sabato 29 aprile 2017

Il centro della sofferenza

sofferenza

Dalla sofferenza del lavoro alla sua riabilitazione
-Una critica di Christophe Desjours -
di Deun

Il tema della "sofferenza da lavoro" è d'attualità, attraverso lo stress, i suicidi riconosciuti come dovuti a cause professionali, ecc.. Un certo numero di specialisti del lavoro (psicologhi, sociologhi, medici, consulenti o ricercatori) si sono espressi pubblicamente denunciando questa sofferenza, in quanto essa sarebbe dovuta a nuove forme gestionali. Si tratta soprattutto della tesi di Christophe Dejours, il quale sostiene che i collettivi di lavoro vengono distrutti da delle valutazioni individuali. Per cui, i lavoratori non arrivano più a fare ciò  che ritengono di dover fare, e soffrono di un'immagine degradata di sé stessi.
Questa spiegazione si basa sull'idea che il lavoro rimane centrale. Il documentario di Jean-Michel Carré, del 2004, « J’ai (très) mal au travail » (n.d.T.: "Ho (molto) male al lavoro") si chiude su delle immagini di rivolte urbane, con un commento di Christophe Dejours che ci dice che tutto ciò conferma la centralità del lavoro del passato (con l'integrazione dei migranti, grazie al sindacato, nelle fabbriche in cui vengono integrati) e che oggi non c'è niente per sostituirlo. Dobbiamo quindi tornare a formare dei collettivi di lavoro, una solidarietà basata sul lavoro. Se volete criticare il lavoro in tali condizioni, quindi cercate di affilare bene i vostri argomenti perché ben presto si supporrà che state predicando la pigrizia. Come se fuori dal lavoro, non si facesse niente di importante e di vitale. Come se resistere al lavoro dovesse essere necessariamente una tattica individuale... Ecco perciò, qui di seguito, una piccola messa a punto...

Di fronte alla sofferenza da lavoro, forse può essere utile rimettere in discussione la "centralità" del lavoro. Nell'emergenza di un male, bisogna proteggersi da ciò che ci causa troppa sofferenza. Ma, cosa curiosa, gli specialisti della sofferenza sul lavoro, psicologhi e sociologhi, difendono anche l'idea della centralità del lavoro. Perché è il lavoro centrale, socializzante, ciò che fa soffrire, ma tuttavia loro non rimettono in discussione questa centralità. Non ci sono alternative. Il lavoro è naturale, è per esso, è per il lavoro che le persone si mettono insieme, e non solo, essendo l'uomo un "animale sociale", il lavoro è anche naturale, in quanto partecipazione ad un'opera o a quell'organizzazione collettiva che è l'impresa (non è caricaturale: sono queste le idee che stanno anche alla base dei critici del "neo-management"). Ma il lavoro non è affatto naturale, in quanto emerge storicamente, e neppure ha il monopolio di quello che riguarda il collettivo. Il lavoro emerge storicamente in quanto legato allo sviluppo della "economia", una parola la cui etimologia è ambigua ("gestione della casa") proprio perché l'economia che si sviluppa è dovuta al fatto che la vita quotidiana domestica dipende sempre più da ciò che domestico non è, in quanto viene concepito, prodotto, all'esterno della casa, prodotto per l'impresa, organizzato da burocrati pubblici, ecc..
E tutto questo fino ad arrivare ad un punto critico in cui non si riesce nemmeno ad immaginare che si possa fare diversamente. La vita quotidiana invasa dall'economia, è l'impossibilità a non fare altro se non comprare quello che serve per vivere, anche le cose assolutamente vitali. Ora, quest'esistenza economica non è esistita sempre, in quanto una parte variabile delle condizioni di sussistenza veniva, e può sempre essere, presa in carico all'interno di uno spazio domestico più o meno ampio che in genere eccedeva i contorni della famiglia (soprattutto quelli dell'attuale famiglia nucleare). Ora il lavoro è legato all'economia. Non è affatto un'attività come le altre, ma è un'attività che viene svolta in cambio di denaro. Il fatto che la vita quotidiana dipende dall'acquisto di oggetti o di servizi ha la sua contropartita nelle partecipazione alla produzione di tali merci. Il denaro permette di far circolare le merci in un senso, ed il lavoro che le produce, anch'esso merce, le fa circolare nell'altro senso. Non ha niente di naturale. Abituale, banale, difficilmente contestabile e criticabile. Ma niente affatto naturale. Si può combattere la sofferenza del lavoro senza rimettere in discussione una tale organizzazione sociale? Gli specialisti del lavoro e della sua sofferenza non la rimettono affatto in discussione: ci dicono che è "centrale". Riguardo alla sofferenza dovuta al lavoro non hanno altra soluzione (ne condannano gli eccessi, nel mentre che gli eccessi sono la caratteristica propria dell'economia) se non quella di invocare la solidarietà, ciò che manca così tanto agli individui, che si vengono a trovare isolati e colpevoli di fronte ad una macchina-lavoro che dice loro che sono inutili o incapaci. Ovviamente, questa mancanza di solidarietà non impedisce al lavoro di essere svolto. La partecipazione a quel compito comune che è l'impresa produttrice di merci crea benissimo una sorta di solidarietà, ma si tratta della solidarietà della disposizione degli ingranaggi che si incastrano fra di loro per attuare un meccanismo.
Quando una rotella fallisce, il meccanismo non è particolarmente solidale ma desidera ripristinare il suo funzionamento adattandosi ad essa, o rimpiazzandola, se questo non è possibile. Alla fine, non solo il lavoro non è naturale, ma si possono anche avere dei grossi dubbi sulla natura della vita collettiva che esso instaura. Alla base del problema, c'è il fatto che ciò che la macchina ci domanda di fare assai raramente ha molto senso. Intendo dire che il ruolo che ci viene chiesto di svolgere non risponde affatto ai nostri bisogni, ma a quelli di una meccanica che va al di là di noi. Per contro, noi abbiamo bisogno di denaro per comprare ciò che non sappiamo/possiamo produrre, e quindi abbiamo bisogno di lavorare. Ma questo bisogno di denaro non crea veramente senso, per cui in genere ci si ostina a trovare un senso positivo nel lavoro, senza che fondamentalmente non riveli un bisogno immediato.

Fare questo lavoro al suo posto è impossibile. Anche quando rileva un bisogno legato alla sussistenza (mangiare, avere cura di sé, ecc..), assumerlo come scambio di denaro rimane bizzarro, non è più naturale del fatto che ci si deve limitare ad un bisogno solamente, che poi diverrà una professione, una specialità, qualcosa che si farà tutti i giorni per tutta la settimana, continuando a comprare tutto il resto, vale a dire quasi tutto. Progressivamente, il dispiegarsi dell'economia, vale a dire la crescita economica, ha portato ad una vita quotidiana impossibile senza il denaro, rendendo difficile la critica del lavoro. In fondo, il lavoro non è altro che un ricatto per la sussistenza. Non è il lavoro a dover essere centrale, bensì la sussistenza. Ma il lavoro non garantisce questa sussistenza, bensì rende solo possibile, e perpetua, questo ricatto. Perciò bisogna lavorare, non per assicurare a noi stessi tale sussistenza, ma per scambiarla col denaro, secondo un principio di equivalenza laddove le ore passate a produrre delle patate sono comparabili con le ore passate a produrre qualsiasi altra cosa, non importa chi la compra e dove la compri. Diventa quindi chiaro che lasciando crescere l'economia, si è tutti legati ad un sistema iniquo, in cui i valori come la libertà vengono proclamati orizzonti irraggiungibili, impossibili da vivere. Se, ad esempio, si parla di decrescita, lo si fa nel senso di un'alternativa all'economia, per cui è chiaro che i suoi principi di base sono quelli della povertà: rendendo scambiabile ciò che è indispensabile per vivere e per riprodurre la vita, si parte da delle pessime basi politiche. Non si può propugnare la libertà e allo stesso tempo basare la vita sociale sul ricatto della sussistenza. La società del dopoguerra, quella dei nostri genitori, ha creduto che si potesse disinnescare tale ricatto attraverso l'idea di un'abbondanza creata proprio dall'economia... come se a partire da una certa soglia di sviluppo, il lavoro permettesse un accesso incondizionato ed universale alla sussistenza. Quest'idea è ancora presente a tutt'oggi, nel progetti di dare del denaro a tutti, anche senza lavorare (reddito garantito). Quindi, malgrado tutto, l'economia deve crescere, fino a che essa non abbia più bisogno di noi per produrre le condizioni della nostra sussistenza. In realtà, l'eliminazione dell'uomo nella produzione di queste condizioni di sussistenza non cambia molto per quel che riguarda la sua dipendenza dall'economia. Il ricatto può scattare in qualsiasi momento, ed è tanto più imprevedibile quando non sappiamo come tutto questo funzioni. Ed è proprio questo che sta succedendo con l'attuale crisi economica: abbiamo effettivamente perso il controllo della megamacchina che produce la nostra sussistenza, ed abbiamo scoperto con stupore che essa funziona davvero comunque, devastando le risorse materiali indispensabili e continuando a farlo senza fermarsi. Questa crisi ecologica, contrariamente a quanto si sente dire spesso, non è dovuta ad una volontà di dominio che ha superato il limite, ma è piuttosto dovuta al fatto che questo dominio del mondo avviene senza di noi, reso possibile dal fatto che si attiva per mezzo del lavoro, ciecamente, in cambio di denaro, di una promozione, ecc., ma mai per riprendere in mano la nostra sussistenza.

Che si scambino le nostre condizioni di sussistenza con il denaro, o che si deleghi massicciamente la produzione di tali condizioni, i risultato rispetto alla nostra libertà è il medesimo. I guasti ambientali mostrano che il mondo si trasforma senza di noi, che la vita continua senza di noi, in quanto abbiamo una concezione infantile dell'abbondanza, dove non ci si preoccupa affatto di essere autonomi, rifornendoci di qualcosa che vada oltre il nostro nutrimento. Ragion per cui, alcune cose essenziali non hanno bisogno di essere cambiate, pena la perdita della libertà, in quanto ci confrontiamo con una moltitudine crescente di avvenimenti cui non prendiamo parte e su cui non abbiamo alcun controllo. La crisi ecologica significa innanzi tutto la scoperta dell'estraneità e dell'umiliazione di fronte ad un mondo che reputiamo minacciato da noi, ma che in realtà scambiamo per delle immagini che rappresentano persone che controllano il mondo, e che chiamiamo in maniera assai generica con il nome di «tecnici».
Queste immagini non sono scomparse in quanto l'idea di un dominio dei danni ambientali da parte dei tecnici continua ad essere molto forte, anche se l'esperienza ordinaria dei tecnici differisce radicalmente dall'immagine che viene venduta. La libertà del tecnico non esiste al di fuori di un quadro sempre più ristretto, ma malgrado tutto rimane tenace l'idea che sia possibile coordinare strettamente milioni di specialisti, tendendo viva l'idea di libertà... Ancora una volta, l'economia gioca il suo ruolo liberticida, moltiplicando le possibilità di coordinare delle attività sulla base di uno scambio fra le condizioni di sussistenza e quelle attività pericolose, i cui «autori» non comprenderebbero più quali sono le conseguenze.
In quanto un'altra caratteristica del lavoro consiste nell'impossibilità di assumere le sue finalità, sia che esse siano difficili da comprendere o che siano chiaramente dannose, oppure diluite nel gigantismo delle organizzazioni, come avviene nel caso degli infermieri degli ospedali che sorvegliano a distanza per mezzo di videocamere il travaglio delle donne in sala parto.
Il fatto di scambiare la partecipazione a qualcosa con la sussistenza, fa sì che questo qualcosa in genere non ha importanza, vale a dire si tratta di qualcosa per cui si trovi qualcuno da assumere, anche in alto luogo. È così che le giustificazioni delle imprese più complesse, per quanto poco si metta in discussione la loro pertinenza, sono generalmente inesistenti, rimanendo nell'ambito della grossolanità come il progresso, la crescita o altre sciocchezze che non ingannano nessuno.
Più precisamente, la persona che, anziché assumere l'assenza di senso di ciò che fa, invoca queste generalità, svolge anche un ruolo nella sua organizzazione, per dover recitare il suo testo con un minimo di convinzione...

- Deun - pubblicato il 2 maggio 2008 - su SORTIR DE L'ECONOMIE  Bulletin critique de la machine-travail planétaire -

mercoledì 26 aprile 2017

Di/Sperando

sperare

«Credo di non essere la persona più adatta a scrivere un libro sulla spe¬ranza: per me, il proverbiale bicchiere non solo è mezzo vuoto, ma con buona certezza contiene un liquido disgustoso e potenzialmente letale. La filosofia di alcuni è ‘mangia, bevi, sii contento, perché do¬mani si muore’, quella di altri, a me senza dubbio più congeniali, è ‘domani si muore’». Eppure, sostiene il grande critico inglese Terry Eagleton, può davvero sperare proprio chi non è ottimista. L’autentica speranza non è allegria, non è idealismo: essa nasce da un coraggioso confronto con le difficoltà della vita, con le tragedie della storia. Solo questo confronto può portare la salvezza. E la riflessione cristiana – cui è dedicata una parte importante di questo libro – è fra i capisaldi di questo pensiero. Anche Shakespeare lo è; e Benjamin, e naturalmente Marx. Erudito e colloquiale al contempo, Terry Eagleton offre in questo saggio un esempio fulgido di come si possa coniugare profondità filosofica, vastità d’interessi e capacità di coinvolgere il lettore in un corpo a corpo, duro e fecondo, con sé stesso e con le proprie più radicate convinzioni. Un libro di sterminata intelligenza, capace di informare e commuovere, di piantare il seme di una speranza – sofferta ma vibrante – nelle macerie della modernità.    

(dal risvolto di copertina di: Terry Eagleton: Speranza (senza ottimismo). Una guida filosofica, Ponte alle Grazie)


Decalogo filosofico per aspiranti disperati
- di Maurizio Ferraris -
 
Al consolatorio «Poteva andar peggio» raramente si ha il coraggio di ribattere «no», ma si sospetta che proprio quella sarebbe stata la risposta giusta. Si ha un po’ questa impressione leggendo il cautissimo elogio della speranza proposto da Terry Eagleton. Eagleton è un illustre teorico post- marxista della letteratura e della cultura, e deve fare i conti con una grande caduta di speranza, probabilmente la più gran de del secolo scorso. Il suo Speranza ( senza ottimismo) (Ponte alle Grazie) è il frutto della elaborazione del lutto, e più che una guida alla speranza è una sorta di Education sentimentale, una autobiografia sulla perdita delle illusioni. Questo, insieme alla vasta erudizione e al gusto letterario è il suo pregio, il che non toglie che Eagleton parta da un presupposto fondamentalmente erroneo, e cioè che basti un libro — soprattutto se ragionevole — per ritrovare la speranza.
Quando è ovvio che la speranza, come il coraggio per don Abbondio, se uno non ce l’ha non è che se la possa dare, giacché si tratta di una tendenza vitale che non ha niente a che fare con il pensiero. Ciò che il pensiero può darci, semmai, è la consapevolezza che la causa delle nostre disperazioni siamo il più delle volte noi stessi, con le nostre speranze infondate e ambizioni sbagliate. Per illustrare questo assunto ben radicato, del resto, nel senso comune («chi vive sperando, muore disperato») propongo un decalogo costruito sulla scia delle Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick.

1. Coltivate speranze eccessive. È matematico: Cartesio diceva che la sola cosa infinita nell’uomo è la volontà, di cui le speranze smisurate sono, per così dire, la versione in panciolle. Speranze come quella di trovare un posto al ristorante o che il treno arrivi in orario rischiano di essere esaudite. Bisogna sperare altrimenti: se scrivete un libro, contate sul fatto che diventerà un best seller, se comprate un biglietto alla lotteria, chiedetevi come spendere i soldi del primo premio.

2. Coltivate speranze indeterminate, quelle «speranze che non hanno nome» cantate da Nietzsche che difatti è finito malissimo. Una speranza determinata può realizzarsi, se realistica, oppure manifestare la propria totale irrealizzabilità. Una speranza indeterminata, invece, può sopravvivere a qualunque contestazione empirica, e rimanere sempre lì, attiva e frustrante. Mi raccomando: non commettete l’errore di trasformare questa indeterminatezza in una consolazione («non sono diventato ammiraglio, ma era proprio questo quello che volevo?»), e abbiate cura di tenere sempre desta la convinzione che qualcosa lo avrete combinato nella vita, ma non era quello che speravate.

3. Siate ottimisti. E non del solito ottimismo minimale, l’ottimismo della volontà contrapposto al pessimismo della ragione. Convincetevi di vivere nel migliore dei mondi possibili. Come sostiene Schopenhauer, la più grande testimonianza dell’ottimismo è il suicidio, mentre non si è mai visto un pessimista suicida.

4. Siate messianici. Ogni giorno sia per voi niente più che attesa di un qualche evento salvifico, della venuta di qualcuno o di qualcosa capace di redimere il mondo. Prima o poi vi stancherete di aspettare e tra stancarsi di aspettare e incominciare a disperarsi non c’è che un passo (un grande messianico come Benjamin divenne talmente impaziente che si suicidò temendo che l’indomani non gli permettessero di entrare in Spagna salvandosi dai nazisti). Qualora poi continuaste ad aspettare (succede di rado, ma succede) non preoccupatevi, siete un caso disperato, e dunque avete oggettivamente raggiunto il vostro obiettivo.

5. Puntate tutto su una sola carta, possibilmente sbagliata, come quando Rousseau si mise in testa di comporre un’opera musicale senza sapere niente di musica. Le possibilità che le vostre aspirazioni si realizzino come le avete immaginate sono pari a zero, dunque avrete la certezza della delusione, utile preambolo alla disperazione.

6. Credete nell’umano, anzi, sviluppate una religione dell’umanità come quella che provocò abissi depressivi e crisi mistiche al suo inventore, Auguste Comte. Soprattutto, non commettete l’errore fatale di considerare l’umanità come una massa di imbecilli. Il vostro convincimento riceverà infinite conferme, rafforzando la vostra autostima e accendendo una scintilla di speranza.

7. Convincetevi che l’esistenza è piena di senso e che la storia è il racconto di magnifiche sorti e progressive. Basterà una domenica pomeriggio per convincervi del contrario.

8. Credete fermamente nel fatto che il tempo è galantuomo e che tutti, ma proprio tutti, i nodi vengono al pettine. Dopo un momento di conforto kantiano, vi renderete conto di essere i potenziali imputati del tribunale di cui avete auspicato la costruzione, e cadrete nello sconforto.

9. Sforzatevi di capire ogni cosa. Una diffusa e antica credenza suggerisce che l’intelligenza e il sapere rendono felici. È l’ottimismo infondato di Socrate che (a conferma di quanto detto al punto 3) è morto suicida, sebbene con la fattiva cooperazione dei governanti ateniesi. Chiaramente non è così: il mondo è pieno di imbecilli felici, potenti e ammirati, e di geni misconosciuti, disprezzati, e tristissimi. È dunque dalla parte del genio che va cercata la disperazione, mentre i poveri di spirito non hanno bisogno di aspettare il regno dei cieli per coltivare robuste speranze che (in deroga al punto 1) nel loro caso possono realizzarsi. 10. Leggete questo libro di Eagleton. Vedrete trattate come forme di speranza abbastanza ben dissimulata quelle che un osservatore meno parziale considererebbe disperazione bella e buona, per esempio la catastrofica fine di Adrian Leverkühn, il compositore del Doctor Faustus di Thomas Mann, che muore pazzo e indemoniato. Il lettore meno preparato potrebbe concluderne che ci sono pur sempre buoni motivi per sperare, anche nella sciagura; ma il vero professionista della disperazione ne concluderà che vale la reciproca, e che anche quando vi pare di essere speranzosi siete disperati a vostra insaputa.

- Maurizio Ferraris - Pubblicato su Repubblica del 16 febbraio 2017 -

martedì 25 aprile 2017

Agli antipodi

cesarismo

Che cos'è il fascismo
- di André Prudhommeaux -

«Il fascismo non passerà!». Questo slogan, rilanciato dal Cremlino con una potente orchestrazione e ripetuto in coro dai Partiti Comunisti di tutti i paesi, a quanto pare è tanto più efficace quanto più rimane vago. L'avversario non viene designato con un nome, il che permette ad ognuno di raffigurarselo con l'immaginazione, in base ai propri interessi, ai propri pregiudizi, o alle proprie concezioni ideologiche.
Non viene nemmeno definito, e ci si guarda bene dal dire che cos'è il fascismo, sia attraverso l'analisi di esempi concreti presi dal passato, sia in funzione di una teoria politico-sociale del mondo odierno. Infatti, la divisione del lavoro è la seguente: le masse vagamente spaventate o irritate manifestano «contro il fascismo», intendendo in tal senso tutto ciò che possono temere o detestare (guerra, dittatura poliziesca, «reazione», cesarismo, politica anti-operaia, violenze, insicurezza del lavoro, avventure coloniali, esplosioni scioviniste, tallone di ferro del grande capitale, influenza del padronato, delle banche, dell'esercito, del clero, della «bottega», della piccola proprietà rurale, della burocrazia, ecc.). Quanto ai comunisti, essi si riservano di dare a tutta questa espressione ambigua di sentimenti politici estremamente diversi un orientamento e un punto d'applicazione di cui loro rimangono i soli giudici. Per essi è implicitamente «fascista» tutto ciò che non rientra nella linea attuale del Partito, ed è esplicitamente «fascista» ciò che l'Agit-Prop, nella sua ultima circolare, stigmatizza come il nemico numero uno del posto e del tempo.
È così che in passato tutte le potenze, tutti i partiti, tutti i politici, tutte le filosofie, tutte le tendenze, che deviavano anche leggermente dalla linea ufficiale del Partito Comunista in uno qualsiasi dei suoi più stravaganti zig-zag, hanno meritato di volta in volta l'etichetta di fascista. Al contrario, non esiste una potenza, non un politico, non un partito, non un regime - anche se si richiama apertamente a Hitler, a Mussolini o ai loro emuli -  che non sia stato graziato in occasione di una alleanza provvisoria o di un tentativo di «fronte unico», allorquando il termine «fascista» scompariva come per magia. In definitiva, in ogni momento e in ogni ambiente infiltrato da un Partito-capo, è fascista ciò che al Partito piace definire così; e purtroppo, a questo arbitrio terminologico, gli oppositori al bolscevismo e al fascismo non hanno saputo opporre un pensiero e un vocabolario di una certa precisione.
Si contrappone comunemente fascismo e democrazia, fascismo e progressismo, fascismo e rivoluzione, fascismo e proletariato, fascismo e socialismo.
Di recente in una dotta rivista della Sinistra non stalinista, negli Stati Uniti, "Contemporary Issues", L.W. Hedley definiva il fascismo, nello stesso articolo, come centralismo assoluto, come estremismo sciovinista, come immobilismo sociale, come contro-rivoluzione, come aristocrazia, come disfattismo (!) e come individualismo forsennato.

È ovvio che queste contraddittorie equiparazioni non fanno che alimentare la confusione più totale, e riducono l'«antifascismo» ad un arbitrio verbale.
Lungi dall'essere equivalente al «centralismo» assoluto, il fascismo si adatta perfettamente al potere locale arbitrario (ovvero, extra-legale) di un podestà - di un Gauleiter, di uno Statthalter qualsiasi - spalleggiato da una cricca alla maniera di un capobanda. Lungi dall’essere necessariamente «sciovinista», è spesso accompagnato da una xenofilia quasi delirante nei confronti di un modello straniero dominante con la forza e incondizionatamente venerato.
Lungi dall'essere «immobilista», il fascismo è dinamico e futurista al più alto livello, e insiste per abolire tutto ciò che si oppone alla sua utopia totalitaria. Lo spirito della «contro-rivoluzione», vale a dire il ritorno ad uno stato storico precedente, gli è sconosciuto; al contrario, è un'avventura senza freni verso la potenza industriale, militare, statale, ideologica, demografica: una volontà di rottura nichilista. Per tutti questi motivi, esso è ciò che di meno «aristocratico» ci sia al mondo: un movimento dell’uomo massa, una rivincita brutale dell’ignoranza, della volgarità, della bassa demagogia e dell’arrivismo in tutte le sue forme, un maremoto sociale che mette all'apice dei sotto-uomini e degli analfabeti, idoli di un proletariato alla romana — composto, a loro immagine, da disoccupati politicizzati e mantenuti.

Il fascismo non sostiene né i «valori» tradizionali di casta, i quali sono un insulto al suo carattere plebeo, né il contatto con l'«intelligenza», ai suoi occhi sospetta e decadente, né soprattutto «l'individualismo», in quanto nega ferocemente l'individuo e la vita privata. La sua visione del mondo non è storica, ma leggendaria e mitica. Erige lo Stato o la Razza ad assoluto davanti al quale tutti i diritti, tutte le libertà, tutte le particolarità devono sacrificarsi nell'unità. Esalta la passione collettiva della potenza e della violenza del Popolo, considerato come realtà trascendente dalle persone che lo compongono, e si sforza di realizzare questa trascendenza attraverso l’irreggimentazione politico-militare del popolo intero.

In breve, il fascismo è pura democrazia (nel senso etimologico ed assoluto del termine): la democrazia sfrenata e senza limiti morali o costituzionali — la dittatura della democrazia o ancora (se ci si riferisce ad una accezione negativa) la democrazia SENZA TOLLERANZA NÉ LIBERALISMO, la legge di Lynch, la democrazia popolare (e popolana).

Una democrazia assoluta e diretta, come quella concepita da Rousseau nel Contratto Sociale, non ha in effetti nulla a che fare con le garanzie legali di separazione dei poteri, di rispetto delle minoranze; l'habeas corpus gli è estraneo, come le nozioni di interiorità e di vita privata. Essa proclama fittizio e nemico del popolo non solo chiunque agisca — ma anche chiunque parli o pensi «a margine degli altri».
Essa non ammette altro atteggiamento che l'entusiasmo permanente, altro comportamento che lo sfoggio continuo della virtù civica e dello spirito di sacrificio per lo Stato. Infine non conosce altra gerarchia che quella che sanziona la legge del numero e del successo.

Il fascismo è di essenza plebea e plebiscitaria — gregaria, cesariana, leghista e giacobina.

L’antipodo e l’antidoto del fascismo è lo spirito liberale e libertario — vale a dire il senso della responsabilità, della reciprocità, dell'equilibrio e dell'autonomia delle persone — così come si sviluppa all'interno di una società di individui uomini e donne cresciuti fuori dagli appetiti volgari del potere, nella libertà e per la libertà. L'anarchismo ben concepito tende naturalmente a generalizzare all'umanità intera i costumi e i diritti di questa élite d'individualità pensanti ed agenti.
Il fascismo tende precisamente ad annientarla, ed a costruire l'edificio sociale sul più grande comun denominatore dell'essere umano non evoluto — la volontà di potenza alienata e socializzata in volontà collettiva di servitù.

- André Prudhommeaux - [pubblicato su Témoins, n. 15-16, inverno/autunno 1957] -

fonte: finimondo

lunedì 24 aprile 2017

Leggere le lettere!

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Sette documenti e 79 lettere da una molteplicità di voci, alcune delle quali testimoniano più di vent’anni di detenzione.
Pensato come uno strumento di pensiero critico, ma anche e soprattutto come un libro sul carcere, sugli “speciali” (Asinara, Palmi e Voghera) e sulle condizioni detentive di quel momento storico, Visto censura si pone l’obiettivo di analizzare un periodo che si è spesso voluto semplificare, trascurando le sfumature e procedendo a tentoni tra dietrologia e gossip giornalistico.

(dal risvolto di copertina di Visto censura. Lettere di prigionieri politici in Italia (1975-1986), Bébert Edizioni pp. 29, euro 18)

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I pensieri dei detenuti politici in epistole
di Ernesto Milanesi 

Terrorismo, anni di piombo, lotta armata. Storia dell’Italia che qualcuno vuol far combaciare soltanto con le sentenze dei tribunali, mentre – al di là degli archivi di accademici e politici di professione – continuano ad affiorare documenti originali.
È il caso del volume appena pubblicato dalla bolognese Bébert Edizioni (pp. 29, euro 18): Visto censura. Lettere di prigionieri politici in Italia (1975-1986). Materiale scaturito da fondi privati: ordinato, scansionato, «riletto», catalogato. Si tratta di 79 lettere e 7 documenti inediti frutto di un lavoro durato anni. Sono divisi in quattro capitoli: affettività, carcere, politica e documenti. Appartengono ai «prigionieri politici», per lo più delle Brigate Rosse rinchiusi per decenni spesso in carceri speciali come Palmi e Voghera.
Fin dall’introduzione, l’approccio viene dichiarato e offerto alla lettura che può essere alimentata dalla curiosità per la corrispondenza «militante», e non solo: «Comprendere il fenomeno politico e armato a 40 anni di distanza è necessario per riuscire ad analizzare un magmatico momento storico che si vuole liquidare in maniera dicotomica… Abbiamo provato a costruire un piccolo tassello attraverso le storie dei protagonisti che direttamente hanno vissuto la lotta armata, la reclusione, le carceri speciali, le rivolte e gli scioperi della fame».
"Visto censura" restituisce a stampa proprio tutto. La «toponomastica» delle celle all’Asinara nell’estate 1977 oppure i versi da Pianosa nella primavera 1984; i saluti in classico stile Br e i «baci bacini da dividere equamente in famiglia». Corrispondenza d’epoca: lettere sottoposte a lettura preventiva, telegrammi più o meno urgenti, informazioni strettamente affettive. E «analisi di fase», ispirate dalla scelta di militare, da rivoluzionari di professione, nel partito armato.
Materiale messo a disposizione anche da Vincenzo Solli, animatore della rivista Soffione Bora (Lu) Cifero, e prezioso nello sguardo analitico dei saggi introduttivi. Lorenzo De Sabbata (dottorando del Centre de Recherche Historique de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi) parte dalla foto scattata all’inizio di marzo del 1972 a Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens: è il debutto del «mordi e fuggi» delle Brigate Rosse destinato a culminare con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Simone Santorso (docente di Criminologia all’Università di Hull) rilegge, invece, la parabola della lotta armata alla luce delle riforme carcerarie abbinate al «sistema speciale», istituito dal decreto 450 del 12 maggio 1977 con i primi cinque istituti di massima sicurezza (Cuneo, Fossombrone, Trani, Favignana e Asinara) per un migliaio di detenuti. Infine, Giulia Fabini (dottore di ricerca in Law and Society all’Università di Milano e collaboratrice in Criminologia a Bologna) esplora il corpo delle donne in carcere proprio a partire dalla condizione «speciale» dell’altra metà del partito armato, alle prese con la detenzione «tradizionale» che negava ogni aspetto politico.
«VISTO CENSURA» si chiude con un indispensabile glossario che aiuta a districarsi fra le sigle delle organizzazioni, il linguaggio giuridico e il gergo carcerario. La qualità del lavoro di ricerca e della documentazione originale prodotti da Bébert Edizioni è fuori discussione: si tratta di un volume che colma un vuoto. Non solo a beneficio degli storici, ma anche di chi voglia provare a misurarsi con le voci dei protagonisti di quella stagione ormai archiviata.

- Ernesto Milanesi . Pubblicato su Il Manifesto del  1° aprile 2017 -

sabato 22 aprile 2017

Una cosa insolita

noia

Nel 1961, Kurt Vonnegut pubblicò quello che è ancora oggi uno dei migliori racconti distopici di sempre. "Harrison Bergeron" tratteggia in poche, dense pagine una società paralizzata (in un’America “senza tempo”), in cui viene tecnicamente impedito a tutti di pensare: la gente guarda orribili e inutili programmi in tv, e per quelli un pochino più intelligenti l’Handicapper General – che tutto vigila e controlla attraverso i suoi agenti – ha predisposto un dispositivo radiofonico nelle orecchie, che a intervalli regolari trasmette allarmi, campane, esplosioni che impediscono a persone come George, il padre di Harrison, di “trarre un indebito vantaggio dal proprio cervello”. Il presupposto è che la cultura sia intrinsecamente pericolosa, dal momento che esaspera le contraddizioni invece di comporle, e impedisce il conseguimento di un’agghiacciante “uguaglianza”, basata sullo spegnimento delle funzioni intellettuali e critiche,  sulla stupidità programmata.

Harrison Bergeron
- di Kurt Vonnegut -

Correva l'anno 2081 e, finalmente, tutti erano uguali. Non erano uguali solo di fronte a Dio e alla legge. Erano uguali in ogni singolo aspetto. Nessuno era più furbo di nessun altro. Nessuno era più bello di nessun altro. Nessuno era più forte o più veloce di nessun altro. Tutta questa uguaglianza era dovuta agli emendamenti 211, 212 e 213 della Costituzione e alla incessante vigilanza degli agenti del Generale Livellatore degli Stati Uniti.

Però, alcuni aspetti del vivere non erano ancora a posto. Aprile, per esempio, continuava a far impazzire la gente per il suo clima non primaverile.
 
E fu in quel mese umido che gli uomini del G-L si presero Harrison, il figlio quattordicenne di George e Hazel Bergeron.

Fu una cosa tragica, certo, ma George e Hazel non furono in grado di rifletterci eccessivamente. Hazel era dotata di un'intelligenza assolutamente nella media, il che implicava che non fosse in grado di pensare a nulla, se non per frangenti brevissimi. E George, per quanto la sua intelligenza fosse al di sopra della media, aveva una radiolina mentale disabilitante in un orecchio. Era tenuto per legge a portarla costantemente. Era sintonizzata sulla lunghezza di una trasmittente governativa. Più o meno ogni venti secondi, la trasmittente inviava un suono secco per evitare che persone come George facessero un uso indebito del proprio cervello.

George e Hazel stavano guardando la televisione. Sulle guance di Hazel c'erano delle lacrime, ma, in quel momento, non si ricordava più quale ne fosse la causa.

Sullo schermo del televisore apparivano delle ballerine.

Un segnale acustico risuonò nella testa di George. I suoi pensieri si dileguarono, in preda al panico, come banditi messi in fuga da un antifurto.

«Davvero bello il balletto che hanno appena fatto» disse Hazel.

«Eh?» disse George.

«Quel balletto è stato carino» disse Hazel.

«Già» disse George. Tentò di riflettere un po' su quelle ballerine. Non che fossero particolarmente brave, comunque non più brave di quanto sarebbe potuto essere chiunque altro. Erano appesantite da piombi e da sacchetti di pallini da caccia e avevano i volti mascherati di modo che nessuno, vedendo movenze libere e aggraziate oppure un bel viso, si sentisse sciatto. George stava flirtando con la vaga idea che, forse, delle ballerine non dovessero essere menomate. Ma quella riflessione non fece molta strada prima che un altro suono nel suo orecchio disperdesse i suoi pensieri.

George trasalì. E trasalirono pure due delle otto ballerine.

Hazel lo vide trasalire. Siccome lei non aveva handicap mentali, dovette chiedere a George che tipo di suono fosse stato l'ultimo che aveva sentito.

«Come se qualcuno avesse colpito una bottiglia di latte con un martello da muratore» disse George.

«Immagino che debba essere molto interessante poter udire tutti quei suoni diversi» disse Hazel, un po' invidiosa. «Tutte le cose che escogitano».

«Un paradosso» disse George.

«Se io fossi il Generale Livellatore, sai cosa farei?» disse Hazel. In effetti, Hazel assomigliava tanto al Generale Periziatore, una certa Diana Moon Glampers. «Se io fossi Diana Moon Glampers» disse Hazel «farei suonare le campane di domenica. Semplici campane. Sostanzialmente in onore della religione».

«Se fossero solo campane, riuscirei a pensare» disse George.

«Be', magari le farei suonare a volume davvero alto» disse Hazel. «Credo che sarei davvero un bravo Generale Livellatore».

«Brava come tutti» disse George.

«Chi più di me sa che cos'è normale?» disse Hazel.

«Esatto» disse George. Iniziò a fare sprazzi di riflessioni sul suo figlio anormale, Harrison, che in quel momento era in carcere, ma una salva di ventun cannoni nella sua testa li interruppe.

«Cribbio» disse Hazel. «Una cosa insolita, vero?».

Talmente insolita che George era sbiancato e tremava tutto e aveva le lacrime ai margini dei suoi occhi rossi. Due delle otto ballerine erano crollate sul pavimento dello studio e si stringevano le tempie.

«Hai un'aria improvvisamente stanchissima» disse Hazel. «Perché non ti stendi sul divano, per posare sui cuscini il sacco delle menomazioni, tesoro?». Si riferiva ai ventuno chili di pallini da caccia contenuti in un sacco di tela, stretto intorno al collo di George senza che lui potesse sfilarselo. «Va' a posare il sacco per un po'» gli disse. «Non mi importa se per un po' non sei uguale a me».

George soppesò il sacco con le mani. «Non mi dà fastidio» disse. «Ormai, non me ne accorgo nemmeno più. Fa parte di me».

«Da qualche tempo sei stanchissimo, un po' esaurito» disse Hazel. «Se esistesse un modo per aprire un buco nel fondo del sacco e per tirarne fuori qualche pallino di piombo... Qualche pallino, niente di più».

«Due anni di prigione e duemila dollari di multa per ogni pallino che dovessi tirare fuori» disse George. «Non mi pare un grande affare».

«Se solo potessi tirarne fuori qualcuno quando torni a casa dal lavoro» disse Hazel. «Voglio dire, qui non devi competere con nessuno. Qui, devi semplicemente oziare».

«Se cercassi di trovare una via d'uscita» disse George «lo farebbe anche qualcun altro e in breve tempo ci ritroveremmo in un periodo di oscurantismo, con tutti che competono contro tutti. Non ti piacerebbe, vero?».

«Lo odierei» disse Hazel.

«Esatto» disse George. «Secondo te, nel preciso istante in cui la gente dovesse mettersi a frodare la legge, cosa succederebbe alla società?».

Se Hazel non fosse riuscita a tirar fuori una risposta a quella domanda, George non gliene avrebbe potuto fornire una. Una sirena stava scattando nella sua testa.

«Immagino che si sgretolerebbe» disse Hazel.

«Che cosa si sgretolerebbe?» disse George, con uno sguardo vacuo.

«La società» disse Hazel, senza troppa convinzione. «Non è quello che hai appena detto?».

«Chi lo sa?» disse George.

La trasmissione venne interrotta bruscamente da un'edizione straordinaria del telegiornale. All'inizio, non era chiaro quale fosse l'argomento dell'edizione straordinaria, dato che l'annunciatore, come tutti gli annunciatori, soffriva di una grave balbuzie. Per circa mezzo minuto e in uno stato di profondo nervosismo, l'annunciatore cercò di dire, «Signore e Signori».

Alla fine, rinunciò e consegnò il bollettino a una ballerina perché fosse lei a leggerlo.

«Ci ha provato» disse Hazel a proposito dell'annunciatore. «L'importante è quello. Ha fatto del suo meglio, con il corredo che Dio gli ha dato. Dovrebbero assegnargli un bell'aumento di stipendio per lo sforzo che ha fatto».

«Signore e Signori» disse la ballerina, leggendo il bollettino. Doveva essere stata una bellezza straordinaria, considerato quant'era raccapricciante la maschera che indossava. Ed era facile capire che era la più forte e la più aggraziata tra tutte le danzatrici, perché i suoi sacchi delle menomazioni erano grossi come quelli indossati da uomini di novanta chili.

E dovette scusarsi subito per la sua voce, una voce che una donna non avrebbe dovuto usare. La sua voce era una melodia calda, chiara, senza tempo. «Scusate» disse, ricominciando e facendo in modo che la sua voce fosse assolutamente non competitiva.

«Harrison Bergeron, quattordici anni» disse, con una specie di squittio, «è appena evaso dal carcere, dove si trovava, sospettato di aver tramato per rovesciare il governo. È un genio e un atleta, è sotto-menomato e va ritenuto estremamente pericoloso».

Una foto segnaletica di Harrison Bergeron apparve sullo schermo, capovolta, poi sghemba, poi nuovamente capovolta e poi nel verso giusto. La foto mostrava Harrison nella sua altezza completa, indicata da un fondale su cui appariva una scala di misurazione in metri e centimetri. Era alto esattamente due metri e tredici.

Per il resto, Harrison si presentava come una specie di pupazzo di ferro. Nessuno aveva mai portato menomazioni più pesanti. Aveva imparato a ignorare gli impacci più rapidamente di quanto gli uomini del G-P riuscissero a concepirli. Al posto della radiolina impiantata in un orecchio, come menomazione mentale indossava un paio di pazzesche cuffie e occhiali dalle lenti spesse e torbide. Gli occhiali erano concepiti non solo per renderlo mezzo cieco, ma pure per procurargli roboanti emicranie.

Addosso a lui erano appesi rottami vari di metallo. Di norma, c'era una certa simmetria, un ordine militare nelle pastoie assegnate alle persone forti, ma Harrison sembrava un deposito rottami ambulante. Nella corsa della vita, Harrison si portava appresso centotrentacinque chili.

E, per offuscare il suo bell'aspetto, gli uomini del G-P lo costringevano a indossare costantemente una palla di gomma rossa sul naso, a tenere i sopraccigli rasati e a coprire i denti bianchi e ben fatti con capsule nere che lo facessero sembrare sdentato.

«Ripeto, se doveste vedere questo ragazzo, non cercate di ragionarci» disse la ballerina.

Si udì il forte cigolio di una porta strappata dai cardini.

Grida e urla di costernazione uscirono dal televisore. La foto di Harrison Bergeron sussultò più volte sullo schermo, come se stesse ballando al ritmo di un terremoto.

George Bergeron identificò esattamente la natura di quel terremoto e non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che la sua casa aveva ballato spesso sul tempo di quella stessa melodia fragorosa. «Mio Dio» disse George. «Deve trattarsi di Harrison!».

Una presa di coscienza che deflagrò dalla sua mente nel preciso istante in cui udì nella sua testa il rumore di uno scontro automobilistico.

Quando George riuscì a riaprire gli occhi, la foto di Harrison non c'era più. A riempire lo schermo era Harrison in carne e ossa.

Harrison, sferragliante, clownesco e gigantesco, si ergeva al centro dello studio. Stringeva ancora in mano il pomello sradicato della porta dello studio. Ballerine, tecnici, musicisti e annunciatori si erano rannicchiati sui ginocchi davanti a lui, convinti di essere sul punto di morire.

«Sono l'Imperatore!» urlò Harrison. «Avete sentito? Sono l'Imperatore! Tutti devono fare immediatamente come dico io!». Sbatté un piede in terra e lo studio tremò tutto.

«Malgrado le mie menomazioni, le pastoie che mi porto appresso, i malanni che mi affliggono» tuonò «sono un sovrano più potente di qualsiasi uomo mai venuto al mondo! E ora guardatemi mentre mi trasformo in ciò in cui posso trasformarmi!».

Harrison si strappò le cinghie dell'imbracatura delle sue pastoie, come se fossero di cellulosa, strappò cinghie concepite per sopportare un peso di duemilatrecento chili.

I rottami di ferro che rappresentavano le pastoie di Harrison caddero fragorosamente sul pavimento.

Harrison infilò i pollici sotto il lucchetto che assicurava l'imbracatura intorno alla sua testa. Il lucchetto si spezzò come un gambo di sedano. Harrison distrusse le sue cuffie e i suoi occhiali, scagliandoli contro il muro.

Gettò via la palla di gomma che gli faceva da naso e mise in luce un uomo di cui Thor, il dio del tuono, avrebbe avuto una certa soggezione.

«Ora sceglierò la mia Imperatrice!» disse, posando lo sguardo sulle persone rannicchiate. «Che la prima donna che osa alzarsi in piedi si scelga il compagno e il trono!».

Trascorse un momento e poi una ballerina si alzò in piedi, ondeggiando come un salice.

Harrison le staccò la menomazione mentale dall'orecchio, le strappò di dosso le menomazioni fisiche con estrema delicatezza. Per finire, le sfilò la maschera.

La ragazza era di una bellezza abbacinante.

«Illustriamo alla gente il significato della parola ballo?» disse Harrison, prendendola per mano. «Musica!» ordinò.

I musicisti si affrettarono, con qualche impaccio, a raggiungere le proprie sedie e Harrison strappò via anche le loro pastoie. «Suonate al meglio delle vostre capacità e io vi farò baroni, duchi e conti».

La musica iniziò. Dapprima, fu normale: banale, sciocca, finta. Ma Harrison fece scattare i musicisti sulle sedie, li fece ondeggiare a bacchetta mentre cantava la musica nel modo in cui voleva che loro la suonassero. E li riportò bruscamente sulle loro sedie.

La musica riprese, decisamente migliore di prima.

Harrison e la sua Imperatrice per un po' si limitarono ad ascoltare la musica, ad ascoltare con aria solenne, come se stessero sincronizzando i battiti del loro cuore con il ritmo di quella musica.

Spostarono il proprio peso sulle punte delle dita dei piedi.

Harrison posò le sue grosse mani sul vitino della ragazza, facendole avvertire l'assenza di gravità che presto sarebbe stata sua.

E poi, con un'esplosione di gioia e grazia, i due spiccarono un balzo nell'aria!

Non solo vennero abbandonate le leggi della terra, ma pure la legge di gravità e le leggi motorie.

Fecero piroette, mulinelli, avvitamenti, scatti, balzi, capriole e volteggi.

Saltellarono come cervi sulla luna.

Il soffitto dello studio raggiungeva un'altezza di nove metri, ma, ogni volta che quei due ballerini spiccavano un salto, vi si avvicinavano sempre più.

Baciare il soffitto divenne il loro obbiettivo chiaro. E lo baciarono.

E poi, neutralizzando la forza di gravità con l'amore e la mera forza di volontà, rimasero sospesi nell'aria a pochi centimetri dal soffitto e si scambiarono un bacio lungo, molto lungo.

Fu allora che Diana Moon Clampers, il Generale Livellatore, mise piede nello studio, armata di una doppietta di grosso calibro. Fece fuoco due volte e l'Imperatore e l'Imperatrice morirono ancor prima di cadere sul pavimento.

Diana Moon Clampers ricaricò il fucile. Lo puntò contro i musicisti e comunicò loro che avevano dieci secondi per indossare nuovamente le rispettive pastoie.

Fu in quel momento che il tubo catodico del televisore dei Bergeron esplose.

Hazel si voltò per dire qualcosa a George a proposito di quel blackout. Ma George era uscito dalla stanza per andare in cucina a prendersi una lattina di birra.

George tornò nella stanza con la birra e si fermò, quando un segnale di menomazione lo scosse. E poi tornò a sedersi. «Hai pianto» disse a Hazel.

«Già» gli disse lei.

«Per cosa?» le disse.

«Non mi ricordo» disse la donna. «Qualcosa di vero detto in televisione».

«Che cosa?» le disse.

«È tutto confuso nella mia mente» disse Hazel.

«Scordati delle cose tristi» disse George.

«Lo faccio sempre» disse Hazel.

«Ora sì che ti riconosco» disse George. Trasalì. Nella sua testa, udì il rumore di una sparachiodi.

«Cribbio... Ho capito che era una cosa insolita» disse Hazel.

«Puoi ripeterlo».

«Cribbio» disse Hazel. «Ho capito che era una cosa insolita».

***

- Kurt Vonnegut -

venerdì 21 aprile 2017

Frugate il cielo!

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Secondo la teoria degli antichi astronauti, gli extraterrestri hanno raggiunto il nostro pianeta nel passato, lasciando evidenti tracce del loro passaggio. Ma qual è l’origine di questa teoria? Per scoprirlo prepariamoci ad affrontare un affascinante viaggio, che ci porterà a incontrare la storia della scienza e della tecnica, la filosofia, la psicologia e i movimenti spirituali, la fantascienza e le pseudoscienze, il cinema, i fumetti, la radio, la televisione e molti altri settori del sapere umano e, forse, anche extraterrestre.
Quando si parla di “teoria degli antichi astronauti” ci si riferisce in genere alla possibilità che entità extraterrestri abbiano raggiunto il nostro pianeta nel passato, lasciando qualche traccia, più o meno tangibile, del proprio passaggio: si va dall’esistenza di particolari reperti archeologici, non spiegabili all’interno del contesto nel quale sono stati rinvenuti, alla manipolazione del codice genetico degli ominidi preistorici e, quindi, a un’influenza diretta sull’evoluzione del genere umano.
La letteratura relativa a questo argomento, considerato da molti uno dei grandi misteri dei nostri giorni, è stata una delle più prolifiche e commercialmente redditizie della seconda metà del Novecento, e gode tutt’ora di buona, anzi, ottima salute. Ma il termine “teoria” sta in questo caso a indicare qualcosa che ha un fondamento scientifico, oppure no?
Un modo per scoprirlo è quello di ricostruire l’origine di questa problematica, cercando di comprendere quali siano gli ambiti in cui essa si è effettivamente sviluppata e se, fra questi ambiti, possa essere compreso anche quello scientifico.
Per raccontare questa storia, la cosa migliore da fare è indubbiamente quella di attingere soprattutto alle testimonianze dei suoi protagonisti. Verificare testualmente le loro affermazioni, mettendole a confronto, rappresenta infatti un elemento essenziale per comprendere la natura e l’originalità delle argomentazioni messe in campo.
Prepariamoci perciò a un lungo e affascinante viaggio che ci porterà a incontrare la storia della scienza e della tecnica, quella della fi losofia, della psicologia e dei movimenti spirituali, della fantascienza e della pseudoscienza, del cinema, della radio, dei fumetti e di molti altri settori del sapere umano e, forse, anche extraterrestre.

(dal risvolto di copertina di: Marco Ciardi: Il mistero degli antichi astronauti, Carocci, pp 220, €19)

Perché non possiamo non dirci Ufologi
- di Vittorio Sabadin -

Se così tante persone nel mondo credono che gli extraterrestri esistano, siano più evoluti di noi e ci abbiano fatto spesso visita, la colpa (o il merito) è di un ampio stuolo di persone che lo ha ripetuto nell’arco di quasi due secoli. A loro ha dedicato un meticoloso saggio dello studioso Marco Ciardi (Il mistero degli antichi astronauti, Carocci, pp 220, €19), che dovrebbe leggere chiunque venga regolarmente preso in giro perché «crede» negli Ufo: ora potrà rispondere che è in buona compagnia, visto che «ci credevano» anche lo psichiatra C. G. Jung, il fisico Albert Einstein, l’economista John Maynard Keynes, il Nobel Frederick Soddy, il filosofo G. W. Leibniz e decine di altri studiosi e scrittori.

Madame Blavatsky
La tesi di Ciardi, bisogna dirlo subito, è che da 150 anni chiunque si occupi della materia pesca sempre nello stesso stagno. Le direttrici della ricerca che bisogna condurre per credere agli Ufo sono state tracciate una volta per tutte nel 1877 da Helena Petrovna Blavatsky nel suo libro «Iside svelata», la bibbia della Società teosofica da lei fondata. Madame Blavatsky fu la prima a tracciare la via: molti miti religiosi sono concordanti; l’età dell’uomo va oltre la cronologia tradizionale; le prime civiltà non sono quantificabili; la storia del mondo si svolge in cicli segnati da immani catastrofi, l’ultima delle quali è stata il Diluvio; evoluzione e degenerazione caratterizzano questi cicli; lo sviluppo scientifico e mentale di alcune antiche nazioni può essere stato più elevato di quello attuale.
Non ci vuole nulla, partendo da queste premesse, per sentire il bisogno di cercare i continenti perduti di Atlantide, Mu e Lemuria e per attribuire a civiltà scomparse le piramidi, le mura ciclopiche di Baalbek e di Tiahuanaco e i chiodi d’acciaio trovati in sedimenti di roccia preistorica. Molti di quelli che oggi si chiamano OOPArt (Out Of Place Artifacts, oggetti fuori posto) erano già noti a metà Ottocento, ma numerosi altri se ne sono aggiunti. Arthur C. Clarke, lo scrittore di fantascienza, ripeteva che non bisogna domandarsi dove sono gli extraterrestri, ma dove sono gli oggetti fabbricati da loro. Nella sua fantasia, mai troppo disgiunta dal possibile, uno di questi oggetti lo aveva collocato sulla Luna, dove gli astronauti di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick lo trovano. Perché così lontano? Perché gli esseri umani, prima di confrontarsi con quel nero monolito, avrebbero dovuto progredire nelle loro nozioni scientifiche, fino a viaggiare nello spazio. Anche Jack London, in uno dei suoi ultimi racconti, The Red One (Il Dio Rosso), aveva immaginato che dall’isola di Guadalcanal arrivasse un suono misterioso, che si rivelerà essere un messaggio per l’umanità lasciato da una civiltà extraterrestre.

Le colpe dei poeti
Leggendo il libro di Ciardi si finisce con il restare stupiti dall’infinito elenco di persone, celebri e rispettate, che non hanno escluso che la storia dell’uomo non sia andata come pensiamo. Che nel passato ne sapessero più di noi erano convinti anche Isaac Newton, che dedicò parte della sua vita alla ricerca alchemica, e l’economista Keynes, che nel 1936 acquistò i manoscritti del grande scienziato sulla trasformazione dei metalli. Il filosofo Leibnitz credeva che miti come le guerre di Titani e Giganti contro gli Dei fossero la memoria di eventi realmente accaduti. Ma i poeti, aggiungeva forse pensando anche a Omero, hanno poi imbrogliato ogni cosa, rendendo impossibile distinguere il vero dal falso. Responsabili di molti imbrogli sono stati anche i missionari cattolici, che hanno liquidato l’induismo e altre culture come semplici superstizioni, ritardandone colpevolmente la comprensione. Ciardi non dimentica di citare chi ha cercato di riportare un po’ d’ordine in questo campo, e ricorda giustamente il prezioso I grandi iniziati, il libro del 1889 nel quale Edouard Schuré lega ogni religione ad un unico filo.

Le onde radio
Sui misteri degli antichi astronauti hanno indagato anche numerosi italiani. Guglielmo Marconi era ossessionato da onde radio di origine sconosciuta provenienti dallo spazio; L. R. Johamis (Luigi Rapuzzi) spiegava nei Romanzi di Urania come la razza umana fosse il risultato di una fusione tra una stirpe aliena, i Nohr, e i neardenthaliani; Peter Kolosimo (Pier Domenico Colosimo) divulgava con un facile linguaggio negli Anni 70 le prime strane teorie sull’evoluzione umana, ogni volta prudentemente chiuse da un punto interrogativo. Siamo sulla Terra da più di un milione di anni e i nostri ricordi non vanno più indietro di 5000: che cosa sappiamo realmente? Molto poco.

I fumetti
Gli appassionati del genere troveranno gradevole la lettura del capitolo dedicato a come i fumetti abbiano contribuito nel secolo scorso a diffondere l’idea delle civiltà perdute e dei contatti con civiltà aliene. Non solo i più scontati Flash Gordon e Buck Rogers, ma anche le raffinatissime strisce di Jeff Hawke di Sydney Jordan, persino il Tintin di Hergé che si imbatte negli extraterrestri in Volo 714 destinazione Sidney, e ovviamente anche gli indomiti Blake e Mortimer di Edgard P. Jacobs, autore di una suggestiva tavola nella quale l’ultimo disco volante parte da Atlantide proprio mentre l’estrema diga a protezione della città cede alle acque.
Marco Ciardi non prende posizione, non ci dice se anche lui «crede che». Forse gli alieni esistono e ci osservano da millenni come fa un etologo che non vuole disturbare gli animali che studia. Ma forse, a forza di ripetere le stesse cose, la gente semplicemente finisce per credere che siano vere: accade in politica, può benissimo essere accaduto anche con gli Ufo.

- Vittorio Sabadin - Pubblicato su la Stampa del 19/2/2017 -

giovedì 20 aprile 2017

La fine delle fragole

fragole

Fragole, le lacrime di Venere per Adone
- Ultraoltre. Il mito di un frutto "mutante" simbolo di passione amorosa e di cupa morte -

di Raffaele K. Salinari

Let me take you down – Lascia che ti accompagni – ‘Cause I’m going to Strawberry Fields – Perché sto andando nei Campi di Fragole – Nothing is real – Niente è reale – And nothing to get hungabout – E niente per cui preoccuparsi – Strawberry Fields forever – Campi di Fragole per sempre. Living is easy with eyes closed – Vivere è facile con gli occhi chiusi – Misunderstanding all you see – Fraintendendo tutto ciò che vedi – It’s getting hard to be someone – Diventa difficile essere qualcuno – But it all works out – Ma tutto si risolverà – It doesn’t matter much to me – Non mi interessa molto.
La celebre canzone dei Beatles, Strawberry Fields forever, è del 1967; scritta da Lennon, riporta un suo ricordo infantile: un campo di fragole oltre una vecchia sede dell’Esercito della Salvezza, in cui lui ed altri bambini andavano a giocare senza alcuna preoccupazione, dimentichi di se stessi e della realtà del mondo, come solo i bambini sanno fare. Queste fragole torneranno come logo della casa editrice del giovane protagonista di Across the Universe, il musical del 2007 con le canzoni dei Fab4.
Ma, curiosamente, l’atmosfera onirica e visionaria della canzone, sembra la trasposizione in musica dell’altrettanto celebrata sequenza del film di Bergman, Il posto delle fragole, in cui il vecchio medico Isak Borg, oramai alla fine della vita, si lascia travolgere dai ricordi della passata giovinezza, nel luogo in cui il suo primo amore coglieva il dolce frutto selvatico. La scena, epitome di tutta la pellicola, è immersa nella stessa aura di infantile onirismo, carica di simboli impercettibili a chi non fosse in grado di immergersi coi pensieri nella stessa atmosfera sospesa tra due mondi: l’attuale e l’eterno.
La dinamica poetizzata nella canzone e quella della sequenza filmica sono le stesse: il professore si inoltra, con la giovane nuora, sulla strada che porta alla casa dove trascorreva le vacanze da ragazzo. Capiamo subito che è lei a spingere l’uomo verso il luogo magico: arrivati nel posto, infatti, non lo segue, ma lo precede verso la vecchia costruzione oramai abbandonata. Poi, ad un tratto, la nuora assume il ruolo di ninfa marina: si allontana per fare un bagno, per tornare al suo elemento, l’elemento onirico per eccellenza, l’acqua. Il professore la lascia andare trasognato, annuendo con un: «abbiamo tempo». E da quel momento si apre il Grande Tempo del ricordo, che addensa il passato, il presente ed il futuro.
Già nella radura antistante l’edificio oramai disabitato, avevamo visto una scala poggiata ad un albero: ricorda curiosamente quella di Giacobbe, o l’immagine alchemico-massonica dei gradini verso la conoscenza: la possiamo vedere incisa alla base del Portale del Giudizio Universale sulla Cattedrale gotica di Notre Dame di Parigi. È da quel passaggio simbolico che la nuora-ninfa precederà il protagonista verso «il posto delle fragole». Ma è esattamente l’entrata nel loro posto a dissolvere la realtà del giorno, come ci dice lui stesso, riportandolo indietro nel tempo a rivivere episodi della sua giovinezza felice. Il vegliardo, ormai stanco e reso cinico dalla vita, si stende per terra, accanto al cespuglio in fiore, forse per la prima volta da tanto tempo senza pensieri assillanti, come il Lennon bambino nel suo campo di fragole per sempre.
Tornano così le speranze perdute, incarnate dall’immagine irreale, eppure presente, della cugina Sara, come evocata dalla sensazione tattile che al corpo del medico trasmettono le piccole foglie di fragola nascoste sotto l’erba primaverile. Il filo rosso della rêverie, si snoda così attorno alla figura della bella ragazza, intenta a raccogliere in un paniere rustico il frutto che, più di tutti gli altri, rappresenta il tema dell’amore. Una ninfa scompare nel presente con un tuffo nell’acqua, ed un altra ricompare dal passato, come fossero Pathosformel warburghiane che si snodano nella Mnemosyne personale ed intima dell’anziano dottore.

Il mito di Venere e Adone
La pellicola si apre con una scena da incubo: il professore incontra lungo una strada deserta un carro funebre, dal quale cade una bara; apertasi su selciato, all’interno egli vede il cadavere di stesso afferrargli fermamente la mano.
Un sogno inquietante, che ben si collega alla natura simbolica delle fragole. Queste, infatti, sono le lacrime di Venere che, intrise del sangue del suo amato Adone, si trasformarono nel carminio frutto a forma di piccolo cuore.
Il mito, nelle sue varie versioni, dispiega così la gamma evocativa della fragola, e rende ragione della sua significanza come immagine. Le sue tonalità simboliche, che oscillano ambiguamente tra Eros e Thanatos, derivando tutte dal mitologema che narra della relazione tra la dea dell’amore ed il suo efebico amante, ma anche della natura stessa di Adone.
La storia del ragazzo, infatti, è tesa tra il buio del mondo infero e lo splendore della natura rinata, della quale egli era un simbolo, sin dai tempi delle religioni asiatiche, sotto forma del sumerico Tammuz.
Ritroviamo allora la sua figura in tutto il medio oriente, e nel bacino del Mediterraneo, con vari nomi: è, infatti, di volta in volta assimilato alla divinità egizia Osiride, al semitico Baal Hadad, all’etrusco Atunnis, all’anatolico Sandan, e anche al frigio Attis; tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione. Questo lo rende analogo a Dioniso, l’archetipo della vita indistruttibile che, con Adone, condivide i passaggi fondamentali del suo ciclo divino, in cui il frutto della fragola riveste un ruolo simbolico affatto particolare.
Come spiega James Frazer ne Il ramo d’oro, «il culto di Adone fu praticato dalle genti semitiche di Babilonia e Siria e i Greci lo presero da loro agli inizi del settimo secolo avanti Cristo. Il vero nome della divinità era Tammuz: Adone è semplicemente il nome semitico Adon, “signore”, un titolo onorifico con il quale i fedeli si indirizzavano a lui. Nella letteratura religiosa babilonese Tammuz appare come il giovane sposo o amante di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle energie riproduttive della natura».
Ritroviamo le stesse determinanti simboliche nell’Adone greco: egli nasce da una relazione incestuosa tra Cinira, re di Cipro (ubriacato ed ingannato per l’occasione dalla nutrice Ippolita), e sua figlia Mirra, entrata in uno stato di pazzia amorosa per il padre. Il re giace con la figlia per nove notti, credendo si tratti di una giovane che si era invaghita di lui. Non la riconosce perché la complice nutrice gli aveva imposto di incontrarla al buio, per non comprometterne l’identità.
Ma la moglie del re, insospettita dal suo comportamento, entra di notte nelle stanze del marito ed illumina la scena. Accortasi dell’insano gesto di Cinira, la regina Cancreide, cerca di uccidere la figlia, che viene però trasformata da Afrodite nell’albero della mirra. La pazzia di Mirra è stata, infatti, suscitata da Venere stessa, che voleva forse vendicarsi di Cancreide e della figlia perché non le avevano reso gli onori dovuti, o si vantavano di una bellezza a lei superiore o, semplicemente, di avere capelli più affascinanti. Fatto sta che dalla relazione incestuosa Mirra partorisce, in forma di albero, un neonato bellissimo quanto maledetto: Adone.
Venere lo consegna a Persefone perché lo protegga dai mali del mondo, nell’Ade. Ma Persefone si innamora del bellissimo bimbo e, giunto all’età pubere, lo vuole per se. Anche Afrodite lo reclama, dato che la sua bellezza l’ha fatta innamorare. La contesa viene diretta da un tribunale presieduto dalla Musa Calliope che decreta, salomonicamente, l’appartenenza del ragazzo ai due regni. Da qui la sua simbolica come ciclo della natura, che si risveglia a primavera, come le fragole, e muore in inverno.
Adone, intanto, cresce, e diviene un abile cacciatore, amato da Venere. Ma Marte – eterno amante “tradito” da Venere, che ne apprezza solo per pochi momenti il vigore fisico, ma ne disprezza l’ottusa brutalità – preso da insana gelosia, gli scaglia contro un cinghiale, che lo ferisce a morte. Venere piange disperata sopra il corpo ormai esanime dell’amato, e le sue copiose lacrime, cadendo a terra e mischiandosi col suo sangue, si trasformarono in piccoli cuori rossi: le fragole.
E dunque la tonalità infera della fragola nasce col e dal mito, che racconta di un frutto al tempo stesso simbolo di passione amorosa e di morte. La scena del film Fragole e sangue, in cui il giovane protagonista stringe nel pugno una fragola sino a stillarne il succo come gocce di sangue, riprende cinematograficamente questa determinante simbolica.
Il culto di Adone aveva un posto importante durante le dionisiache, dato il collegamento tra la divinità principale e la memoria del bel ragazzo amato da Venere. Oltretutto tra Dioniso e Marte le relazioni sono sempre state pessime, data l’opposizione dei due principi; da questo l’accoglienza di Adone nelle feste del dio dell’ebbrezza.
Passa il tempo, ed il culto del bel giovane si trasferisce nell’antica Roma. Qui il frutto viene chiamato fragra, da cui l’italiano fragola, ma anche fragranza. Si utilizzavano nei banchetti in onore di Adone, mentre in Grecia si continuavano a celebrare le festività dette Adonìe. Tipico di queste occasioni era la raccolta delle fragole ed altri frutti di stagione in piccoli cestini, che venivano chiamati «giardini mobili». Possiamo immaginare le giovani donne che si chinano a raccogliere le fragole, esattamente come Sara nella scena centrale del film di Bergman.

Le fragole di Shakespeare e Paracelso
«Colui che non sa niente, non ama niente. Colui che non fa niente, non capisce niente. Colui che non capisce niente è spregevole. Ma colui che capisce, vede, osserva… comprende che la maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore… Chiunque crede che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva».
Così, nel periodo della Rinascenza neoplatonica, Paracelso, l’innovatore della medicina basata sulle corrispondenze tra micro e macrocosmo, apostrofava chi ignorava le «segnature» che la Natura naturans lasciava su ognuna delle sue creazioni. Non a caso usa la relazione tra la fragola (Adone), e l’uva (Dioniso), come epitome di ogni relazione tra principi naturali, data anche la loro potente ambivalenza in fatto di potere sulla psiche.
L’osservazione che i frutti delle fragola maturano contemporaneamente, in specifico, va inserita nel sistema delle corrispondenze, delle analogie, delle «segnature», che culmineranno nel Seicento con l’allestimento delle grandi Wunderkammer di epoca barocca, per poi tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e della sua separazione tra discipline scientifiche.
Di quelle «segnature» dirà Paracelso, nel IX libro del trattato De natura rerum, che appunto si intitola De signatura rerum naturalium: «Nulla è senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova» (III, 7, 131).
Anche Jacob Böhme, nel suo Signatura Rerum, dice che «la segnatura sta nell’essenza ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende… Così anche il segno della natura è, nella sua figura, un essere muto… Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il maestro che può suonare il suo strumento».
E allora la fragola, come simbolo dell’amore che apre lo sguardo alle corrispondenze è, per l’alchimista Paracelso, la base stessa della sua nuova Arte: la spagirica, la possibilità cioè di estrarre, seguendo le procedure alchemiche, l’essenza intima di ogni pianta che, così, può aiutare l’uomo accorto e grato, a vivere meglio la su esistenza terrena.
«Come infatti attraverso uno specchio ci si può osservare con cura punto per punto, lo stesso modo il medico deve conoscere l’uomo con precisione, ricavando la propria scienza dallo specchio dei quattro elementi e rappresentandosi il microcosmo nella sua interezza […] L’uomo è dunque un’immagine in uno specchio, un riflesso dei quattro elementi e la scomparsa dei quattro elementi comporta la scomparsa dell’uomo. Ora, il riflesso di ciò che è esterno si fissa nello specchio e permette l’esistenza dell’immagine interiore: la filosofia quindi non è che scienza e sapere totale circa le cose che conferiscono allo specchio la sua luce. Come in uno specchio nessuno può conoscere la propria natura e penetrare ciò che egli è (poiché egli è nello specchio nient’altro che una morta immagine), così l’uomo non è nulla in sé stesso e non contiene in sé nient’altro che ciò che gli deriva dalla conoscenza esteriore e di cui egli è l’immagine nello specchio».
In questo quadro diagnostico-anamnestico, il ruolo della fragola come rimedio è centrale. Essa veniva denominata «frutto cuore» poiché si riteneva che, al tempo stesso, placasse la passione amorosa, o la potesse accendere, a seconda delle «segnature» che il corpo del paziente mostrava. La sua capacità di crescere circondata da altre erbe contenenti principi, anche pericolosi, o di dare spesso rifugio a serpenti e scorpioni senza che il loro veleno la toccasse, la fa diventare protagonista di un celebre sonetto di Shakespeare che ne magnifica proprio queste doti: «La fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La «regola» cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferito, condannava le piante ad assorbire il bene e il male dall´ambiente in cui vivevano. La sua potenza simbolica per l’autore del Moro di Venezia è tale che, il dono che poi causerà il tragico epilogo della gelosia tra Otello e la sua amata Desdemona, è proprio un fazzoletto con delle fragole ricamate.

La fine delle fragole
Questa naturalezza della fragole, che l’aveva dunque caratterizzata per millenni, viene spazzata via durante il regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri, infatti, a coltivarla, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, per il sovrano e le sue dame, e confinarla così a un ruolo tristemente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto.
Una simbologia da allora mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo dell’erotismo yuppie anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di una delle scene topiche tra i due amanti.
Ma per noi le fragole saranno sempre la lacrime appassionate di Venere, e quando le coglieremo ritroveremo nel nostro Mundus Imaginalis l’assenza degli amori passati, che ringrazieremo perché hanno lasciato il posto al palpito di quelli presenti.

- Raffaele K. Salinari - Pubblicato su Alias del 15 aprile 2017 -

mercoledì 19 aprile 2017

Presunzione di stalinismo!

Testamento

Il filo rosso che indica la continuità e l’omogeneità dei saggi qui raccolti (che vanno dal 1946 al 1970) è rappresentato da un tema fondamentale del  pensiero politico e filosofico di Lukács, quello della democrazia marxista e, in tal senso, della costante polemica del filosofo ungherese contro lo stalinismo.
(dal risvolto di copertina di: György Lukács: Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo, a cura di Antonino Infranca e Miguel Vedda, Punto Rosso)

Lo stato di salute del marxismo
- di Marco Gatto -

Per i tipi di Punto Rosso, Antonino Infranca e Miguel Vedda hanno curato una preziosa collezione di scritti di György Lukács, in gran parte mai pubblicati in tradizione italiana. Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo (pp. 176, euro 15) raccoglie saggi, lettere e articoli del pensatore ungherese in grado di restituire un’immagine più chiara della sua riflessione sui compiti della nuova democrazia marxista e della sua diretta polemica contro Stalin. È noto che Lukács lavorasse, negli ultimi anni della sua attività, alla prospettiva di un’ontologia dell’essere sociale, che avrebbe dovuto tradursi anche e soprattutto in un grande volume sull’etica.
In uno dei saggi più corposi del volume, il filosofo ungherese propone una vera e propria lista di questioni ritenute urgenti da affrontare per la salute del marxismo: fra queste, senz’altro la lotta a una democrazia soltanto formale, cioè regolata dal principio unificante del capitale, e la battaglia a favore di un pensiero politico che, esaltando il lavoro come momento di auto-educazione dell’uomo, sia capace di discendere, senza demagogia, nelle mediazioni della vita quotidiana. In tal senso, Lukács continua a pensare la realtà in termini hegelo-marxisti, puntando l’attenzione sul principio di «mediazione», vituperato dal pensiero conservatore contro cui il filosofo si batte, e che è poi l’oggetto polemico, si ricorderà, di uno dei suoi libri più noti, La distruzione della ragione, cui gli scritti raccolti in volume si ricollegano. Al nichilismo Lukács contrappone un pensiero che sappia raggiungere il suo significato storico riappropriandosi della tradizione, senza esaltare l’ottica della rottura, bensì mediando se stesso in uno scambio dialettico continuo col passato.
È questa forma di riflessione che, a parere del Lukács maturo, garantirebbe alla democrazia marxista la possibilità incarnarsi in una politica capace di dar vita a «connessioni effettive e dialettiche fra vita pubblica e vita privata», senza che queste si pensino esclusive: «L’autocostruzione dell’uomo ha preso un aspetto nuovo nel senso che si stabilisce, nel movimento generale, un legame tra l’autoedificazione di sé e quella dell’umanità».
È chiaro che tutto ciò presupponga, da parte di Lukács, e nello spirito delle intenzioni di Infranca e Vedda, una posizione del tutto anti-stalinista o un ripensamento delle rovine prodotte dal regime, a fronte di una letteratura secondaria che ha spesso insistito sulle compromissioni del pensatore. Il volume ha infatti questa ambizione: offrire agli studiosi dei documenti che invalidino la tesi di un Lukács incapace di svincolarsi dalle ragioni dello stalinismo.
A tal proposito, accanto all’interessante scritto Oltre Stalin, la vera perla del volume è la prima traduzione italiana di un interrogatorio della polizia sovietica ai danni di Lukács, svoltosi nel 1941, allorché venne accusato di essere il referente di una spia del governo fascista ungherese. Si tratta di un testo molto drammatico, in cui Lukács afferma con coerenza la sua posizione, non cedendo mai alle pressioni di chi interroga. Scrive Infranca: «Adesso ci sono documenti a disposizione dei lettori, che mettono davanti uno stalinista vero, l’interrogante, e uno stalinista presunto, Lukács. ’Presunto’, perché questo stalinista è in questo caso una vittima del regime stalinista, è in carcere e sta rischiando una lunga detenzione nel Gulag o addirittura la morte».

- Marco Gatto - Pubblicato sul Manifesto del 15 dicembre 2016 -

martedì 18 aprile 2017

critica del tempo

wells

Un inventore mette a punto una macchina del tempo con la quale riesce a raggiungere l'anno 802 701. Vi trova un mondo diviso in due razze umane: gli Eloj, creature delicate e pacifiche che conducono una vita di svaghi, e i Morlock, esseri pallidi e ripugnanti che vivono nei sotterranei. Dopo angoscianti avventure, riuscirà ad andare ancora più lontano nel tempo, vedrà una Terra senza più tracce di uomini, abitata soltanto da crostacei con «occhi maligni» e «bocche bramose di cibo». Fantascienza, critica sociale, romanzo distopico: il capolavoro di Wells è soprattutto l'opera di un grande visionario. Michele Mari, nel ritradurlo, ha trovato pane per i suoi denti: il fantastico, l'avventura, l'horror vampiresco, lo sguardo cosmico sugli affanni del mondo. L'incontro tra lo scrittore-traduttore e uno dei suoi romanzi preferiti era destinato a produrre scintille...

(dal risvolto di copertina di Herbert G. Wells: La macchina del tempo, traduzione di Michele Mari, Einaudi pp. 126, euro 17)

«La Macchina del Tempo è del 1895, l'edizione definitiva dell'Uomo delinquente di Lombroso è del 1897: a Darwin, rapidamente divulgato, era già subentrato il darwinismo, tanto che Wells, che pure aveva fatto un discreto tirocinio prima come studente e poi come docente di biologia, arriva a concepire la regressione per una via tutta formale: se dalla scimmia è derivato l'uomo, si chiede, perché non immaginare un'ulteriore evoluzione non in avanti ma all'indietro? Perché escludere «l'idea opposta», cioè una «regressione zoologica»? Per questa via Wells giunse a ipotizzare la totale estinzione del genere umano, come inscenato appunto nella parte finale (la cosiddetta «visione ulteriore») della Macchina del Tempo. Dipendendo dal raffreddamento del Sole, la visione finale – un mondo senza esseri umani né mammiferi – ha comunque una sua pace; la cupezza della profezia wellsiana è invece tutta nel complementare destino dei ricchi e dei poveri rispettivamente come vegetali e come bruti, secondo la logica di un dissidio tutto interno all'evoluzionismo: da una parte Huxley e Wells, dall'altra un evoluzionista della prim'ora come Herbert Spencer, convinto che l'uomo avrebbe indefinitamente migliorato se stesso.» 

 (Dalla prefazione di Michele Mari)

Il futuro rovesciato di un’umanità incapace di vivere
- di Benedetto Vecchi -

La macchina del tempo dello scrittore inglese Herbert G. Wells mantiene intatto il suo fascino e la sua potenza evocatrice non del futuro che verrà ma di un presente mai troppo indagato da scrittori contemporanei. Viene ora riproposta da Einaudi in una nuova traduzione di Michele Mari (pp. 126, euro 17) dopo un’assenza di molti anni. Scritto alla fine dell’Ottocento, il romanzo rappresenta il primo tentativo di fare i conti con le conseguenze della Rivoluzione industriale, l’aumento di produttività introdotto nelle prime industrie che aveva portato alla sostituzione del lavoro umano con telai e macchine a vapore.
Assieme alla Guerra dei mondi ha avuto più di una traduzione cinematografica: pellicole sempre accompagnate da successo. Wells scrive i due romanzi alla fine dell’Ottocento; è uno scrittore dalle idee socialiste, anche se a differenza di molti altri socialisti utipistici europei non spera in una palingenetica sovversione sociale, bensì in una pragmatica e graduale politica a sostegno dei poveri, degli esclusi della rivoluzione industriale. Il suo sarà infatti un socialismo umanitario e paternalista. Rispetto la sua attività di scrittore, fu considerato poco più che un artigiano della penna, capace tutt’al più di intrattenere un pubblico popolare desideroso solo di evasione.
Nell'Inghilterra vittoriana, la narrativa di Wells fu dunque relegata ai margini della grande letteratura. Il suo destino sarà eguale a quello di tanti altri autori di fantascienza: successo di pubblico, ma ostilità da parte dei custodi delle belle lettere. Sarà così per quasi tutto il Novecento, fino ai gloriosi anni Sessanta quando una generazione di scrittori comincerà a rivendicare a questo genere narrativo la capacità di fare grande letteratura. Da quel momento in poi, la fantascienza radicalizzò la sua tensione sociale, fino a ribadire, con il cyberpunk e lo steampunk, la sua natura politica oppositiva allo status quo.
La macchina del tempo di Wells è da collocare in un contesto dove il Regno Unito era un impero economico e militare che esercitava quasi indisturbato il suo potere nel mondo. Eppure era stato scosso nelle sue fondamenta dalle rivolte dei luddisti e dalla formazione politica del movimento operaio, che faceva leva sulle consuetudini sociali e sui diritti naturali sanciti dalla common law.
È l’intreccio tra il ruolo di superpotenza e la natura di classe della società inglese che Wells affronta nella Guerra dei mondi e, appunto, nella Macchina del tempo. Nel primo romanzo, ipotizza l’invasione dell’Inghilterra da parte di alieni che vogliono distruggere con il Regno Unito l’intera civiltà umana, nel secondo concentra la sua attenzione sulle illusioni della società inglese, in un presente di abbondanza grazie al ruolo progressivo della scienza che, oltre a favorire il benessere, può sconfiggere anche il tempo, consentendo viaggi tra passato e futuro, in maniera tale da correggere lo sviluppo storico. Tema questo che ha fatto diventare il romanzo di Wells un vero e proprio classico del genere.
La storia raccontata vede un ricco borghese fantasticare sulla possibilità di costruire una macchina del tempo. Riuscirà nel suo progetto e scorrazzerà tra passato e futuro. Ma se il passato è un moloch, il futuro è l’ignoto da svelare per correggere il presente.
È su questo aspetto che il romanzo dà il meglio di se. Il futuro che Wells immagina è un mondo dove non c’è necessità di lavorare: la popolazione degli Eloj trascorre infatti le sue giornate senza quello stigma. Ma invece di incarnare l’uomo nuovo che la mattina è pescatore e la sera scrittore o pittore, ognuno è una entità vivente incapace di sviluppare pensieri profondi.
Per mangiare e vestirsi tutti attendono che qualcuno lasci cibo. Alla soddisfazione dei bisogni ci pensano infatti i Morlock, popolo mostruoso che vive sottoterra perché è lì che sono state collocate le industrie, i falanstieri. I Morlock consentono agli Eloj di svolgere la loro vita in cambio però di tributi di carne umana e corpi di donne.
Storia avvincente, certo, ma con uno spessore politico e sociale poco indagato.
Il romanzo di Wells è infatti il primo libro di successo che vede nelle macchine lo strumento di una fallace liberazione dalla necessità, alimentando una asimmetria di potere tra chi organizza la produzione e il popolo consumatore, ridotto a un agglomerato umano senza anima e passioni.
I Morlock sono i depositari dell’etica del lavoro elevato a dispositivo per legittimare rapporti sociali dove gli Eloj sono ridotti a carne da macello, scarti umani da consumare per riprodurre la stirpe dei Morlock. Il socialista umanista si arrende di fronte a ciò e si ritrae inorridito di fronte alle macchine, anche se queste consentono di viaggiare nel tempo.
Un romanzo dal forte connotato di denuncia sugli orrori della Rivoluzione industriale. Che trova una inaspettata attualità in un mondo dove l’automazione riduce uomini e donne a materia prima della produzione di ricchezza.
Difficile immaginare una via di uscita con il ritorno di un’addomesticata etica del lavoro. Difficile non immaginare un mondo dove la liberazione dalla necessità non coincida con l’organizzazione di una società dove il lavoro non venga ridotto a attività, mandando così in pezzi il regime del lavoro salariato. Ma per questo non serve una macchina del tempo, ma solo una rivoluzione.

di Benedetto Vecchi - pubblicato sul Manifesto del 4/4/2017 -

lunedì 17 aprile 2017

Antenati cattivissimi

fichi-secchi

La guerra dei fichi secchi
- di Luigi Malerba -

Qualche volta i posteri sono veramente cattivi. Hanno fatto pesare (ma sarebbe più giusto dire "abbiamo", perché i posteri siamo anche noi), abbiamo dunque fatto pesare su Plinio Gaio Secondo l'appellativo di Vecchio (Plinio il Vecchio) che ne ha compromesso gravemente l'immagine presso i lettori, spargendo un certo sentore di muffa e di polvere sulla sua opera. Se poi andiamo a controllare le date, ci accorgiamo che Plinio il Vecchio morì a soli cinquantacinque anni durante la tragica eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo mentre era al comando della flotta romana di Capo Miseno, e che il nipote Gaio Plinio Cecilio nominato dai posteri come Plinio il Giovane morì, anno più anno meno, alla stessa età dello zio. Il lettore ha finalmente la possibilità di spolverare l'immagine di questo autore da quando l'editore Einaudi ha iniziato la pubblicazione, con testo latino a fronte, della sua Storia naturale, opera ponderosa ma anche fonte di stupori e piaceri inconsueti, fino a ieri introvabile se non nelle collane straniere dei classici. È uscito da poco il terzo volume, sui cinque complessivi (Plinio, Storia naturale, vol. III, "Botanica", pagg. 996).
I classici talvolta ci spaventano o quanto meno ci incutono troppo rispetto. Quale uso fare dunque di un testo come questo, sempre citato e pochissimo letto e che emerge dalla nostra memoria come uno dei tanti relitti di lontani naufragi scolastici? Confesso che ne ho già fatto un uso poco riverente in altra occasione, notando come la scienza enciclopedica di Plinio il Vecchio (la sua Storia naturale è una specie di Enciclopedia Treccani della antichità) si fosse mutata con il tempo in una deliziosa raccolta di favole. La pioggia di latte, di ferro, di lana e di pignatte, il vento Favonio che feconda le cavalle lusitane, l'elefante che si innamora del giovane Menandro, che altro sono se non belle favole? Questo terzo volume dedicato alla botanica e inscritto nell'ambizioso progetto di inventariare l'universo, ripropone l'annoso dilemma tra Funzione e Ornamento, tra Informazione e Immaginazione. Per quanto le notizie sulle qualità dei legnami e il loro uso, quelli che resistono meglio all'umidità e ai tarli, sulla piantagione, potatura e concimazione dell'ulivo, sulla coltivazione della vite, siano in buona parte raccomandabili ancora oggi, dubito molto che i nostri contadini andranno a consultare il testo di Plinio prima di intraprendere le loro opere. Quello che posso garantire è che questi volumi resistono allegramente ai tarli e alle muffe e potranno risultare anche molto divertenti se li si legge con l'occhio attento alla grande quantità di informazioni curiose e di aneddoti di cui Plinio era un attentissimo collezionista. Ingenuità diffidenza malizia obiettività e curiosità si alternano in quest'opera, uniti sempre allo stupore di fronte al mistero della natura.
Tutto questo emerge anche dopo una lettura più frivola, che consiglio senz'altro a chi si avvicina a questo autore perla prima volta.
Credo che la cosa migliore sia sempre quella di riportare qualche esempio. L'elvetico Elicone, che aveva soggiornato a Roma per fare il fabbro, era ritornato nelle Gallie portando con sé fichi secchi, uva passa e vino. Dopo avere assaggiato questi prodotti succulenti i Galli si riversarono in Italia in una guerra che li portò fin sotto le mura del Campidoglio. Che il platano sia un generoso dispensatore di ombra con le sue larghe foglie e le sue chiome gigantesche lo sanno tutti, ma pochi sanno che i romani facevano pagare un tributo speciale ai Morini (gli abitanti della zona intorno alla odierna Calais) che abitavano un'area piantata a platani; in altre parole, facevano pagare una tassa sull'ombra. Gli alberi sui quali venivano tirati i tralci della vite, pioppi e olmi, erano al tempo di Plinio tenuti assai più alti di quanto non si usi nelle piantate moderne. Così alti che durante la vendemmia il contratto prevedeva per i lavoranti ingaggiati per la raccolta dell'uva anche il risarcimento per le spese del funerale.
Plinio il Vecchio è anche un imperterrito moralista e contro coloro che anche ai suoi tempi disdegnavano l'umile lavoro dei campi è pronto a fare carte false raccontando, sulla autorità di Omero, che il re Laerte spargeva di propria mano il letame nei campi (in realtà Omero racconta solo che Laerte sarchiava i suoi campi, e per un re è già qualcosa). Un altro re, il re Augia, pare che abbia avviato per primo in Grecia la pratica della concimazione e che Ercole l'abbia poi divulgata in Italia, dove gli agricoltori elessero protettore delle greggi e dei campi il dio Stercuto o Sterculio. E qui Plinio esibisce fieramente le sue conoscenze sui vari tipi di letame e sulle loro qualità. Quello di cavallo pare sia il più leggero. Fra gli agricoltori c'è chi preferisce il letame di giumenta a quello di bue, quello di pecora a quello di capra; ma fra tutti quello di asino è senz'altro ritenuto il migliore perchè questo quadrupede ha la masticazione più lenta. Columella nella sua Arte dell'agricoltura (anche questa nei "Millenni" di Einaudi) condanna il letame di maiale, ma è il solo, dice Plinio, perché tutti gli altri ne fanno alte lodi.
Sui mangiatori di terra c'è una lunga tradizione che arriva fino ai nostri giorni, sempre circondata da un alone di mistero e proibizione. Si intuisce che Plinio avrebbe da fare qualche riserva su questa consuetudine poco ortodossa, ma l'albo dei mangiatori di terra è nobilitato dalla presenza del divino Augusto che si era accaparrato a suon di sesterzi addirittura una collina di terra bianca di cui era ghiottissimo, nei pressi di Cuma. Tiberio invece aveva una passione per i cetrioli e li faceva coltivare su speciali carrelli pieni di terra che venivano spostati al sole nella stagione fredda in modo da avere disponibili questi ortaggi tutto l'anno per la mensa imperiale. Augusto curava i suoi malanni al fegato (causati forse dalle scorpacciate di terra?) con la lattuga. Se la terra e i cetrioli fuori stagione erano riservati a un'èlite, pare che i romani fossero golosissimi dei grossi vermi che si trovano sotto la corteccia del rovere; ma è una notizia che si trova soltanto in Plinio. Il quale non specifica come venissero cucinati o se venivano mangiati crudi come i frutti di mare; ma doveva trattarsi comunque di una consuetudine molto diffusa dal momento che questi vermi venivano prelevati dai tronchi e ingrassati con la farina in speciali allevamenti.
Il moralismo di Plinio si fa molto severo sull'uso e abuso dei profumi. I fabbricanti e i venditori di questi frivoli e costosi prodotti, destinati a svanire subito nell'aria, erano secondo lui pericolosi agenti della corruzione e della decadenza dei costumi. Con scandalo racconta che Caligola si faceva profumare la vasca da bagno e che durante le parate militari certi generali facevano profumare perfino le punte delle lance e le aquile che avevano sottomesso il mondo. E Lucio Plozio, colpito da proscrizione da parte dei triumviri, fu tradito nel suo nascondiglio dal profumo che aveva indosso e quindi catturato. Chi potrebbe ritenere ingiusta, commenta Plinio, la morte di un simile individuo?
Un altro episodio che getta una luce sinistra su certi nostri antenati riguarda la proibizione per le donne di bere vino. La moglie di Egnazio Metennio, per aver bevuto vino da una botte venne uccisa dal marito a colpi di bastone. Questa infrazione veniva giudicata così grave che il marito venne assolto dalla imputazione di assassinio. Ma il codice dei comportamenti nella Roma antica presenta qualche smagliatura nell'area della botanica: certi ortaggi, come per esempio la ruta, crescono meglio se le piantine sono state rubate. Da Plinio il Vecchio i cattivi posteri possono imparare molte cose sui loro cattivissimi antenati.

- Luigi Malerba - Pubblicato su Repubblica del 7 aprile 1985 -

domenica 16 aprile 2017

Una scelta difficile…

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Quello che ci si aspetta da noi
- di Ted Chiang -

Questo è un avvertimento. Si prega di leggere attentamente.

Ormai probabilmente avete già visto un Predictor; dal momento in cui avete cominciato a leggere questo, milioni di essi sono già stati venduti. Per chi non ne avesse mai visto uno, si tratta di un piccolo dispositivo, tipo il telecomando che serve ad aprire la vostra automobile. Ha unicamente un bottone e un grosso led verde. Se premi il bottone, la luce lampeggia. Per dirla esattamente, la luce lampeggia un secondo prima che tu prema il pulsante.

La maggior parte delle persone afferma che la prima volta che provano a farlo, si sentono come se stessero giocando uno strano gioco, un gioco il cui obiettivo è quello di premere il bottone dopo aver visto accendersi la luce verde, e giocare è facile. Ma quando cerchi di infrangere le regole, ti accorgi che non puoi farlo. Se tenti di premere il pulsante senza che hai visto il flash, ecco che il flash lampeggia immediatamente, e per quanto veloce tu possa essere non riuscirai a premere il bottone se non quando è trascorso un secondo. Se poi aspetti il flash, con l'intenzione di evitare di premere il pulsante, il flash allora non compare mai. Non importa quel che fai, la luce precede sempre la pressione del bottone. Non c'è modo di fregare un Predictor.

Al cuore di ciascun Predictor si trova un circuito con un ritardo temporale negativo - esso manda un segnale indietro nel tempo. Le implicazioni di questa tecnologia diverranno evidenti più tardi, quando la differenza arriverà ad essere più grande di un secondo, ma l'avvertimento non riguarda questo. Il problema immediato è che i Predictor dimostrano che non esiste qualcosa come il libero arbitrio.

Sono sempre esistiti argomenti che dimostravano che il libero arbitrio è un'illusione, alcuni basati sulla fisica, altri sulla pura logica. La maggior parte delle persone concorda sul fatto che tali argomenti sono inconfutabili, ma in realtà nessuno ne accetta la conclusione. La sensazione di avere il libero arbitrio è troppo potente perché ci sia un argomento in grado di revocarla. Quello che ci vuole è una dimostrazione, ed è questo quel che ci fornisce il Predictor.

In genere, una persona gioca compulsivamente con un Predictor per diversi giorni, mostrandolo ai suoi amici, provando vari schemi nel tentativo di ingannare il dispositivo. Può sembrare che la persona perda interesse in esso, ma nessuno riesce a dimenticare quello che significa - nelle settimane successive, sprofonda nelle implicazioni di un futuro immutabile. Alcune persone, dal momento che si rendono conto che le loro scelte non contano, si rifiutano di fare qualsiasi scelta. Come una legione di Bartlebay lo Scrivano, non intraprendono più alcuna azione spontanea. Alla fine, un terzo di coloro che giocano con un Predictor dev'essere ricoverato in ospedale poiché smettono di nutrirsi. Lo status finale è quello di un mutismo acinetico, una sorta di veglia comatosa. I loro occhi seguono i movimenti, e di tanto in tanto cambiano posizione, ma niente di più. La capacità di muoversi rimane, ma non c'è più la motivazione.

Prima che le persone cominciassero a giocare con i Predictor, il mutismo acinetico era molto raro, proveniva da un danno alla corteccia cingolata anteriore del cervello. Ora si diffonde come una piaga cognitiva. Le persone sembrano speculare su un pensiero che distrugge il pensatore, come una sorta di indicibile orrore lovecraftiano, o come una frase di Gödel che manda in crash il sistema logico umano. Si scopre che il pensiero che ci disattiva, è quello che tutti ci siamo posti: l'idea che il libero arbitrio non esiste. Solo che fino quando si credeva che esistesse non era pericoloso.

I medici cercano di discutere con i pazienti, fino a quando questi rispondono ancora alla conversazione. Ragionano sul fatto che vivevamo tutti felicemente, avevamo una vita attiva,  e tuttavia non avevamo il libero arbitrio. Allora perché mai dovrebbe cambiare qualcosa? «Nessuna azione messa in atto nel mese scorso è stata una scelta più libera di qualsiasi azione svolta oggi» potrebbe argomentare un medico. «Tu puoi ancora comportarti in quel modo.» Invariabilmente, il paziente risponde, «Ma io ora lo so.» Ed alcuni di loro nemmeno ribattono nulla.

Alcuni sosterranno che il fatto che il Predictor causi tale cambiamento nel comportamento significa che abbiamo il libero arbitrio. Un automa non può diventare scoraggiato, solo un'entità dotata di libero arbitrio può farlo. Il fatto che alcuni individui cadano nel mutismo acinetico, laddove altri non lo fanno, metterebbe in evidenza proprio l'importanza di fare una scelta.

Sfortunatamente, un simile ragionamento è erroneo: ogni forma di comportamento è compatibile con il determinismo. Un sistema dinamico può cadere in un bacino di attrazione e finire in un punto fisso, mentre un altro mostra un comportamento caotico indefinito, ma entrambi sono deterministici.

Vi sto trasmettendo questo avvertimento da poco più di un anno nel vostro futuro: è il primo messaggio lungo ricevuto da quando i circuiti con ritardi negativi della portata di megasecondi vengono usati per costruire strumenti di comunicazione. Seguiranno altri messaggi, riguardanti altri problemi. Il mio messaggio per voi è questo: fingete di avere il libero arbitrio. È fondamentale che vi comportiate come se le vostre decisioni avessero importanza, anche se sapete che non ne hanno. La realtà non è importante: conta quel che credete, e credere alla bugia è l’unico modo di evitare un coma a occhi aperti. La civiltà adesso dipende dall’autoinganno. Forse è sempre stato così.

E tuttavia io so che, poiché il libero arbitrio è un'illusione, è già predeterminato chi sprofonderà nel mutismo acinetico e chi no. Nessuno può fare nulla a questo proposito… non potete decidere che effetto avrà su di voi il Predictor. Alcuni di voi soccomberanno e altri no, e l’invio di questo mio messaggio non cambierà quelle percentuali. Perché l’ho fatto, allora?

Perché non avevo scelta.

- Ted Chiang - 2005

fonte: Nature - International weekly journal of science