martedì 31 gennaio 2017

Malinconia di sinistra

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- Sul nuovo libro di poesie di Erich Kästner -
di Walter Benjamin

Le poesie di Kästner oggi sono già disponibili in tre grossi volumi. Ma chi voglia veramente capire il carattere di queste strofe, farà meglio ad attenersi alla forma in cui comparvero originariamente. Nei libri sono schiacciate e un po’ opprimenti, ma nei quotidiani guizzano come pesci nell’acqua. Se quest’acqua non è sempre pulitissima e contiene, parecchie scorie, tanto meglio per l’autore, i cui pesciolini poetici hanno potuto cosí diventare grossi e grassi.
La popolarità di queste poesie è legata all’ascesa di un ceto che si è impossessato delle sue posizioni di potere economiche apertamente, e ha menato vanto come nessun altro della sua fisionomia economica nuda e senza maschera. Questo non nel senso (come si potrebbe forse supporre) che questo ceto che mirava solo al successo, non riconosceva valore a nessun’altra cosa, avesse ora conquistato le posizioni più forti. Il suo ideale era troppo asmatico per questo. Era quello di agenti senza figli, venuti su dal nulla, che a differenza dei magnati della finanza non prendevano disposizioni per decenni e per la loro famiglia, ma solo per se stessi, e per un periodo di tempo che superava a malapena la stagione. Chi non li ha in mente: i sognanti occhi infantili dietro gli occhiali di tartaruga, le ampie guance biancastre, la voce strascicata, il fatalismo nel modo di gestire e di pensare. È proprio ed esclusivamente il ceto a cui il poeta ha qualcosa da dire, che egli lusinga, in quanto dal momento in cui si alza fino alla sera tiene lo specchio non tanto davanti quanto piuttosto dietro di esso. Le distanze fra le sue strofe sono le pieghe di grasso nella sua nuca, le rime sono le sue labbra gonfie, le cesure sono fossette nella sua carne, le sue punte pupille nei suoi occhi. La materia e gli effetti della poesia di Kästner restano limitati a questo ceto, ed egli non è in grado di raggiungere gli spossessati coi suoi accenti ribelli esattamente cosí come non è in grado di colpire gli industriali con la sua ironia. Ciò accade perché questa lirica (nonostante le apparenze) cura soprattutto gli interessi corporativi della categoria dei mediatori (agenti, giornalisti, capi del personale). Ma l’odio che essa proclama contro la piccola borghesia ha a sua volta un accento piccolo-borghese, di eccessiva intimità. Per contro la sua aggressività nei confronti dell’alta borghesia scema a vista d’occhio, e alla fine essa tradisce il suo anelare al mecenate col sospiro: «Oh, se ci fosse soltanto una dozzina di saggi con molto denaro!» Non c’è da stupirsi che quando Kästner fa i conti coi banchieri, in un Inno, il suo linguaggio sia cosí ambiguamente familiare com’è ambiguamente economico quando, sotto il titolo Una madre fa il bilancio, espone i pensieri notturni di una donna proletaria. Alla fine casa e rendita restano le dande con cui una classe più benestante tiene il lagnoso poeta.
Questo poeta è scontento, anzi malinconico. Ma la sua malinconia deriva dal mestiere. Poiché avere mestiere significa avere sacrificato le proprie idiosincrasie, aver sacrificato la capacità di provare disgusto. E questo rende malinconici. È questa circostanza che rende questo caso in un certo senso analogo al caso Heine. Rivelano mestiere le osservazioni con cui Kästner ammacca le sue poesie per dare a queste laccate palline-giocattolo l’aspetto di palloni da rugby. E niente esprime meglio il mestiere dell’ironia che fa lievitare lo sbattuto impasto dell’opinione privata come quello di una torta. Dobbiamo solo dolerci del fatto che la sua impertinenza sia cosí priva di qualsiasi rapporto sia con le forze ideologiche che con quelle politiche di cui il poeta dispone. La grottesca sottovalutazione dell’avversario che sta alla base delle loro provocazioni non è l’ultimo dei segni che rivelano quanto la posizione di questi radicali di sinistra sia una posizione perdente. Questi intellettuali hanno poco a che fare con il movimento operaio. Sono invece un fenomeno di disgregazione borghese, che fa da contrappunto a quella mimetizzazione feudale che l’impero ha ammirato nell’ufficiale in congedo. I pubblicisti del tipo di Kästner, Mehring o Tucholsky, i radicali di sinistra sono la mimetizzazione proletaria della borghesia in sfacelo. La loro funzione è quella di creare, dal punto di vista politico, non partiti ma cricche, da quello letterario non scuole ma mode, da quello economico non produttori ma agenti. Ed è vero che da quindici anni in qua questi intellettuali di sinistra sono stati ininterrottamente gli agenti di tutte le congiunture culturali, dall’attivismo all’espressionismo fino alla Nuova Oggettività. Ma il loro significato politico si riduceva a convertire riflessi rivoluzionari, nella misura in cui apparivano nella borghesia, in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo.
In tal modo l’attivismo seppe privare la dialettica rivoluzionaria del suo carattere di classe, dandole il volto indeterminato del sano buon senso. Fu in certo modo la settimana bianca di questo giornale di annunci pubblicitari. L’espressionismo presentò i gesti rivoluzionari, il braccio levato, il pugno, confezionati in cartapesta. Dopo questa campagna pubblicitaria la Nuova Oggettività, da cui provengono le poesie di Kästner, passò subito a compilare l’inventario. E che cosa trova «l’élite spirituale» che si è messa a inventariare i propri sentimenti? Forse questi stessi sentimenti? Sono stati svenduti in blocco da molto tempo. Ciò che è rimasto sono le cavità dentro polverosi cuori di velluto che accolsero già i sentimenti - natura e amore, entusiasmo e umanità. Ora si accarezza distrattamente la cavità, la forma vuota. Una saccente ironia crede che questi pretesi modelli siano molto di più delle cose stesse, fa grande sfoggio della propria povertà e si rallegra del vuoto che le si spalanca davanti. Poiché la novità di questa Sachlichkeit consiste nel fatto che essa è altrettanto fiera delle tracce lasciate da quelli che furono un tempo beni spirituali quanto il borghese è fiero di quelle dei suoi beni materiali. Non ci si era mai sistemati più comodamente in una situazione più scomoda.
Insomma, questo radicalismo di sinistra è proprio e precisamente quell’atteggiamento a cui non corrisponde più nessuna azione politica. Non è a sinistra di questa o quella corrente, è semplicemente a sinistra del possibile. Poiché non mira ad altro, a priori, che a godere se stesso, in una quiete negativistica. La trasformazione della lotta politica da coazione a decidere a oggetto di piacere, da mezzo di produzione ad articolo di consumo - è questa l’ultima trovata di questa letteratura. Kästner, che ha un grande talento, domina con maestria tutti i suoi mezzi. Al primissimo posto c’è qui un atteggiamento che si esprime già nel titolo di molte poesie. C’è un’Elegia con l’uovo, un Canto di Natale lavato a secco, il Suicidio nel bagno di casa, il Destino di un negro stilizzato, ecc. Perché queste slogature?
Perché critica e conoscenza sono pronte a intervenire; ma rovinerebbero il gioco, e quindi non possono assolutamente prendere la parola. Allora il poeta deve imbavagliarle, e i loro spasimi disperati fanno cosí l’effetto dei pezzi di bravura di un contorsionista, e cioè divertono un pubblico numeroso e dal gusto insicuro. In Morgenstern l’assurdità era solo il rovescio di una fuga nella teosofia. Ma il nichilismo di Kästner non nasconde nulla, come una bocca che non può trattenersi dallo sbadigliare.
I poeti avevano cominciato presto a fare conoscenza con questo tipo particolare di disperazione: la stupidità tormentata. Poiché la poesia veramente politica degli ultimi decenni ha per lo più anticipato le cose, a guisa di araldo. Era l’anno 1912-13, quando con le sconcertanti descrizioni di gruppi sociali mai individuati prima di allora - i suicidi, i prigionieri, i malati, i marinai, i pazzi - le poesie di Georg Heym anticiparono quella disposizione delle masse all’epoca inimmaginabile che sarebbe poi emersa nell’agosto del 1914. Nei suoi versi la terra si prepara a essere sommersa dal rosso diluvio. E molto prima che dalle acque emergesse, unica vetta, l’Ararat del marco d’oro, occupato fino all’ultimo posto da mangioni e ghiottoni, Alfred Lichtenstein, che era caduto nei primi giorni di guerra, aveva messo a fuoco quelle tristi e gonfie figure per cui Kästner ha trovato i clichés. Ora ciò che distingue questa prima versione, ancora preespressionistica del borghese da quella successiva e postespressionistica, è la sua eccentricità. Non a caso Lichtenstein ha dedicato una delle sue poesie a un clown. I suoi borghesi hanno ancora nel sangue il clownismo della disperazione. Non hanno ancora espulso da sé l’eccentrico per fare di esso un oggetto di divertimento delle grandi città. Non sono ancora saturati, non sono ancora agenti cosí completamente da non sentire un’oscura solidarietà con una merce per cui si sta già avvicinando all’orizzonte la crisi. Venne poi la pace - e cioè appunto la crisi, quel ristagno nello smercio della merce uomo che conosciamo sotto il nome di disoccupazione. E il suicidio, quale è propagandato dalle poesie di Lichtenstein, è una sorta di dumping, vale a dire la vendita di questa merce a prezzi irrisori. Di tutto questo le strofe di Kästner non sanno più nulla. Il loro ritmo si conforma esattamente alle note con cui i poveri ricchi esprimono la loro malinconia; parlano alla tristezza dell’individuo saturo, che non può più dedicare tutto il suo denaro al proprio stomaco. Stupidità tormentata: è questa l’ultima delle metamorfosi che la malinconia ha subito nel corso di duemila anni.
Le poesie di Kästner sono fatte per gente che guadagna molto, per quelle bambole tristi e pesanti che camminano calpestando cadaveri. Con la solidità della loro corazza, la lentezza della loro marcia, la cecità delle loro azioni esse sono il convegno che carro armato e cimice si sono dati nell’uomo. Queste poesie ne sono gremite come un caffè della city dopo la chiusura della borsa. Perché stupirsi se la loro funzione consiste nel conciliare questo tipo con se stesso e nel creare quell’identità tra vita professionale e vita privata che questa gente intende col nome di «umanità», ma che in realtà è propriamente, precisamente bestiale, poiché la vera umanità (nelle condizioni attuali) può essere solo il risultato della tensione fra quei due poli? In essa si formano la riflessione e l’azione, crearla è il compito di ogni lirica politica, ed esso è adempiuto, oggi, nel modo più rigoroso dalle poesie di Brecht. In Kästner essa deve cedere il posto alla sufficienza e al fatalismo. È il fatalismo di coloro che sono più lontani dal processo di produzione, e che perciò cercano di ottenere il favore delle congiunture, nel buio - atteggiamento, questo, paragonabile a quello di un uomo che si rimetta interamente agli imperscrutabili colpi di fortuna della propria digestione. Quello che è certo è che il brontolio che si ode in questi versi ritiene ha più della flatulenza che della sovversione. Da sempre la stitichezza si è accompagnata con la malinconia. Ma da quando nel corpo sociale gli umori ristagnano, siamo continuamente investiti dal suo tanfo. Le poesie di Kästner non migliorano l’aria.

- Walter Benjamin - 1931 -

lunedì 30 gennaio 2017

euro-americani al voto

trump

Alcune domande sul significato della vittoria di Trump
- di Yves Coleman -
[Questo testo è stato pubblicato sul sito web "Insurgent Notes", e affronta i temi di diversi articoli scritti da quei compagni]

Cari compagni,

ritengo che la discussione che avete aperto introno alle cause della vittoria di Trump sia molto utile. Sebbene io non segua molto da vicino tutto quello che accade negli Stati Uniti, penso che abbiate toccato un punto cruciale quando, in molti dei vostri articoli, vi interrogate a proposito della mancanza di un rapporto profondo fra la sinistra e la classe operaia, soprattutto la classe operaia euro-americana.
Penso che i due articoli che forniscono le informazioni di base sulle situazioni locali siano molto interessanti. Tali articoli aiutano (noi, che ci troviamo fuori dagli USA) a comprendere un po' di più la complessità delle situazioni locali e delle situazioni del voto (o del non-voto).
Dal momento che i giornalisti americani e francesi, ma anche i militanti, stanno cercando di mettere a confronto Trump e Fillon (il candidato della destra francese alle prossime elezioni presidenziali dell'aprile 2017), diventa interessante per i militanti francesi imparare dall'esperienza e dai dibattiti dei compagni americani.

Vorrei sottolineare alcune differenze fra la situazione francese e quella americana. Innanzitutto, il sistema elettorale è totalmente differente: in Francia abbiamo due turni sia nelle elezioni parlamentari che in quelle presidenziali, per cui è estremamente difficile per un candidato di estrema destra vincere queste elezioni (anche quelle parlamentari che danno un bonus a chi vince il primo turno), almeno fino a quando l'attuale sistema elettorale non verrà cambiato. Voglio ricordare che nel 20012, al secondo turno delle elezioni presidenziali, Chirac (candidato della destra) prese l'80% dei voti in quanto la sinistra votò per lui e contro Jean Marie Le Pen.
È altamente probabile che la sinistra, vista la sua divisione (circa dieci candidati), perda il primo turno delle elezioni presidenziali e che sarà Marine Le Pen a sfidare nel secondo turno il candidato della destra, François Fillon. Se si verificherà un remake del 2002, vedremo sicuramente la sinistra chiamare al voto contro la Le Pen, per cui non vedo come l'estrema destra possa vincere queste prossime elezioni.

Per quanto riguarda il programma di Fillon, sebbene la sinistra lo denunci come un "ultraliberista pro capitalista" (la stessa sinistra aveva denunciato il presidente Sarkozy come continuatore di "Vichy" - il regime pro-nazista ed antisemita di Marshal Pétain durante la seconda guerra mondiale! - e precedentemente aveva denunciato De Gaulle come "fascista"), dubito molto che Fillon attuerà tutti gli elementi del suo programma (a partire dall'assurda idea di licenziale mezzo milione di impiegati statali - su 5,6 milioni -, cosa che sembra impossibile da mettere in pratica a meno di non voler commettere un suicidio politico; la stessa cosa vale per quel che riguarda la sua idea di chiedere alle compagnie private di assicurazioni di farsi carico di una parte significativa dell'assicurazione sanitaria personale coperta oggi dallo Stato, una proposta che viene rifiutata dalle compagnie assicurative in quanto troppo costosa)... Bisognerà aspettare la campagna elettorale e vedere che cosa rimane delle sue promesse e, se verrà eletto, cosa farà una volta al potere.

I vostri articoli mettono in evidenza il problema del voto operaio euro-americano (evito di usare il concetto di "bianco", come vedete). Dal momento che anche in Francia si sono svolti dei dibattiti simili, credo che in questi articoli manchino alcuni elementi statistici e concreti.
Se prendiamo la situazione francese (non conosco le cifre americane), vediamo che la popolazione ammonta a 66 milioni di persone; di queste persone, gli elettori sono 44 milioni, di cui 6 milioni di operai. A partire da questi numeri, si può vedere come gli operai non possono avere in alcun modo un ruolo decisivo nelle elezioni, soprattutto in quanto una buona parte di questi operai non sono franco-francesi.
È vero che c'è stata una svolta a destra nel voto operaio in tutte le elezioni europee, a partire almeno dagli anni 1980. Tuttavia, se prendiamo l'esempio della Francia, fra il lavoratori (operai ed impiegati insieme), nel voto, c'è sempre stato un rapporto di 45 a 55 fra la sinistra e la destra (e più recentemente l'estrema destra). Ma quel che è più importante è che fra gli operai il numero di astensionisti è drammaticamente aumentato.

Perciò, tornando al significato della vittoria di Trump o all'ipotetica vittoria di Marine Le Pen in Francia nel 2017, dovremmo scendere più in dettaglio per quel che riguarda le statistiche elettorali e le motivazioni. I risultati elettorali - specialmente in un'Europa invecchiata e con una significativa porzione di popolazione lavoratrice che non ha diritto di voto in quanto non ha cittadinanza europea - non sono il prodotto del nucleo della classe operaia e nemmeno di quella impiegatizia. Pensionati (anche se è vero che si tratta di operai pensionati), piccola borghesia salariata, commercianti, liberi professionisti, capi, manager, dirigenti, ecc., rappresentano una forza molto più importante di quella rappresentata dal nucleo della classe operaia.

Secondo le statistiche francesi ufficiali, in questi 44 milioni di elettori, abbiamo:

13  milioni di pensionati
7,3 milioni di impiegati
6   milioni di operai
200 mila capitalisti (che impiegano dai 10 lavoratori in su)
1,7 milioni di piccoli borghesi: 692.900 negozianti, 665.000 artigiani e 350.000 professionisti(avvocati, architetti, medici, ecc.)
9,4 milioni di persone che appartengono alla "piccola borghesia salariata" o alla "nuova piccola borghesia"

Di questi ultimi 9,4 milioni di persone:

2,8 milioni hanno una posizione sociale nell'apparato repressivo dello Stato o hanno posizioni di comando nel settore privato, cosa che li rende molto interessati alla difesa degli interessi della classe capitalista: poliziotti e soldati (486.000); capireparto e supervisori (541.000); ingegneri e dirigenti tecnici, e manager del settore privato (698.000); dirigenti amministrativi e commerciali e manager nel settore privato (749.000) e dirigenti del settore statale.
6,6 milioni sono difficili da includere in una classe precisa, come 1,5 milioni di insegnanti, oppure quelli che le statistiche francesi chiamano "professioni intermedie del settore amministrativo e commerciale" (1,6 milioni), ecc..

Abbiamo così 6,4 milioni di quelli che hanno il diritto di voto per i quali non abbiamo informazioni che riguardano la loro classe sociale. La maggior parte sono disoccupati e molte centinaia di migliaia di loro sono persone che lavorano "al nero"; il termine si riferiva ai servi che lavoravano durante la notte per i loro padroni feudali.
In ogni caso, non ci sono statistiche nazionali che conteggino sia il numero di persone che ha diritto al voto sia il fatto che appartengano a questa o a quella "categoria socio-professionale", tralasciando il fatto che queste CSP (categorie socio-professionali) non sono costituite secondo categorie marxiste. Il mio intento era quello di mostrare che gli operai - disoccupati, in pensione o che lavorino - non sono la maggioranza degli elettori (tralasciando il fatto che molti lavoratori non hanno il diritto di voto perché sono stranieri).
Quindi penso che se si vuole trarre una lezione politica dalla vittoria di Trump, bisogna scendere più nei dettagli della faccenda.

Un altro aspetto che dobbiamo affrontare (in Francia come negli Stati Uniti) è quello degli importanti cambiamenti avvenuti nella militanza che ha un'influenza sulla politica elettorale. Dovremmo studiare di più le nuove forme di mobilitazione politica che rendono le persone meno responsabili delle loro scelte politiche rispetto a quanto avveniva ai "bei vecchi tempi" della militanza di sinistra e di destra. Fra l'individuo che distribuisce volantini, che attacca manifesti dappertutto e che va alle manifestazioni, ed è anche pronto a picchiare i suoi avversari (o a usare le armi, come negli Stati Uniti), e quello che firma una petizione su Internet, quello che invia messaggi razzisti nell'anonimato dei social network, quello che vota, ecc., oggi c'è molto più spazio per esprimere opinioni politiche di quanto ce ne fosse 40 anni fa.

Abbiamo visto questo fenomeno durante il movimento contro il Trattato Costituzionale Europeo, nel 2005, e nel recente movimento contro la legge sul lavoro El Khomry in Francia; lo abbiamo visto in tutti i movimenti che ci sono stati nelle diverse piazze e negli accampamenti, ecc.. Lo vedo su base quotidiana fra tutti quelli che cercano di aiutare i lavoratori senza documenti in Francia. Mi sembra che, a sinistra, le forme di impegno siano diventate estremamente diverse se paragonate a quello che era possibile 40 anni fa. Per la destra e per l'estrema destra, è la stessa cosa: è questo il motivo per cui dubito che la classe capitalista abbia bisogno di milizie fasciste per imporre idee e comportamenti xenofobi su una scala di massa. Le reti sociali riescono a farlo benissimo, incluse le persone che si attivano solamente in tale reti sociali. Lo stesso avviene con i jihadisti islamici: reclutano decine di migliaia di persone in gran parte grazie ai social network.

Ragion per cui sono interessato a conoscere la vostra opinione su cosa è accaduto da entrambe le parti: dalla parte dei sostenitori di Trump e dalla parte degli opponenti (incluso il vostro gruppo). Che cosa stanno facendo e che cosa state facendo su questo terreno di battaglia ideologica e di utilizzo pratico dei social network?

Per quanto riguarda l'ultimo numero della vostra rivista, Insurgent Notes, e per quel che riguarda l'editoriale (ma la cosa viene detta anche in altri articoli), ho qualche dubbio circa il fatto che la maggior parte dei non-votanti siano "il nostro partito". Che con l'aumento dell'astensione cresca anche la coscienza anti-capitalista, è un vecchio mito anarchico dei primi anni del 20° secolo. Non vedo alcuna relazione in Europa fra l'aumento dell'astensionismo dei lavoratori nel corso degli ultimi 30 anni e le lotte operaie di massa [*1].
Il "nostro partito" è fatto solo di quelli che non votano ma non lottano? Se l'unica cosa che caratterizza il "nostro partito" è l'ideologia anti-establishment, allora la sinistra non ha da dire niente di molto sofisticato. E se si pensa: «è un inizio» (il solito mantra ogni volta che c'è una piccola crisi politica o economica) da cui "i rivoluzionari" possono partire, beh ci sono anche un sacco di militanti di destra e di estrema destra che pensano esattamente la stessa cosa. Che strano partito è questo? Si dovrebbe spiegarlo meglio...

Per quanto riguarda l'identità politica, specialmente nell'ultimo articolo di S.S e di Michael Stauch, non capisco davvero come gli autori possano, allo stesso tempo, criticare le politiche identitarie e poi usarne tutte le categorie, queer, LGTBQ (lesbiche, gay, transgender, bisessuali, queer), latino, nero, asiatico, donne, ecc.. Penso che si debba scegliere: utilizzare il linguaggio delle identità politiche significa che non siamo stati in grado di pensare al di fuori di tali categorie. Credo che sarebbe bene non usare sistematicamente due linguaggi contraddittori (il linguaggio della identità/razza ed il linguaggio della classe), specialmente in questo senso.
Tuttavia, ciò che è positivo in tutti gli articoli di Insurgent Notes è l'idea che tutti i lavoratori euro-americani non sono razzisti... Questa è una buona notizia ed è probabilmente vero, ma bisogna che venga provata attraverso statistiche, esperienze personali e fatti.

Se la raffronto alla situazione francese e alla crescente influenza del Fronte Nazionale nei confronti della classe operaia (principalmente fra gli elettori di destra, non fra gli elettori di sinistra... almeno per ora), non sono sicuro si possa fare molto nei confronti di questi lavoratori politicamente arretrati. Soprattutto se si scende sullo stesso terreno di lotta dell'estrema destra, come fa uno degli autori (Dave Ranney) quando si riferisce alla lotta contro il NAFTA e contro altri accordi. I fronti uniti con esponenti della destra e dell'estrema destra, anche in comitati locali composti da lavoratori di base, ritengo che portino in un vicolo cieco.
Una politica operaia (che sia "rivoluzionaria", sindacale oppure che venga svolta da comitati d'azione fuori dai sindacati) dovrebbe puntare a esigenze generali comuni per cui possano battersi tutti i lavoratori insieme. Rivolgersi specificamente ai lavoratori euro-americani che hanno votato per Trump, non mi sembra il punto principale. Rivolgersi a tutti i lavoratori (ovviamente tenendo conto delle situazioni locali specifiche) è il compito principale se vogliamo sbarazzarci di tutte quelle idee di destra o riformiste, negli Stati Uniti come in Francia.

Vostro,

YC, Ni patrie ni frontières, December 2016

NOTE:

[*1] - A proposito della relazione che intercorre fra "categorie social-professionali" ed astensione, è questo quel che ho trovato, ma si tratta del risultato di sondaggi perciò non è molto affidabile. Gli astensionisti non sono astensionisti permanenti, ragion per cui il loro numero varia. Le elezioni europee hanno una percentuale molto più alta di astensione per tutte le categorie sociali inclusi i lavoratori...

fonte: mondialisme. org

sabato 28 gennaio 2017

#LEXIT

trump

Come Trump farà pentire la sinistra radicale della sua agitazione anti-globalizzazione
- di Jehu -

Donald Trump è la confutazione definitiva della politica del "Lexit" sostenuta dalla sinistra che è scesa nelle strade per promuovere quest'idea. In senso lato, Lexit è una teoria che dovrebbe servire a migliorare le condizioni della classe operaia di un paese erigendo barriere al mercato mondiale.
Nessuno è mai riuscito a dimostrare perché questo sarebbe vero; è stato semplicemente accettato come una premessa.

Attualmente, ci sono due versioni di quest'idea: Il corposo modello sovietico e quello keynesiano, più annacquato.
Il modello sovietico richiede la diretta proprietà statale del mezzi di produzione e la gestione dell'attuale processo produttivo.
L'annacquata versione keynesiana richiede solamente il controllo statale dell'oggetto che serve da denaro.
Diversamente dal modello sovietico, quello keynesiano non intende gestire l'attuale processo di produzione, ma soltanto il processo di accumulazione.
Il processo di accumulazione capitalista comincia e finisce non con una merce ma con una somma di denaro controllata dallo Stato fascista.
Entrambi i modelli sono soggetti alle limitazioni dovute alla difficoltà di potersi mantenere in quella che viene definita essere un'economia aperta.
Entrambi i modelli richiedono, più o meno, un controllo statale sul movimento del capitale e del lavoro.
Di conseguenza, entrambi sono più o meno resistenti a quel genere di accordi globali che noi associamo alle istituzioni neoliberiste, come l'Unione Europea.

Qui ci troviamo davanti ad uno stridente paradosso: lo Stato fascista - che è stato il più esplicito nel volere infrangere le economie chiuse e nel voler rimuovere tutte le barriere ad un movimento del capitale che doveva essere il più libero possibile - è anche quello più adatto a perseguire questo genere di politiche keynesiane che incontrano il favore dei sostenitori del Lexit.
È impossibile immaginarlo, ma se Obama avesse dato inizio a molte di quelle tattiche, a colpi di maniere forti, in cui oggi è impegnato Trump, sarebbe un eroe popolare.
Solo per fare qualche esempio di quel che ha fatto Trump in questa settimana:

- Trump ha sfidato i mercanti d'armi, i membri della NATO, il TPP, il NAFTA, i costruttori di automobili e la Silicon Valley.

- Ha costretto i titani dell'industria a venire da lui strisciando sulle loro ginocchia e a giurare di portare il loro impianti produttivi negli Stati Uniti

- Ha costretto il Partito Repubblicano ad essere d'accordo (a parole) nel rimpiazzare lo sfortunato Obamacare con un programma che sarà più conveniente, che negozierà il prezzo dei farmaci, ecc..

- Ha polverizzato la resistenza da parte delle amministrazioni democratiche locali a cambiare le loro politiche di polizia, minacciandoli di trattenere i fondi federali.

Certo, attualmente nessuna di queste misure è stata concretamente attuata. Le promesse da parte delle imprese di portare la produzione negli Stati Uniti si potrebbe rivelare più apparente che reale. Ed alcune delle sfide di Trump sono state fatte per dubbie ragioni: sta bloccando i fondi federali nei confronti delle città non per impedire che la polizia uccida i cittadini, ma per mettere fine alla mancanza di cooperazione rispetto all'espulsione dei lavoratori migranti.
Cos'altro di radicale ci si aspettava dalla precedente amministrazione democratica se non che attuasse una sola di queste politiche economiche, o addirittura tutte quante insieme?

Tutto questo è come un sogno erotico radicale, eppure i radicali lo vivono praticamente come il più insopportabile degli incubi. Se si domanda ai radicali perché odiano Trump così tanto, non menzioneranno mai queste cose, ma si riferiranno invece all'agenda sociale di Trump.
La ragione per cui la sinistra non menziona ciò che Trump ha fatto nella sua prima settimana è che le cose che ha fatto sono pericolosamente vicine al programma economico della sinistra.
In un primo momento, potrebbe sembrare che Trump si sia appropriato del programma economico della sinistra radicale. In realtà è vero il contrario: la sinistra radicale non ha mai superato il programma economico fascista dello Stato capitalista. Il programma economico della sinistra radicale può essere espresso in una frase:

Lavoro salariato a beneficio degli schiavi salariati

Così, allo stesso modo in cui sembra che Trump si sia appropriato della politica del Lexit della sinistra, in Europa i peggiori elementi della società si sono appropriati di queste politiche: UKIP, Fronte Nazionale, Alternativa per la Germania, ecc.. L'essenziale carattere di classe del Lexit è indicato dall'ascesa di Trump e dall'ascesa dei partiti euro-scettici in Europa. Si dovrebbe mettere fine al flirt fra la sinistra e l'«anti-globalismo», ma questo secondo quel minchione di economista di Michael Spence è impossibile:

«Potrebbe essere ormai troppo tardi per convincere gli elettori a non rifiutare i sistemi esistenti, ma abbiamo però ancora tempo per costruire delle alternative efficaci. Il margine di crescita potenziale rispetto alla tremenda incertezza provata da molti in tutto il mondo, risiede nel fatto che ci troviamo essenzialmente davanti a un foglio bianco, dal quale sono state cancellate tutte le presunzioni, tutti i pregiudizi ed i tabù, per cui ora è possibile creare qualcosa di meglio.
   Consideriamo gli Stati Uniti. Nuovi modelli di crescita e nuove politiche ci potrebbero portare in molte direzioni, ivi incluso il rifiuto del multilateralismo, a favole del bilateralismo o del protezionismo; cambiamento della politica sull'immigrazione; riforma fiscale; misure dal lato dell'offerta in materia di istruzione, di formazione e di assistenza sanitaria. In tutte queste aree ci sono rischi benefici potenziali, e il risultato dipenderà dall'insieme del pacchetto politico».

In parole povere, una rinascita fascista, che in realtà  è sempre stato l'obiettivo della sinistra radicale, oggi può servire da punto di partenza per un nuovo ciclo di accumulazione capitalista.

Nessuno aveva pensato che anti-globalizzazione, UBI [Universal Basic Income], posto di lavoro garantito, ed altre proposte radicali, avrebbero potuto finire per essere un nuovo incubo per la società. Ciò perché i radicali hanno sempre assunto l'esito più favorevole per i loro progettini e si sono sempre rifiutati di esaminare il potenziale peggiorativo delle politiche da loro sostenute.

Si spera che Trump mostri ai radicali quanto possono essere davvero cattive le loro politiche.

Pensate al vostro sciocco anti-globalismo quando vi troverete nelle strade a difendere i lavoratori migranti dall'espulsione da parte dell'amministrazione Trump. Pensate al vostro Reddito Universale di Base quando la rete di assistenza sociale diverrà essenzialmente acquisizione di liquidità. Non è stato Trump ad inventare l'argomento secondo cui il mercato mondiale fosse una minaccia per la classe operaia. Per decenni, la sinistra ci ha raccontato di quanto fosse un male il libero scambio, per i lavoratori; Trump è il prodotto diretto di quegli argomenti della sinistra anti-globalista.

Quel che spaventa i radicali è l'idea che i loro sentimenti anti-globalisti troveranno concreta espressione in primo luogo nella massiccia barriera di cemento sul confine con il Messico. Nessuno si aspettava quella merda. I radicali ora si trovano davanti ad una scelta del tutto inaspettata: per combattere Trump dovranno rigettare decenni della loro stessa propaganda.
Dovranno farlo, o finaranno come Bernie Sanders, che sta flirtando con una delle più regressive amministrazioni di tutta la storia americana.
I radicali non possono più evitarlo, e devono tirar via velocemente il cerotto [N.d.T.: "Strappare il cerotto": modo di dire americano per "dire a qualcuno la dura verità, anche se questo può ferirlo"], non importa quanto fara male lì per lì.
Dobbiamo opporci al protezionismo in tutte le sue forme ed essere contro tutti i tentativi di limitare il movimento del capitale e del lavoro.
Pui morderti la lingua mentre passi i prossimi quattro anni a lottare contro l'espulsione del lavoratori migranti oppure puoi cambiare opinione.

La scelta è semplice: o accetti l'espulsione dei lavoratori migranti e i muri lungo i confini, oppure ti batti per la fine di tutti i confini:
fascismo o internazionalismo.

- Jehu - pubblicato su The Real Movement il 27 gennaio 2017 -

fonte: The Real Movement

venerdì 27 gennaio 2017

Sparire

agamben

Quarant’anni dopo il libro di Sciascia, il mistero della scomparsa di Ettore Majorana, avvenuta il 25 marzo 1938, è rimasto immutato. Com’è possibile che il più promettente e geniale fra i fisici riuniti intorno a Enrico Fermi sia sparito senza lasciare traccia? Sciascia aveva ipotizzato che la decisione di scomparire e di abbandonare la fisica fosse stata presa da Majorana nel momento in cui si era reso precocemente conto che le ricerche di Fermi avrebbero portato alla bomba atomica, ma la sua ipotesi è stata sempre smentita dai fisici. Agamben in questo libro affaccia un’altra e più persuasiva ipotesi.
Analizzando attentamente un articolo postumo di Majorana sul Valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali, che dimostra che nella fisica quantica la realtà deve dissolversi nella probabilità, Agamben suggerisce che Majorana, scomparendo senza lasciare tracce, ha fatto della sua persona la cifra stessa dello statuto del reale nell’universo probabilistico della fisica contemporanea e ha posto alla scienza una domanda che aspetta ancora la sua risposta: che cos’è reale?
(dal risvolto di copertina di: Giorgio Agamben, "Che cos'è reale? La scomparsa di Majorana", Neri Pozza, Pagine 80 Euro 12,50)

Majorana siamo noi
- di Maurizio Ferraris -

In L’accostamento ad Almotàsim, Borges propone la recensione fittizia di un romanzo mai scritto ove si narra della ricerca dell'assoluto - Almotàsim, una immagine di Dio - da parte di uno studente di Bombay, che si conclude davanti a una tenda: una voce umana, "la increíble voz de Almotàsim" lo invita a scostarla, lui ubbidisce, e qui si chiude il romanzo immaginario. Con una narrazione di idee in cui compaiono Aristotele e Bohr, Heisenberg e Simone Weil, Pascal e Louis de Broglie, Cardano e Sciascia, Giorgio Agamben ci propone, in Che cos`è reale? (Neri Pozza) un gioco inverso.
La scomparsa del fisico Ettore Majorana nel marzo 1938, «altrettanto certa quanto improbabile (nel senso letterale del termine: essa non può essere in alcun modo provata e accertata sul piano dei fatti)» è un plot da cui è nato più di un libro, e su tutti quello di Leonardo Sciascia del 1975. Ma se Sciascia propone una lettura politico-morale, per cui Majorana si sarebbe nascosto in un convento, abbandonando la fisica perché avena intuito le potenzialità distruttive dell'atomo, Agamben ci offre una chiave metafisica. Sgomento di fronte alla realtà della nuova fisica, che di fatto è solo probabilità statistica, Majorana, sparendo senza lasciar tracce avrebbe fatto un salto nel reale vero, nell'inaccessibile, quasi che (se vale il paragone borgesiano che propongo) Majorana avesse varcato la soglia e fosse stato inghiottito da Almotàsim.
La chiave di volta dell'interpretazione di Agamben è fornita da un saggio di Majorana, Il valore delle leggi statistiche nella Fisica e nelle Scienze sociali, uscito postumo nel 1942 (e pubblicato in appendice al volume agambeniano), in cui tratta «dell’abbandono del determinismo nella meccanica classica a favore di una concezione puramente probabilistica del reale». Einstein sosteneva che Dio non gioca a dadi con l’universo, ma la meccanica quantistica trasforma il mondo in un tavolo verde dove si buttano dei dadi, e i fisici in giocatori che, con l’aiuto del calcolo delle probabilità, cercano di prevedere i risultati dei tiri, mentre con le loro osservazioni interferiscono sui risultati. Se è così, l’unico modo per aver accesso all’assoluto, al reale intatto e incontaminato in un mondo preda della contingenza, è la scomparsa, sottrarsi a qualunque osservazione. In termini kantiani, è come se Majorana, non sopportando l’incertezza del mondo dei fenomeni e persuaso che questi non sono cose in sé, avesse deciso di sparire nel mondo dei noumeni.
Ma siamo certi che l’instabilità del reale sia davvero tale, e sia confermata dall’esempio della realtà quantistica? E che il probabilismo e la statistica riguardino il reale (l’ontologia, quello che c’è) e non la conoscenza che ne abbiamo, le nostre capacità predittive (ossia l’epistemologia)? Con l’esse est percipi Berkeley sosteneva che "essere è percepire o essere percepito", mentre Majorana, se seguiamo l’interpretazione di Agamben, sarebbe incorso in una fallacia simmetrica: esse est concipi, esiste solo ciò che possiamo conoscere, e la nostra debolezza epistemologica si trasforma in una debolezza ontologica.
Se così fosse -e questo avviene spesso nel pensiero moderno, determinandone l’antirealismo - si riproporrebbe, amplificata, la stessa difficoltà che si presenta per un mondo kantiano preso alla lettera: nessuno di noi ha difficoltà a pensare che il sole e le stelle siano dei fenomeni (contrapposti a delle cose in sé inaccessibili), ma difficilmente accetteremmo di considerare come dei fenomeni i nostri amici e parenti. Se si attribuisse alla realtà storica e sociale le caratteristiche della realtà quantistica, che riguarda un livello microscopico, allora tutto il nostro mondo non avrebbe senso, né avrebbero senso gli scrupoli, i tormenti o i timori che hanno determinato la scomparsa di Majorana.

- Maurizio Ferraris - Pubblicato su Repubblica/Robinson il 15 gennaio 2017 -

giovedì 26 gennaio 2017

Si può fare di meglio!

manhattan

I marxisti hanno disperatamente bisogno di una nuova visione del futuro
- di Jehu -

Considerato quel che è stato il suo risultato finale, potrebbe apparire bizzarro, ma penso che i marxisti abbiano bisogno del loro "Progetto Manhattan" per il 21° secolo. Un tale progetto non dovrebbe porsi l'obiettivo di radere al suolo le città, bensì quello di mirare apertamente alla completa automazione della produzione e all'eliminazione totale del lavoro salariato.
Un movimento globale che si ponesse quest'obiettivo quasi inconcepibile avrebbe senz'altro il risultato di catturare l'immaginazione dell'umanità, e probabilmente potrebbe essere l'unica cosa in grado di rimettere il comunismo all'ordine del giorno nei paesi avanzati.

Il problema consiste nel fatto che il capitalismo riduce naturalmente la necessità di lavoro, ma lo fa nel peggiore dei modi. Per i lavoratori, il tempo libero, sotto il capitalismo, assume la forma di disoccupazione e povertà. In altre parole, il capitalismo crea le condizioni materiali per il comunismo, ma lo fa in un modo che avvantaggia i membri più ricchi della società. Il comunismo non è nient'altro che tempo libero, ma sotto il capitalismo i lavoratori esperiscono tale tempo libero nella forma della disoccupazione - e il tempo libero nella forma della disoccupazione significa che la classe operaia viene tagliata fuori dai mezzi di sussistenza.
In un modo o nell'altro, oggi tutti cercano di capire come fare a fermare tutto questo attraverso proposte politiche che vanno dagli "investimenti verdi" ai lavori garanti e fino al reddito minimo e all'opposizione al TPP [Trans-Pacific Partnership]. Sono concentrati sui sintomi del lavoro salariato, della disoccupazione e della povertà, ed ignorano ciò che oggi essenzialmente crea disoccupazione e povertà, il lavoro salariato.
I lavoratori vivono il tempo libero come povertà e disoccupazione solo in quanto devono vendere il loro lavoro per poter accedere ai mezzi di sussistenza. Fino a quando esisterà il lavoro, esisteranno disoccupazione e povertà. Il lavoro salariato fa diventare un incubo distopico quello che dovrebbe essere un futuro eccitante. L'impulso naturale del capitalismo - abolire il bisogno di lavorare e rendere possibili le condizioni per una società di individui liberamente associati - viene trasformato nell'orribile scenario che vede miliardi di individui tagliati fuori dai mezzi di sussistenza.
Invece di sbarazzarsi del lavoro salariato, la gente perde tempo a cercare di immaginare come fare a riformarlo in modo da eliminare povertà e disoccupazione. Pensano di poter risolvere il problema distribuendo soldi oppure facendo in modo che lo Stato dia un lavoro a ciascuno, investendo in infrastrutture, ecc..

Eppure fatto sta che per millenni i membri più ricchi della società hanno vissuto senza lavorare, e mai una volta che si siano lamentati di non avere un posto di lavoro.

Per vivere non c'è bisogno di un posto di lavoro, si tratta di una deliberata imposizione sulla maggioranza della società al fine di estrarre ricchezza. Oggi, viviamo in un tempo un cui è realmente del tutto possibile avere una società dove, per la prima volta nella storia umana, nessuno deve lavorare; dove ognuno può godere di ciò di cui per millenni solo i ricchi hanno potuto godere.
L'idea di una società in cui nessuno deve lavorare alla maggior parte delle persone appare delirante, ma appariva tale anche quella secondo cui le persone avrebbero passeggiato sulla luna, o l'idea che si potesse radere al suolo un'intera città semplicemente dividendo una particella talmente piccola che non poteva nemmeno essere vista.

Per creare una società senza lavoro, dobbiamo comprendere ciò che Marx chiamava la tendenza del capitalismo «ad uno sviluppo assoluto delle forze produttive, che entra continuamente in conflitto con le condizioni specifiche di produzione in cui si muove, e in cui solo può muoversi, il capitale».
Qui l'argomento di Marx, per quanto strano possa sembrare, è che tutto ciò che dobbiamo fare per creare una società senza lavoro è rimuovere tutti gli ostacoli che si oppongono alla tendenza del capitalismo verso quella direzione.
Lo so, suona follemente inquietante. I comunisti che chiedono di rimuovere tutti gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo? Davvero? Volete più capitalismo? Come fate a definirvi comunisti?
Ad ogni modo, gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo non sono altro che le sue relazioni di produzione che diventano sempre più obsolete. La barriera, per il capitale - dice Marx - è il capitale stesso. In termini pratici, gli argomenti di Marx suggeriscono che quanto più si riduce il lavoro salariato, tanto più assoluta diventa la tendenza del capitale a sviluppare le forze produttive.

La cosa interessante è che non ho mai letto un singolo marxista che suggerisca che la tendenza capitalista allo sviluppo assoluto delle forze produttive può essere sfruttata per abolire il capitalismo. Oggi, il dibattito fra i comunisti è interamente focalizzato su concetti quali "resistenza al capitalismo" o l'orribile termine "anti-capitalismo".
Tuttavia, nella teoria di Marx, il capitalismo è già il suo anticapitalismo.
È questo ciò che intende Marx quando afferma che il capitale si muove nelle proprie specifiche condizioni di produzione. Se si rimuovono le condizioni specifiche della produzione capitalista, la tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive diviene una legge, e non solo una mera tendenza.
L'ho già detto altre volte, ma lasciatemelo ripetere: fra i comunisti, solo Nick Land lo ha capito. Per uccidere il capitalismo, basta solo rimuovere gli ostacoli allo sviluppo delle forze produttive che il capitalismo incontra sulla sua strada. I resti del comunismo post-bellico reagiscono inorridendo all'idea di fare questo, come se Land stesse dicendo qualcosa di terribile. L'orrore dei marxisti rispetto a Nick Land si estende anche alla sua idea secondo la quale tutta l'umanità verrà rimossa dalle forze produttive.
Come se il nostro obiettivo di emancipazione sociale fosse quello di essere meri strumenti (un "substrato", come lo chiama Ray Brassier) per la produzione di valori d'uso.
La condizione storica specifica del capitale è il lavoro salariato. La contraddizione che si trova al cuore del capitalismo è quella per cui esso cerca di abolire il lavoro salariato, nel mentre che mantiene il valore come misura della ricchezza sociale. In questo modo, il capitale tenta di abolire il lavoro salariato, ma, allo stesso tempo, è costretto ad espandere il lavoro salariato in quanto esso è l'unica fonte di ricchezza sociale capitalista.
Per interrompere questo processo di produzione di ricchezza sociale capitalista, basta soltanto impedire l'ulteriore espansione della durata assoluta del lavoro salariato. Il capitale risponde in maniera intrinseca ad un limite progressivo nel tempo di lavoro, cercando di accelerare lo sviluppo delle forze produttive, così come avviene ad ogni crisi. Lo scopo di questo sviluppo accelerato è quello di incrementare quella porzione relativa di lavoro giornaliero in cui viene creato il plusvalore.
Se il tempo assoluto di lavoro della società non può essere aumentato, il capitale deve tentare di incrementare la parte relativa alla giornata lavorativa dedicata al lavoro non pagato. Nel lungo periodo, il capitale può fare questo solo sviluppando le forze produttive e riducendo ancora ulteriormente l'ammontare di lavoro vivo utilizzato per la produzione di merci.

In questo modo, è possibile forzare il capitale nella direzione dello sviluppo assoluto delle forze produttive semplicemente riducendo il tempo assoluto di lavoro disponibile per la produzione di ricchezza sociale capitalista.
Questo, si badi bene, non è scienza missilistica; la parte attinente alla scienza missilistica è già stata svolta da Marx. Tutto quello che noi dobbiamo fare riguarda la parte che attiene a capire che cosa Marx abbia scritto.
Quindi, un progetto Manhattan della completa automazione della produzione consiste semplicemente nel ridurre progressivamente la lunghezza assoluta del tempo lavorativo della società; il capitale fa il resto, mettendoci il carico pesante dello sviluppo delle forze produttive.
Marx ha lasciato ai comunisti una chiara road map per la completa abolizione del lavoro nella nostra società che è facilmente comprensibile. Invece noi abbiamo usato quest'eredità per il suo esatto contrario, usando lo Stato per impedire che il lavoro potesse scomparire. Milioni di parola e centinaia di libri scritti dai marxisti sono dedicati a salvare il lavoro salariato, ma non c'è niente dedicato alla sua abolizione.
Si potrebbe pensare che era impossibile abolire il lavoro, e in effetti la maggior parte dei marxisti se fossero stati interrogati in proposito, lo avrebbero ammesso; eppure, hanno impegnato una quantità impressionante di energie per cercare di impedire che il lavoro sparisse.
Perché?

Se il lavoro non sparisce a causa dell'automazione, perché i marxisti spendono così tanto tempo pensando al modo per impedire che sparisca? Perché passano così tanto tempo a parlare di come lo Stato può creare nuovi investimenti nei "posti di lavoro verdi" e simili? Perché sprecano così tanto tempo in programmi per il lavoro garantito ed il salario minimo se il lavoro non sta sparendo?

Passano una quantità spropositata di tempo intorno a delle idee che dovrebbero servire ad impedire o a contenere la sparizione del lavoro e poi giurano e spergiurano che il lavoro non sta affatto sparendo.

Si può fare di meglio!

- Jehu - Pubblicato su The Real Movement il 5 agosto 2016 -

fonte: The real movement

mercoledì 25 gennaio 2017

Prima della crisi

usa

Il meccanismo della corrosione
- In assenza di una base reale nella produzione di merci, la crescita economica messa in atto dagli Stati Uniti negli anni 80 e 90 ora minaccia di sbriciolarsi -
di Robert Kurz

Si dice che quando gli Stati Uniti tossiscono, il resto del mondo ha la polmonite. Dal momento che gli Stati Uniti sono l'ultima potenza mondiale non solo nella sfera politica e militare, ma anche in quella economica. Negli anni 1980, il Giappone era considerato ancora come il maggior concorrente, che forse avrebbe potuto arrivare a predominare sugli Stati Uniti. Poi, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, erano i "mercati dell'Oriente" quelli che avrebbero dovuto dare origine ad un nuovo miracolo economico. Successivamente, le tigri asiatiche fecero sì che si parlasse di loro, e venne proclamato il "secolo del Pacifico". Anche Cile ed Argentina, allievi esemplari del neoliberismo in America Latina, sono stati celebrati come portatori della speranza in una nuove era di crescita.

Di tutti questo miti dell'ottimismo capitalista non è rimasto nient'altro che un mucchio di cenere. In realtà, non c'è stato che un solo ed unico miracolo economico, da cui sono dipesi tutti gli altri: il boom straordinario degli anni 1980 e soprattutto degli anni 1990 negli Stati Uniti. Ma ormai non si trattava più di una tradizionale congiuntura economica interna. Gli Stati Uniti non costituiscono affatto un modello di economia politica che, in virtù del suo successo, tutti gli altri cercano di imitare all'interno dei propri confini, come vorrebbe farci credere la propaganda ufficiale. Al contrario, l'economia nordamericana, che prima era autosufficiente solo a causa della sua grandezza, ha finito per rovesciare su tutta l'economia mondiale un effetto di risucchio reale, e non meramente ideologico.
Essenzialmente, il processo di globalizzazione è stato una "americanizzazione" dei flussi globali di denaro e di merci.

Nel passato, i cicli congiunturali avvenivano in maniera asincrona nelle diverse regioni del mondo, principalmente nei tre grandi centri, Giappone, Stati Uniti ed Europa Occidentale: ad un miglioramento qui si contrapponeva, per la maggior parte delle volte, un peggioramento lì, di modo che si potesse generare un equilibrio nel lungo periodo, grazie al rafforzamento delle esportazioni verso la corrispondente regione prospera, e a causa dell'inversione ciclica di tale processo. Come contropartita, negli anni 80 e ancor di più nei 90, l'economia mondiale è entrata in un circuito congiunturale sincrono, dal momento che la cosiddetta globalizzazione non è stata nient'altro che un crescente adattamento globale all'economia nordamericana. Da quel momento in poi, un numero sempre più crescente di paesi hanno cominciato ad inviare le loro sempre più crescenti eccedenze di merci verso gli Stati Uniti attraverso la strada a senso unico dell'esportazione.
In tal modo, una parte sempre maggiore dei profitti ottenuti tornava anche rapidamente, come esportazione di capitale monetario, alle istituzioni finanziarie degli Stati Uniti. E sempre più confluivano lì gli investimenti diretti di tutto il mondo, servendo, direttamente sul posto, il mercato nordamericano apparentemente inesauribile.

La ricerca industriale della diminuzione dei costi, in tutto il pianeta, e l'intreccio transnazionale a questa legato, sono elementi costitutivi di questa evoluzione. Quel che appare formalmente come flusso di esportazioni e di importazioni dei merci fra le diverse economie nazionali - e che in realtà è l'espressione di una dispersione globale dei vari componenti della produzione industriale - è essenzialmente mediato dall'adattamento generalizzato ed unilaterale agli Stati Uniti. Una parte considerevole delle esportazioni fra le diverse regioni del mondo, soprattutto dall'Europa all'Asia e viceversa, ma anche dentro l'Asia stessa e dentro l'Europa stessa, non viene consumata nel paese di destinazione; si tratta di importazioni di macchinari, di know-how, di prodotti primari ed intermedi, il cui fine ultimo è, a loro volta, l'esportazione dal rispettivo paese verso gli Stati Uniti. L'effetto globale del risucchio esercitato dall'economia nordamericana è pertanto molto più grande di quanto mostri la partecipazione diretta delle importazioni nordamericane al commercio mondiale. Per conoscere la vera dimensione, bisogna tener conto della parte di commercio mondiale determinata indirettamente dal flusso globale di esportazione verso gli Stati Uniti.

Non c'è quindi da stupirsi del fatto che l'economia nordamericana si sia convertita nella locomotiva economica del mondo. La meraviglia consiste nel come possa continuare ad esserlo. Ormai è da molto tempo che non è un segreto che questo boom è stato essenzialmente una congiuntura causata da bolle finanziarie e che la rapida globalizzazione di quest'epoca è stata essenzialmente una globalizzazione di bolle finanziarie. Il capitalismo industriale ha incontrato i limiti del suo sviluppo. La nuova tecnologia della microelettronica non crea posti di lavoro addizionali e non crea nessuna nuova base per un ampliamento dell'accumulazione reale del capitale; al contrario, fa diventare sempre più superfluo il lavoro e sempre meno redditizie le capacità produttive.

Per questo motivo, per la prima volta nella storia moderna, la bolla speculativa, risultante dall'esaurimento della vecchia industria (quella "fordista"), non è esplosa simultaneamente all'installazione di una nuova tecnologia di base (la microelettronica), di modo che si potesse passare ad una nuova era di accumulazione reale, ma, al contrario, si è gonfiata sempre più. È stata proprio la fiducia mondiale nella forza prodigiosa dell'ultima potenza del pianeta a far sì che quest'improbabile nuova economia sembrasse affidabile. Per questa ragione la bolla centrale ha potuto emergere solo negli Stati Uniti, mentre in nel resto del mondo si formavano bolle più o meno voluminose. In un simile sviluppo, la creazione speculativa di valori fittizi in borsa, in sé non è stato niente di nuovo, se non la retro-alimentazione sistematica estesa all'economia reale. In tutto il mondo si sono verificati crescita, investimenti, occupazioni e consumo che non sono stati pagati con profitti e con salari dell'economia reale, ma con la moltiplicazione fittizia di denaro. Naturalmente, la parte del leone è toccata agli Stati Uniti, il centro di tutto il meccanismo. La logica di questa pseudo-crescita è semplice: si compra nella realtà, prima ancora che sia stato investito realmente qualcosa. Il denaro proviene, per così dire, dall'aria, senza lavoro, senza macchinari, senza merci prodotte; arriva in maniera del tutto "immateriale", dalle quotazioni in rialzo nelle borse. E, con un tale denaro incrementato "immaterialmente" poi si compra lavoro, macchinari e merci. Il punto di partenza è irreale, come si fosse costruito un grattacielo senza le fondamenta.

E non si tratta solo del consumo e degli investimenti, ma anche dell'imponente apparato militare dell'ultima potenza mondiale che viene finanziato, in buona parte, per mezzo di questo ciclo di "capitale fittizio", rispetto al quale gli Stati Uniti costituiscono sempre sia il punto di partenza che di arrivo. La conseguenza è stata un aumento costante del dollaro ed una crescita altrettanto costante del deficit della bilancia commerciale e dei servizi di quel paese.

Nonostante tutti i vecchi risentimenti nei confronti degli Stati Uniti, il mondo dell'economia di mercato, che è diventato dipendente dal "capitale fittizio", sa quanto vale l'ultima potenza mondiale. Ciò vale, e non in ultima analisi, per la cultura postmoderna, che rappresenta teoricamente ed artisticamente il capitalismo delle bolle finanziarie e che, pertanto negli Stati Uniti ha trovato la sua vera casa, sebbene le sue origini siano francesi. Il culto postmoderno dell'ambivalenza, della virtualità e del "lavoro immateriale" è rimasto affascinato dall'imperialismo nordamericano. Dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre, anche le sinistre radicali hanno scoperto il proprio amore per la bandiera stelle e strisce e per i "valori occidentali" rappresentati dagli Stati Uniti, anche se questi valori non hanno alcuna sostanza in termini morali, allo stesso modo in cui il capitale finanziario non ha sostanza in termini economici. Anche nelle sue varianti di pseudo-opposizione, la coscienza virtualizzata dei consumatori frenetici di merce, ritiene che la sua stessa forma di soggetto abbia a che vedere con la pseudo-economia degli Stati Uniti.

Nel frattempo, una serie di bolle secondarie sono scoppiate in vari paesi. Quella che ha dato il via è scoppiata in Giappone, più di dieci anni fa, poi è toccato alle tigri asiatiche, poi a Messico, Russia, Turchia e Argentina. In ciascuna di queste occasioni, si sono verificati dei gravi collassi nella congiuntura interna dell'economia reale che, in Giappone, non è ancora riuscita a rimettersi in piedi. Però, nonostante questo, la grande catastrofe economica ritarda, di modo che la bolla centrale, negli Stati Uniti, ed il secondo più grande mercato azionario, in Europa, possano espandersi ulteriormente. Già dalla metà del 2000, quest'espansione era ormai cosa del passato. Le Borse degli Stati Uniti e dell'Unione Europea rimasero sorprese dal più grande ribasso in tutta la storia del dopoguerra. Durante quel periodo, il Nasdaq ha sofferto perdite superiori all'80%. L'indice globale di base, il Dow Jones, è sceso del 30%. Temuta già da qualche tempo, la fusione nucleare dei mercati finanziarti nordamericani minaccia di compiersi.

Gli scandali dei bilanci ed i mega-fallimenti si assommano, da Enron all'insolvenza di WorldCom, la più grande, finora, in tutta la storia dell'economia. Giganteschi attivi fittizi vengono annichiliti, l'affluenza di capitale monetario globale verso gli Stati Uniti ristagna, il dollaro scende, il finanziamento del deficit della bilancia commerciale e dei servizi degli Stati Uniti, che non smette di crescere, è a rischio.
Ora la questione cruciale è sapere in che misura la crisi dei mercati finanziari si ripercuote sull'economia reale e in che misura debilita le capacità degli Stati Uniti di assorbire i flussi di merci "eccedenti" del mondo. Gli economisti ed i politici apologeti affermano che non ci sarà alcuna ripercussione, in quanto l'economia nordamericana è estremamente "forte". L'argomentazione è paradossale, perché, se così fosse, gli Stati Uniti non presenterebbero, riguardo alla loro bilancia di pagamento con l'estero, una struttura deficitaria da paese periferico. Dietro tutto questo non si trova nessuna sostanza economica superiore, ma un'economia reale che mostra, oltre a quest'aspetto, molti altri paralleli con le regioni critiche della periferia.

Come in Gran Bretagna, le infrastrutture sono per lo più invecchiate e degradate; i mezzi di trasporto, privatizzati, cadono a pezzi. Perfino la fornitura di energia, privatizzata anch'essa, è indebitata e inaffidabile; com'è noto, in California, la fornitura elettrica viene interrotta periodicamente. Il sistema scolastico è di primo livello solo in alcune costose università di élite, ma in generale è altrettanto miserevole di quello inglese. I paesi anglosassoni presentano, di gran lunga, il più alto tasso di analfabeti secondari di tutto il mondo sviluppato. Il supposto prodigio produttivo degli Stati Uniti, da molti acclamato, si basa principalmente su settori a basso salario, esistenti in tutti gli ambiti, mentre la partecipazione della robotica microelettronica all'industria è minore di quella esistente in Giappone e nell'Unione Europea. Gli Stati Uniti sono leader solo in poche aree di punta, come l'industria del software (Microsoft) e, naturalmente, nella produzione di armamenti "high-tech", ma in generale il sistema industriale è invecchiato, e molti prodotti non vengono più fabbricati negli Stati Uniti. A causa della reale debolezza industriale, la quota del settore di fornitura di servizi è più grande che in tutti gli altri paesi industriali. Allo stesso modo in cui avviene nel Terzo Mondo, il quadro d'insieme è definito da una massa di "imprenditori della miseria" e di lavoratori non qualificati di ogni tipo.

Inevitabile disillusione
L'ultima potenza mondiale si caratterizza per la sproporzione mostruosa fra una testa idrocefala sovradimensionata, consistente in apparati militari "high-tech" e in industrie di armamento, ed un corpo economico sottosviluppato, che dev'essere alimentato per mezzo di un afflusso esterno permanente di capitale monetario e di merci. Il superiore armamento, in ultima analisi non costituisce un'economia superiore, ma un fattore di costo, improduttivo in termini capitalistici. La disillusione rispetto agli Stati Uniti è inevitabile, e sembra abbia avuto inizio.

La caduta è stata temporaneamente rallentata grazie a diversi fattori, ma che nell'insieme non hanno un effetto duraturo. Ad esempio, l'amministrazione Bush ha anticipato più volte le scadenze per l'acquisto di armamenti, soprattutto nel settore dei veicoli motorizzati. Questo serve ad abbellire le statistiche dell'industria automobilistica, allo stesso modo degli elevati sconti e dei crediti a zero interessi, per mezzo dei quali i grandi produttori nordamericani aumentano le loro vendite nonostante la crisi, com'era già accaduto alla fine degli anni 1980. Ma, a differenza della situazione esistente in quell'epoca, oggi è stato raggiunto il limite massimo dell'indebitamento privato. La sovvenzione delle vendite a scapito dei profitti non può essere sostenuta per molto tempo. E tanto meno può essere ripetuto il boom armamentista della "reaganomia".
Dopo una breve pausa occorsa durante gli anni di espansione delle Borse e durata fino al 1999, il deficit pubblico nordamericano è tronato a livelli elevati; un'altra espansione dell'indebitamento pubblico raggiungerebbe il limite assoluto molto più rapidamente che negli anni 1980.

A ritardare la caduta, i resti della congiuntura armamentista e di sconto servono meno del dislocamento del capitalismo finanziario. Per contrastare il crollo del mercato azionario, si è formata negli Stati Uniti una bolla finanziaria di valori immobiliari per il consumo con il medesimo vigore che prima avevano i valori azionari gonfiati.
Tuttavia, la perdita di fortune sui mercati azionari non verrà risarcita grazie a questo; e anche la bolla immobiliare finirà per scoppiare. Attualmente, i bohémien "startup" dei settori in declino di Internet, della telefonia e dei media, persone dai 25 ai 40 anni di età che soffrono di perdita totale della realtà, continuano a consumare sia negli Stati Uniti che in tutto il mondo occidentale come se non fosse successo niente. Ma la "generazione bancarotta" presto avrà esaurito la sua linea di credito e atterrerà di colpo sul duro pavimento dei fatti.

Se la locomotiva nordamericana si ferma, si ferma tutta l'economia mondiale. La disillusione rispetto agli Stati Uniti non sposta il centro del potere economico e militare in un altro posto, ma fa sì che il mercato mondiale si tuffi dentro una nuova dimensione della crisi, si accelera la decomposizione sociale globale e diventa palpabile la scadenza storica del moderno sistema produttore di merci.

- Robert Kurz - Pubblicato nell'agosto del 2002 su Folha de S. Paulo -

fonte: EXIT!

martedì 24 gennaio 2017

Non disturbate il pubblico occidentale!

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L'economia dell'autodistruzione: La globalizzazione e "l'incapacità di sfruttamento" del capitale

di Robert Kurz

Hans Magnus Enzensberger ha tentato, seguendo il pensiero di Hannah Arendt, di descrivere il denominatore comune di sacrificio che caratterizza le guerre civili della nuova epoca di crisi, sia quelle generalizzate a tutto un territorio che quelle "molecolari". Quel che salta ripetutamente all'occhio è, da un lato, il carattere autistico degli autori degli atti di violenza e, dall'altro lato, la loro incapacità di distinguere fra distruzione ed autodistruzione. Nelle guerre civili contemporanee, è sparito qualsiasi tipo di legittimazione[...] L'unica conclusione possibile è che l'auto-mutilazione collettiva non costituisce un effetto collaterale accettato come inevitabile, ma costituisce piuttosto l'obiettivo propriamente detto. I combattenti sanno assai bene che possono solamente perdere, che non c'è alcuna possibilità di vittoria. Fanno tutto quel che possono per aggravare al massimo grado la loro situazione. Non vogliono trasformare in "razzumaglia" soltanto gli altri, vogliono fare la stessa cosa anche con sé stessi. Un funzionario della sicurezza sociale dice a proposito delle banlieue parigine: «Hanno distrutto tutto, le cassette della posta, le porte, le scale. Hanno vandalizzato e saccheggiato il policlinico, dove i loro fratellini appena nati avevano ricevuto cure gratuite. Non riconoscono alcun tipo di regola. Riducono in macerie ambulatori medici e dentistici e distruggono le loro stesse scuole. Se gli costruite un campo di calcio, segano i pali delle porte». Le immagini delle guerre civili, sia di quelle molecolari che di quelle macroscopiche, si assomigliano tutte fin nel minimo dettaglio. Un testimone oculare racconta cosa ha visto a Mogadiscio. La persona in questione ha potuto assistere alla distruzione di un ospedale da parte di un gruppo di uomini armati. Non si trattava di un'azione militare. Nessuno minacciava quegli uomini; non si udivano spari nella città. L'ospedale si trovava già gravemente danneggiato ed era fornito solo dei mezzi essenziali. I rivoltosi hanno agito con una violenza meticolosa. Hanno sventrato i materassi dei letti, hanno rotto le bottiglie che contenevano plasma sanguigno e medicine; poi, gli uomini armati, nelle loro sudicie mimetiche, si sono occupati delle poche apparecchiature esistenti. Si sono ritenuti soddisfatti solo dopo avere reso inutilizzabili l'unico apparecchio per i raggi X , lo sterilizzatore e la macchina per l'ossigeno. Ciascuno di questi zombie sapeva benissimo che la guerra sarebbe continuata; tutti loro erano consapevoli del fatto che le loro vite continuavano a dipendere dall'esistenza di un medico che li potesse curare, ma, a quanto pare, volevano distruggere ogni benché minima ipotesi di sopravvivenza. Tutto questo potrebbe essere definito come "reductio ad insanitatem". Nell'amok colletivo, la categoria futuro è scomparsa. Esiste solo il presente. Smettono di esistere le conseguenze. L'elemento che regola l'autoconservazione è stato disattivato»  (Enzensberger 1993, p. 20, 31 ss.).

La descrizione è accurata, i fatti vengono analizzati con arguzia, e non manca neppure la sottolineatura fatta attraverso la caratterizzazione sessuale dei criminali. Ma, così come accade, sebbene in maniera differente, con Hannah Arendt, anche Enzensberger non va al fondo del problema. È evidente lo sforzo fatto per delimitare in qualche modo la fenomenologia dell'horror della perdita di sé e dell'autodistruzione vista come qualcosa di estraneo e di esterno, di modo da escludere, così, il proprio mondo del quotidiano, e non avere niente a che fare con l'assunto. Ma anche così, Enzesberger continua a riferirsi (sebbene lo faccia, innanzitutto, come se si trattasse di qualcosa di accessorio) alla connessione sociale esterna fra la globalizzazione capitalista, le nuove guerre civili ed i protagonisti degli oltraggi: «Non c'è dubbio che il mercato mondiale, dal momento che ha smesso di essere una visione del futuro per diventare una realtà globale, ogni anno che passa produce sempre meno vincitori e sempre più perdenti, e non solo nel Secondo e nel Terzo Mondo, ma anche nei paesi centrali del capitalismo. Se perfino paesi, e addirittura continenti interi, finiscono per vedersi esclusi dalle relazioni internazionali di scambio, qui vediamo aggravarsi a vista d'occhio la situazione per cui abbiamo parti crescenti della popolazione che smettono di essere in grado di partecipare alla concorrenza delle qualifiche» (Enzensberger, ibidem, p. 39).

È ovvio che questo realismo dei fatti, a prima vista, si distingue piacevolmente dal falso ottimismo professionale della retorica ufficiale delle "opportunità", rappresentata dall'economia politica accademica o dagli spin doctor del New Labor e del "nuovo centro". Ma  Enzensberger rigira il riconoscimento dei fatti negativi in un voltafaccia affermativo; il potenziale socialmente distruttivo della globalizzazione capitalista si converte miracolosamente in una miserabile apologetica dell'Occidente: «Tuttavia, le conseguenze politiche previste dai teorici marxisti non si sono verificate[...] Gli sconfitti, lungi dall'unirsi sotto uno stendardo comune, lavorano alla loro autodistruzione, ed il capitale ogni volta che può si ritira dagli scenari di guerra. In questo senso è necessario porre un freno alla convinzione radicata che le relazioni di sfruttamento possono essere ridotte ad un mero problema di distribuzione, come se si trattasse di una divisione equa o iniqua di una determinata torta [...] Si ricorre (a questo luogo comune) soprattutto affermando che "noi" viviamo a spese del Terzo Mondo; cioè, si presume che siamo ricchi, perché noi, i paesi industrializzati, li sfruttiamo. Chi si batte il petto a questa maniera, deve avere un rapporto perturbato con i fatti. Basta riferirsi ad un solo indicatore: la quota dell'Africa nelle esportazioni mondiali è di circa l'1,3%, e quella dell'America Latina è del 4,3%. Gli economisti che si occupano della questione, ritengono che se le regioni più povere sparissero dalle mappe, la popolazione dei paesi più ricchi non se ne accorgerebbe nemmeno [...] Le teorie che spiegano la povertà dei poveri basandosi solo su fattori esterni, non solo alimentano a buon mercato l'indignazione morale, ma hanno anche un altro vantaggio: assolvono i governanti del mondo povero, imputando all'Occidente l'esclusiva responsabilità della miseria [...] Dagli africani che si sono accorti di questo trucco, abbiamo sentito dire, pertanto, che esiste solo una cosa peggiore dell'essere sfruttati dalle multinazionali, ossia, non essere sfruttati da esse [...]»  (Enzensberger, ibidem, pp. 40s.).

Enzensberger cerca di eludere la questione, proiettando la problematica del nuovo capitalismo di crisi universale, del limite interno assoluto del modo di produzione e di vita capitalistica diventato planetario, sulla trascorsa linea ascendente del capitalismo, sulla storia della sua imposizione e delle sue lotte interne. In questo senso, il conflitto centrale è stato di fatto la cosiddetta lotta di classe che, tuttavia, per sua essenza e natura, non è stata altro che la "lotta per il riconoscimento" del lavoro salariato nelle forme giuridiche e politiche del capitale (ivi inclusa la relazione capitalistica fra i sessi) e, in secondo luogo, è stata lotta economica per la distribuzione delle "quote" all'interno del movimento di valorizzazione del capitale.

In entrambi i casi si trattava di lotte dei soggetti costituiti in maniera capitalistica, all'interno delle forme del sistema produttore di merci, le quali non venivano minimamente messe in discussione. In altre parole: si trattava di un conflitto sociale "immanente" che, proprio grazie al continuo movimento di ascesa e di espansione della forma capitalista, si è potuto sviluppare nella "gabbia di ferro" (Max Weber) di questa forma, senza andare al di là di essa; ossia, non era (ancora) precisamente una "immanenza" che, a causa della stessa dinamica di crisi interna del sistema mondiale, veniva spinta oltre i limiti del sistema stesso, ed era così costretta a rompere tale "gabbia di ferro" (ed insieme ad essa la forma stessa del soggetto).
Il fatto per cui la "lotta di classe" - che rimane nell'ambito dell'immanenza - non può più aver luogo sul nuovo terreno di crisi, per Enzensberger diventa l'argomento che gli permette di eludere il problema della forma delle relazioni sociali e della forma del soggetto, invece di riconoscerne il limite, la crisi e l'insostenibilità di tale forma. Ma dal momento che la "lotta di classe non può più aver luogo all'interno delle categorie borghesi, perché sono soprattutto gli sconfitti di sesso maschile (e non solo gli sconfitti ben noti) a lavorare solo alla propria autodistruzione?
Proprio perché ormai all'interno delle forme categoriali della modernità produttrice di merci non avviene più nessun sviluppo sostenibile, perché non si può più avere una prospettiva civilizzatrice, neppure illusoria.
Ma, dopo tutto, che significa il fatto che parti sempre più grandi della popolazione mondiale non possono più nemmeno essere sfruttati, diventando così superflui, e interi continenti spariscono quasi del tutto dalle mappe dell'economia del capitale?
Avviene che la forma capitalista, la forma sociale della modernità, vale a dire, lo stesso sistema produttore di merci diventa incapace di riprodursi per la maggioranza globale (e, alla fine, per tutti); e in tal modo si impone la critica ed il superamento di quella gabbia in cui la defunta "lotta di classe" poteva ancora muoversi.

Tuttavia, Enzensberger trasforma il fatto per cui le persone "non vengono più nemmeno sfruttate" in un argomento assurdo a favore del capitalismo, o del centro occidentale del capitalismo. Il fatto che in realtà non si tratta di un mero problema di distribuzione all'interno della forma della ricchezza prodotta nel capitalismo, diventa per lui una giustificazione di tale forma, il che ovviamente non vuol dire altro se non che la vede come una condizione ontologica inevitabile dell'esistenza umana in generale, anziché come una formazione storica limitata nel tempo. Tuttavia, la povertà dei poveri non può essere ridotta soltanto a "fattori esterni" (questo è stato il paradigma erroneo e riduttivo dei movimenti di liberazione nazionale meramente anticoloniali del passato) nella misura in cui il capitalismo si è trasformato, da una relazione coloniale fra il centro e la periferia, in un sistema mondiale immediato negativamente universale, che ha smesso di essere un "esterno".

Nelle condizioni della terza rivoluzione industriale, che di questa immediatezza del mercato mondiale ne ha fatto una realtà, le forze produttive ed i mezzi di produzione della maggior parte del mondo sono paralizzati per mancanza di redditività in termini di economia imprenditoriale, ma senza che le persone vengano esentate anche dalla forma capitalista (che da tempo costituisce anche la loro forma interiore di soggetto), dal momento che questa forma di soggetto subisce anche da sempre il peso della moderna relazione fra i sessi, ossia, è sessualmente modificata.

Dove non vengono puramente e semplicemente dismessi, i mezzi di produzione (non da ultime, i terreni agricoli fertili) subiscono un reindirizzamento forzato verso il mercato mondiale universale, il che significa, ad esempio, nell'ambito del settore agroalimentare, una produzione poco esigente in termini di prodotti ad alta tecnologia di beni di lusso come mazzi di fiori o alimenti selezionati per i centri occidentali, con la popolazione locale che viene espulsa dalle sue terre e viene privata delle sue risorse vitali, e che non può (o non può più) essere rappresentata nella forma del valore economico, senza poter essere integrata nella produzione per il mercato mondiale sul nuovo piano delle forze produttive, nemmeno in maniera meramente repressiva come "manodopera".

È un fatto che i flussi di merci e di denaro, per mezzo dei quali viene rappresentata la produzione agraria marginalizzata o le situazioni specifiche di sfruttamento salariale a buon mercato, hanno una dimensione trascurabile a fronte della totalità del prodotto globale e, soprattutto, di fronte al volume del capitale finanziario vuoto di contenuto; ma è proprio in questa dimensione relativamente microscopica di creazione di ricchezza "valida" a livello mondiale che sparisce la vita di enormi masse di popolazioni di "superflui". La ricchezza (essa stessa, solo astratta e distruttiva) dei paesi centrali dell'Occidente non dipende dalla massa di mazzi di fiori a buon mercato, provenienti dalla Colombia o dall'Africa centrale, che vengono spediti per via aerea nelle metropoli; ma è per tale mezza dozzina di fiori in mazzi che intere popolazioni vengono sacrificate socialmente, proprio perché l'esistenza nell'ambito del mercato mondiale è stabilita in maniera ferrea come unica forma possibile di esistenza.

L'argomentazione di Enzensberger è chiaramente apologetica, e non c'è nessuno che sappia farlo meglio di lui. A quanto pare, ha deciso di convertire in cinismo quella che è un'impotenza senza prospettive. A partire dalla problematica storicamente concreta, accampa presunte inevitabilità antropologiche, e si trincera in un esistenzialismo e in un nichilismo astorico: «In questa situazione, le vecchie questioni antropologiche si pongono in una forma nuova» (ivi, p.11). Proseguendo, a proposito della forma qualitativamente nuova dell'annichilimento degli indifesi, il discorso diventa meschinamente autistico e parla di una «accumulazione di energia della gioventù, indotta dai livelli del testosterone» (ivi, p.22). In questo modo, la relazione fra forma moderna del soggetto e la relazione moderna fra i sessi, nel limite della crisi globale, non viene tematizzata criticamente, ma è antropologizzata ideologicamente, in modo da non dover affrontare questa stessa crisi. Come "veri colpevoli", si profilano allora i barbari «che governano il mondo povero» (ivi, p.41) ecc.. L'Occidente, il centro della forma universale della relazione di capitale che distrugge il mondo, dev'essere dichiarato non responsabile del suo proprio sistema mondiale, in quanto il pubblico occidentale non dev'essere disturbato con le «motivazioni incomprensibili» (iv, p.78) delle folli fazioni assassine di questa o di quella regione esotica.

L'eurocentrismo positivo della competenza universale occidentale nel nome dell'universalismo astratto, che era sinonimo della possibilità dello sfruttamento capitalista del mondo, in Enzensberger si converte in un eurocentrismo negativo dell'ignoranza, che si sforza di esteriorizzare ed enfatizzare le catastrofi all'interno del sistema mondiale, proprio perché questo mondo diventa non sfruttabile con i mezzi capitalisti. L'addio alle «fantasie di onnipotenza morale» (iv, p.86) si converte così nella vecchia saggezza anchilosata di una politica di campanile: «Tuttavia, tutte le persone sanno che, innanzitutto, si devono occupare dei loro figli, dei loro vicini, di tutto quello che immediatamente le circonda» (ivi, p.87). Tutto ciò costituisce nient'altro che la versione invertita della politica occidentale di intervento militare, ma non è una critica delle relazioni che si trovano alla sua base. Cos', Enzensberger, può essere accusato da un filosofo interventista come André Glucksmann di «sfuggire alle responsabilità», consistendo le responsabilità, per Glucksmann, nel bombardare le zone di crisi incontrollabili.

In un modo o nell'altro, non sembra esserci all'ordine del giorno una critica allargata, che miri alla forma del sistema moderno e della sua soggettività, bensì, come pensa Enzensberger, la "valutazione", la scelta dell'emergenza in quanto «posizione forzata» (ivi, p.88 s.), soggetta alle condizioni esistenziali ontologiche inalterabili del sistema produttore di merci. «Ciò che dovrà avvenire dell'Angola dovrà essere deciso, in primo luogo, dagli angolani» (ivi, p.90) - come se la globalizzazione non rendesse le bande assassine angolane "vicini" immediati delle bande di assassini giovanili tedesche di "Hoyerswerda e Rostock, Mölln e Solingen" (ibidem, p. 90). L'«interno» universale non si lascia esternalizzare e particolarizzare.

- Robert Kurz - dal 2° capitolo de "La guerra di ordinamento mondiale" - Gennaio 2003 -

fonte: EXIT!

lunedì 23 gennaio 2017

Domande e risposte

trump

#J20 ed il futuro del comunismo
- di Jehu -

Il messaggio di ieri è che probabilmente Trump sarà il più impopolare presidente della storia. Stiamo parlando di un livello di disapprovazione fra i votanti a livello di Hollande. Tutti quelli che non l'hanno sostenuto lo odiano. E la sua base è scettica circa la sua capacità di mantenere le sue promesse.
I beneficiari del probabile disastro di Trump sono i democratici; lo hanno dimostrato, al di là di ogni possibilità di smentita, mobilitando ieri dai due a tre milioni di dimostranti, secondo quelle che sono state le stime dei media. All'interno dell'opposizione a Trump, Non esiste alcuna terza forza in grado di sfidare l'assoluta egemonia dei democratici, e i comunisti politicamente non contano.
Tuttavia, l'opposizione a Trump viene a sua volta contestata da alcune realtà economiche delle la maggior parte delle persone mobilitate dai democratici non si rende conto. Ne faccio un elenco:

1. Trump è la risposta al problema dei democratici

In primo luogo, Trump rappresenta quel genere di Stato attivista che la base del Partito democratico attualmente vuole; uno Stato completamente rivolto verso un alto livello di crescita economica, la sola che possa creare posti di lavoro su una scala che gli attivisti democratici ritengono che oggi sia necessaria. Si tratta di uno Stato che deregolamenterà il capitale, eliminerà le protezioni ambientali, taglierà le tasse, ridurrà i costi del lavoro, metterà fine all'immigrazione e praticherà il protezionismo commerciale; tutto questo per l'obiettivo dichiarato di rimettere le persone a lavorare. Contro tale obiettivo dell'amministrazione Trump si schierano i democratici, il partito del continuo ristagno economico e del relativamente alto tasso di disoccupazione.
Alla marcia di ieri, erano pochi, a parte l'élite democratica, ad essere soddisfatti dell'andamento dell'economia sotto Obama in questi ultimi otto anni. Trump ha promesso un tasso di crescita economica che non ha precedenti negli ultimi quarant'anni. Per realizzare la sua promessa, Trump ha semplicemente aperto il manuale della politica neoclassica standard ed ha puntato il successo della sua amministrazione sull'implementazione di tutti quegli errori. Protezionismo, deregolamentazione, salari più bassi, tasse più basse e barriere anti-immigrazione non sono innovazioni che Trump mette sul tavolo della politica, ma sono moneta corrente.
Perciò i manifestanti di ieri hanno marciato dritto in un vicolo cieco: sbarazzarsi dell'amministrazione Trump significa sbarazzarsi dell'unica amministrazione, in questi anni, impegnata esplicitamente in un alto tasso di crescita economica. Per quanto bizzarro possa sembrare, l'opposizione a Trump è in larga parte motivata dal fatto che quest'opposizione ora prova repulsione per il proprio desiderio: nel momento in cui la base democratica si è confrontata con la realtà di quello che risponde alla sua domanda in termini economici, è inorridita e terrorizzata per il futuro dell'umanità.

Nei prossimi quattro anni, la base democratica sarà costretta a scegliere fra un ritorno democratico alla persistente stagnazione economica e l'apocalisse di Trump. Nessuna di queste due scelte è confortevole o praticabile. Qui, il problema reale non è Trump né i democratici di per sé, ma il fatto che nessuno negli Stati Uniti o in Europa ha una qualche idea su come fare a promuovere una crescita elevata dell'occupazione senza sacrificare l'ambiente, i salari e le tutele. Trump non è irrazionale, ma sta semplicemente provando a dare una risposta ad una domanda piuttosto diffusa che chiede un alto tasso di crescita, una domanda che proviene, innanzi tutto, dalla base democratica.

2. Non si può avere crescita economica senza l'impoverimento della classe operaia

In secondo luogo, di fatto non c'è alcun modo per lo Stato fascista di realizzare quel genere di alto tasso di crescita economica promessa da Trump, senza sbudellare le protezioni ambientali e le tutele lavorative. Il presupposto comunemente accettato è che possiamo avere un alto tasso di crescita economica, con una forte protezione dell'ambiente e del lavoro. Sfido un tale presupposto. La crescita economica richiede produzione di plusvalore, la produzione di un prodotto sociale che è del tutto superfluo ai bisogni della società. Se ci fosse un modo per arrivare a questo genere di rapida crescita economica senza sacrificare il lavoro e l'ambiente, i democratici lo avrebbero scoperto molto prima di adesso.
Diversamente della maggior parte della sinistra, non mi illudo di essere più intelligente delle persone che hanno gestito il modo capitalista di produzione negli ultimi 80 anni; il che significa che oggi noi possiamo avere una rapida crescita economica oppure possiamo avere una forte protezione del lavoro e dell'ambiente, ma non possiamo averli entrambi.

Quando ci si trova di fronte a questo genere di dilemma, conviene trovare un'altra strada.

3. I comunisti hanno bisogno di trovare finalmente un'alternativa.

Tutto questo mi porta al terzo punto: se i comunisti sono a conoscenza del fatto che alla fine la società si troverà sul punto di doversi confrontare con una scelta nella quale si perde comunque, fra avere un lavoro ed avere efficaci tutele lavorative, come farà ad evitare di cadere in questa falsa scelta?
La scelta, così come oggi fondamentalmente si pone, è una scelta fra Trump ed il candidato democratico del 2020 - crescita senza tutela del lavoro contro nessuna crescita.
I comunisti, che naturalmente non hanno alcuna influenza sugli eventi, dovrebbero focalizzare la loro attenzione sullo sviluppo di un'alternativa rispetto alla falsa scelta fra il partito repubblicano e quello democratico. Con tutto il loro insistere che una simile alternativa è possibile, i comunisti non hanno mai effettivamente elaborato una strategia economica alternativa che non si fondi su una rapida crescita economica, vale a dire, intensificando la produzione di plusvalore. Per questo motivo, non hanno mai elaborato una strategia politica che non richiedesse un intervento dello Stato nell'economia ancora maggiore di quello già praticato dai fascisti.
È questo il problema con una tale strategia politica: anche se non scoprirai mai questo leggendo letteratura comunista, non stiamo vivendo né nella Russia del 1917 né nella Cina del 1949. Vale a dire, non dobbiamo industrializzare gli Stati Uniti, introdurre l'elettricità, e neppure assorbire una massa di contadini nella moderna produzione. Non c'è assolutamente alcuna ragione per avere quel genere di Stato che ha portato l'industrializzazione che quei due paesi avevano bisogno di attraversare per modernizzarsi.

4. Sveglia, non è il 1917.

I comunisti hanno bisogno di smettere di leggere i libri scritti da Lenin, Stalin, Mao e Deng ed unirsi al resto della società degli Stati Uniti del 21° secolo. Se lo fanno, scopriranno ben presto che il problema che dobbiamo affrontare non attiene a come promuovere una rapida crescita economica, ma come assorbire una massa incredibilmente enorme di lavoratori disoccupati che oggi sono superflui per la produzione. Non si può risolvere questo problema per mezzo di una maggior crescita economica, vale a dire, incrementando la produzione di plusvalore - semplicemente questo non funziona. I comunisti devono elaborare un programma realistico per assorbire questa enorme massa di persone nell'occupazione produttiva senza promuovere la crescita economica o senza accettare lo sbudellamento delle tutele lavorative e della protezione ambientale.
Nessuno sta facendo questo oggi. Tutti parlano di offrire un'alternativa, certo, ma continuano a ritornare a dei modelli morti che si basano su un rapido sviluppo industriale. Questo è inaccettabile. Date retta, se oggi il problema più pressante fosse quello dei kulaki, allora gli scritti di Lenin successivi al 1917 sarebbero rilevanti. Tuttavia, negli Stati Uniti non ci sono kulaki. Gli scritti di Lenin non hanno alcuna rilevanza nella nostra attuale situazione economica.

Il problema che dobbiamo affrontare è come impiegare comunque dai 20 ai 100 milioni di lavoratori che sono rimasti bloccati fuori dall'occupazione e che dipendono dai sussidi statali e dalla carità. È questa la questione centrale del nostro tempo ed è il problema rispetto al quale entrambi i grandi partiti appaiono inetti. Pensate davvero che si possa crescere fino ad impiegare oggi dai 20 ai 100 milioni di lavoratori disoccupati? Se è così, si prega di informarci sul come fare.
Se non si può, allora bisogna cercare un'alternativa realistica al modello della crescita economica. E va fatto velocemente. I lavoratori della "Rust Belt" sono disperati e stanno prendendo in considerazione delle idee pericolose che non possono essere combattute per mezzo degli eroici metodi antifascisti.
Abbiamo bisogno di alternative realistiche; la classe operaia deve vendere la sua forza lavoro per mangiare e darà retta a qualsiasi intrallazzatore che le promette di renderlo possibile.

- Jehu - Pubblicato su The Real Movemente il 22 gennaio 2017 -

fonte: The Real Movement

domenica 22 gennaio 2017

EXIT!

exit

EXIT! - Auto-Presentazione Programmatica -

Il capitalismo non ha vinto, ha solo guadagnato tempo. Affinché la critica radicale torni ad essere nuovamente efficace sul piano sociale, la forza della negazione dev'essere liberata in una nuova forma. EXIT! non è solo una rivista, ma un collegamento fra le persone, che assume su di sé questo compito di riformulare la critica radicale. Intendiamo acuire, non ammorbidire, tale critica. È la crisi stessa della situazione generale che si acuisce. Per questo si è reso necessario un riesame della storia.

Il socialismo reale non è stato un'alternativa storica al capitalismo, bensì un sistema di "modernizzazione di recupero", alla periferia del mercato mondiale. Il suo fallimento non va visto come la fine della storia, ma come l'inizio di una crisi mondiale delle basi comuni a tutti i sistemi sociali moderni. Con la terza rivoluzione industriale, le forze produttive eccedono la capacità di assorbimento della "valorizzazione del valore". La produzione di merci in quanto tale ha raggiunto il suo limite assoluto; il lavoro stesso sta diventando obsoleto; la riproduzione sociale per mezzo del reddito monetario sta diventando impossibile per un numero sempre maggiore di esseri umani; la distruzione delle basi naturali della vita, a causa della logica funzionale dell'organizzazione imprenditoriale, sta raggiungendo una massa critica. La storia della modernizzazione finisce in maniera catastrofica; perciò, il mondo del moderno sistema produttore di merci dev'essere superato. Giorno dopo giorno, diventa sempre più evidente il fatto che l'accumulazione del valore, indipendentemente dalla sua forma, rappresenta un fine in sé irrazionale.

Con ciò, però, anche la critica del capitalismo svolta dal marxismo tradizionale si pone definitivamente fuori dal tempo. La stessa sinistra si è resa parte integrante e, frequentemente, è arrivata ad essere perfino un'avanguardia della modernizzazione nella forma di merce. Anche il movimento operaio occidentale, il socialismo di Stato dell'Est ed i movimenti di liberazione nazionale del Sud sono rimasti ostaggio delle categorie del "lavoro astratto" e del valore in quanto fine in sé, della merce, del denaro, dello Stato, del diritto, della democrazia e della nazione.
Ma la crisi categoriale ora esige una critica categoriale (critica del valore). Quel che è in discussione è l'ontologia del lavoro, ereditata dal protestantesimo e dall'illuminismo, ed il positivismo riguardo le forme sociali, inclusa la cosiddetta politica, ad essa associato. Bisogna estendere la critica radicale all'ontologia ed alla metafisica della storia della modernità, che sono state impiantate nel pensiero riflessivo dalla filosofia illuminista. Tuttavia, diversamente dall'anti-modernità borghese, rifiutiamo conseguentemente qualsiasi romanticismo agrario, qualsiasi richiamo alle forme di coscienza premoderne e ai vincoli di parentela e di sangue. Quel che è in questione è la critica della necessità ontologica nel suo insieme. Non abbiamo alcuna galleria di antenati, né esempi storico-filosofici di riferimento.

La critica radicale del valore richiede la critica radicale dell'illuminismo, che è la forma fondamentale di riflessione teorica del soggetto della merce. Anche in questo consiste la critica categoriale, che non consiste nell'invocazione del soggetto, il quale contiene già in sé l'oggettivazione distruttiva del mondo e l'auto-oggettivazione dell'individuo. Questo soggetto dev'essere spogliato di ogni sua pretesa universalista; è un soggetto, sostanzialmente e strutturalmente, maschio, bianco e occidentale (MBO). La nostra critica del soggetto va oltre il postmoderno che, a causa della sua mancanza di critica della forma sociale (forma merce), fallisce necessariamente anche nella critica del soggetto. Contrariamente al marxismo tradizionale, noi vediamo la relazione fra i sessi come momento centrale della socializzazione negativa. Il moderno sistema produttore di merci non è un sistema chiuso, nonostante il suo totalitarismo, e non riesce a coprire e garantire tutta la riproduzione, sul piano socio-economico, socio-psichico e simbolico-culturale. Nel corso del processo di modernizzazione, tutti i momenti che non possono essere compresi sotto la forma del valore o della merce sono stati dissociati dalle relazioni sociali ufficiali, e sono stati connotati strutturalmente come femminili. La relazione del valore è sempre contemporaneamente una relazione di dissociazione, ragion per cui una critica categoriale del valore è possibile solamente in quanto critica categoriale della dissociazione. La dissociazione sessualmente definita non è un "ambito" subordinato, e neppure un ambito "totalmente altro", ma pervade la totalità della riproduzione in tutti i suoi piani.

Il lavoro/valore astratto e la dissociazione costituiscono una totalità negativa, di per sé spezzata. Perciò, anche i momenti dissociati non possono essere positivizzati, né malintesi come se fossero un punto di partenza per un superamento della forma merce; prima devono essere aboliti in quanto tali, insieme alla forma cui si riferiscono. Bisogna insistere sulla dissociazione in quanto categoria della totalità. È questa la pietra angolare della nuova teoria critica. La critica radicale del soggetto, in quanto critica della dissociazione, significa rifiutare, non solo il pensiero illuminista, ma anche il concetto hegeliano di totalità chiusa in sé. Qualsiasi tentativo di ridurre il concetto di dissociazione ad un semplice momento fra tanti altri, all'interno del concetto di totalità della società della merce, significa ricadere nell'oggettivismo hegeliano e, con esso, nella metafisica del MBO (maschio, bianco, occidentale).

Per EXIT!, l'elaborazione teorica nel senso di critica del valore-dissociazione, non avviene in una torre d'avorio, né come fine in sé, né come auto-affermazione della teoria dissociata. Pratica teorica significa mediazione, senza con questo voler stabilire una relazione tradizionale teoria-pratica nel senso della forma politica. Così come il concetto teorico di una totalità negativa di per sé spezzata dev'essere, esso stesso, un concetto teorico negativo e di per sé spezzato, anche l'elaborazione teorica corrispondente non può essere, in un empito di falsa immediatezza, ridotta ad un banale manuale di istruzioni, nel senso della domanda sul "Che fare?", proveniente dal leninismo fossilizzato.
Si tratta di una relazione di tensione, che dev'essere instaurata, fra la teoria critica del valore-dissociazione ed il movimento sociale, contro le offese dell'amministrazione di crisi. La nuova teoria critica non può estrarre dal cappello il coniglio della necessaria resistenza sociale, né darle istruzioni.; tuttavia, non deve nemmeno baciare il culo al movimento. Dopo Auschwitz, non è più possibile una prassi teorica senza una critica ideologica conseguente, anche dei movimenti sociali; segnatamente, facendo riferimento a modelli razzisti e antisemiti. La critica della forma del soggetto MBO (maschio, bianco e occidentale), trasversale alle classi, esclude qualsiasi schema gerarchico tradizionale. Il capitalismo non è qualcosa che sta là fuori, non è il progetto di politica e gestione imprenditoriale, ma è la relazione generale di tutti i soggetti della merce, inclusa la forza lavoro, i precari e tutti i portatori della relazione di dissociazione, nei confronti di sé stessi, nei confronti degli altri, e nei confronti della base naturale.

Proprio al fine di poter superare sé stessa e al fine di porsi in una prospettiva dove non c'è un oggetto, la nuova teoria critica deve mantenersi a distanza rispetto agli avvenimenti e alla falsa immediatezza dei meri stati d'animo. Per questo EXIT! rifiuta fermamente qualsiasi kitsch di costernazione e qualsiasi filosofia da paccottiglia che ideologizzi il quotidiano. In questo senso, il gruppo EXIT!, oltre a pubblicare l'omonima rivista teorica, organizza regolarmente dei seminari e gestisce un sito web ( www.exit-online.org ) dove si possono trovare tanto vecchi e nuovi saggi teorici quanto testi giornalistici che di motivazione critica del valore-dissociazione. Consideriamo il nostro progetto come un processo di discussione e di elaborazione teorica, aperto in qualsiasi momento ad intromissioni, ma che esclude una convivenza aleatoria e senza discussione fra posizioni non mediate, ed esige innanzitutto un coinvolgimento intellettuale. La libertà formale nella sfera della circolazione è l'opposto dell'emancipazione.

EXIT! è il risultato di una storia di elaborazione teorica caratterizzata da rotture di contenuto e rotture personali. Diversamente, non sarebbe stato e non sarebbe possibile un'uscita dall'immanenza categoriale della sinistra. Siamo sufficientemente immodesti da coniugare l'ammissione delle differenze e delle questioni aperte con la pretesa di definirci. EXIT! non vede sé stessa come l'avanguardia tradizionale di un soggetto sociale oggettivato, bensì come l'istanza più avanzata della critica radicale della relazione dominante della dissociazione-valore, la quale si estende a tutti i soggetti.

Originale: EXIT! - EINE PROGRAMMATISCHE SELBSTDARSTELLUNG - Dicembre 2004 -

fonte: EXIT!