst Toller ed Erich Mühsam, come «il regno della luce, della bellezza e della ragione». Per le strade marciavano però compatte le squadre della controrivoluzione, inneggiando al sangue e alla patria.
Carico d’anni (sarebbe morto di lì a poco), con una barba ispida, «pallido e affaticatissimo», così lo ricorda Karl Löwith, proprio in quella città Weber tenne i suoi ultimi interventi pubblici. In una sala gremita all’inverosimile, «con il cupo fervore di un profeta», ricordò a un Paese lacerato che i profeti non esistono. Che non bisogna attenderli. La perfezione non è di questo mondo. Weber ce l’aveva soprattutto con «i profeti in cattedra»: professori, intellettuali, scienziati, filosofi che approfittavano della loro posizione di prestigio per promettere soluzioni facili invece di aiutare a leggere la complessità di un mondo sempre più indecifrabile. L’impressione fu «sconvolgente», ma non poté molto contro i demoni che si erano ormai scatenati. Pochi, tra i giovani studenti che si erano accalcati nella sale delle conferenze, fecero proprio l’invito a coltivare il «pathos della sobrietà». Gli altri, la maggioranza, non avrebbero resistito alla tentazione di seguire le sirene di chi prometteva nuovi mondi. A Monaco, negli stessi anni, c’era anche Adolf Hitler.
Succede. Sarebbe successo di nuovo ed era già successo. Weber non ci pensava, ma il suo invito all’onestà intellettuale — a non chiudere gli occhi davanti ai fatti scomodi, diceva: fatti, cioè, che costringono a rivedere le proprie convinzioni — trovava una coincidenza quasi perfetta con la missione che Socrate aveva rivendicato davanti al tribunale di Atene nel 399 a.C., in un clima non meno tumultuoso. C’era del vero nell’accusa per cui fu condannato, quella di corrompere i giovani: Socrate aveva dedicato tutta la sua vita a seminare dubbi, a mettere in discussione i valori su cui si fondava la città, a chiedere conto delle decisioni prese in assemblea. Senza offrire nulla in cambio — come poteva se non sapeva nulla? Solo domande, nessuna risposta. Sempre ironico, si descriveva come un tafano, con l’ingrato compito di risvegliare il cavallo sonnolento che era Atene. Gli altri lo associavano piuttosto alla torpedine marina: apparentemente innocua, in realtà capace di paralizzare chi la toccava. In entrambe le immagini si nasconde qualcosa di sinistro, il disagio che gli Ateniesi provavano davanti a un personaggio enigmatico, e alle sue richieste incomprensibili. A che serve un «sapere» che paralizza, moltiplica dubbi e incertezze, cerca la complessità senza proporre soluzioni, o indicare un cammino?

Se Dio è morto, tutto è permesso: oggi, quando si parla di questi problemi, si cita sempre Fjodor Dostoevskij. Dove mancano valori forti, ogni decisione è legittima e conta solo realizzarla. È così, a patto d’intendersi, però. In un mondo come il nostro, in cui mancano punti di riferimento assoluti, in cui le possibilità di scelta sembrano moltiplicarsi a piacimento, la prima reazione è in realtà l’esitazione: un blocco da cui si esce solo quando ci si è costruiti il proprio Dio. Un Dio che nasce da paure o ambizioni e che serve a fornire una giustificazione e una legittimità a queste paure o ambizioni. Sono situazioni che si ripetono quotidianamente, per tutti. Siamo circondati da voci dissonanti, punti di vista contrapposti, dibattiti infiniti. Il rumore è assordante; il rischio è il disorientamento; la conclusione è sempre la stessa: finiamo per chiuderci in noi stessi, ascoltando solo quelli che ripetono quello che già pensiamo. È la strada più semplice, dare ragione a chi è d’accordo con te. Confermarsi gli uni con gli altri nelle proprie convinzioni — nei propri pregiudizi, dunque. Non che quello che pensa la gente sia sempre sbagliato: persino i tanto vituperati elettori bianchi di Donald Trump pongono alcune questioni che avrebbero meritato maggiore considerazione. Il problema è quando ragioni parziali vengono trasformate in verità assolute. Troppo spesso è in questo modo che si stabilisce cosa è bene e cosa si deve fare. Per passare poi all’azione, convinti di essere sempre dalla parte giusta.
Quando Dio non esiste, urge trovare un sostituto che dia ragione, che ammanti di credibilità le proprie idee. Weber non voleva guidare nessuno. Socrate, per tutto il processo, ha negato di avere cercato allievi. A entrambi era ben chiaro che, se si fossero messi a dire la loro, avrebbero solo aumentato il rumore di fondo. Cercavano altro. Fare chiarezza, per quanto possibile: aiutare i concittadini a capire che ogni decisione comporta una scelta e che le scelte richiedono responsabilità. Perché non c’è più un Dio o un destino a garantire per ciò che facciamo, ed è sbagliato ogni tentativo di costruirsi surrogati dietro cui nascondersi. Bisogna imparare ad affrontare le proprie paure e anche le proprie idee. Agire si agisce sempre; raramente, però, consapevoli di quello che si fa. È davvero così inutile, allora, il lavoro sotto traccia di chi si propone di ricordare agli altri che la verità è sempre sfaccettata? Di chi cerca di ostacolare, per quanto possibile, la tendenza tutta umana ad abbarbicarsi alle opinioni del gruppo? Il vero maestro non insegna cosa si deve pensare, ma a come pensare.

Il compito è difficile, certo; e ancora più difficile nel nostro mondo della post-verità, in cui l’emotività sembra aver definitivamente trionfato. È inutile nasconderselo: il rischio del fallimento c’è. Neppure questa è una novità. Ne erano ben consapevoli tanto Weber quanto Socrate; e così pure Platone, che sulla morte e la sconfitta di Socrate costruì la sua filosofia. Nella Repubblica si racconta di una nave in mezzo a onde sempre più minacciose. Tutti iniziano a litigare perché ognuno vuole decidere come affrontare la tempesta che incombe; qualcuno avrebbe consigli da dare; ma l’isteria ormai domina e nessuno sembra più in grado di ragionare. Che cosa può fare quell’uomo? Vorrebbe probabilmente ritirarsi in disparte, per evitare l’insopportabile gazzarra. Ma quando la nave affonderà, anche lui affonderà. Urlare a sua volta nella speranza di farsi ascoltare? Non migliorerebbe la situazione. L’unica alternativa è cercare di calmare i suoi compagni, raffreddare gli animi, perché si possa tornare ad affrontare, e auspicabilmente superare, le difficoltà in modo sensato.
È improbabile che la Repubblica di Platone stia sul comodino di Quentin Tarantino: ma in Pulp Fiction la stessa idea, con parole irripetibili, è ripetuta da Mr. Wolf, quando viene mandato in aiuto dei due sicari (John Travolta e Samuel L. Jackson), che, in preda al panico dopo aver combinato un disastro, riescono solo a urlare e strattonarsi, come i marinai della nave di Platone. Più sobriamente lo ha scritto anche Leonardo Sciascia: «Credo nella ragione, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono». Non è facile, a volte è molto pericoloso, e la vicenda di Socrate sta lì a ricordarlo. Ma altre possibilità, per chi si ostina a pensare che la ragione umana non debba essere sacrificata, non ve ne sono.
Ogni epoca attinge alle proprie esperienze per descrivere quello che accade. In una società dominata dalla rivoluzione tecnologica e informatica si parla di «svitati» e «connessioni»; dal Medioevo arrivano espressioni di matrice religiosa o astrologica come «diabolico» e «lunatico». Più legati di noi alla terra e ai suoi tempi, gli antichi, per spiegare il valore dell’educazione, ricorrevano a metafore agricole: si tratta di seminare, coltivare e avere pazienza. Adempiendo alle «richieste di ogni giorno», concludeva Weber citando Goethe. Contro il proprio tempo, per il proprio tempo

- Mauro Bonazzi - Pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 24 dicembre 2016 -

sabato 24 giugno 2017

Lessico

The Young Karl Marx

Marx essoterico/Marx esoterico: Per mezzo di questi due termini, si vogliono distinguere due differenti interpretazioni dell'opera del vecchio barbuto, essendo una quella accettata tradizionalmente (essoterica), che si basa principalmente su un punto di vista che si costruisce a partire dal lavoro ed il cui oggetto di studio è soprattutto la lotta di classe. Questa interpretazione tradizionale si focalizza sul modo di distribuzione.
L'altra interpretazione, è quella che qui ci interessa, ed è assai meno conosciuta (esoterica). E stavolta non si costruisce a partire dal punto di vista del lavoro, ma, piuttosto, dalla possibilità della sua abolizione. Il Marx esoterico è quello che critica sia il modo di distribuzione che il modo di produzione capitalistico a partire dall'analisi di quelle categorie storicamente determinate che sono il valore, la merce, il denaro, il lavoro, il capitale.

Lavoro: Qui, soprattutto, non bisogna intendere il lavoro come quell'attività, valida in qualsiasi epoca, di interazione fra l'uomo e la natura, come attività in generale. Il lavoro viene qui inteso come l'attività specificamente capitalista auto-mediatizzante, vale a dire che il lavoro esiste per il lavoro e non più per un fine esteriore come, ad esempio, la soddisfazione di un bisogno. Nel capitalismo, il lavoro è allo stesso tempo sia concreto che astratto.
«Criticare il lavoro non avrebbe alcun senso se lo si identifica con l'attività produttiva in quanto tale, che, di certo, è un dato di fatto presente in tutte le società umane. Ma le cose cambiano se per lavoro si intende quello che la parola effettivamente designa nella società capitalista: il dispendio auto-referenziale della semplice forza lavoro, senza alcun riguardo per il suo contenuto. Così concepito, il lavoro è un fenomeno storico, appartenente alla sola società capitalista e che può essere criticato, ed eventualmente abolito». (Anselm Jappe in Crédit à Mort, Ch "Politique sans politique". Ed Lignes.)

Lavoro concreto/lavoro astratto: Per capire la dualità del lavoro nell'analisi di Marx, dev'essere compreso come storicamente determinato nelle sue due dimensioni. Diciamo che il lavoro concreto si riferisce alla "attività dello sforzo" (inteso qualitativamente) ed il lavoro astratto si riferisce alla funzione di mediazione del lavoro nel capitalismo (inteso quantitativamente). La specificità del lavoro nel capitalismo consiste nel fatto che esso mediatizza le interazioni umane con la natura, così come le relazioni sociali fra le persone. Lavoro astratto e lavoro concreto quindi non sono affatto due tipi di lavoro differenti, ma sono due aspetti del lavoro sotto il capitalismo.

Merce: la merce non è un semplice oggetto. Essa è in realtà piena di "sottigliezze metafisiche". Contrariamente al semplice prodotto, la merce ha una doppia natura: sia il valore d'uso che il valore. Quello che fa sì che essa può essere utilizzata o consumata è ciò che determina il suo valore d'uso, quello che fa sì che essa può essere scambiata con qualsiasi altra merce, oppure semplicemente venduta, significa che essa possiede una valore che non ha alcun rapporto con le sue particolari qualità di oggetto. Essa è una materializzazione del tempo astratto.

Valore d'uso: Una delle due "facce" della merce, esso agisce come da supporto al valore. Ad esempio, un bicchiere, come valore d'uso ha quello di contenere un liquido che può essere bevuto. Tale valore d'uso, contrariamente al valore, non può essere paragonato quantitativamente ad un altro valore d'uso; è una qualità incommensurabile ed entra quindi, per così dire, in "conflitto" con l'altra faccia della merce che è il valore, il quale è per sua essenza quantificabile. Sarebbe pertanto ridicolo partire da una difesa del valore d'uso come base per una teoria dell'emancipazione. In effetti, esso è una delle categorie storicamente determinate dal capitalismo.

Feticismo: Marx paragona il rapporto che l'individuo ha con le merci in seno alla società capitalista, a quello che esiste nelle società primitive verso i totem o verso altri feticci. Secondo un potere esterno alla sua stessa produzione, l'essere umano si sottomette ad una forma di non-coscienza. Il carattere di feticcio della merce implica un'inversione del rapporto soggetto/oggetto tale che gli individui si trovano ad essere dominati da degli oggetti che essi producono.
La logica di accumulazione astratta del valore (la valorizzazione del valore) genera un doppio movimento: da una parte, una cosificazione delle persone e delle loro relazioni (reificazione) e, dall'altra parte, una personificazione delle cose.
Il feticismo capitalista lo si trova nel fatto di attribuire un carattere naturale alle categorie capitaliste del lavoro, della merce (così come la proporzione in cui essi vengono scambiati sembra appartenere alla loro natura, allo stesso modo in cui le proprietà chimiche del carbone o dell'idrogeno determinano la forma di un corpo), del mercato, o dello Stato.
In questo mondo realmente rovesciato, i rapporti fra gli uomini prendono la forma di rapporti fra cose.

- fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

venerdì 23 giugno 2017

Salumieri e Burocrati in cerca dei cattivi

vilain

Sul manifesto elettorale del Partito Comunista Francese (del 1937), si può leggere: "Questi uomini non rappresentano né il lavoro creativo né l'onestà del risparmiatore, né la tecnica della produzione; non sono altro che i parassiti della Borsa, della speculazione e del profitto".
Difficile dare una definizione più sintetica di quello che è l'anticapitalismo tronco, portato avanti, ieri come oggi, dal "marxismo tradizionale", con la sua rapida inclinazione antisemita.

Il cattivo speculatore
- di Robert Kurz -

I Social Forum e le alleanze dei manifestanti vedono crescere i loro ranghi, gli studenti scioperano conto il taglio dei bilanci e l'aumento delle tasse scolastiche. La società si indigna e tuona dopo che, sotto l'etichetta di "Agenda 2010", le contro-riforme antisociali colpiscono le persone in maniera peggiore del previsto (queste contro-riforme non risparmiano più nemmeno le classi medie). Si delinea una nuova congiuntura per i movimenti sociali. E come ci si poteva aspettare, la dinamica sociale in seno alla sinistra e nelle organizzazioni che, come Attac, animano questi movimenti ravvivano la controversia intorno alle interpretazioni che vengono date della crisi. Questa disputa intorno alle cause sociali del declino sociale, tuttavia, non è affatto nuova. Essa ha una lunga storia, che, per chi si sporge ad osservarla meglio, rivela dei tratti sorprendenti.
Il XIX secolo ha conosciuto una critica del capitalismo specificamente piccolo borghese che intendeva spiegare la crisi e la povertà per mezzo delle sole esigenze del capitale portatore di interessi, ovvero, del capitale finanziario. Senza questo "gioco dell'interesse" - ad esempio, pensava Proudhon - non ci sarebbero più state crisi. Si trattava del punto di vista del piccolo bottegaio che ancora oggi (e che va dal proprietario del piccolo bar fino all'azienda di software) è incline a pensare che lui lavora solo "per la banca", dal momento che l'onere degli interessi e del pagamento dei crediti è pesante. Quel che dimenticano, è il fatto che, senza credito bancario, non sarebbero stati in grado di pagare il costo dei loro investimenti, oppure sarebbero falliti da molto tempo. Ed il capitale denaro, nel modo di produzione capitalista, è un elemento specifico del mercato, il quale, piaccia o meno, ha un suo prezzo.

Diverso, è stata l'argomentazione del marxismo classico del movimento operaio, come è stato rappresentato, fra gli altri, da Rudolf Hilferding nel suo libro "Il capitale finanziario" apparso nel 1910. Per lui, il capitale finanziario non costituisce la fonte di tutti i mali, bensì è un potere progressista e socializzante che rimane solo da sottomettere al controllo dello "Stato proletario". Una volta che questo controllo è stato messo in atto, si sarebbe praticamente realizzato il socialismo, quanto meno per quello che sono le sue basi. Questa, è stata certamente una visione che rimaneva largamente al di sotto del problema. In quanto Hilferding, così come il marxismo del movimento operaio nel suo insieme, non metteva per niente in discussione il principio "produttivo" della valorizzazione, la forma sociale della "valorizzazione del valore", pensando che la trasformazione decisiva sarebbe stata realizzata con il controllo politico puramente esterno esercitato dal "partito operaio" e dallo "Stato operaio". Pertanto, questa visione che rimaneva al di sotto di Marx, e che non era consapevole della forma feticistica del valore, era ben diversa dalla visione piccolo-borghese.

A considerare la discussione che è sul punto di nascere oggi, si può constatare che, nell'ideologia spontanea dei movimenti, si ha piuttosto la tendenza ad enfatizzare la versione piccolo-borghese della critica del capitalismo. A partire dagli anni 1990, è l'economia speculativa della bolla finanziaria che passa per essere la vera causa della crisi. E ci si diletta a fustigare la "avidità" dei cattivi speculatori. Quanto al capitale portatore di interessi, la pretesa fonte di tutti i mali, si intende assegnargli il posto dovutogli al fine di reindirizzare il denaro (che si pretende "non ce ne sia abbastanza per tutti") verso degli investimenti di capitale produttivo. Qui viene invertito il rapporto fra causa ed effetto. In realtà, la crisi è condizionata dal limite interno del capitale produttivo stesso. La forza produttrice della terza rivoluzione industriale [quella della microelettronica] oltrepassa la capacità di assorbimento del modo di produzione capitalista, viene "liberata" troppa forza lavoro si vedono nascere delle sovraccapacità che rendono di per sé inutili gli investimenti produttivi. È solamente questo ad aver generato l'economia fondata sul debito e la bolla speculativa. Non è altro che il risultato della crisi e la forma assunta da essa, e non la sua causa.

Ma la coscienza attualmente predominante nei movimenti sociali, intende solo criticare il capitale finanziario, e non il modo di produzione capitalista. Tale griglia di interpretazione riguarda sia i movimenti sindacali sia ciò che resta del marxismo accademico, come se avessimo dimenticato la teoria formulata da Marx circa le crisi dell'accumulazione. In sostanza, c'è qui un deficit di Hilferding. Quali sono le ragioni?

Principalmente: il collasso del socialismo di Stato ha reso obsoleta l'opzione principale del marxismo del movimento operaio, che consisteva nel fatto che lo "Stato proletario" prenderebbe sotto il suo controllo il "potere progressista" del capitale finanziario. Non c'è più nessuno che osi difendere un simile punto di vista. In secondo luogo, in seguito ai processi di socializzazione e di individualizzazione del capitalismo, la base sociale dei movimenti è ben lontana da una "classe operaia produttrice di plusvalore", ma essa costituisce piuttosto un soggetto diffuso e generalizzato della valorizzazione in cui le diverse categorie sociali - a partire dai beneficiari di assistenza sociale fino al tristemente famoso "Ich-AG" [*1] e passando per gli interinali, gli eterni studenti e gli abbonati ai lavori saltuari - si fondano le une sulle altre e diventano sempre più precarie. Il carattere sociale che ne risulta si trova spontaneamente caratterizzato da un lato neo-piccolo-borghese [*2] (da ciascuno secondo il suo proprio capitale umano, a ciascuno autovalorizzatore di sé stesso), ed il mezzo di produzione "autonomo" si riduce addirittura alla pelle dell'individuo. In terzo luogo: la nuova qualità della crisi fa sì che ciò che rimane del nucleo del lavoro industriale apparentemente produttivo dipenda ormai dall'anticipo "speculativo" su una futura creazione di valore (sovrastruttura del credito, iper-indebitamento a tutti i livelli, economia della bolla speculativa).

In questi contesti, è la dipendenza generale rispetto al capitale finanziario autonomizzato che viene visto come il vero scandalo, mentre la vera causa della crisi rimane ignorata. Lo stesso marxismo universitario (ad ogni modo, già diluito nel keynesismo) diviene ricettivo rispetto a questa sotto-critica - tanto più che la teoria keynesiana è centrata su una pretesa soluzione della crisi all'interno del capitalismo, che si rivolge agli interessi ed al capitalismo finanziario. Non si deve passare sotto silenzio che una simile critica tronca del capitalismo ha qualche affinità che la pone in contatto con delle ideologie della crisi populiste di destra. Si sa bene che storicamente una critica ridotta alla critica del capitalismo finanziario, si è sempre accompagnata a degli stereotipi antisemiti. Quanto ai media borghesi, essi scoprono in questo una possibilità di denunciare il movimento sociale in generale come "potenzialmente antisemita". Ci si può opporre a questa denuncia solo superando l'analisi regressiva e tronca che si limita al capitale finanziario e per mezzo della rivendicazione di un modo nuovo, sia tanto della socializzazione - che il principio di valorizzazione non è più in grado di rappresentare - che del suo potenziale civilizzatore (servizi pubblici, ecc.): oltre Hilferding, non al di sotto.

-Robert Kurz - Dicembre 2003 -

NOTE:

[*1] - Una delle trovare antisociali dell'Agenda 2010. La misura mirava a combattere il lavoro nero, invitando i disoccupati a mettersi ciascuno in proprio e diventare così un "Ich-AG", un "Io, Società Anonima". Vale a dire assumere lo status di auto-imprenditore.

[*2] - "Lato neo-piccolo-borghese" sta per "sekundâre Kleinbürgerlichkeit" ("piccola borghesia secondaria"). Non si tratta qui della mentalità piccolo borghese quale si manifesta durante l'avvento del capitalismo nel corso degli anni che vanno dal XVIII al XIX secolo, ma di una sua versione "relookée", riscaldata.


fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

giovedì 22 giugno 2017

Progetti per il passato

agamben

Che cosa resta?
- di Giorgio Agamben -

1.
«Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato». Questa frase di Flaiano – uno scrittore le cui battute vanno prese estremamente sul serio – contiene una verità su cui vale la pena di riflettere. Il futuro, come la crisi, è infatti oggi uno dei principali e più efficaci dispositivi del potere. Che esso venga agitato come un minaccioso spauracchio (impoverimento e catastrofi ecologiche) o come un radioso avvenire (come dallo stucchevole progressismo), si tratta in ogni caso di far passare l’idea che noi dobbiamo orientare le nostre azioni e i nostri pensieri unicamente su di esso. Che dobbiamo, cioè, lasciare da parte il passato, che non si può cambiare ed è quindi inutile – o tutt’al più da conservare in un museo – e, quanto al presente, interessarcene solo nella misura in cui serve a preparare il futuro. Nulla di più falso: la sola cosa che possediamo e possiamo conoscere con qualche certezza è il passato mentre il presente è per definizione difficile da afferrare e il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata che nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro: costui sta quasi sempre cercando di intrappolarvi o di raggirarvi. «Non permetterò mai all’ombra del futuro» ha scritto Ivan Illich «di posarsi sui concetti attraverso cui cerco di pensare ciò che è e ciò che è stato». E Benjamin ha osservato che nel ricordo (che è qualcosa di diverso dalla memoria come immobile archivio) noi agiamo in realtà sul passato, lo rendiamo in qualche modo nuovamente possibile. Flaiano aveva allora ragione suggerendoci di fare progetti sul passato. Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente, mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente.

2.
Immaginate di entrare in una farmacia e di chiedere un farmaco di cui avete urgente bisogno. Cosa fareste se il farmacista vi rispondesse che quel farmaco è stato prodotto tre mesi fa e quindi non è disponibile? È esattamente quello che capita oggi entrando in una libreria. Il mercato librario è diventato oggi un Assurdistan in cui la circolazione esige che il libro sia tenuto in libreria il meno possibile (spesso non più di un mese). Per conseguenza, lo stesso editore programma libri che devono esaurire le loro vendite – se ci sono – a breve scadenza e rinuncia a costruire un catalogo che possa durare nel tempo. Per questo io – che pure ritengo di essere un buon lettore – provo sempre più disagio entrando in una libreria (ci sono naturalmente eccezioni), dove i banchi sono occupati solo da novità e dove riesco sempre più di rado a trovare la medicina (cioè il libro) di cui ho vitale bisogno. Se librai e editori non si rivolteranno contro questo sistema, in buona parte imposto dai grandi distributori, non ci sarà da meravigliarsi se le librerie spariranno. Così come sono diventate, non potremo nemmeno rimpiangerle.

3.
Nicola Chiaromonte ha scritto una volta che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non è che cosa abbiamo avuto o non avuto, ma che cosa resta di essa. Che cosa resta di una vita – ma anche e ancor prima: che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? All’intervistatore che le chiedeva «che cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?», Hannah Arendt rispose «resta la lingua». Ma che cos’è una lingua come resto, una lingua che sopravvive al mondo di cui era espressione? E che cosa ci resta, quando ci resta soltanto la lingua? Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? Ricordo che Ingeborg Bachmann mi disse una volta che non era capace di andare dal macellaio e chiedergli: «mi dia un chilo di fettine». Non credo che volesse dire che la lingua della poesia è una lingua più pura, che si trova al di là della lingua che usiamo dal macellaio o per gli altri usi quotidiani. Credo piuttosto che la lingua della poesia sia l’indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane, così come qualcuno ha scritto che l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto. Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. La poesia e il pensiero attraversano la lingua in direzione del nome, di quell’elemento della lingua che non discorre e non informa, che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama. Un breve testo che Italo Calvino usava dedicare agli amici come il suo «testamento spirituale» si chiude con una serie di frasi mozze e quasi ansimanti: «tema della memoria – memoria perduta – il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio.

Giorgio Agamben - 13 giugno 2017 - Pubblicato su Quodlibet -

Queste note riproducono parte dell’intervento al Salone del libro di Torino il 20 maggio 2017.

fonte: Quodlibet

mercoledì 21 giugno 2017

In un sol colpo!!!

solcop2

Possiamo arrivare al comunismo in un colpo solo?
- di Jehu -

Un saggio del 2014, scritto da Jasper Bernes e Joshua Clover, "The Ends of the State", che affronta il problema dello Stato e di una strategia rivoluzionaria, sostiene che una rivoluzione proletaria non può arrivare ad ottenere più di quello che realizza subito inizialmente:
«Come viene sostenuto da noi e da molti dei nostri contemporanei, il fatto di stabilire queste nuove condizioni sociali, nella loro più ampia misura possibile, oggi non solo è il probabile percorso che può essere seguito, direttamente o indirettamente, da un processo rivoluzionario, ma, date le oggettive condizioni materiali, è l'unica speranza per un suo eventuale successo.»

A leggere questo passaggio, sembrerebbe che gli autori (i quali sono collegati ad "Endnotes") stiano dicendo che una rivoluzione proletaria è strettamente limitata a quello che può realizzare inizialmente a partire dalla pura forza della rivoluzione stessa. Dopo l'iniziale onda d'urto, si stabilisce un percorso di sviluppo tipico dell'accumulazione capitalista. Se una rivoluzione proletaria non riesce ad arrivare al pieno comunismo in un colpo solo, diventa allora semplicemente una forma di sviluppo capitalistico?
Per usare un'analogia: se una stella non ha massa sufficiente, essa non produce un buco nero, ma si stabilizza e vive la sua vita come stella nana. Allo stesso modo, per arrivare al comunismo in un colpo solo si richiede una quantità di materiale di sviluppo che non è necessariamente dato. In assenza di tali sufficienti condizioni materiali, la rivoluzione fallisce.
L'ipotesi appare provocatoria, perciò va esaminata.

Il saggio di Bernes e Clover è interessante dal momento che suggerisce che sia i socialdemocratici che i sovietici non hanno fallito a causa delle loro peculiari carenze, ma perché non sono stati in grado di arrivare al pieno comunismo facendo un solo salto, ed hanno dovuto quindi ripiegare sul capitalismo.
Lenin lo ammette, quanto meno, nella sua introduzione alla NEP (Nuova Politica Economica), e dice che avendo fallito a fare il salto nel pieno comunismo, la rivoluzione sovietica ha dovuto ripiegare:
«La Nuova Politica Economica significa sostituire con una tassa la requisizione di cibo; significa tornare al capitalismo in una misura notevole - quanto notevole non lo sappiamo. Concessioni a capitalisti esteri (vero, sono molto pochi quelli che sono stati accettati, soprattutto se li paragoniamo al numero offerto) ed affittare imprese a capitalisti privati significa ripristinare definitivamente il capitalismo, e ciò è parte integrante della Nuova Politica Economica; in quanto l'abolizione del sistema dell'appropriazione del surplus di cibo significa permettere ai contadini di commerciare liberamente il loro surplus di produzione agricola, riguardo tutto quel che rimane dopo che sono state riscosse le tasse - e le tasse riguardano solo una piccola quota di quel prodotto. I contadini costituiscono un'ampia quota della nostra popolazione e di tutta la nostra economia, ed è questo il motivo per cui il capitalismo deve crescere a partire da questo terreno di libero scambio.»
Fondamentalmente, a prescindere dalla strada scelta - Seconda o Terza Internazionale - il risultato sarebbe stato lo stesso: mancando un salto al pieno comunismo in un colpo solo, sarebbe stato necessario un ulteriore sviluppo capitalistico. Il problema era che in nessuno dei due casi la rivoluzione era potuta arrivare direttamente al comunismo e la società era tornata indietro ad un periodo di ulteriore sviluppo capitalistico.

È un'ipotesi interessante. Si ammette che la fase pià bassa del comunismo è semplicemente una forma di sviluppo capitalistico. Marx parla di questo nella sua Critica del Programma di Gotha, dove discute sulla persistenza della diseguaglianza fra i membri della società dopo la rivoluzione:
«L'uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese, benché principio e pratica non si accapiglino più, mentre l'equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.... Nonostante questo processo, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l'uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro... Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società.»

La fase più bassa del comunismo comportava un periodo di tempo in cui questi governi della classe operaia avrebbero agito effettivamente come capitalisti. Nella misura in cui la classe operaia non poteva saltare in un sol colpo al pieno comunismo, tutta la sua rivoluzione  nella sua iniziale onda d'urto avrebbe consistito nel rimuovere gli ostacoli ad un ulteriore sviluppo capitalistico.
Non sorprende che questo sia essenzialmente quello che aveva proposto Marx nel Manifesto Comunista! La rivoluzione proletaria non sarà un singolo evento, ma coprirà un'intera epoca storica:
«Il proletariato userà il suo potere politico per strappare progressivamente alla borghesia tutti i suoi capitali, per centralizzare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, dunque del proletariato organizzato in classe dominante, e per moltiplicare il più rapidamente possibile la massa delle forze produttive.
In un primo momento ciò può accadere solo per mezzo di interventi dispotici sul diritto di proprietà e sui rapporti di produzione borghesi, insomma attraverso misure che appaiono economicamente insufficienti e inconsistenti, ma che nel corso del movimento si spingono oltre i propri limiti e sono inevitabili strumenti di trasformazione dell'intero modo di produzione.
»

Sia teoricamente, sia per quanto attiene all'esperienza pratica, i comunisti realizzano che noi non possiamo saltare il capitalismo, ma possiamo solo accelerare il suo sviluppo rimuovendo gli ostacoli al suo sviluppo delle forze produttive. Il problema con questa rappresentazione, ad ogni modo, sta nel fatto che non è del tutto chiaro cosa Jasper Bernes e Joshua Clover intendano per pieno comunismo - un termine che a volte nel loro testo è stato impiegato in maniera un po' ironica. A tale cosa bisogna rimediare!

Pieno comunismo significa abolizione del lavoro salariato, del denaro e dello Stato. Usando questa definizione come punto di partenza, possiamo dire che se la rivoluzione non può abolire in un sol colpo il lavoro salariato, il denaro e lo Stato si richiederà un periodo di ulteriore sviluppo capitalistico. Questo periodo di ulteriore sviluppo capitalistico si richiede per creare le condizioni materiali per l'abolizione del lavoro salariato, del denaro e dello Stato. Secondo Marx, questo costituisce anche la missione storica del capitale.

Le condizioni materiali per il comunismo assumono un livello di sviluppo delle forze produttive molto elevato, ed assumono che il lavoro sia stato reso superfluo ai fini della produzione di ricchezza materiale. Da un altro lato, le condizioni per cui il comunismo è possibile in un unico processo sono determinate dalla misura in cui il lavoro è stato reso superfluo per la produzione di ricchezza materiale. Se quasi tutto il lavoro attuale è superfluo, il potenziale per il pieno comunismo in un solo colpo è molto alto.
Per noi, questa è una buona cosa, in quanto, come ha spiegato Marx nella sua prefazione al Contributo alla Critica dell'Economia politica, del 1859, « il materiale ... le condizioni economiche di produzione ... può essere determinato con la precisione delle scienze naturali». È possibile che facendo uso della teoria di Marx, possiamo stabilire oggettivamente se le forze materiali di produzione si sono sviluppate in misura tale che il pieno comunismo sia possibile in un sol colpo; vale a dire, dovremo essere in grado di stabilire se possiamo mettere fine al lavoro salariato, al denaro ed allo Stato, in un sol colpo.
La premessa materiale per questo tipo di rivoluzione è che quasi tutto il lavoro attualmente impiegato è interamente superfluo per la produzione di ricchezza materiale. Se è così, allora possiamo abolire il lavoro salariato - ed insieme ad esso, il denaro e lo Stato - senza sacrificare in alcun modo il nostro attuale standard materiale di vita.

Sfortunatamente, per i comunisti, una tale questione non si trova mai sul tavolo; invece, ci troviamo sempre davanti quella che è esattamente la questione opposta: come fare per impedire che il lavoratori possano diventare superflui per la produzione di ricchezza materiale; come impedire all'automazione di portarci via il nostro lavoro; come fare ad impedire la disoccupazione e mantenere la piena occupazione del lavoro.
Piuttosto che ammettere che ora il lavoro è superfluo, combattiamo per mantenerlo. Quindi la classe operaia fa esperienza delle condizioni materiali necessarie al comunismo in un sol colpo come potenziale possibilità di una catastrofe economica senza precedenti.

Possiamo arrivare al comunismo in un sol colpo?
Dovrebbe essere così, considerato che tutti i comunisti oggi sembrano essere preoccupati di come fare per mantenere il lavoro salariato, il denaro e lo Stato, ed impedire che essi ci lascino.

- Jehu - Pubblicato su The Real Movement

fonte: The Real Movement

 

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martedì 20 giugno 2017

L’invenzione della Sicilia

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La letteratura moderna ha documentato assai efficacemente il lungo e conflittuale processo di assimilazione della Sicilia alla nazione italiana: un’integrazione culturale e sociale, prima ancora che politica, disarmonica e per molti aspetti ancora incompiuta. Ma la letteratura, specie la narrativa di autori siciliani, è stata interpretata, sovente in maniera forzosa e ideologicamente tendenziosa, come repertorio di una presunta identità siciliana immutabile, di un’ontologia metastorica per la quale perfino la mafia sarebbe un carattere antropologico piuttosto che un fenomeno criminale. Il libro rivisita alcuni momenti della fondazione letteraria dell’ambigua nozione di identità siciliana moderna: dalla breve stagione dell’illuminismo isolano alla comparsa della tematica mafiosa nella narrativa del secondo Ottocento, fino alle riscritture romanzesche dell’impresa risorgimentale. Una rilettura suffragata dall'idea che sia giunto il tempo di rivedere criticamente alcuni dispositivi discorsivi che riguardano la cosiddetta “letteratura siciliana”, nonché da una fedeltà irrinunciabile, per quanto problematica, al magistero di Leonardo Sciascia.

(dal risvolto di copertina di: Matteo Di Gesù, L’invenzione della Sicilia. Letteratura, mafia, modernità, Carocci)

sicilia

Introduzione
- di Matteo Di Gesù -

In apertura del suo "Tutti a cena da Don Mariano"[1], uno dei più importanti studi sulla letteratura e la società siciliana della nuova Italia, Massimo Onofri non poteva esimersi, in sede preliminare, dal prendere le distanze dal sicilianismo più corrivo, appellandosi piuttosto alla ben più sottile nozione sciasciana di «sicilitudine»[2], non priva anch’essa, invero, di qualche ambiguità. Nel farlo, riprendeva alcuni passi di Giuseppe Giarrizzo, uno storico al quale, tra gli altri, si deve il merito di avere contribuito ad affrancare la ricerca storiografica da certo meridionalismo grossolano, che si ferma alla descrizione di una Sicilia barbara e refrattaria a ogni modernizzazione nonché, appunto, dal sicilianismo apologetico.

Cosa ha fatto, cosa fa della storia anche contemporanea della Sicilia una storia difficile? La costante pretesa di essere un’esperienza storica ‘speciale’, ‘diversa’, pretesa che concorre ad alimentare la mitografia: ecco allora ‘la Sicilia – nazione’, il cui ‘popolo’ sopravvive a tutti i soprusi e a tutte le conquiste : la Sicilia – isola, orgogliosa e sequestrata; la Sicilia ‘feudale’ delle faide municipali, della gelosia possessiva, della cultura contadina[3].

Alcuni anni dopo, nella Prefazione al secondo volume della Storia della Sicilia da lui curata insieme a Francesco Benigno, lo stesso Giarrizzo poteva convenientemente registrare che:

«C’era un tempo, ed oggi è già passato, in cui la storia della Sicilia era delineata – nei media ma in parte anche nella produzione storiografia – come un’unica, ininterrotta esaltazione dell’unicità. La Sicilia come luogo metafisico, metafora dell’esistenza, concentrato esasperato delle passioni estreme dell’anima. Un Sonderweg strabiliante intriso di ricerche estetiche e di concretissime oppressioni, di una mentalità diffusa descritta come secolare attitudine alla mafiosità e di camaleontiche capacità di una classe dirigente trasformisticamente sempre uguale a se stessa. Una Sicilia obbligata alla modernità ma intimamente e supremamente antimoderna. Sprezzantemente attaccata alle proprie sofferte catene, essenziale legame col mondo struggente, rurale e arcaico, che si veniva perdendo sotto i colpi di una modernizzazione difficile, di quella che è stata definita una crescita senza sviluppo. Oggi che questo tempo è passato, che nuove sfide terribili incitano a ridefinire il volto e il ruolo dell’Isola nell’ambito dell’Unione Europea e di una società globale che si vuole multiculturale e multietnica, forse possibile proporre una storia di Sicilia diversa, meno ineffabile e chiusa, meno provinciale.» [4]

Nel corso del processo di integrazione politica nazionale delle regioni del Sud Italia, disarmonico e conflittuale e per molti aspetti ancora incompiuto, la letteratura, specie la narrativa, ha documentato criticamente queste contraddizioni, ma ha anche prodotto modelli identitari ‘altri’, irriducibili a quelli nazionali egemoni, ovvero è stata interpretata, sovente in maniera forzosa, come repertorio di questa presunta identità metastorica meridionale. In altre parole, di questa tenace persistenza di interpretazioni oleografiche, stereotipiche e quasi mitografiche, nel discorso pubblico ma talvolta anche in sede ‘scientifica’, tocca rendere conto anche alla letteratura, o meglio, alle sue interpretazioni controverse e ai suoi usi disinvolti quando non tendenziosi: sempre Giarrizzo lamentava infatti il tentativo di surrogare con i modelli dei letterati le lacune della ricerca storica, nonché il vizio di assumere acriticamente «lo schema ideologico del letterato». Ma d’altra parte, come annotava Sebastiano Aglianò, in un saggio ormai negletto, scritto significativamente a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale (dunque in una faglia storica decisiva, tra la fine del regime fascista e la nascita della Repubblica), «lo scrittore siciliano ha sempre un certo conto da risolvere con la terra nativa; e lo risolverà in un’opera che può chiamarsi Cavalleria rusticana o I mafiusi di la Vicaria o Don Giovanni in Sicilia o Conversazione in Sicilia: in un’opera, cioè destinata ad ingrandire il mito o a introdurne altri»[5]. Icasticamente, l’italianista Giorgio Santangelo, in un titolo particolarmente efficace, La siepe Sicilia, sintetizzava nell’immagine leopardiana questa condizione; e un altro titolo, stavolta di Vincenzo Consolo, restituisce l’allegorizzazione letteraria di questa separatezza originaria: Di qua dal faro. Mentre Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago, approntando un repertorio letterario degli archetipi di quella che lo scrittore comisano chiamava «isolitudine», hanno optato per un titolo che restituisse la molteplicità e la complessità della storia culturale siciliana: Cento Sicilie.[6]

È indubbio che la letteratura sia stata utilizzata per ricavare discutibili assunti sul ‘carattere dei siciliani’, immancabilmente immutabile, offrendosi come terreno fertile sul quale sono proliferate epitomi e sinossi di secondo grado su come sarebbero fatti i siciliani; che, dunque, sia servita a consolidare e perpetuare i peggiori stereotipi proprio su quella sicilitudine, che, a dispetto delle intenzioni di Sciascia, è presto diventata anch’essa una vera e propria incrostazione culturale, astorica e autoassolutoria, che per lungo tempo ha occluso i canali di qualsiasi pensiero critico sulla Sicilia passata e presente. Di questo uso ideologico della presunta nozione di identità siciliana, inteso come sistematica contraffazione dei fenomeni politici, economici e sociali mediante pretestuose giustificazioni di ordine culturale, com’è risaputo, hanno fatto un uso assiduo i settori sociali più reazionari e conservatori della società siciliana (e, indirettamente, la mafia con essi), ma anche le istanze rivendicative del sicilianismo hanno presto preferito rinunciare alle armi della battaglia civile optando per la retorica più grossolana, talvolta alimentata dagli stessi intellettuali.

È dunque tutta (o quantomeno in parte) colpa degli scrittori la lenta sedimentazione di questo ‘essenzialismo siciliano’, anche a dispetto delle loro migliori intenzioni? Probabilmente non è inopportuno tornare a porsi questo interrogativo, ritornando a riflettere sui testi e sulle stratificazioni della loro ricezione. Anche se, non sempre, mi pare, una nozione come quella di ‘letteratura siciliana’ (o, ancora peggio, un’opzione critica che abbia ritenuto o ritenga pensabile e praticabile una ‘storia della letteratura siciliana’ autonoma dal contesto nazionale) ha contribuito a fare chiarezza su alcuni dei nessi più problematici tra le codificazioni culturali dell’identità siciliana (nonché, specularmente, di quella italiana) dopo l’Unità e i materiali letterari e le loro interpretazioni. Difficile, infatti, stabilire cosa si intenda per ‘letteratura siciliana’, approssimarsi a una sua definizione non aleatoria, considerando le opere prodotte dopo il 1860, posto che possano bastare l’anagrafe degli autori e l’ambientazione delle opere a connotare in senso regionale o pseudonazionale una letteratura. Non certo, evidentemente, perché non esista una linea tracciata dagli autori siciliani chiara e riconoscibile nella tradizione letteraria italiana moderna[7] (ma forse anche due: quella epico-lirica e quella saggistico-discorsiva e plurilinguistica)[8], ma proprio perché di questa genealogia imprescindibile si coglie tutto il valore solo dentro alla storia e alla cultura nazionale postunitaria, anche (se non soprattutto) quando essa si rivela irriducibile alle retoriche delle magnifiche sorti della nazione, tramutandosi in controstoria e controcanto di queste stesse prosopopee e rinnovando quel «gioco di specchi» tra le due Italie di cui ha parlato Sciascia[9].

Così come, d’altro canto, proiettando ancora più indietro lo sguardo, per un’adeguata comprensione della cultura letteraria siciliana moderna sarebbe fuorviante trascurare la tradizione settecentesca e primo ottocentesca (quella per la quale, a ben vedere, avrebbe ancora senso utilizzare ancora la formula ‘letteratura siciliana’, e non solo per l’ovvia ragione che allora esisteva una nazione siciliana). Se ne ricaverebbe senza troppe difficoltà impressioni quantomeno contraddittorie rispetto alla vulgata banalizzante di una letteratura siciliana che prenderebbe vita improvvisamente negli anni Sessanta dell’Ottocento e che si risolverebbe per lo più nell’antropologia negativa della sicilianità o nella declinazione ossessiva di un’identità originaria e immutabile: si pensi alle utopie riformiste dell’illuminismo siciliano, alla formalizzazione insuperata del siciliano letterario di Meli, alle tematiche civili di una generazione di poetesse che innestano nel loro classicismo motivi romantici e istanze prerisorgimentali quali Giuseppina Turrisi Colonna, Mariannina Coffa, Concettina Ramondetta Fileti. Ovvero, allargando l’orizzonte oltre ai confini nazionali, non sarebbe difficile, come del resto è stato abbondantemente dimostrato, inquadrare le esperienze letterarie dei siciliani nella più vasta cornice europea: da George Berkley che si reca a Modica per incontrare e riverire Tommaso Campailla, l’autore dell’Adamo ovvero il Mondo Creato, a Lucio Piccolo che corrisponde con William Butler Yeats.

Nondimeno, la bibliografia critica sugli autori siciliani moderni è a dir poco cospicua e quasi sempre eccellente per rigore critico e profondità di analisi, tanto che sarebbe arduo censirla in maniera sistematica, e nella gran parte dei casi ha fornito contributi decisivi per una lettura delle opere del tutto affrancata dalla ‘sicilanologia’ spicciola, collocandole piuttosto in un’adeguata cornice nazionale ed europea. Alcuni di questi saggi, oltretutto, sono ormai classici della critica letteraria (quelli di Luperini, Macchia, Debenedetti, Orlando, Mazzacurati, Nigro, giusto per citarne alcuni), il cui lascito è stato messo a profitto dalle generazioni successive (alludo agli studi di Pellini, Manganaro, Ganeri, Traina, Ferlita, Carta, Curreri, Squillacioti, tra gli altri): non solo sarebbe improvvido imputare a costoro alcuna correità con il sicilianismo culturale, ma per di più è ad essi che si può attingere per smentirne le interpretazioni contraffatte della tradizione dei siciliani. Si pensi a come studi decisivi quali quelli di Francesco Orlando[10] e Salvatore Silvano Nigro[11] abbiano definitivamente affrancato Il Gattopardo da interpretazioni superficiali e banalizzanti, giusto per fare un esempio: leggere il capolavoro di Lampedusa anche come grande romanzo allegorico, e non come l’imprescindibile palinsesto di ogni piagnisteo sull’irredimibilità dei siciliani, indurrebbe molti dei suoi improvvisati esegeti a meditarne altri passi oltre al celebre monologo di don Fabrizio. Come questo, a proposito dei risultati del plebiscito del 1860:

«Don Fabrizio non poteva saperlo, allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata» [12].

Pur senza aderire alle interpretazioni dell’unificazione nazionale italiana come mero processo di colonizzazione interna o alle letture in termini razzialistici della pubblicistica postunitaria sul Meridione, è comunque indubbio che dopo l’accorpamento delle regioni meridionali al neonato Regno d’Italia, con Capuana prima, e quindi con Verga, la Sicilia, il suo paesaggio, i suoi abitanti, irrompano sulla scena delle patrie lettere (mentre a portarla al centro del dibattito pubblico, a farne questione sociale e politica nazionale ci pensano nel frattempo i due giovani deputati conservatori Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino). Se pertanto si accetta l’assunto secondo il quale l’esigenza di postulare una questione identitaria è stata avvertita dagli autori siciliani a partire dall’incontro/scontro con l’altro – che nel loro caso aveva le sembianze della nuova entità statuale ‘piemontese’ e delle sue classi dirigenti – probabilmente gli studi culturali e postcoloniali, per la parte più convincente e fondata della loro proposta metodologica di critica dei modelli discorsivi egemonici e nella loro efficacia di dispositivo destrutturante, potrebbero propiziare una rivisitazione dei processi con i quali è stata costruita per via letteraria, nella modernità italiana, la cognizione stessa del meridione e della sua identità, e più specificamente di quella siciliana.

Si tratterebbe allora di ponderare in che misura la letteratura moderna siciliana possa essere interpretata, rispetto alla tradizione e in riferimento al processo di costruzione dell’identità nazionale, anche mediante paradigmi e modelli propri appunto di questo ambito teorico; ovvero di verificare se pratiche discorsive assimilabili all’orientalismo, validabili per uno studio culturalistico della questione meridionale, abbiano avuto una matrice letteraria. E dunque, di praticare un Orientalism in one nation, per usare il sottotitolo di una delle sparute indagini condotte in questo campo[13] (Italy’s “southern question” è quello sotto il quale le ha raccolte nel 1998 la curatrice Jane Schneider, studiosa statunitense). Tra i contributi compresi in questo volume, quello di Frank Rosengarten ricava dalla narrativa di Verga, Tomasi di Lampedusa e Sciascia una nozione di «Sicilian Essentialism»[14]. Antesignano, rispetto ai materiali raccolti da Schneider, era stato un intervento di Pasquale Verdicchio, il quale, muovendo dall’assunto per cui le politiche dello stato nazionale italiano, a partire dall’unificazione, possono essere assimilabili a processi di colonialismo interno, estendeva la condizione postcoloniale italiana alle scritture degli emigrati italiani in Nord America[15]. John Dickie (già autore di Darkest Italy, una ricerca nella quale, tra l’altro, viene analizzato il ruolo che una rivista come «L’illustrazione italiana» ebbe nella costruzione e nella trasmissione, nell’immaginario comune, del ‘pittoresco’ meridionale tra il 1873 e il 1900) ha abbozzato un’ipotesi orientalistica per l’analisi della letteratura siciliana postunitaria: Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia[16]. Nordamericano è anche Nelson Moe, al quale si deve il più cospicuo e convincente lavoro sulla stratificazione letteraria dell’immagine del meridione italiano, dalla metà del Settecento alla fine dell’Ottocento, tradotto in italiano alcuni anni or sono: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno[17]. Se questi sono i primi e più significativi materiali teorici e le prime ricognizioni di cui disponiamo, sufficienti comunque a delimitare una branca specifica del postcoloniale italiano, ancora quasi tutto da fare è il lavoro di analisi sui testi letterari e sulla loro tradizione. Vanno allora segnalati, proprio per il coraggioso azzardo ermeneutico che li contraddistingue, la monografia di Alessandra Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro. Una lettura critica postcoloniale[18], e il saggio di Giuseppe Domenico Basile, Said ‘nonostante Said. Il dibattito sull”orientalism in one country’ e i processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano[19].

A ben vedere, la critica letteraria e gli studi culturali, piuttosto che fornirci risposte definitive, ci aiutano a calibrare meglio le nostre domande. «Come si può essere siciliani?»: nel Consiglio d’Egitto, parafrasando Montesquieu il vicerè illuminista Domenico Caracciolo se lo domandava al cospetto del sodale Francesco Paolo Di Blasi, nel momento di accommiatarsi, lasciando l’isola al termine del suo mandato. Il rovello su quella «sicilitudine» con la quale principiava la prima raccolta di saggi dedicati all’isola, La corda pazza, è stato cruciale nella vicenda umana e letteraria di Leonardo Sciascia, suggellata proprio da questo interrogativo gnostico, che intitola il saggio, anch’esso posto in apertura, della sua ultima silloge di prose, Fatti diversi di storia letteraria e civile: Come si può essere siciliani? Più ragionevolmente, oggi possiamo limitarci a formulare una domanda decisamente più banale: come si possono (ancora) leggere i siciliani? Nello stesso anno in cui scompariva l’ultimo grande esponente di questa tradizione, il 1989[20], Rosario Contarino sintetizzava la complessa relazione tra letteratura e identità siciliana in un saggio al quale, dopo più di un quarto di secolo, vale ancora la pena lasciare la parola per approssimarsi ancora meglio a una risposta convincente e chiudere queste pagine:

«In una Sicilia che ha vissuto come negletta ‘periferia’ le grandi trasformazioni dell’era moderna e le sue rivoluzioni politiche e sociali, la letteratura non è stata certo sprovvista di ‘senso della storia’; ma questa coscienza della dinamica degli eventi non è sfociata in una cultura della speranza e del ‘possibile’, ma nella psicologia dell’ ‘insicurezza’ e nell’apologia dell’esistente. E infatti, anche nelle stagioni di più accesa progettualità, sulla Sicilia non si è mai proiettata la luce dell’utopia, ma l’amarezza della denuncia, appena mitigata dalle magie tonali della favola e della rêverie. Ogni vicenda storica è stata osservata dallo scrittore siciliano al controluce della negazione.»

E più avanti:

«Più che la marginalità sociale, il letterato siciliano ha voluto infatti esprimere un animus segnato dal fastidio per l’ufficialità dominante e dal disaccordo non ideologizzato; e celebrando il suo individualismo geloso ma privo di scatti eroici, egli ha inteso opporre alle culture omologanti le tendenze minoritarie e conculcate, senza peraltro pretendere di sostituire ai grandi modelli e paradigmi culturali nazionali e mondiali le esigenze della regione, i suoi segni particolari le sue mancate identificazioni. Quella funzione centrifuga che ha permesso in Sicilia la sopravvivenza di caratteri specifici, non è infatti coincisa – nei suoi più seri e alti risultati – con la nostalgia per un’indigena cultura, che in verità è stata inventata e rimpianta solo in certe pur rigorose e orgogliose retroguardie, tenacemente corrive alla superbia municipale. La ‘sicilianità’ ha componenti psicologiche e letterarie assai più complesse; né può vivere al di fuori della dialettica isola-continente, che, in assenza di gruppi locali organizzati attorno a programmi o iniziative pubblicistiche comuni, assume valore definitorio di un’identità» [21].

Gli autori siciliani possono essere letti non riducendo la complessa e contraddittoria immagine della Sicilia moderna che hanno saputo tracciare a uno stereotipo identitario, indagandola piuttosto nella sua ininterrotta dialettica con la storia e la cultura nazionale e sovranazionale: se davvero non si può comprendere l’Italia senza conoscere la Sicilia (per parafrasare un fin troppo celebre luogo goethiano), allo stesso modo non si può interpretare adeguatamente la tradizione letteraria della Sicilia moderna senza includerla (con tutte le implicazioni di sorta) in quella italiana, che la comprende facendo di essa una sua parte irrinunciabile.

In questo libro confluiscono testi pubblicati nel corso di un decennio, revisionati e aggiornati per l’occasione. Tuttavia non si tratta di una raccolta occasionale di saggi eterogenei: spero che il lettore colga la linearità di un percorso che ha avuto varie tappe ma che ho provato a mantenere continuo e coerente. I capitoli che lo compongono sono tenuti insieme dall’idea che fosse giunto il tempo di cominciare a rivedere criticamente alcuni dispositivi discorsivi che riguardano la cosiddetta “letteratura siciliana”, nonché da una fedeltà irrinunciabile, per quanto problematica, al magistero di Leonardo Sciascia. Ho provato a farlo rivisitando alcuni momenti della fondazione letteraria dell’ambigua nozione di identità siciliana moderna: dalla breve stagione dell’illuminismo isolano alla comparsa della tematica mafiosa nella narrativa del secondo Ottocento, fino alle riscritture romanzesche dell’impresa risorgimentale. Ho tentato di rileggere, insomma, episodi di una ‘invenzione’ da intendere tanto nel senso di creazione letteraria quanto in quello di inventio: rinvenimento, scoperta, conoscenza.

- Matteo Di Gesù -

NOTE:

[1]  Cfr. M. Onofri, Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, Milano, Bompiani 1996.

[2] Cfr. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia [1970], in Id., Opere 1956-1971, a c.di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 961-967.

[3] G. Giarrizzo, Per una storia della Sicilia, in Id., Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Venezia, Marsilio 1992, p. 3.

[4] F. Benigno, G. Giarrizzo (a c. di) Storia della Sicilia, Vol. II, Dal Seicento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. V-VI.

[5] S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia, Sellerio, Palermo 1996.

[6] Cfr. G. Bufalino, N. Zago, Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, Bompiani, Milano 2008.

[7] Basti un titolo tra i tanti ai quali si potrebbe rimandare: N. Merola, La linea siciliana nella narrativa moderna: Verga, Pirandello & C, Rubettino, Soveria Mannelli 2006.

[8] N. Tedesco (a c. di), Storia della Sicilia, vol. VIII, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, Editalia, Domenico Sanfilippo Editore, Napoli 2000.

[9] Sarebbe sicuramente più produttivo mettere a sistema l’opzione dionisottiana di una geografia e storia della letteratura siciliana. Poco fruttuoso, quantomeno per il nostro caso, è stato il tentativo del pur ottimo Atlante della letteratura italiana, se non per un saggio assai prezioso: M. Schilirò, La Sicilia fuori dalla Sicilia (1850-2000), in S. Luzzatto, G. Pedullà (a c. di), Atlante della letteratura italiana, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a c. di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp. 335-347. Assai preziose, sulla questione, le considerazioni svolte da M. Sacco Messineo, La carta geografica rovesciata, in M. Di Gesù (a c. di), Letteratura, identità, nazione, :duepunti, Palermo 2009, pp. 109-120. Anche per queste ragioni, nelle pagine di questo libro il significato del sintagma cristallizzato ‘letteratura siciliana’ andrà inteso in senso debole, attribuendo all’aggettivo un mero significato funzionale.

[10]    Cfr. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Torino, Einaudi 1998.

[11]    S. Nigro, S. S, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio 2012.

[12]    G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Id., Opere, a c. di G. Lanza Tomasi, Mondadori, Milano 1995, p.114. Piero Violante, in un libro che può anche essere letto come una sottile, ininterrotta smentita di molti luoghi comuni sulla Sicilia e i siciliani, dedica alcune pagine di grande intelligenza al romanzo tomasiano, ricavandone un’interpretazione del leitmotiv dell’irredimibilità quale «dato storico originato da una sconfitta politica» piuttosto che presunto carattere identitario metastorico (Cfr. P. Violante, Swinging Palermo, Sellerio, Palermo 2015). Non a caso, l’autorevole «Guardian», in un articolo dell’1 aprile 2015, inseriva Il Gattopardo in una lista di dieci libri utili per comprendere l’Italia.

[13]   Cfr. J. Schneider (ed.), Italy’s “southern question”. Orientalism in one nation, Berg, Oxford-New York 1998.

[14]   Cfr. F. Rosengarten, Homo Siculus: Essentialism in the Writing of Giovanni Verga, Giuseppe Tomasi Di Lampedusa and Leonardo Sciascia, Ivi, pp. 117-131.

[15]   Cfr. P. Verdicchio, The Preclusion of Poscolonial Discourse in Southern Italy, in B. Allen, M. Russo (eds.), Revisioning Italy: National identity and Global Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1997, pp. 191-212.

[16]    Cfr. J. Dickie, Stereotipi di Sicilia, in F. Benigno, G. Giarrizzo G. (a c. di), Storia della Sicilia, cit., pp. 101-112.

[17]    Cfr. N. Moe, , The view from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 2002; trad. it.: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2004.

[18]    A. Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro. Una lettura critica postcoloniale, Carocci, Roma 2013.

[19]    G. D. Basile, Said ‘nonostante Said. Il dibattito sull”orientalism in one country’ e i processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano, in B. Brunetti, R. Derobertis (a c. di), Identità, migrazioni e postcolonialismo in Italia. A partire da Edward Said, Progedit, Bari 2014, pp. 94-110. L’articolo è un estratto dalla tesi di dottorato dello stesso, Scrivere del Mezzogiorno. Processi di auto-orientalismo nella Letteratura italiana, Università degli studi di Palermo, Dottorato di ricerca in Studi letterari e linguistici, a.a. 2011-2013, la prima ricognizione critica complessiva sulla narrativa meridionale tra il 1860 e il 1945 fondata su questi presupposti teorici.

[20]    È anche con riferimento all’anno della morte dell’autore del Contesto che si potrebbe utilizzare la data del 1989 come epilogo simbolico della tradizione letteraria siciliana della modernità: già Consolo e Bufalino, autori comunque fondamentali, oltrepassano questo crinale (cfr. M. Di Gesù, La tradizione del postmoderno, Franco Angeli, Milano 2003 e G. Traina, Siciliani ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre, Mucchi, Modena 2014). Forse non è un caso che nel Il cavaliere e la morte, il testamento narrativo di Sciascia, ci sia un richiamo significativo a quell’anno-soglia, così carico di suggestioni simboliche: a rivendicare i delitti, nella finzione del racconto, è una associazione eversiva che si firma «I figli dell’Ottantanove».

[21]    R. Contarino, Il Mezzogiorno e la Sicilia, in A. Asor Rosa (a c. di), Letteratura Italiana, Storia e geografia, vol. III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi 1989, pp. 787-788.

fonte:  Le parole e le cose Letteratura e realtà