mercoledì 30 novembre 2016

A/Traverso

mediterraneo

S’intitola "Is the Mediterranean the New Rio Grande? Us and Eu Immigration Pressures in the Long Run" («Il Mediterraneo è il nuovo Rio Grande? Pressioni migratorie a lungo termine negli Usa e nell’Ue») l’articolo degli economisti Gordon Hanson e Craig McIntosh pubblicato sul fascicolo autunnale della rivista «Journal of Economic Perspectives».

Il Rio Grande nel Mediterraneo
- L’immigrazione negli Usa frena, da noi accelera sempre più. Aiutare i Paesi d’origine non basta: la causa è la demografia -
di Enrico Moretti

Decine di migliaia di migranti sono arrivati in Europa negli ultimi due anni. I media in Italia e in altri Paesi europei descrivono questo fenomeno come un problema acuto e connesso a fattori temporanei dovuti a conflitti militari e instabilità politica. L’impressione che emerge è di un momento di crisi dovuto a cause contingenti, come la guerra in Siria e in Iraq o il caos politico e militare in Libia e Afghanistan. Negli Stati Uniti, la percezione dei flussi migratori è esattamente opposta. L’opinione pubblica, abituata da decenni a milioni di immigrati in arrivo dal Messico e dal resto dell’America Latina, vive i flussi migratori come un aspetto permanente della società americana, nel bene e nel male. La realtà è molto diversa dalla percezione, sia in Europa che in America. Il problema dei migranti in Europa è un problema strutturale destinato ad acuirsi nei prossimi due decenni, con flussi migratori in accelerazione. Invece, nonostante il ruolo enorme che questo problema ha avuto nelle elezioni presidenziali vinte da Donald Trump, i flussi migratori dal Messico verso gli Stati Uniti sono già diminuiti significativamente negli ultimi dieci anni e continueranno a rallentare.

Le ragioni di questi trend hanno a che vedere con cambiamenti profondi nelle dinamiche demografiche nei Paesi di origine. Non se ne parla molto, ma le dinamiche demografiche, e in particolare l’evoluzione dei tassi di natalità, sono una delle cause più importanti dei flussi migratori, perché il numero di giovani tra 16 e 30 anni è il fattore principale che determina il numero di migranti da un Paese di origine. Paesi con tassi di fertilità alti tendono ad avere un numero crescente di giovani tra i 16 e i 30 anni. I dati ci dicono che questi giovani hanno difficoltà ad essere assorbiti dal mercato del lavoro nazionale e quindi hanno un’alta propensione a migrare. Paesi con tassi di fertilità bassi producono flussi di migranti minori, a parità di condizioni economiche. Uno studio recente di Gordon Hanson e Craig McIntosh, economisti all’Università della California a San Diego e tra i massimi esperti di migrazioni, quantifica i flussi migratori verso Europa e America nei prossimi due decenni. Lo studio, pubblicato dal «Journal of Economic Perspectives» (del quale sono direttore), mostra che i Paesi africani da cui storicamente partono i migranti diretti verso l’Europa sono in pieno boom demografico. Nei prossimi 35 anni l’Africa raggiungerà un miliardo e 300 milioni di abitanti. Paesi come Ciad, Eritrea, Mali e Nigeria avranno un numero di giovani altissimo, ed enormi difficoltà ad assorbirli. Il numero di migranti in partenza dall’Africa diretti in Europa si triplicherà. Anche i Paesi mediorientali sono in pieno boom demografico, il che implica un aumento ulteriore dei migranti. I Paesi più colpiti dall’aumento saranno Spagna, Italia e Gran Bretagna, perché gli immigrati che si stabiliscono in questi Paesi vengono da nazioni d’origine in cui il boom demografico è più pronunciato. Invece la migrazione verso gli Stati Uniti continuerà a rallentare. Il Messico sta diventando una società sempre più urbana e sempre meno fertile. Proprio com’è accaduto nel Sud dell’Italia a partire dagli anni Ottanta, lo sviluppo economico, l’urbanizzazione accelerata, l’evoluzione del ruolo della donna e la modernizzazione culturale hanno alterato profondamente la famiglia tipica. Se negli anni Sessanta la donna messicana media aveva 6,8 figli, oggi ne ha 2,2. Il Messico e il resto dell’America Latina stanno invecchiando rapidamente e non deve quindi stupire se ci sono sempre meno giovani disposti a partire per gli Stati Uniti. Per la prima volta nella storia, il numero di messicani negli Stati Uniti negli ultimi cinque anni non è aumentato, ma diminuito. Hanson e McIntosh concludono che nei prossimi vent’anni il Mediterraneo diventerà per l’Europa quello che il Rio Grande è stato per gli Stati Uniti nell’ultimo mezzo secolo, un punto di passaggio per milioni di migranti in viaggio verso Nord. Le implicazioni per l’Italia e l’Europa sono profonde. Anche se la guerra in Siria e l’instabilità in Libia e Iraq e altri Paesi mediorientali dovessero magicamente scomparire domani, l’Italia e l’Europa devono prepararsi a ondate migratorie crescenti e in accelerazione
fino almeno al 2035. Questi flussi migratori saranno di dimensioni tali da avere un effetto profondo anzitutto sul nostro mercato del lavoro e sulla nostra economia e più in generale su quasi tutti gli aspetti della vita nazionale, dalla politica alla cultura all’identità stessa della nostra società.

Quest’analisi ha due importanti implicazioni di politica estera per i Paesi europei. Primo, politiche di aiuto che accelerino la transizione demografica nei Paesi di origine, come campagne anticoncezionali, sviluppo dei sistemi previdenziali e sanitari, modernizzazione del ruolo della donna nel mercato del lavoro, sono sicuramente auspicabili per molte ragioni, ma non avrebbero alcun effetto sull’immigrazione dei prossimi due decenni. La ragione è che i giovani tra i 16 e i 30 anni che partiranno dal Medio Oriente e dall’Africa verso l’Europa tra il 2016 e il 2035 sono già in gran parte nati.
Secondo, politiche di aiuto focalizzate sullo sviluppo economico dei Paesi di origine favorirebbero la riduzione almeno in parte del problema e dovrebbero essere una delle priorità della politica estera europea nei prossimi anni. Se l’economia dei Paesi di origine accelerasse, il loro mercato del lavoro potrebbe assorbire un numero maggiore di giovani. Il boom demografico causerebbe comunque un aumento di migranti diretti in Europa, ma l’aumento sarebbe quantitativamente più contenuto e più gestibile. Ogni punto di Pil aggiuntivo in un Paese di origine si traduce direttamente in decine di migliaia di migranti in meno alle porte dell’Europa. Ci sono molte ragioni per cui politiche di aiuto che favoriscano la crescita economica nei Paesi mediorientali e africani sono nell’interesse dell’Europa, ma questa è di gran lunga quella più urgente.
In Europa come in America l’immigrazione è al centro del dibattito politico. Paura, pregiudizi e ondate di populismo ignorante e a volte violento accomunano fenomeni come la vittoria di Donald Trump, la Brexit, il successo elettorale dei partiti xenofobi europei, dall’Austria all’Olanda, dalla Danimarca alla Francia.
Quello di cui non ci si rende conto è come il quadro sia destinato a evolversi significativamente nei prossimi anni.
L’immigrazione verso gli Stati Uniti continuerà a rallentare fino a scomparire dal dibattito politico, quella verso l’Europa continuerà ad accelerare. Per gli Stati Uniti l’immigrazione è un problema del passato; per l’Europa è un problema del presente e soprattutto del futuro.

- Enrico Moretti - Pubblicato sul Il Corriere/La Lettura del 13 novembre 2016 -

martedì 29 novembre 2016

Nell'urna, con una pietra al collo

banchiere a zurigo

La lunga depressione in Italia
- di Michael Roberts -

Il prossimo fine settimana l'Italia ha un referendum. Il primo ministro italiano blairiano (clintonesco) Matteo Renzi al governo della coalizione democratica di centro-sinistra ha indetto un referendum, nello stile britannico di Cameron, per "riformare" la costituzione.[...]
Renzi ha puntato la sua reputazione politica e la sua posizione come premier sulla vittoria in questo referendum, come ha fatto David Cameron in Gran Bretagna con il referendum sulla Brexit. E, secondo i sondaggi, sembra che sia diretto verso la medesima sconfitta di Cameron, gettando nella confusione, nell'incertezza e nella paralisi un altro grande Stato capitalista.
Ma tutto è relativo - in fin dei conti, la politica e l'economia italiana sono rimasti in uno stato di paralisi per decenni, con una situazione che dalla fine della Grande Recessione non ha fatto altro che peggiorare. L'Italia si trova ora in una Lunga Depressione alla quale non sembra in grado di sfuggire.

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Il problema immediato per l'Italia, sono le banche italiane. Attualmente, le banche europee detengono 1 trilione di euro di quelli che vengono chiamati "non-performing loans" [prestiti non performanti: attività che non riescono più a ripagare ai creditori il capitale e gli interessi dovuti]. Di questo trilione, circa un terzo è detenuto da banche italiane. Questi "bad debits" sono come una macina da mulino legata al collo del settore finanziario italiano. La miriade di piccole banche regionali e di grandi banche nazionali hanno fatto prestiti a piccole imprese e società immobiliari. Ma migliaia di queste piccole aziende hanno fatto bancarotta e non possono ripagare i loro debiti dal momento che l'economia ristagna.
Come ho scritto nel mio libro, "The Long Depression" (capitolo 9), fra le prime sette economie capitaliste, in qualche modo l'Italia è quella che si trova nella situazione più terribile. Il capitale italiano, già prima della Grande Depressione si trovava in una situazione di stagnazione. La redditività era in calo fin dal 2000, ed ora è scesa di un altro 30% rispetto al 2004. L'investimento netto si è prosciugato e la produttività del lavoro non cresce nemmeno lentamente, come avviene nelle altre maggiori economie, ma si contrae direttamente. Dato che la Lunga Depressione in Europa continua, l'Italia non può recuperare.

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E come risultato di tutto questo, le banche si trovano vicine al fallimento. Gli analisti bancari ritengono che se Renzi perde il referendum fino ad otto banche - guidate dalla terza più grande e più antica banca italiana, il famigerato Monte dei Paschi - rischiano il fallimento. Questo perché i potenziali investitori in tali banche, di cui quest'ultime hanno disperato bisogno se vogliono estinguere i loro "bad debits", non cacceranno i soldi.
Ho fatto qualche semplice stima delle probabili perdite cui andranno incontro le banche italiane (basate sul recente rapporto finanziario della Banca d'Italia). Fino ad oggi, le banche hanno prestato 2 trilioni di euro alle imprese italiane e alle famiglie. Circa 330 miliardi di questi prestiti sono "bad" (vale a dire che non verranno restituiti) Si tratta all'incirca del 20% del PIL italiano. Le banche hanno accumulato riserve per circa 150 miliardi di euro, al fine di coprire le potenziali perdite, e ci si può aspettare che venderanno alcuni dei beni delle imprese che sono fallite nel corso del tempo. Anche così, continuerebbe ad esserci una perdita potenziale di circa 100 miliardi di euro, se prendono il toro per le corna ed estinguono questi "bad loans". Ciò potrebbe annientare completamente il valore delle azioni degli investitori in molte di queste banche. Ad esempio, il Monte dei Paschi subirebbe un colpo nove volte superiore a quello che è adesso il valore della banca sul mercato azionario. E la maggior banca, l'Unicredit, che si suppone dovrebbe aiutare le altre piccole banche al collasso come il Banco Veneto, verrebbe spazzata via anch'essa. Infatti, Unicredit vuole aumentare il capitale di 13 miliardi di euro per poter rimanere a galla.

Si può calcolare che un piano di salvataggio delle banche verrebbe a costare almeno 40 miliardi di euro, solo per permettere alle banche più grandi di poter rimettersi in piedi. E da dove dovrebbe provenire un simili piano di salvataggio? Il governo Renzi ha istituito un fondo speciale chiamato Atlante, che è stato finanziato dal altre banche più grandi, con un piccolo aiuto da parte dello Stato. Questi ci ha messo solo 4 miliardi, la maggior parte dei quali sono già stati spesi, senza risultato, per il Monte dei Paschi. Ma c'è di peggio. Secondo le nuove regole bancarie europee, volute dalla Germania, lo Stato non può essere usato per salvare le banche. Per salvare le banche devono essere usati gli azionisti e gli obbligazionisi, almeno da principio.

Questo suona bene, si potrebbe dire. Facciamo pagare gli azionisti. Ma il problema sta proprio qui. Le banche italiane si sono impegnate in un volgare "mis-selling" [una strategia consapevole di vendita di prodotti inidonei a soddisfare l'interesse previdenziale del cliente] nei confronti dei loro clienti e dei loro risparmi. I clienti sono stati incoraggiati a "salvare", comprando le obbligazioni della banca - in altre parole a fare un prestito proprio alla banca. Così centinia di migliaia di anziani (non così tanto ricchi) ora, se la banca cancellasse i suoi "bad debits" e ricapitalizzasse usando i propri debiti (obbligazioni a zero), perderebbero tutti i loro risparmi. Sarebbe dinamite politica, oltre a causare la miseria di centinaia di migliaia - e la cosa è già avvenuta per i "salvatori" con Banco Veneto e con il Monte dei Paschi.

Renzi ha fatto pressioni sui leader tedeschi ed europei per allentare le regole e permettere che vengano usati fondi statali (preferibilmente fondi di "stabilità" europei, che sono disponibili) per attuare il salvataggio delle sue banche. Ma i tedeschi sono rimasti ostinatamente aggrappati alle regole, in quanto il salvataggio degli italiani, dopo la Grecia, costituisce un anatema e sarebbe benzina sul fuoco euroscettico per quanto riguarda le prossime elezioni tedesche del 2017.

Quindi, se domenica il voto sarà contro Renzi, gli investitori italiani ed internazionali saranno assai riluttanti a scucire i fondi necessari alle banche italiane in quanto temono che il governo cadrà e che ci sarà la possibilità che alle prossime elezioni venga sostituito da un'alleanza populista guidata dai 5 stelle, che è già uscita vincente nelle elezioni per il sindaco di Roma e di Torino, e che risulta in testa nei sondaggi.
Ci potrebbe essere in Italia una leadership "populista" fuori dal controllo delle élite, e questa volta non si tratterebbe di Berlusconi?
Nella migliore delle ipotesi, ci sarà un governo che non sarà in grado di attuare in Parlamento delle "riforme" nell'interesse del capitale, vale a dire la riduzione dei diritti dei lavoratori; maggiori privatizzazioni e tagli alla Spesa.

È possibile che Renzi riesca a vincere il referendum contro tutte le aspettative. Ma anche se questo avviene, il problema delle banche rimane. Ed il problema delle banche non è altro che un sintomo del fallimento del capitalismo italiano e della paralisi della sua élite politica.
L'Italia rimane in depressione, e non c'è stato ancora un nuovo collasso.

- Michael Roberts - Pubblicato il 28 novembre 2016 -

fonte: Michael Roberts Blog

domenica 27 novembre 2016

Winter is Coming!

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In un mondo sempre più veloce e metropolitano, tra cemento e smartphone, fermarsi a contemplare e praticare l’antica arte del legno può essere un’inattesa via di salvezza. Il norvegese Lars Mytting ci racconta passo passo come si scelgono gli alberi, come si tagliano, come si accatasta la legna e come la si mette da parte per farla asciugare e poi, alla fine, bruciare. Ma mentre ci parla di taglialegna, di motoseghe e di camini, quello che poteva sembrare un semplice manuale pratico diventa una meditazione sull’istinto di sopravvivenza e sul rapporto tra uomo e natura, fatto di tempi lunghi e silenzi. Una lezione di vita, pragmatica e spirituale al tempo stesso, che poteva provenire solo dalle fredde terre scandinave, dove gli uomini da secoli si tramandano le tecniche e le abilità necessarie alla lavorazione del legno ma anche la pazienza e il rispetto nei confronti delle foreste, di quegli alberi che consentono di costruire le case e riscaldarle col fuoco. 

(dal risvolto di copertina di: Lars Mytting: Norwegian Wood, Utet, traduzione di Alessandro Storti, pagg. 246 euro 22)

Lo strano caso del bestseller per taglialegna
- di Marco Belpoliti -

Anche se non tagliate la legna, anche se non la accatastate per l’inverno, anche se non avete una stufa e abitate in zone temperate, irradiate dal sole tutto l’anno, questo libro è per voi. S’intitola come un romanzo di Murakami, come una canzone dei Beatles, “Norwegian Wood”. L’ha scritto un giornalista e narratore norvegese, Lars Mytting; è stato tradotto in dieci paesi. Perché? Perché è un manuale. Acqua. Perché parla di un’antica attività umana? Fuochino. Perché è un antimanuale? Fuochetto. Perché parla di una cosa che vi riguarda in ogni caso, sia vi apprestiate a farla oppure no? Fuoco!
Mytting racconta in modo ponderato e insieme ironico, cioè serio. C’è però il sospetto che il successo del libro l’abbia decretato, oltre all’argomento, il luogo d’origine dell’autore: il Nord Europa. 500 mila copie, forse lassù? Possibile. Ma in un mondo in cui i manuali sono tra le cose più vendute (manuali per fare tutto), Lars Mytting racconta in modo convincente il metodo scandinavo per tagliare, accatastare e scaldarsi con la legna. Ha il grande merito di sviscerare la cosa, facendo intravedere la complicazione del semplice. Non sono così i veri manuali? Mostrare come le cose semplici in realtà sono assai complesse. Andiamo con ordine. La prima cosa che si comprende leggendo il libro è che dietro al metodo scandinavo ci sono degli uomini e delle donne, gente perfettamente normale. Quando si osservano le fotografie di chi ha tagliato e accatastato enormi quantità di legna, si scoprono facce qualunque, da vicini di casa (bei vicini di casa, naturalmente). Sono rilassate e rilassanti. Se ce la fanno loro, si pensa, posso farcela anche io. A fare cosa? A scegliere l’accetta giusta, la motosega quasi perfetta, a innalzare cataste circolari di legno di faggio, a decidere l’acquisto della stufa a combustione pulita che non inquina. Il motto di Mytting, che è un po’ il cuore del suo scrivere, suona così: «Incidere sulla qualità della giornata, ecco la più sublime delle arti». Non sulla qualità della vita, che sarebbe troppo anche per un tagliatore di alberi, un accatastatore di tronchi, un segatore di ciocchi. L’autore, per nostra fortuna, non è un ecologista talebano. Nel bene e nel male questo è un libro maschile, anche se, oltre la risolutezza maschile, possiede una delicatezza femminea, quella dell’amante del legno (le divinità del bosco sono quasi tutte femminili, almeno quelle benefiche, e l’albero di genere femminile). Il primo capitolo è dedicato al gelo. Padre di tutti le donne e gli uomini del Nord, il gelo è un’occasione, non un nemico. La gioia dello spaccalegna apre questa sezione del volume, cui segue il capitolo sulla foresta. Sembra facile abbattere un albero, attività cui i nostri progenitori si dedicavano con immancabile solerzia e metodi sommari. Ma anche ricorrendo a una strumentazione sofisticata, non è così. Bisogna sapere prima di tutto quando farlo. Prima che la linfa cominci a crescere, quando il tasso di umidità dell’albero è basso, quando gli insetti sono ancora in letargo. In Norvegia, a Pasqua. Mytting è prodigo di curiosità sugli alberi. In Svezia cresce l’albero più antico del mondo: 9.550 anni; il suo tronco non è così antico. Ha solo 600 anni; è la radice a essere vecchissima.
L’autore spiega poi come si fa a coltivare il bosco: nello stesso modo con cui si fa l’orto dalle nostre parti. Bisogna imparare a usarlo, non a distruggerlo. Possibile? Fare legna è sempre abbattere, tagliare. Si può però preservare il bosco, rispettarlo e insieme scaldarsi. Lo strumento principe di tutto è la motosega. Pagine affascinanti, con la storia di questo strumento che ha cambiato il modo con cui si taglia: «Dimmi che motosega hai comprato e ti dirò chi sei». Da diporto, da lavoro e professionali: queste le tre principali categorie. Belle le pagine sulla nascita della motosega. L’invenzione della JoBu — marca storica ora cessata — è opera di due ex-partigiani antinazisti; uno aveva una segheria, l’altro costruiva fucili. Invenzione geniale. Poi viene il capitolo sul ceppo: «Molte persone vivono i loro momenti di maggior riflessione davanti al ceppo».
Non lasciatevi ingannare, questo non è un manuale new age. Niente di più lontano da Mytting. Lui è innamorato della legna e dei modi per tagliarla. Abbacinanti le pagine sulla scure. Sembra facile sceglierne una. Non sono tutte uguali. Vi ho scoperto l’esistenza della Vipukieves finnica: l’accetta a leva, adatta ai ciocchi grossi, ricavati dagli alberi a tronco dritto. Da comprare in ogni caso, per la sua forma. A un certo punto l’autore svela il vero segreto del libro: a dedicare la maggior quantità di tempo alla legna sono i maschi con più di sessant’anni; le donne sono solo il 29% (le percentuali sono uno dei sottotesti del volume). Come potrebbe essere altrimenti? Chi ha il tempo per colti- vare il bosco, abbattere gli alberi e soprattutto tagliare i tronchi, se non i pensionati? Loro le facce nelle foto. Sono loro che pregano sul ceppo a colpi di accetta: «Il ceppo è l’altare dello spaccalegna».
Confesso che la parte più coinvolgente non è però quella del bosco, né quella sugli attrezzi, e neppure quella dedicata alla corretta posizione per lo spacco ad ascia. La parte più seducente è quella dedicata alla legnaia. «La legnaia non ti pianta in asso », così comincia. L’anziano popolo della legna avanza nel libro di pagina in pagina. Deciso, forte, sereno. Gli ultimi capitoli sono dedicati alla stufa e al fuoco. Lui è il vero signore del legno. Lui, non noi, uomini e donne, giovani e vecchi, boscaioli e cittadini. Tutto brucia e finisce in cenere. Ultimo capitoletto: «L’arte di vuotare la cenere». C’è da imparare anche qui. Morale: i gesti della legna sono gesti di esistenza. Che li facciate o no, vi riguardano.

- Marco Belpoliti - Pubblicato su Repubblica del 12 ottobre 2016 -

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sabato 26 novembre 2016

Entropia

streeck

Il capitalismo finirà, o può essere riformato?
- di Michael Roberts -

Questo mese sono arrivati due nuovi libri sul capitalismo. Il primo è di Wolfgang Streeck ed è intitolato "How will capitalism end?" (Come finirà il capitalismo?). Wolfgang Streeck è il direttore emerito del Max Planck Istitute per la Ricerca Sociale, a Colonia, ed è professore di Sociologia all'Università di Colonia. È anche membro onorario della Society for the Advancement of Socio-Economics e membro della Berlin Brandenburg Academy of Sciences oltre che dell'Academia European. Insomma, il punto di vista di Streeck ha un qualche peso, sufficiente per essere recensito da Martin Wolf sul Financial Time.
La tesi di Streeck, come suggerisce il titolo, è quella che il capitalismo è un sistema che sta arrivando alla fine e che la sua scomparsa non è poi così lontana. Il libro comincia riferendosi ad un altro libro, intitolato "Does capitalism have a future?" (Il capitalismo ha un futuro?), in cui viene espresso il punto di vista di altri cinque scienziati sociali;  Immanuel Wallenstein, Randall Collins, Michael Mann, Georg Derluguian e Craig Calhoun. Come dice Streeck, tutti questi studiosi concordano sul fatto che il capitalismo si sta dirigendo verso una crisi finale, sebbene ciascuno apporti ragioni diverse.
Wallenstein ritiene che il capitalismo si trovi alla fine di un ciclo di Kondratiev da cui non può più riprendersi (per una molteplicità di ragioni, che hanno a che fare soprattutto col declino dell'ordine mondiale sotto l'egemonia degli Stati Uniti). Craig Calhoun, per un altro verso, ritiene che il capitalismo aprirà la strada ad economie dirette dallo Stato che potrebbero ripristinare il capitalismo, ma sotto una nuova forma "non di mercato". Michael Mann afferma che l'egemonia USA è finita e che il capitalismo diventerà una piattaforma imprevedibile per lotte fra vari rivali capitalisti, mentre la lotta di classe operaia appare frammentata. L'unica speranza è che trionfino le forze socialdemocratiche del compromesso. Randall Collins, secondo Streeck, presenta la prospettiva più vicina a quella marxista. Il capitalismo ricorrerà sempre più alla soppressione del lavoro umano ed alla sua sostituzione per mezzo dei robot e dell'Intelligenza Artificiale. Questo creerà gravi conflitti di classe e sottoconsumo, dal momento che molti lavoratori non avranno abbastanza reddito per comprare i prodotti dell'automazione. Sebbene l'analisi di Collins non sia marxista (a mio avviso) egli conclude che l'unica speranza è quella di una trasformazione socialista. Infine, Derluguian argomenta che il declino ed il collasso dell'Unione Sovietica suggerisce che il capitalismo non aprirà la strada al socialismo, ma piuttosto ad una frammentazione post-capitalista.

Dopo questa premessa, come si pone Streeck? Egli pensa che il capitalismo morirà "di mille tagli" e non verrà salvato dalle alternative di Mann e di Calhoun. Senza alcun proletariato in quanto forza che possa portare la società verso il socialismo, il capitalismo collasserà sotto "le sue stesse contraddizioni" e gli farà seguito, non il socialismo, ma un "duraturo interregno", un "periodo prolungato di entropia" dove non emergerà il "collettivismo" ma ci sarà invece un "individualismo" eterogeneo.
Il resoconto di Streeck sull'attuale stato del capitalismo continua nel libro e regala un'eccellente narrazione, in particolare la sua critica delle soluzioni keynesiane e riformista (sebbene i capitoli siano un po' ripetitivi). Egli vede un disordine sistemico rivelato innanzitutto dalla crescente disuguaglianza (laddove i primi 400 contribuenti negli Stati Uniti hanno un reddito 10mila volte superiore a quello del 90% della popolazione e le 100 famiglie americane al top hanno cento volte più ricchezza!) C'è poi la corruzione dei ricchi e dei potenti, così come si può vedere attraverso il ruolo delle banche. E il potere crescente del capitale finanziario, un settore del capitalismo del tutto improduttivo e dannoso.
Tutto questo è stato descritto da molti, e l'ho fatto anch'io sul mio blog. Ma Streeck vede queste forze come quelle che metteranno fine al capitalismo, piuttosto che come parte delle crisi ricorrenti nella produzione capitalista. Il capitalismo è più iniquo e corrotto che incapace di soddisfare i bisogni delle persone. Ma dal momento che non c'è una forza positiva nella società che possa rimpiazzare il capitale, il capitalismo "andrà all'inferno ma in un futuro prevedibile rimarrà nel limbo, morto o in procinto di morire a causa di un'overdose di sé stesso".
Per Streeck, è un "pregiudizio marxista che il capitalismo in quanto epoca storica finirà quando sarà in vista una nuova o migliore società ed un soggetto rivoluzionario pronto ad attuare un miglioramento dell'umanità". In un certo senso, Streeck predice un nuovo periodo di barbarie dopo il collasso del capitalismo, simile a quanto avvenuto all'Impero romano dopo il suo collasso nel V secolo. Allora una sofisticata economia schiavista cedette a degli Stati tribali; alle città si sostituirono i piccoli villaggi; ai latifondi, piccole proprietà; la tecnologia rimase inutilizzata e venne dimenticata.

A mio avviso, Marx ha potuto, e lo ha fatto, rendersi conto che la barbarie poteva succedere al capitalismo. Non c'è alcuna garanzia che al capitalismo segua il socialismo. Ha anche argomentato che senza un "soggetto rivoluzionario" (vale a dire la classe operaia) che attraverso l'azione politica mette fine al modo capitalista di produzione, può traballare. Streeck ha ragione che il capitalismo non alcun futuro a lungo termine, ma ha anche ragione sul fatto che non ci sia niente che possa rimpiazzarlo per portare avanti la società umana?
Il punto di vista di Streeck è il cinismo dell'accademico separato dalla classe operaia e immerso nell'esperienza del periodo reazionario neoliberista (un periodo di tempo assai breve nell'esistenza umana e nel capitalismo). A mio avviso, i cicli (Kondratiec e profitto) del capitalismo alla fine creeranno nuove forze per il cambiamento - ed una nuova e più sicura classe operaia in quanto agente del cambiamento. Ma se no, ...allora.
Naturalmente, la critica di Streeck svolta da Martin Wolf è differente, provenendo da un difensore del capitalismo. Certo, dice Wolf, Streeck ha ragione sul fatto che in tutte le società non esista un equilibrio stabile. "Sia l'economia che la politica devono adattarsi e cambiare". Ma solo un'economia di mercato può fornire "democrazia". Il pericolo oggi non è la fine del capitalismo ma la fine della democrazia. Perciò Wolf dice, che i governi democratici devono cooperare per assicurare che possano "gestire le tensioni fra gli Stati democratici delle nazioni e l'economia di mercato". "È possibile?", Wolf si fa la domanda e si risponde: "Assolutamente, sì" - anche se in realtà non sa come.

Questo ottimismo e pio desiderio di soluzioni "socialdemocratiche" ai mali del capitalismo rimane dominante nei medi di sinistra. E ancora una volta si rivela in un altro nuovo libro di Dean Baker. Baler è co-direttore dell'American Center for Economic Policy Research a Washington ed è giornalista televisivo ed esperto di economia e politica economica che interviene spesso nei meeting del movimento operaio e che scrive per l'inglese The Guardian. Baker è stato uno dei pochi economisti che viene citato per aver previsto il collasso finanziario globale, basandosi sulla bolla immobiliare americana alimentata dal credito, che ha portato all'instabilità finanziaria alla Minsky.
Il suo ultimo libro è "Rigged: how globalisation and the rules of the modern economy were structured to make the rich richer" (il libro è disponibile in pdf all'url https://thenextrecession.files.wordpress.com/2016/11/rigged.pdf ). Il titolo [N.d.T.: "Manipolato: come la globalizzazione e le regole della moderna economia sono state strutturare per rendere i ricchi più ricchi"] è diventato ormai un tema consueto fra gli economisti di sinistra (post?)keynesiani. Vale a dire, il problema non è il capitalismo o l'economia di mercato, ma il modo in cui è strutturata la moderna economia, in particolare a partire dal periodo neoliberista dopo il 1980, ovvero manipolata per cambiare "le regole del gioco" a favore dei ricchi e lontana dalla maggioranza. È questo l'argomento sostenuto da Joseph Stiglitz, altro economista ed eroe della sinistra e del movimento operaio, nel suo ultimo libro ( https://www.amazon.com/Rewriting-Rules-American-Economy-Prosperity/dp/0393254054 ).

Baker mostra come la distribuzione del reddito nella nostra società abbia poco a che fare con il merito e come i postulati dell'economia neoclassica vengano invocati strumentalmente per prevenire ogni azione che non porti benefici alle élite. Gli interventi che promuovono la distribuzione dei redditi verso l'alto non vengono mai criticati, mentre disuguaglianza e disoccupazione vengono lasciati alla gestione da parte della mano invisibile del mercato.
Baker sottolinea che «né Dio né la natura ci consegna un set di regole bell'e pronte che determinano il modo in cui vengono definite le relazioni di proprietà, in cui i contratti vengono applicati, o in cui vengono implementate le politiche macroeconomiche. Tali questioni sono determinate da delle scelte politiche». Nell'economia moderna, dalla crisi vengono salvate le banche, ma non le persone. Vengono imposti trattati commerciali che comportano la perdita del posto di lavoro per la maggioranza ma che danno più profitti alle corporazioni. Si potrebbe arrivare alla piena occupazione ma questo è contro gli interessi delle grandi corporazioni in quanto significherebbe la crescita dei salari e l'aumento dei costi del lavoro, cosa che farebbe comprimere i profitti. Così viene mantenuto, come scelta politica, quello che Marx chiamava "esercito industriale di riserva".

Baker identifica cinque aree in cui la "distribuzione verso l'alto" indotta dalle politiche dovrebbe essere invertita: la macroeconomia che si concentra soltanto sulla bassa inflazione; il trattamento asimmetrico che privatizza i guadagni e socializza le perdite nel settore finanziario; la pesante protezione dei diritti in patria e all'estero; la protezione nei confronti della concorrenza estera delle occupazioni altamente qualificate; e gli illimitati stipendi che vengono pagati agli amministratori delegati.
Baker afferma che questa politica "manipolando" l'economia mostra che il "libero mercato" non funziona. Sembra qui implicito che se così fosse, se funzionasse, allora tutto sarebbe bello e giusto. Dal momento che il mercato è "truccato", e non perché esiste l'economia di mercato, abbiamo bisogno che il governo intervenga per correggere le disuguaglianze, le ingiustizie e che applichi politiche per la maggioranza e non per pochi.
Quello che Baker non riesce a spiegare è in che modo il mercato venga "truccato". Succede e basta? Perché le scelte politiche sono a favore dei ricchi e non a favore della maggioranza? Non è stato sempre così? Baker sta guardando i sintomi, non le cause.

I marxisti come me direbbero che le politiche che portano a far crescere le disuguaglianze e la crescita del capitale finanziario accadono perché l'Età d'Oro del del capitalismo, con le sue pensioni decenti, servizi pubblici e piena occupazione, non può più essere assicurata dal capitalismo di mercato dal momento che è affondata la redditività del capitale. Cos' la "manipolazione delle regole" era necessaria al fine di salvare il sistema del capitalismo di mercato.
L'estrema disparità di ricchezza e di reddito è sempre stata la norma per il capitalismo, e non solo un prodotto della "moderna economia". Ad essere speciale è stata l'Età d'Oro dopo il 1945, e non il periodo liberista a partire dagli anni 1970. Se questo è vero, allora la domanda di Baker affinché il governo progressista intervenga per creare condizioni di parità e mettere fine alla "distribuzione verso l'alto" è solo un pio desiderio. Il compromesso socialdemocratico degli anni 1960 non tornerà nel capitalismo del 21° secolo. Streeck è assai più vicino alla verità di quanto lo sia Baker.

- Michael Roberts - pubblicato l'8 Novembre 2016

Fonte: Michael Roberts Blog

venerdì 25 novembre 2016

Presto! che è tardi…

tempo

Archetipi dell’eternità
- di Raffaele K. Salinari -

Che cos’è l’eternità? Cos’è il tempo? Possiamo conoscerli? Divenire noi stessi figure immutabili in un tempo che inesorabilmente muta? Ogni epoca ha costruito la sua visione dell’eternità, strumentalizzandola a fini politici o religiosi. Borges, nel suo Breve storia dell’eternità, ci parla di due grandi concezione del tempo, quella classica, con riferimento a Platone ed ai presocratici, e quella cristiana, a partire da Ireneo con l’affermazione del suo dogma trinitario.

L’eternità nella filosofia antica.
Nel libro III, 7 delle Enneadi, Plotino, l’ultimo maestro dell’antichità classica, riassume, dal suo punto di vista neoplatonico, o forse post platonico, la concezione classica della relazione tra eternità e tempo. L’egizio parte da una affermazione radicale: se vogliamo comprendere il tempo dobbiamo prima indagare le natura dell’eternità poiché questa è sia il suo immobile contenitore sia il suo contenuto.
Per i «filosofi sovraumani», come Giorgio Colli definisce i presocratici, Parmenide, Eraclito, Anassimandro, Anassimene, Empedocle, l’eternità è tutt’uno con l’Essere, l’Uno, cioè il Principio intelligibile che viene «prima di tutto ciò che esiste». Per Plotino esso ha creato la realtà fenomenica del cosmo per emanazione, per estasi, cioè uscendo fuori di sé, ma venendo a sua volta ricreato attraverso il ritorno a se stesso dell’essenza divina presente in ogni forma della creazione: “Infatti il mondo intelligibile e l’eternità contengono entrambe le stesse cose” dice al punto 7,2 della terza Enneade. “L’occhio con il quale io guardo Dio, è lo stesso occhio con il quale Dio guarda me; il mio occhio e quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere, e riconoscere ed amare”, ripeterà secoli dopo il mistico Meister Eckhart. E dunque, in questa concezione circolare di continua creazione e ricreazione dell’Uno da parte del creato, non esiste nessuna differenza tra l’Essere e l’eternità dato che, riprendendo la definizione platonica del Timeo, esso «non era, né sarà, ma è».
Riferisce Eustochio, suo medico e allievo, che prima di morire, coerente con questa visione del circolo ermeneutico dell’Essere da parte degli esseri, in altre parole della rigenerazione della Zoé al di fuori del tempo, da parte delle sue Bìos create nel tempo, Plotino abbia esclamato: “Sforzatevi di restituire il Divino che c’è in voi stessi al Divino nel Tutto”.
E così il tempo altro non è che un momento di eternità in movimento che si affanna nella sua corsa a spirale intorno all’anima delle cose e le rende così transeunte. Ogni cosa creata è soggetta alla morte poiché esiste nel tempo e con esso si muove: trascorre attraverso i suoi momenti sempre diversi anche se scaturiti dalla stessa eterna essenza. Come ricorda Eraclito «tutto scorre, non ci si può bagnare due volte nell’acqua dello stesso fiume». Solo l’increato quindi, l’Essere, è immerso pienamente e stabilmente nella sua eternità che di esso è un attributo essenziale.
E allora, se così stanno le cose, come ricomporre la scissione fenomenica tra Creatore e creatura, come ripristinare l’unità del cosmo, l’intima compenetrazione tra l’essenza comune e le esistenze particolari da essa generate? In altre parole: come far convergere in un unico punto metatemporale eternità e tempo?
Dice Borges commentando l’apparente aporia: “Questa avvertenza preliminare, tanto più grave se la riteniamo sincera, sembra annientare ogni speranza di intenderci con l’uomo che la scrisse (Plotino). Il tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica: l’eternità, un gioco o una faticosa speranza”. Lo scrittore argentino passa poi a considerare la possibile soluzione del problema analizzando in primis il senso in cui il tempo si muoverebbe. Ma questa strada porta soltanto al punto di partenza: come in un labirinto circolare. L’autore dell’Aleph afferma che nulla ci è dato sapere di certo del tempo se non che esso scorre; forse dal passato verso il futuro, come comunemente si avverte, ma anche, perché no, dal futuro verso il passato: «notturno il fiume delle ore scorre dalla sua fonte che è il domani eterno» recita un verso di Miguel de Unamuno.
Per alcune scuole filosofiche indiane addirittura il tempo presente non esiste dato che «l’arancia sta per cadere dal ramo, o è già a terra: nessuno la vede cadere». In Altre inquisizioni il già direttore della Biblioteca Nazionale Argentina introduce poi, come ulteriore elemento di complessità, l’evidenza che se il tempo è un processo mentale «come possono condividerlo migliaia di individui, o anche due soli di essi?». Non abbiamo prove di nessuna di queste ipotesi o paradossi, conclude, se non l’unica certezza generica – ma il generico può essere più intenso del concreto ci ricorda Rilke – del suo fluire entro quella stessa eternità che sembra averlo generato.
Ed ecco che Plotino, a questo punto disperante e disperato, introduce forse il vero argomento della sua speculazione filosofica, la sua versione ante litteram di quella che Severino Boezio, tre secoli dopo, nel 525, in attesa dell’esecuzione capitale, riprenderà nel suo De philosophiae consolatione con la celebre definizione: “Aeternitas est interminabilis vitae tota et perfecta possesio”. La domanda dell’antico maestro di Licopoli è infatti la stessa dell’antimoderno maestro di Buenos Aires: “Bisogna dunque che anche noi partecipiamo dell’eternità, ma come se siamo nel tempo?”. La risposta plotiniana è sconvolgente: non si tratta di capire l’eternità attraverso la comprensione della misura o del senso del tempo che in essa e da essa fluisce, quanto di comprendere che il tempo è la vita dell’anima e che essa, discendendo direttamente dall’Essere, è il nostro tramite per l’eternità.
Qui, la suggestiva espressione di Keatz «fare anima», ripresa da Hillman per illustrare la sua concezione psicanalitica dei miti greci, assume un significato di merito e di metodo. Il problema è che l’anima è preda di una «potenza inquieta» che la distoglie dalla percezione dell’Essere e la riporta continuamente «a far passare in altro» ciò che invece si deve contemplare estasiandosi: in questo modo perverso il tempo «imita soltanto l’eternità volgendosi intorno all’anima, sempre disertore di un passato, sempre anelante l’avvenire».
Che fare? Poiché necessariamente il tempo è immagine dell’eternità, l’anima deve vivere la sua relazione con le cose sensibili così come il tempo vive la sua relazione con l’eterno; in altre parole «fare anima» significa l’estasi di fronte al Mondo, il ritrovare lo stupore infantile nei confronti del creato. Solo questa estasi terrena, analoga a quella che l’Essere ha vissuto quando, uscendo da sé, ha generato il Cosmo, può riportare l’anima al suo creatore immergendola nell’eternità e così contribuire a rigenerarla.
È dunque il tempo estatico quello che riunisce in un unico momento metatemporale tempo ed eternità. Da cosa partire per estasiarsi? Qui l’autore delle Enneadi riprende il filo del suo maestro Platone e ci ricorda che la Bellezza è l’anima del Mondo: Afrodite, l’anadiomenon, la sempre rigenerata dalle acque delle creazione – dalla spuma (afros in greco) nata attorno ai genitali di Urano, come narra Esiodo nella sua Teogonia – è il veicolo che ci farà estasiare al suo cospetto. Eros, il grande daimon della creazione vitale, ci spingerà oltre l’apparenza delle forme che scorrono per svelarci l’essenza ontologica della Bellezza. Come per Platone, anche per Plotino la follia che viene dalle Ninfe sarà la strada verso il ricongiungimento con l’Uno.
I posseduti dalle Ninfe, i «linfatici», come li chiamavano i latini (lymphaticos), e come sino alla prima metà del secolo scorso venivano chiamati i bambini dall’incarnato pallido, tendenzialmente gracili e psichicamente sensibili, sognatori propensi a perdersi vivendo i loro stessi sogni ad occhi aperti – tra i quali i medici annoveravano lo scrivente – costoro, dicevamo, sono allo stesso tempo immersi in una felicità ineffabile, estatica, che Aristotele, nella sua Etica a Eudemo, chiama eudaimonía, per distinguerla qualitativamente dagli altri quattro tipi di felicità: «O forse la felicità non può venire a noi in nessuno di questi modi, bensì in due altri, e cioè o come accade ai nymphólēptoi e ai theólēptoi, che entrano come in una ebbrezza (enthousiázontes) per ispirazione di un essere divino, o altrimenti attraverso la fortuna (molti infatti dicono che la felicità e la fortuna sono la stessa cosa)».
Per ciò felicità e fortuna condividono la stessa natura, come lo stato di chi è posseduto dalle Ninfe o da un dio. Qui bisogna ribadire che, per i Greci, e dunque anche per l’ellenizzato Plotino, la possessione divina era una modalità primaria per accedere alla conoscenza dell’Invisibile, della «prima materia» della quale sono composte tutte le cose, l’essenza immutabile del Mondo.
Ed è proprio di questa essenza che sono fatte le Ninfe, espressione archetipica delle potenze elementari e soprattutto metamorfiche, come il tempo che scorre e cambia la forma esteriore delle cose. Il tempo «grande scultore» come scriveva Marguerite Cleenewerck de Crayencour, al secolo Marguerite Yourcenar. Come Eros, fluido nella forma, ed Afrodite dai dardi più veloci nata dalla spuma spermatica, le Ninfe sono l’eternità ed al contempo ce la offrono: il mutevole dell’Invisibile che ha l’acqua come elemento materiale; le fonti e i fiumi come labirinti nei quali perdersi, il mare e gli stagni come occhi che ci mirano insonni, sono tutte immagini di essa.

La seconda eternità
«Il miglior documento sulla prima eternità è il quinto libro delle Enneadi, sulla seconda, o cristiana, l’undicesimo libro delle Confessioni di sant’Agostino». Così Borges chiarisce il passaggio dalla visione classica a quella cristiana dell’eternità. La nuova religione universale non poteva imprimere il suo sigillo all’eternità, far coincidere l’Evo cristiano con una nuova concezione monoteista del tempo. La visione platonica del rapporto tra eternità e tempo subisce dunque una mutazione drammatica in seguito alla nascente egemonia culturale del cristianesimo.
L’eternità cristianizzata è il prodotto dell’incontro tra le tre figure trinitarie. Primo Artefice di questa mutazione ontologica che la allontana dalla diretta contemplazione dell’umanità per sottometterla al divino, è Ireneo (130-202), martire sotto l’imperatore Marco Aurelio e Padre della Chiesa. Il vescovo di Lione decreta dal dirupo di Fourvière, l’antico sito romano di Forum vetus, che il Verbo è generato dal Padre, lo Spirito santo è prodotto dal Padre e dal Verbo (il Cristo); da queste due innegabili operazioni dogmatiche, ci fa notare Borges: “Gli gnostici solevano inferire che il Padre era anteriore al verbo, ed entrambi allo Spirito: questa inferenza, dunque, dissolveva la Trinità: Ireneo chiarì che il duplice processo – generazione del Figlio dal Padre, emanazione dello Spirito da ambedue – non accadde nel tempo, ma esaurisce di colpo il passato, il presente e l’avvenire. Il chiarimento prevalse ed ora è dogma. Così fu promulgata l’eternità, prima tollerata appena all’ombra di qualche screditato testo platonico”.
Ireneo concepisce e sancisce in questo modo, per confutare una eresia che poteva rivelarsi esiziale per la Chiesa paolina, un «atto senza tempo» che crea l’eternità. E dunque, per il cristiano, il primo momento coincide con la creazione che a sua volta non esiste se non nella volontà dell’Onnipotente di farla esistere. Quindi l’eternità altro non può essere che uno degli attributi divini. Le cose temporali, tra cui l’umanità, si distinguono allora da quelle divine per il fatto che sono prive di potenzialità creativa. Questo significa, in sostanza, che il tempo degli uomini non è commensurabile a quello trinitario, che così resta imperscrutabile e misterioso per definizione: non vi è partecipazione all’eternità se non indirettamente attraverso l’atto di fede che essa esiste poiché creata da Dio. Come scrisse riassumendo mirabilmente questa terribile distanza tra tempo umano e tempo divino San Paolino: “Toto coruscat trinitas mysterio”, cioè rifulge la Trinità in un totale mistero.

L’eternità teandrica di Florenskij
Ma nonostante il predominio metafisico che la Chiesa cattolica ha esercitato per secoli sull’eternità attraverso il dogma trinitario – un vero e proprio trattato di «teratologia intellettuale» lo definisce l’ineffabile Borges – nella Russia dei primi del Novecento, insieme al movimento simbolista e, più profondamente ancora, dalle radici della mistica ortodossa, nasce un autore che, senza in apparenza rinnegare, anzi con una massimo di affermazione della sua fede religiosa, spinge sulla barriera dogmatica e riapre le porte della patristica verso un orizzonte che travalica l’angusta visione trinitaria per ridare all’umanità, ma più in generale alla Creazione, un ruolo comprimario a quello del Creatore. Questo personaggio è Pavel Florenskij, il Leonardo russo: l’uomo che studierà il transfinito matematico per metterlo al servizio della riconciliazione tra eternità e tempo.
Autore di profondissima fede spirituale, Pavel Florenskij segue il ragionamento neoplatonico andando ben oltre le proposte di Plotino e di sant’Agostino. Egli esplora il tema del rapporto tra tempo ed eternità riconducendolo a quello, analogo, tra l’uno ed il molteplice, tra finito ed infinito. Per l’ingegnere-sacerdote ortodosso, responsabile per un lungo periodo dei programmi di elettrificazione dell’Unione sovietica staliniana, le forme sensibili, cioè la realtà in atto del Mondo, sono le porte verso l’intelligibile assoluto, sono simboli che ci portano alla contemplazione della profondità enigmatica del Mondo sino a «scorgere l’unità del finito e dell’infinito», cioè del tempo con l’eternità, l’unità integrale della conoscenza.
La visione di Florenskij è di una originalità estrema, anche perché vissuta con coerenza sino alle ultime conseguenze. Internato in un gulag per non voler abbandonare la sua veste talare, sarà infine fucilato nel 1937 e la sua opera scomparirà negli archivi del KGB sino agli anni Novanta del secolo scorso. Nel freddo glaciale delle isole Solovki scrive ai figli: “Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà compatta, ma ad ogni tappa della mia vita da un determinato punto di vista […]. Le sue angolature mutano, l’una arricchendo l’altra”.
Il clima culturale in cui si sviluppa la Weltanschauung integrale di Florenskij è sia quella del cristianesimo ortodosso russo dunque, molto vicino alle radici platoniche e altrettanto distante da quello romano, sia l’elaborazione matematica di Cantor sui numeri transfiniti che introduce nuove definizioni e mezzi di comprensione degli infiniti matematici. Qui, ai primi del Novecento, in pieno clima rivoluzionario, troviamo pensatori come Vladimir Solov’ëv padre di quel «realismo mistico» che poi padre Florenskij elaborerà sino alla visionarietà, proponendo la fusione tra tempo ed eternità attraverso il processo della «unitotalità», vsejedinstvo in russo.
Questa è allora la sua risposta alla domanda su come vivere l’eternità nel tempo: la convinzione che non solo l’umanità, ma tutti i fenomeni del Mondo, quelli animati e quelli inanimati, quelli coscienti consapevolmente e quelli che ancora non lo sono e, spingendosi molto oltre, tutto il Cosmo, siano chiamati a partecipare ontologicamente al graduale processo di costruzione dell’unità del tutto. In altre parole l’eternità non sarà in atto sinché tutti i fenomeni da essa prodotti nel tempo non formeranno un organismo universale, una «unitotalità» in cui ogni distinzione verrà annullata e non esisteranno più né il tempo né l’eternità.
Questo organismo cosmo-teandrico, come lo definisce Florenskij cioè alla coincidenza tra il divino (teos) e l’umano (andros), è allora il punto di convergenza e di sintesi tra le grandi intuizioni dell’idealismo tedesco di Schelling, Fichte, dello stesso Hegel, e il pensiero di scrittori abissali quali Dostoevskij e il movimento dei simbolisti russi.
«Dentro di noi portiamo il transfinito, il sovrafinito, noi – il kosmos – non siamo qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi siamo transfiniti, siamo in mezzo tra il tutto ed il nulla». Così l’autore si esprime in merito alla sua intuizione della relazione tra l’eternità ed il tempo, tra il finito e l’infinito, nel I simboli dell’infinito.
Anche la sua concezione del microcosmo umano è coerente con la visione teandrica del macrocosmo: «l’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo egli è complesso tanto quanto lo è il mondo. Il mondo è parte dell’uomo, ma anche il mondo è complesso quanto lo è l’uomo». La relazione tra creato e creatura, tra infinito e finito è tutta riconducibile e questa «interrelazione sostanziale».
Il soma dunque, il nostro fenomeno immerso nel tempo, si presenta agli occhi del matematico russo come un vero e proprio simbolo dell’eternità (soma-sema) dato che «il nostro corpo è infinitamente più profondo di quanto lo ritenessero il materialismo e il positivismo da un lato, e lo spiritualismo dall’altro. Alla sua base la fisiologia è assolutamente mistica, è la base della religione di tutta l’umanità… il nostro corpo esperisce misticamente il mondo intero».
E qui, con un balzo difficilmente immaginabile senza la capacità visionaria di collegare pensiero scientifico e misticismo, finito ed infinito, unità e pluralità, Florenskij fa collassare su se stesso il dogma trinitario, senza negarlo o rinnegarlo ma anzi portandolo a potenza, distillandone l’essenziale unisostanzialità come infinito rispecchiamento tra tutte le forme del cosmo.
«Il simbolo mi è sempre stato caro nella sua immediatezza, nella sua concretezza, nella sua carne e la sua anima. In ogni vena della sua carne io volevo vedere, cercavo di vedere, e credevo di poter vedere l’anima, la sola sostanza spirituale. Il positivismo mi disgustava, ma non meno la metafisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata».
Da questa tensione insonne, indomita, da questo intento visionario che travalica l’antinomia tra verità dogmatica e intuizione simbolica, nasce l’idea della homoousìa cioè dell’unisostanzialità trinitaria come vera e propria provocazione del pensiero, un avvicinamento totale tra significato e significante, tra corpo e anima, tra eternità e tempo.
Come fa notare Natalino Valentini nella sua bella introduzione al volume Il simbolo e la forma sui saggi scientifici dello scienziato russo: “Nel simbolo Florenskij coglie quel tipo di incarnato di realtà fisico–spirituale in cui è espressa direttamente l’antinomicità dell’essere, l’unità e la non riconducibilità di fenomeno e noumeno, di visibile ed invisibile, razionale e mistico”
Al proposito, chiosa il filosofo Choruzij, tra i commentatori più acuti di Florenskij, «l’Essere-Cosmo si struttura integrandosi».
E dunque, in conclusione, l’essere nel tempo struttura il tempo dell’essere, il tempo l’eternità, l’eternità il tempo, la vita particolare quella universale, la vita del cosmo quella delle sue parti, in una ricerca di totalità che alla fine cancellerà ogni distanza. Come esclama Jack Kerouac in Satori a Parigi: «Quando dio dirà: Ho vissuto!, dimenticheremo tutte queste storie di separazione».

- Raffaele K. Salinari - pubblicato su Alias del 7 maggio 2016 -

giovedì 24 novembre 2016

Promesse da non mantenere

trump

Dall'Obamania all'ultima battaglia
- Commento su una vittoria elettorale non troppo sorprendente -
di Gerd Bedszent

Uno stridulo urlo di orrore si è levato dai grandi media tedeschi di fronte ai risultati delle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Dai radicali della linea dura del mercato fino a quel che è rimasto delle sinistre, tutti sono d'accordo sul fatto che il presidente appena eletto sia un disastro. E, naturalmente, non manca nemmeno l'accusa secondo cui è la sinistra ad essere colpevole della vittoria elettorale del candidato presidenziale repubblicano. Cosa che, ovviamente, è una sciocchezza, dal momento che alla fine anche il (piccolo) Partito Comunista degli Stati Uniti ha fatto un appello per votare la neoliberista dichiarate Hilary Clinton. In modo significativo, la vittoria elettorale del repubblicano ultraconservatore Trump, in Germania è stata acclamata solamente dalla destra radicale e dalla destra del partiti della coalizione.

Donald John Trump, figlio di un imprenditore degli Stati Uniti, è, senza dubbio, un contemporaneo estremamente sgradevole; i suoi attacchi apertamente razzisti e misogini non hanno bisogno di essere qui nuovamente commentati. Nemmeno la sua biografia - è sufficiente quello che c'è scritto su Wikipedia a proposito dei suoi fallimenti come attore per rotolarsi per terra dalle risate. In pubblico, l'imprenditore appare essere un miliardario; il fatto che lo sia realmente viene messo in dubbio dagli analisti economici. L'attuale presidente è un camaleonte politico, entrato dalla porta di servizio, che in passato ha cambiato più volte i suoi punti di vista ed il partito di appartenenza.

È ovvio che Trump non è la prima strana figura ad essere stato promosso alla presidenza dal voto, ma è probabilmente una delle figure più sgradevoli. La sua spudorata manipolazione degli slogan da bar della destra è un segno del processo di crescente decadimento della politica borghese ed entra a far parte integrante sia del fenomeno paneuropeo di ascesa di discutibili partiti dissidenti di destra, che dell'installazione delle dittature presidenziali repressive avvenuta in più Stati europei. A sua volta, questa decadenza della politica è il risultato della crisi dell'economia politica borghese.

Libero commercio e rifugiati - con questi due temi, Trump è riuscito a conquistare gli elettori in massa. Ha annunciato che rafforzerà l'economia degli Stati Uniti per mezzo di una massiccia protezione statale; con l'imposizione di tariffe doganali punitive, le imprese sarebbero costrette a riportare indietro le installazioni industriale delocalizzate all'estero. Inoltre favorirebbe anche una rigorosa politica di isolamento e l'espulsione in massa dei migranti illegali. Per milioni di cittadini nordamericani angosciati dalla paura del collasso, la sua promessa di creare in questa maniera posti di lavoro è stato probabilmente il famoso ultimo barlume di speranza cui aggrapparsi.

Il risultato delle recenti elezioni negli Stati Uniti costituisce, quindi, una risposta sbagliata alla crisi da parte della popolazione. Sbagliata in quanto, sebbene le conseguenze di questa crisi - chiusura degli impianti industriali, disoccupazione di massa, impoverimento di ampi settori della popolazione, inclusa la classe media - abbiano dominato la campagna elettorale, nessuno ha tuttavia affrontato la sua causa strutturale, vale a dire il folle fine in sé della produzione capitalista.

Tuttavia, il fatto che la crisi dell'economia mondiale stia rapidamente progredendo, ormai non è più un segreto per nessuno. È vero che negli ultimi vent'anni in alcune regioni dell'est e del sudest asiatico è stata generata a creare una breve ripresa, sulla base di bassi salari e di una legislazione repressiva. Al contrario, altre economie - principalmente, ritardatarie della modernizzazione capitalista - hanno rallentato e sono arrivate al collasso economico e politico. Vari Stati africani ormai esistono solamente sulla carta, essendosi dissolti in una miscela di signori della guerra, milizie etniche, clan mafiosi ed orde di volgari banditi che combattono gli uni contro gli altri. Anche altri Stati - soprattutto delle regioni prima altamente industrializzate - stanno subendo un processo continuo di erosione delle loro economie nazionali. Molte localizzazioni industriali si sono sbriciolate; la produzione si è completamente fermata o è stata spostata nei paesi a basso salario. Miniere di metallo e di carbone sono state chiuse dal momento che le importazioni sono diventate più a buon mercato rispetto alla produzione. Robert Kurz ha parlato, in un tale contesto, di una «contraddizione logica o strutturale fra economia nazionale e mercato mondiale» [*1]. Come risultato di tutto questo, gli ex lavoratori dell'industria sono caduti in un pozzo senza fondo, si sono trovati senza alloggio, sono diventati beneficiari degli aiuti sociali, o hanno dovuto aggrapparsi a dei lavori precari, per poter sopravvivere.

La riduzione del potere di acquisto della popolazione ha innescato, anche negli Stati Uniti, una spirale economica discendente, che ha trascinato con sé parte della classe media. Altri settori della classe media, in maggioranza piccoli imprenditori, sebbene (ancora) non coinvolti, sono ugualmente entrati nel panico ed hanno chiesto che il governo invertisse in qualche maniera questo processo. Esempio di una tale protesta civica di destra è stato l'oscuro movimento denominato "Tea Party", che dieci anni fa dettava i titoli a tutti i media, e che oggi è ormai scomparso a livello mediatico. Ma anche le organizzazioni più di sinistra - gli avversari della globalizzazione, che incolpano delle distorsioni sociali, da loro giustamente denunciate, non le leggi della fase finale della produzione capitalista di merci, ma solo l'avidità dei banchieri criminali - anche loro hanno prestato e prestano visibilmente il fianco agli oscuri teorici della cospirazione, antisemite e razzisti.

Il fatto è che l'aumento della disoccupazione in tutto il mondo come risultato della terza rivoluzione industriale - ossia, della sostituzione dei lavoratori salariati con programmi per computer e con robot industriali - non viene quasi tematizzato. Il processo, chiamato soprattutto nel corso degli ultimi decenni "globalizzazione, di disintegrazione delle economie nazionali a favore dei flussi di merci e dei flussi finanziari che vagabondavano senza ostacoli per tutto il mondo, fra le altre cose ha di fatto contribuito alla situazione disastrosa dell'economia degli Stati Uniti. Robert Kurz ha descritto questo globalizzazione come un «processo di escalation della crisi, in cui il capitale [...] fugge dalle sue proprie contraddizioni interne, con l'unico risultato che queste si sviluppano ancora più nettamente» [*2]. È tuttavia irrealistico pretendere di far girare al contrario questo processo semplicemente per mezzo di decreti statali, come ha annunciato Trump. La globalizzazione, innanzitutto è stata una reazione alla crisi. E, in secondo luogo, ormai non c'è più un "capitale nazionale", che possa essere sopraffatto attraverso minacce di punizioni. Il groviglio di filiali delle imprese della prima, seconda e terza generazione, distribuite per tutto il globo, potrebbero aggirare facilmente qualsiasi tipo di disposizione nazionale. Anche per questo, le proteste dei radicali della linea dura del mercato contro il protezionismo annunciato da Trump sono state molto limitate - probabilmente si sono resi conto che si trattava di puro rumore da campagna elettorale.

Diverse, invece si presentano le cose riguardo alle misure annunciate da Trump contro i migranti indesiderati. Qui si tratta di persone reali. Queste persone possono essere colpite dalle pallottole della polizia, possono essere fatte marcire in prigione, o si può loro impedire, con recinzioni alte diversi metri, di entrare in un paese in cui alcuni di loro sono perfino nati, o in cui hanno vissuto per molti anni. L'ondata di repressione annunciata contro i migranti ovviamente non cambierebbe niente per quel che riguarda lo stato disastroso dell'economia degli Stati Uniti. Ma come sempre dà modo al potere di aizzare la popolazione contro i presunti colpevoli.

La prossima presidenza di Donald J. Trump probabilmente sarà più che altro un tentativo, da parte dei settori ultraconservatori delle élite nordamericane, di - contro ogni logica - cambiare bruscamente direzione e, su scala nazionale, di sfuggire le conseguenze della crisi globale promossa proprio anche da loro. Tentativo che, ovviamente, potrà solo fallire.

In questo contesto, si spiega anche la negazione apparentemente irrazionale delle alterazioni climatiche, fatta da Trump. Nella contorta logica dell'uomo d'affari conservatore, in cui anche lo stesso Trump si inquadra, tutte le forme di protezione ambientale appaiono solamente come scomodi fattori di costo, che distorcono la concorrenza, e attraversano la strada di una crescita economica sfrenata: il capitalismo è una legge naturale. Quindi cosa abbiamo a che fare noi con questo, se da qualche parte le persone annegano, muoiono di sete o vengono avvelenate ...

Come il "capitalismo verde", elogiato all'inizio della presidenza Obama, anche l'inversione conservatrice annunciata da Trump non può portare alla crescita economica, né all'annunciato miracolo dei posti di lavoro. La crisi globale del capitalismo non può essere sostenuta con gli alti muri, chiunque paghi per la loro costruzione. Gli Stati Uniti sono irrimediabilmente sovrindebitati, almeno a partire dall'ultima crisi finanziaria, e non si trovano, pertanto, nella posizione di generare crescita economica artificialmente, per mezzo di una programma neo-keynesiano di stabilizzazione. E anche la guerra economica con la Cina, annunciata da Trump, difficilmente reggerebbe - la Cina non è solo la principale fornitrice di merci, ma è anche il principale creditore del paese completamente sovrindebitato. E la deregolamentazione del sistema finanziario, annunciata da Trump subito dopo l'elezione, farà fiorire di nuovo l'economia delle bolle, che era stata un po' limitata da Obama dopo l'ultimo crash. Quando scoppierà la prossima bolla? Con che cosa vuole pagare il governo il prossimo "salvataggio bancario"? Arriverà a breve un'inflazione galoppante?

Il continuo declino della "moneta mondiale" che è il dollaro statunitense, in ogni caso, probabilmente trascinerebbe con sé nel caos economico anche il resto del mondo. La macchina globale del capitalismo funziona solo attraverso il flusso incessante di merci e attraverso i flussi finanziari. Se questo circuito viene in qualche modo perturbato c'è il rischio di fermare definitivamente la macchina che già scricchiola e ansima.
Quali che siano le forme concrete che in breve può assumere la crisi negli Stati Uniti, Trump non può mantenere le sue promesse, né può soddisfare le aspettative degli elettori. E, probabilmente, non ci proverà nemmeno.

Le rozze idee di Trump sulla politica economia non sono state di certo prese sul serio dalla maggioranza dei suoi elettori. Le élite politiche interne sono ritenute colpevoli di "fallimento", a causa del permanente insuccesso nella gestione della crisi. Si vorrebbe, pertanto, un presidente più forte, che rendesse di nuovo più forte anche il paese. Allora la ripresa economica - così sembra che si supponga secondo la logica distorta delle aree suburbane scosse dalla crisi - avverrebbe quasi da sola. Non ci si rende conto che «la politica finisce per essere solo una sfera derivata e non possiede alcuna capacità autonoma di intervento» [*3]. Tuttavia, quello che il governo Trump può comandare (quasi) senza limiti è la polizia, e i militari.

Ora gli Stati Uniti si troverebbero sul punto di entrare in una dittatura fascista? Certo che no. Il fascismo classico era legato ad un determinato periodo storico che da tempo appartiene già al passato. La dittatura dei nazisti tedeschi coincise nella maniera più vile e crudele con la «eliminazione delle reliquie strutturali corporative, pre-moderne, guglielmine» [*4], ormai fuori dal tempo, per mezzo di un programma keyniesiano di stabilizzazione barbaramente modificato. La «formazione fordista forzata» [*5], tuttavia, si è verificata da tempo negli Stati Uniti; i programmi keynesiani di stabilizzazione sistemica hanno lasciato enormi montagne di debito, senza essere riusciti, alla fine, a fermare l'avanzata della crisi. Così, nel caso (assai possibile) dell'eliminazione delle istituzioni democratiche negli Stati Uniti, si potrebbe trattare solamente di una dittatura repressiva di emergenza.

L'acclamazione quasi isterica di una figura come Trump da parte di segmenti di popolazione, è proprio un risultato di questa crisi senza soluzione. Ed ha una sua logica il fatto che la fanfaronaggine apertamente razzista messa da lui in atto nel corso della campagna elettorale sia stata accettata di buon grado da molte persone. Come ha scritto Robert Kurz, già nel 1993, «la xenofobia, il razzismo e l'antisemitismo irrazionali sono essi stessi diventati una funzione della crisi del razionalismo democratico dell'economia di mercato» [*6].
Il grande miracolo dei posti di lavoro, dipinto dal presidente appena eletto durante la campagna elettorale, fallirà comunque. E le immagini dei simpatizzanti euforici di Trump, che vengono mostrate ora dai media, in breve tempo apparterranno al passato. Si può supporre che dei fanatici religiosi, teorici della cospirazione, antisemiti e militanti di estrema destra recluteranno molte persone fra il suo elettorato in breve disilluso. Ma è assai dubbio che il nuovo presidente degli Stati Uniti riesca a far rientrare il genio dentro la bottiglia da cui è uscito.

Ci sarà, prima o poi, una guerra civile negli Stati Uniti? Questo non è escluso. Ricordiamoci che già dopo una prima ondata di smantellamento delle installazioni industriali nel decennio 1990 - causata anche dalla fine del riarmo delle forze armate statunitensi decisa da Ronald Reagan - molti lavoratori industriali messi da parte e resi superflui si sentirono traditi dal proprio governo e si organizzarono in milizie armate. A quel tempo, il movimento diminuì pochi anni dopo. Oggi la crisi è considerevolmente molto più avanzata e ha raggiunto settori della popolazione ancora più ampi. E rifornirsi di armi da fuoco, negli Stati Uniti non costituisce un problema.

Con l'esplosione della violenza che già cova sotto la cenere, tuttavia, il paese finirebbe solo per condividere il destino di molte regioni del pianeta, dove da tempo è in corso la lotta fra saccheggiatori armati per la distribuzione dei relitti dei falliti progetti di modernizzazione. La novità, nel caso degli Stati Uniti, tuttavia, sarebbe che non si tratta di uno Stato periferico, ma bensì del centro ideale dell'economia capitalista. Il collasso economico associato ad una tale guerra civile probabilmente finirebbe per trascinare con sé nell'abisso tutta l'economia mondiale. E, dal momento che gli Stati Uniti hanno arsenali interni pieni di armi nucleari, una simile guerra civile avrebbe anche delle conseguenze ancora più disastrose per il resto del mondo.

Non c'è dubbio che, sotto il governo Trump, si intensificherà la repressione da parte dei resti dell'apparato statale in dissoluzione contro le azioni disperate degli emarginati. Così, si dovrà cercare di rafforzare la democrazia borghese - come ora si sproloquia fantasmaticamente nel mondo mediatico liberale di sinistra - contro la rapida avanzata della destra radicale?
A proposito di questo, Robert Kurz ha scritto: «La mostruosa stupidità e malvagità del nuovo radicalismo di destra, tuttavia, non nasce per conto proprio, ma dev'essere messo direttamente ed esattamente in conto a quella democrazia dell'economia di mercato che è stata proclamata come forma definitiva dell'umanità. [...] La democrazia è, di per sé, l'utero da cui è uscito tutto questo» [*7].

- Gerd Bedszent - Pubblicato su EXIT! ( www.exit-online.org ) il 14 novembre 2016 -

[*1] - Robert Kurz: Das Weltkapital. Globalisierung und innere Schranken des modernen warenproduzierenden Systems- Berlin, 2005
[*2] - Ivi
[*3] - Robert Kurz: Die Demokratie frisst ihre Kinder; in:  Rosemaries Babies. Die Demokratie und ihre Rechtsradikalen, Horlemann, 1933.
[*4] - Ivi
[*5] - Ivi
[*6] - Ivi
[*7] - Ivi

fonte: EXIT!

mercoledì 23 novembre 2016

Nella tana del coniglio

postone

Il fatto che il capitale abbia dei limiti, non significa che collasserà
- Intervista a Moishe Postone, di Agon Hamza & Frank Ruda -

Hamza & Ruda: Il tuo lavoro stabilisce una cruciale distinzione fra la critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro e la critica del lavoro nel capitalismo. La prima implica una descrizione trans-storica del lavoro, mentre la seconda pone il lavoro come una categoria coerente - capace di "sintesi sociale" - del modo capitalista di produzione. Tale distinzione richiede che venga abbandonata ogni forma di descrizione ontologica del lavoro?

Moishe Postone: Dipende da cosa si intende per spiegazione ontologica del lavoro. Questo ci spinge ad abbandonare l'idea che ci sia, in maniera trans-storica, uno sviluppo progressivo dell'umanità che avviene per mezzo del lavoro, che l'interazione umana con la natura, in quanto mediata dal lavoro, sia un processo continuo che ci porta a continui cambiamenti. E che il lavoro sia, in tal senso, una categoria storica centrale.
Attualmente, questa posizione è più vicina ad Adam Smith che a Marx. Io penso che la centralità del lavoro rispetto a qualcosa che viene chiamato sviluppo storico può essere posta solamente per il capitalismo e non per qualsiasi altra forma di vita sociale umana.
D'altra parte, penso che si possa mantenere l'idea che l'interazione umana con la natura è un processo di auto-costituzione.

Hamza & Ruda: In che senso diresti che è possibile una spiegazione del lavoro in termini di costituzione? C'è qualcosa, che può essere trovato nel primo Marx, che punta in tale direzione?

Moishe Postone: Sì, e mi sembra che dal momento che Marx storicizza la centralità del lavoro rispestto ad un continuo processo di sviluppo, ciò di per sé non esclude l'idea che il lavoro sia il processo di auto-costituzione. Solo, non sarebbe legato al concetto di uno sviluppo storico e di un costante miglioramento del lavoro.

Hamza & Ruda: Uno dei contributi più importanti di "Time. Labor and Social Domination" consiste in una nuova teoria di dominio impersonale nella società capitalista. Alla luce di questa irriducibile forma astratta di dominio, non si potrebbe capovolgere - o forse aggiungervi una nuova distorsione - la famosa definizione di feticismo, data da Marx, come "relazioni fra persone che appaiono come relazioni fra cose"? Sono le relazioni personali ad essere la forma capitalista di dominio, non meglio definita se non come apparenza di relazioni realmente astratte come se fossero concrete? E inoltre, questo capovolgimento, o quanto meno il riconoscimento del ruolo cruciale che ha l'astrazione nel capitalismo, rende insostenibile la definizione di lotta di classe, o abbiamo piuttosto bisogno di un concetto di classe che tenga conto di questa distanza rispetto al concreto?

Moishe Postone: Non sono sicuro di essere del tutto d'accordo con questo tentativo di riformulazione. Innanzi tutto, riguardo alla citazione "relazioni fra persone che appaiono come relazioni fra cose", quello che resta fuori da tale versione di ciò che Marx ha detto è che egli aggiunge che le relazioni fra le persone appaiono come sono, come relazioni sociali fra cose e come relazioni reificate fra persone. Marx ha solo elaborato esplicitamente il concetto di feticismo con il feticismo della merce. Tutti e tre i volumi del Capitale, sono tuttavia sotto molti aspetti uno studio sul feticismo, anche quando questa parola non viene usata. E feticismo significa che a causa del peculiare, doppio carattere della forma sociale strutturante del capitalismo, le relazioni sociali scompaiono dalla vista. Quello che otteniamo sono relazioni reificate: otteniamo anche astrazioni. Tuttavia, una definizione del feticcio è quella per cui, come dici tu, le relazioni astratte appaiono concrete. Appaiono nella forma del concreto. Così, per esempio, il processo di creazione del plusvalore appare come un processo materiale, il processo lavorativo. Appare come se fosse tecnico-materiale, anziché plasmato dalle forme sociali. Eppure ci sono anche dimensioni astratte e regolarità che non appaiono nella forma del concreto. Sottolineo questo in quanto alcune forme reazionarie di pensiero vedono il capitalismo soltanto nei termini di queste regolarità astratte, e rifiutano di vedere che è il concreto stesso ad essere modellato, e ad esserne realmente intriso, dall'astratto. Penso che un bel po' di forme di populismo e di antisemitismo possono caratterizzarsi in tal modo. Ora, non sono sicuro che questa appropriazione delle categorie della critica marxiana dell'economia politica rensa insostenibile una definizione di lotta di classe, ma essa indica che la lotta di classe avviene dentro, ed è modellata da, le forme sociali strutturanti. Questa posizione rifiuta la centralità ontologica del primato della lotta di classe, come ciò che sarebbe veramente reale e sociale dietro il velo delle forme capitalistiche. Piuttosto, la lotta di classe è modellata dalle relazioni capitalistiche espresse dalle categorie di valore, merce, plusvalore, e capitale.

Hamza & Ruda: Una delle tue famose e spesso discusse tesi è che il dominio impersonale nel capitalismo, come ha anche notoriamente affermato Marx, viene esercitato sul tempo e che perciò la critica dell'economia politica ora diventa la critica dell'economia politica del tempo stesso. Per un filosofo standard, educato in quel che era l'idealismo kantiano tedesco, pre-hegeliano, questo può essere tutto tranne che una sorpresa: quel che Kant considerava essere un a priori dato dalla forma di intuizione dev'essere radicalmente storicizzato e quindi potrebbe avere - come si potrebbe sostenere con Sohn-Rethel - uno status aprioristico solo in quanto è stato storicamente posto a priori.
Pertanto, si potrebbe dire, dal tuo punto di vista, che non tutta la storia è storia della lotta di classe, ma che tutta la lotta di classe è lotta di classe sulla storia, e più precisamente sul tempo? In quale trascendentale quadro temporale stiamo vivendo? E cos' il primo passo da compiere per spezzare la  trascendentalizzazione capitalistica del tempo (che rende aprioristico quello che viene chiamato "tempo storico") è dimostrare (per mezzo di quel che Marx chiama "Darstellung") che ciò che noi consideriamo essere naturale (tempo) è esso stesso un prodotto storico, che è come dire : non c'è nessun TEMPO IN QUANTO TALE (il tempo è essenzialmente relativo e non dovrebbe essere naturalizzato). Questa comprensione potrebbe essere la condizione per l'emancipazione rispetto a ciò che appare immodificabile in quanto regime naturale del tempo.

Moishe Postone: Sì, ma vorrei aggiungere che la natura della lotta di classe intorno al tempo cambia storicamente. Vale a dire, si potrebbe sostenere, e sotto molto aspetti alcuni, come E.P. Thompson, lo hanno sostenuto, che gran parte delle prime lotte della classe operaia erano lotte contro il nuovo regime che era stato introdotto. Era una lotta contro il regime di tempo astratto come tempo disciplinare, per così dire. Tuttavia, nello spazio di molte generazioni (e qui certo sono completamente schematico) le lotte della classe operaia divennero lotto all'interno della cornice del tempo astratto stesso, divennero lotte per la lunghezza della giornata lavorativa. In un certo senso, tali lotte presupponevano già l'esistenza della giornata lavorativa, in unità di tempo astratto, e così divennero lotte quantitative all'interno di quella data cornice.
Nei termini di ciò che ho sostenuto circa la possibile abolizione del regime temporale, che io ho riferito alla possibile abolizione del lavoro proletario, la possibilità storica dell'auto-abolizione del proletariato emerge in un modo che potrebbe cominciare a puntare oltre l'esistente quadro temporale. Laddove la lotta di classe industriale, avveniva all'interno di questo quadro temporale.

Hamza & Ruda: Si potrebbe riformulare la cosa in modo tale per cui il proletariato non sta combattendo contro un'altra classe (come la borghesia) ma piuttosto contro il mondo borghese e la sua concezione del tempo, laddove la reale abolizione del proletariato cambierebbe quel mondo reale e laddove cambierebbe la concezione costitutiva del tempo di tale mondo. Potrebbe essere questo il senso?

Moishe Postone: Sicuramente, assolutamente. Per le persone che vivono in un periodo come quello attuale, dove ci sono enormi disuguaglianze, questo diventa più difficile da vedere. Per cui pensano che la lotta sia contro l'1%. Ma sono completamente d'accordo.

Hamza & Ruda: Come si relaziona la tua descrizione del tempo, come "variabile indipendente" o tempo astratto e come "variabile dipendente" o tempo concreto, alla dimensione standard e piuttosto banale di tempo come passato, presente e futuro. Hai indicato che con lo sviluppo della tecnologia un'ora di lavoro può diventare più intensa, più densa, più condensata e tale da essere in una relazione specifica con le forme di tempo storicamente determinate, e sembra esserci un'intensificazione quantitativa che in ultima analisi potrebbe anche portare ad un salto qualitativo nella direzione opposta, cosicché ad un certo punto potrebbe anche sorgere una possibilità di superare e liberare il lavoratore dal lavoro, quando la tecnologia raggiunge un punto dove non c'è più bisogno del lavoratore. Concorderesti con questa ricostruzione banalizzante?
E se è così, e anche in caso contrario, come si relaziona la tua analisi del tempo nel e sotto il capitalismo alle analisi del capitalismo contemporaneo che cercano di dimostrare come il capitalismo sottragga una o anche più di una dimensione di tempo, in maniera tale che c'è una peculiare assenza non solo di futuro (come asserisce l'atteggiamento no-future), ma anche di un vero e proprio presente (e quindi anche di un vero e proprio passato)?

Moishe Postone: Il tempo (i tempi) del capitale consiste di una complessa dinamica, che comporta allo stesso tempo trasformazioni continue ed accelerate, che non sono solo tecnologiche ma riguardano tutte le sfere della vita, da una parte, e la ricostituzione delle basi fondamentali del capitale, dall'altra. Il processo di ricostituzione delle basi del capitalismo nel quadro della critica di Marx è la ricostituzione del lavoro, non solo come fonte della forma valore della ricchezza ma, in maniera relata, del lavoro in quanto attività mediatrice socialmente necessaria che dà luogo ad un'intera struttura di dominio astratto. Ho suggerito come le persone tendano a vedere solo una dimensione di questa complessa dialettica: o si accorgono che più le cose cambiano più tutto rimane uguale, ogni cosa è solo questo continuo deserto informe del presente, oppure si eccitano per come qualsiasi cosa solida si sciolga nell'aria, per come tutto sia accelerazione. L'attuale traiettoria dello sviluppo del capitale dentro il quadro della teoria, come mi risulta - e questo è particolarmente importante -, non dovrebbe essere inteso in relazione né all'una né all'altra ma ad entrambe allo stesso tempo. Questo significa che non si tratta di uno sviluppo lineare. Ci sono crescenti pressioni trasversali, come si direbbe in fisica, che sono interne al sistema. Sia la forma di produzione che il senso delle possibilità storicamente costituite devono essere comprese in riferimento a quello che chiamo le pressioni trasversali degli sviluppi capitalisti. Ha un senso questo?

Hamza & Ruda: Ce l'ha. Così, si potrebbe dire che alcune posizione teoriche contemporanee che appaiono sotto il nome di "accelerazionismo", una posizione che assume che si devono abbracciare le tendenze contraddittorie del capitale ed accelerare la sua produzione a tutti i livelli è soltanto una fantasia di superamento del capitalismo da dentro il funzionamento stesso del capitalismo e che quindi non può non aderire alla sua stessa dinamica?

Moishe Postone: Certo, anche se dovrei disarticolare diversi momenti della tua descrizione che sono stati fusi insieme. Questa dinamica dialettica che ho sottolineato è contraddittoria, cioè, genera e fa crescere una contraddizione fra il potenziale del sistema e la sua attualità. Il fatto che ci sia un limite al capitale non significa che il capitale collassi. Piuttosto il limite è una curva asintotica, che si avvicina sempre più ad un limite assoluto ma non lo raggiunge mai. Se la trasformazione sta per verificarsi, deve verificarsi in quanto le persone catturate nella contraddizione fra ciò che è e ciò che potrebbe essere, guardano a quel che potrebbe essere, al futuro, piuttosto che restare fissati su quel che pensano fosse il passato.
In un certo senso, gran parte della sinistra, a tal riguardo e da questo punto di vista, sta diventando conservatrice. Quel che voglio dire con questo è che il loro punto di vista è il passato. Nel 19° secolo, per esempio, molti movimenti anticapitalisti guardavano al passato. Conservavano un'immagine glorificata della società contadina, della sua organizzazione. Tale società non è mai esistita, ovviamente. Ed è stato il lavoro di intellettuali legati al movimento della classe operaia che ha visto molto chiaramente che non c'era modo di tornare indietro. Tuttavia, molti di quelli vicini ai movimenti della classe operaia, basandosi in parte sulla lettura del Manifesto Comunista, assumevano che la classe operaia si sarebbe ampliata indefinitamente ed avrebbe compreso la maggior parte delle persone. Alla fine, la società sarebbe stata composta da un 1% di borghesia ed i lavoratori avrebbero preso il sopravvento. Questo, pero', non è avvenuto e non avverrà. E quello di fronte a cui ci troviamo oggi è una crisi della classe operaia tradizionale e del lavoro. Eppure c'è ancora un pensiero di sinistra che glorifica ancora il lavoro proletario, che ha ancora implicitamente una concezione di società basata sulla piena occupazione - cosa con cui intendoo piena occupazione proletaria. Oppure, più socialdemocraticamente, guardano indietro al successo della sintesi fordista-keynesiana dei decenni del dopoguerra, in cui erano occupate molte più persone, in cui i salari erano più alti, in cui le disparità di reddito non erano nemmeno lontanamente così grandi come lo sono oggi, e vorrebbero vedere una ritorno a quel genere di utopia socialdemocratica. Ma, non c'è ritorno. E un'analisi ad occhi aperti del capitale indicherebbe che a quello non si torna e che coloro che insistono ancora a parlare di piena occupazione industriale ecc. sono, in un certo specifico senso, dei reazionari. Stanno guardando indietro ad un passato che non può più essere ristabilito. D'altra parte, la risposta non è semplicemente quella di abbracciare il capitale. Il capitale non sta andando a realizzare il potenziale che genera e non può farlo. Il capitale è enormemente distruttivo così come è generatore di possibilità che puntano al di là di esso. Ci deve essere un reorientamento del pensiero verso una differente concezione del futuro. Dobbiamo superare 150 anni di pensiero di sinistra e cominciare a considerare quello che è esistito come un filone minore, e cominciare a pensare a cosa potrebbe somigliare il lavoro post-proletario. Persone come André Gorz si sono occupate di simili questioni ma, tranne che fra gli intellettuali universitari, sono stati parecchio emarginati.

Hamza & Ruda: In "History and Helplessness" tu approcci la categoria critica di indeterminazione come un obiettivo di lotta politica e sociale, piuttosto che in quanto categoria di analisi sociale. Piuttosto che assumere che c'è una classe o un gruppo sociale intrensicamente libero da certe determinazioni sociali, tu evochi la produzione di indeterminazione come un importante risultato dell'azione politica. Potresti elaborare questo punto ed integrarlo con un'analisi del suo opposto: il luogo di indeterminazione nella struttura sociale capitalista, e la lotta per le diverse forme di determinazione come dimensione dell'azione politica?

Moishe Postone: Non sono sicuro su questa questione, in quanto non sono sicuro di avere sostenuto che l'indeterminazione sia una caratteristica della lotta politica e sociale. Se potessi approfondire un po' di più, la questione mi sarebbe più chiara.

Hamza & Ruda: Quello che ci chiedevamo era che cosa potrebbe occupare il posto che ora è occupato dal lavoro?

Moishe Postone: Capisco. Ci può essere un malinteso. Quando reagisco contro quello che un tema popolare in gran parte del pensiero post-marxista, fra gli accademici post-strutturalisti e soprattutto decostruzionisti, ciò riguarda l'indeterminatezza stessa in quanto segno della possibilità di resistenza: mostrare che la realtà è indeterminata, significa mostrare che la resistenza è possibile. E non voglio che la mia posizione venga confusa con quel genere di posizione. In quanto per me il loro concetto di indeterminatezza è troppo indeterminato, proprio come è politicamente molto indeterminata la loro idea di resistenza. Quel che abbiamo visto negli ultimi decenni sono molte forme di "resistenza" che sono reazionarie. Lo stesso termine di "resistenza" non dice niente in termini di emancipazione. Per cui non condivido quel genere di visione. Quel che cercavo di dire in quel saggio è che, già mezzo secolo fa, sono emerse nuove forme di movimento e di movimenti di studenti che erano globali.
In un certo senso quei movimenti erano espressione dell'inadeguatezza delle precedenti analisi di quale fosse la natura della lotta, di chi dovesse essere il soggetto della lotta e, cosa più importante, quale sarebbe stato il possibile risultato della lotta. E ho detto che tutte queste certezze si erano sbriciolate. Ma questi nuovi movimenti non sono mai diventati abbastanza storicamente auto-consapevoli da cogliere che cosa avessero espresso storicamente, o meglio ancora, ciò di cui essi erano espressione storica. Vale a dire, essi non sono diventati consapevoli della loro situazionità storica. Credo ci sia stata codardia, teoricamente. Anziché ripensare cos'è il capitale, quale fosse il significato di questi movimenti post-proletari, e come essi suggerissero un diverso tipo di lotta anti-capitalista che puntava oltre una differente concezione di post-capitalismo, gran parte di quei movimenti sono diventati un movimento amorfo rivolto all'anti-imperialismo, e con questo non intendo lotta anti-coloniale di per sé, che io ho sostenuto. Piuttosto, era un modo di cogliere il mondo in termini di dominio concreto e di liberazione concreta. (Penso sia significativo che il carattere miserabile della maggior parte dei regimi post-coloniali non sia mai stato oggetto di analisi critica della maggior parte della sinistra). L'altra svolta rispetto al problema del dominio concreto in seguito agli anni 1960 è stata il sostegno alle lotte dei dissidenti nell'Est Europa. E ancora una volta, non è che io non simpatizzi con quelle lotte. Ma nonostante il fatto che tali lotte e le forze anti-imperialiste appaiono rappresentare due campi completamente opposti, ciò che avevano in comune era un focus sul dominio concreto. Se in un caso, si trattava di quello che chiamavano imperialismo, nell'altro si trattava del dominio del sistema statale dei Soviet. E in entrambi i casi si trattava di un focus sul dominio concreto, la cui distruzione avrebbe dovuto essere in qualche modo generativa di società civili di emancipazione. Entrambi indicavano un allontanamento dal compito storico di comprendere la nuova fase del capitalismo con le sue ancora più astratte forme di dominio.

Hamza & Ruda: Solo un punto, collegato a questo. Avresti detto: ci sono stati alcune descrizioni di movimenti di studenti più nuovi, come il movimento Occupy, dove le persone hanno evidenziato che un punto di forza di quel movimento è stato o è provenuto dalla loro assoluta indeterminatezza, almeno all'inizio. In maniera tale che non hanno sollevato alcuna richiesta specifica, eppure la reale debolezza di quel movimento è stata tale reale indeterminatezza, per cui è difficile determinare il punto preciso in cui l'indeterminatezza è ancora produttiva o smette di esserlo. Sei d'accordo con questa descrizione?

Moishe Postone: Non sono un grande fan dell'indeterminatezza del movimento Occupy. Si potrebbe affermare che se il concetto di futuro è indeterminato, allora il movimento dev'essere indeterminato. Ma quel che il movimento ha fatto è stato di scivolare indietro su un territorio del tutto familiare. Ad esempio, al posto del capitale, si è avuta una critica della finanza, cosa che per me è politicamente molto ambigua. Inoltre, una delle grandi debolezze di questi movimenti informali indeterminati è che ci sono dei leader autonominati che non sono responsabili nei confronti di nessuno. Ritengo che la forma anarchica sia fondamentalmente più autoritaria di una forma strutturata, in quanto non c'è responsabilità. Alla fine, il focalizzarsi di Bernie Sanders sulle politiche commerciali in quanto responsabili per la perdita dei posti di lavoro manifatturieri è un altro esempio di rivolgersi al concreto per spiegare quegli sviluppi che richiederebbero una teoria del capitale. La miseria della classe operaia negli Stati Uniti è stata aggravata dalle politiche commerciali, non è stata creata da esse. Cioè, le persone cui Sanders faceva appello e, in un modo diverso, cui Trump si rivolgeva sono persone cui è stato detto che ci sono degli atti concreti e delle persone concrete che sono responsabili per quello che è lo stato del mondo. Se, con la spiegazione razzista e xenofoba di Trump, si tratta dei messicani e dei musulmani ecc., per la sinistra populista sono le banche ed il commercio. Se non fosse per "loro", in America avremmo dei posti di lavoro. Ebbene, i posti di lavoro in America non stanno per tornare. Le ragioni hanno molto più a che fare con la logica del capitale, che con le politiche commerciali. Ma invece di pensare al modo in cui dobbiamo confrontarci con una società in cui il lavori manifatturieri stanno scomparendo, di pensare al fatto che la responsabilità del governo riguarda una situazione nuova, la sinistra populista evita tali questioni. Perciò non penso che Occupy sia un modello. È un'espressione di impotenza e di rabbia. Per cui abbiamo da una parte élite di tecnocrati, e dall'altra rabbia populista. Che naturalmente, come sappiamo, scorre anche attraverso tutta l'Europa.

Hamza & Ruda: In "Time, Labor and Social Domination" elogi la lettura epistemologica fatta da Sohn-Rethel delle categorie di Marx, un coraggioso tentativo di pensare le irriducibili astrazioni implicate nella forma-merce. mentre allo stesso tempo ne prendi le distanze, in quanto Sohn-Rethel privilegia lo scambio sulla produzione, e per la sua separazione della merce-scambio dall'emergere storico del modo capitalista di produzione. Tuttavia, c'è ancora un terzo aspetto del progetto di Sohn-Rethel, menzionato di sfuggita nel tuo libro: la dimensione produttiva, o addirittura emancipatrice, di astrazione ed alienazione (ad esempio, nelle astrazioni scientifiche - ma anche nel lavoro militare disciplinato, nell'organizzazione sociale complessa, ecc.). Questo potrebbe forse sviluppare ulteriormente la tua critica di Sohn-Rethel ed approfondire la tua posizione per quel che concerne il potenziale di emancipazione della dimensione dell'astrazione?

Moishe Postone: Beh, se posso tornare a quel che stavo dicendo prima, quel che ho cercato di ottenere è un modo di vedere la sfera della produzione nell'analisi di Marx come un luogo di dinamica storica. Non semplicemente un luogo dove vengono prodotte le cose concrete e dove le persone vengono sfruttate. Mi sembra che un bel po' di persone, incluso Michael Heinrich, fraintendano del tutto cosa sia la sfera della produzione. Nella critica di Marx, la sfera della produzione è la sfera della dinamica storica, è la sfera in cui il valore eccede sé stesso e ancora ricostituisce sé stesso. E focalizzandosi sullo scambio, Sohn-Rethel in un certo senso rimuove tale dinamica dalla ricerca, e cade preda di un'opposizione la quale - anche se Sohn-Rethel era molto sofisticato e non può essere assolutamente gettato nello stesso cestino intellettuale degli stalinisti - oppone la produzione allo scambio. Ed io critico questa posizione - e non perché glorifichi la produzione ma in quanto egli colloca il luogo dell'astrazione solo nello scambio. Penso che sia un grave errore, perché il luogo reale dell'astrazione è la dinamica storica. Eppure questo è molto più difficile da comprendere dell'idea dell'astrazione del mercato. Uno dei risultati è che tuttavia non c'è differenza storica in Sohn-Rethel fra la filosofia greca e la filosofia del 17° secolo ed il pensiero del 19° secolo. È tutto modellato dall'astrazione reale dello scambio. Ed io penso che per quanto ricco e suggestivo sia il suo lavoro, questo è un punto debole. D'altra parte, e questo attiene alla tua domanda, diversamente dai romantici, Sohn-Rethel dice che c'è una dimensione positiva nel regno dell'astrazione. Sono d'accordo con lui, ma vorrei modificare leggermente questo: il regno dell'astrazione generato un quanto parte dell'ascesa del capitale è universalizzante. Tuttavia, lo è in un modo che nega la particolarità. È parte di un sistema caratterizzato da una dicotomia e da un'opposizione polare fra l'astratto universale e lo specifico particolare. L'astratto universale ha una dimensione emancipatrice. L'universalità astratta della forma sociale costituisce la cornice storica dentro cui emergono, tutti dagli ideali dell'Illuminismo, categorie come diritti umani generali o i diritti dell'uomo. Dall'altra parte, è una forma di universalità che necessariamente astrae da ogni cosa particolare. Il capitale genera un sistema tipicamente dall'opposizione dell'universalità astratta, la forma valore, e della particolarità specifica, la dimensione del valore d'uso. A mio avviso, piuttosto che vedervi un movimento socialista o emancipatore come hanno fatto gli eredi dell'Illuminismo, come ha fatto il movimento classico della classe operaia, un movimento critico oggi dovrebbe impegnarsi in una nuova forma di universalismo che comprenda il particolare, piuttosto che esistere in opposizione al particolare. Questo non sarà facile, dal momento che oggi una buona parte della sinistra si é spostata verso la particolarità anziché cercare di trovare una nuova forma di universalismo. Penso che questo sia un errore fatale.

Hamza & Ruda: Il tuo lavoro è uno dei pochi - forse insieme alla teoria dei "modi di relazionarsi" di Kojin Karatani - a criticare la "metafora architettonica" che pensa la logica dei modi di produzione in termini di base/sovrastruttura senza arretrare sul terreno della centralità della critica dell'economia politica. Che cosa rimane della teoria dei "modi di produzione" quando non ci allontaniamo dall'oggettivo per andare verso il soggettivo, ma quando piuttosto evidenziamo, come tu suggerisci, la costituzione simultanea delle dimensioni soggettive ed oggettive della vita sociale sotto il capitalismo - e in che modo questo influisce sul concetto stesso di critica?

Moishe Postone: Anche in questo caso, penso che ci siano molte cose che sono coinvolte. Per prima cosa, metto in discussione il materialismo storico - che in realtà non è stato creato da Marx, ma in seguito e in gran parte da Engels - cioè, l'idea per cui ci siano modi successivi di produzione. Penso che analizzando le argomentazioni di Marx nel Capitale venga messo in discussione il concetto che ci sia un modo unificato di produzione prima dell'emergere storico del capitale, il quale è unificato nel senso che si può cominciare da un principio singolare, la merce, per spiegare e comprendere il tutto. Non si trova niente di analogo nelle altre forme di vita sociale, in parte perché la possibilità di spiegare il tutto sociale a parte da un punto di partenza singolare è possibile solo in quanto, nel capitalismo, il modo di mediazione è uniforme. È questa la lezione della forma merce. Nessun altra società ha una forma di mediazione omogenea, uniforme, perciò diventa veramente fuorviante parlare dei primi modi di produzione. E' legittimo dire che certe economie, come quella dei Romani, erano in larga misura basate sugli schiavi, ma la schiavitù non occupava lo stesso posto che ad esempio occupa sotto il capitalismo, dove è parte di un sistema molto più grande. Non c'è un sistema simile a Roma o nel Medioevo o in Cina. È molto più eterogeneo. Dimentichiamoci del concetto di base/sovrastruttura. È stato talmente frainteso, che è meglio liberarsene. È stato frainteso in quanto relazione fra oggettività e soggettività, mentre invece l'unica volta in cui Marx lo ha utilizzato, è stato a proposito dell'istituzionalizzazione delle forme di pensiero, che è una cosa diversa. Egli si riferiva, ad esempio, all'istituzionalizzazione giuridica, non alla forma del pensiero in sé. La forma di pensiero è intrinseca alle forme sociali. Cosa rimane della critica? Innanzitutto, dev'essere riflessiva. Se le categorie sono tanto categorie del pensiero quanto sociali, la stessa cosa vale anche per il pensiero critico. Nessuna forma di pensiero ha validità trans-storica. Non puoi sostenere che tutti gli altri siano formati socialmente, e presumibilmente ingannati, mentre io non sono socialmente formato e sto al di sopra ed al di là di tutti gli altri. Il linguaggio dei modi di produzione, che è un linguaggio trans-storico, permette a tale epistemologia trans-storica di sgattaiolare dalla porta sul retro. Quindi è meglio non averlo. L'approccio che ho delineato significa che la teoria critica è valida solo fino a quando esiste il suo oggetto. Non c'è e non ci può essere una cosa come una società marxista, a parte il capitalismo, naturalmente.

Hamza & Ruda: In generale, c'è un grande scisma fra, da una parte, il lavoro di svolgere una critica sia categoriale che settoriale dell'economia politica, e, dall'altra, la lotta di diversi fronti politici e militanti che di solito si basano su analisi locali della loro situazione politica. Come vedi oggi la relazione fra la critica dell'economia politica e l'organizzazione politica militante?

Moishe Postone: Da un lato non ci si può aspettare che le persone che cercano di elaborare una critica categoriale si trovino sempre nella prima linea dei movimenti e non ci si può aspettare che persone che sono più inclini all'attivismo possano essere dei grandi teorici. Ci possono essere delle eccezioni, ma generalmente non è così. Tuttavia, si può sperare che uno dei ruoli della teoria, e questo anche se appare modesto è molto importante, sia quello di mostrare quali percorsi sono chiaramente sbagliati. Si può spendere un sacco di energia e di forze nei percorsi sbagliati. Ricordo di aver discusso negli anni 70, con delle persone sia negli Stati Uniti che in Germania, sul fatto che un movimento di ritorno alla "natura" dove ciascuno poteva mungere la propria mucca era soddisfacente a livello personale e si trattava di un modo di vivere che era ricco e appagante. Ma questo non poteva servire in alcun modo come modello per una società. Nella misura in cui le persone promulgano questo ideale romantico, distolgono le forze di opposizione, i gruppi, i pensatori, dal cercare di combattere per la definizione di quale possa essere un percorso adeguato. Perciò, uno dei compiti più importanti della teoria forse non è tanto quello di indicare quale sia la strada per la rivoluzione, quanto indicare quali strade non portano ad una trasformazione emancipatrice. Ad esempio, questo discorso avrebbe potuto essere fatto nei confronti di Occupy.

Hamza & Ruda: La tua tesi, in " The Holocaust and The Trajectory of the Twentieth Century", secondo la quale i campi di concentramento andrebbero piuttosto compresi come "grottesca negazione anti-capitalista" della modernità capitalista - una sorta di «fabbrica della "distruzione del valore" (...) della distruzione della personificazione dell'astratto» - è una esempio convincente della tesi, presentata in "Time, Labor and Social Domination", secondo cui la dialettica capitalista di trasformazione/ricostituzione è di fatto un'espressione dell'intreccio di due forme di dominio, la prima basata sul tempo astratto, e l'altra sul tempo storico. Da questo potrebbero essere estratte conseguenze cruciali, soprattutto per quanto riguarda la critica di progetti emancipatori che basano le loro aspettative per il futuro sulla liberazione del "concreto"  e dello "storico" dalle grinfie dell'astrazione. Come influisce, la tua analisi delle categorie del tempo e della temporalità, sulla dialettica fra utopia e ideologia?

Moishe Postone: È un avvertimento. Quello che ho cercato di fare nel saggio sull'Olocausto cui ti riferisci sono due cose insieme. Ho cercato di aiutare le persone a capire che c'è una differenza fra l'omicidio di massa e lo sterminio. Non si tratta di una differenza morale. Non è che una cosa sia peggio o meglio dell'altra. Proprio analiticamente, non puoi capire l'Olocausto se lo sussumi sotto le categorie di xenofobia, odio razziale ed omicidio di massa. Voglio dire, ha un senso di missione e di obiettivo che le altre forme di razzismo non hanno. Non solo, è utopico. È utopico nel senso che tenta di liberare il concreto dalle grinfie dell'astrazione. Questo concetto di emancipazione ha dato forma alla cosiddetta "Rivoluzione Tedesca" dei nazisti. Gli ebrei, in questa visione del mondo, diventano in un certo senso non solo la personificazione del capitale, ma anche la fonte del suo dominio astratto. Penso che l'Olocausto dovrebbe servire come monito significativo contro tutte le forme di utopia che reificano il concreto e denigrano l'astratto - anziché vedere che entrambi, l'astratto ed il concreto, così come la loro separazione, sono ciò che costituisce il capitale. Questo è il primo punto. Il secondo è che il capitale (e questo si basa sulla mia lettura di Marx), non è semplicemente un vampiro astratto seduto sulla cima del concreto, per cui ci si potrebbe semplicemente sbarazzare di esso, come prendere un'aspirina. Nell'immaginario, il capitale è considerato estrinseco rispetto al concreto, alla produzione o al lavoro. Il capitale, tuttavia, in realtà modella il concreto. Svuota il lavoro, incrementando la sua significatività. Allo stesso tempo è una forma alienata di socialità umana, di capacità umane. Come tale, genera forme socialmente generali di conoscenza e di potere, anche se le genera storicamente e in una forma che opprime il vivente. Eppure, sotto molti aspetti, è proprio questo che diventa la fonte delle possibilità future. Cioè, il lavoro vivente (proletario) non è la fonte di possibilità storiche future. Piuttosto, tale fonte è quello che è stato costituito storicamente come capitale. Ora lo so che questo suona come se io stessi capovolgendo ogni cosa. Sto dicendo che la categoria del lavoro vivente in Marx non è la fonte dell'emancipazione. Lo è, piuttosto, il lavoro morto. Forse questo può sembrare una provocazione, ma è ciò su cui si deve riflettere.

Hamza & Ruda: Pensi o vuoi sostenere che ogni cambiamento fondamentale nelle dinamiche e nella struttura del capitalismo sia sempre qualcosa di pericoloso, non solo nel senso che minaccia di ricadere sempre in quello che si vorrebbe superare, ma anche nel senso che stiamo correndo il rischio di peggiorare? Si potrebbe pensare con Walter Benjamin che diceva che dietro ogni fascismo c'è una rivoluzione fallita. E vorresti dire che, nondimeno, bisogna assumersi il rischio di fallire nel rivoluzionare (e quindi il rischio del fascismo) o qualcosa è cambiato con e dopo il 20° secolo (di modo che l'imperativo è piuttosto e sempre che per prima cosa bisogna evitare il rischio del fascismo e quindi bisogna ripensare rivoluzione e trasformazione politica sotto questa prospettiva)?

Moishe Postone: Penso che si tratti di una serie di problemi molto complicati. Da una parte, non penso che il rischio del fascismo, che è un rischio assai grande, sia tale che non dovremmo cercare di cambiare niente. In quanto non è che noi viviamo in un sistema statico che possa funzionare abbastanza bene da solo, senza che si creino problemi. Piuttosto, i problemi si creano, si creano a partire dagli sviluppi storici strutturali. C'è un pericolo reale di fascismo, e qui è dove l'analisi comunista riduzionista del fascismo ci ha reso un tremendo cattivo servizio. Il fascismo non è semplicemente un movimento manipolato dalla classe dominante reazionaria, non è semplicemente un'espressione del declino delle classi tradizionali. Piuttosto il movimento verso un nuovo fascismo esprime in parte la sofferenza provata dalle persone come risultato della trasformazione del capitale in assenza di un movimento politico che dia un senso a quella sofferenza in dei modi che non siano antisemitici né del ruolo del capro espiatorio giocato da vari gruppi in maniera xenofobica o razzista. Penso che questo sia particolarmente attuale oggi. Un fenomeno come Donald Trump, alcune ali dei supporter di Bernie Sanders, il movimento per il Brexit, la destra in Francia - queste non sono più espressioni delle classi tradizionali reazionarie, ma in gran parte espressioni delle classi lavorative industriali in declino. Non è sufficiente, per la sinistra, chiamarli semplicemente razzisti, xenofobi e gretti. E sarebbe un terribile errore adottare opportunisticamente la loro mentalità, anche se si prende sul serio la loro miseria. In questo caso non ci si sta confrontando in modo adeguato con la crisi del capitale industriale. Abbiamo invece bisogno di un altro modo di vedere il mondo, al di là delle politiche identitarie sia della sinistra che della destra. In quanto membri di una configurazione cosmopolita, non possiamo semplicemente dire che il multi-culturalismo è figo perché ci piace molto camminare per le strade di una citta come Londra, che è una vera metropoli, e fare esperienza in mille modi della globalità di tutto quanto. Non possiamo semplicemente cancellare tutto quello che si trova nel nord dell'Inghilterra. Il fatto che abbiano commesso un errore non significa che non ci siano buone ragioni per loro di sentirsi radicalmente insoddisfatti. Così, il nuovo pericolo del fascismo, e ora sto usando "fascismo" in un senso molto lasco, è generato dalla sofferenza e dalla miseria causata dalla dinamica del capitale. È accaduto che molti, a sinistra, hanno cercato di affrontare la natura del capitalismo di essere soggetto alle crisi, per mezzo di un programma di piena occupazione e attraverso forme di previdenza sociale che si basavano su tale piena occupazione. Questo non funziona più. Non sto denigrando tale programma perché era riformista. A suo tempo, aveva perfettamente senso. Tuttavia, ora non ha più senso. Così. la sinistra ha sempre meno da dire in termini di analisi della situazione - se non presentarsi come anti-razzista, cosmopolita e globalizzante. Tutto ciò che sta facendo è creare rabbia da parte di coloro che attualmente soffrono i colpi dell'economia globalizzata.

Hamza & Ruda: Si prende sul serio chi non può essere preso sul serio. E così possiamo dire che l'unica articolazione politica che viene data a quel tipo di insoddisfazione è una sorta di fascismo, e si puo anche vedere un fallimento della sinistra che ha qualcosa a che fare con questo?

Moishe Postone: Si.

Hamza & Ruda: Una delle posizioni prevalenti a sinistra è l'idea che abbiamo bisogno di nuove forme di organizzazione politica che privilegi l'immanenza sulla trascendenza, la molteplicità sull'unicità - ed il concreto, impegno locale sulle mediazioni astratte. Quali sono, a tuo avviso, i limiti degli strumenti tradizionali di lotta della sinistra (forma partito, sindacati, ecc.)? Inoltre, la tua critica della visione teleologica del proletariato implica una concezione populista della costruzione di agenti politici?

Moishe Postone: Credo di aver già toccato questi argomenti in parte. Privilegiare l'immanenza sulla trascendenza, la molteplicità sull'unicità, e l'impegno concreto locale sulle mediazioni astratte significa semplicemente solo prendere uno dei poli della dicotomia costituita dal capitale. Così, quello cui purtroppo stiamo assistendo troppo spesso è un dibattito fra intellettuali globalizzanti ed élite economiche che rappresentano il lato astratto, da una parte, e gli attivisti reazionari ed anche i populisti di sinistra che prendono il lato concreto, dall'altra parte. Non si considera la relazione del determinato concreto e del determinato astratto in dei modi che potrebbero quanto meno puntare alle forme di trascendenza immanente o di immanenza trascendente, né un universalismo che contiene delle particolarità o un particolare che anziché essere settario è un particolare che in sé stesso è diventato più universale. Non possiamo semplicemente adottare una posizione che si allinei alle particolarità, che guarda alle varie usanze e pratiche altrove nel mondo e semplicemente dice che questa è la loro cultura. E neppure possiamo loro semplicemente imporre qualcos'altro. Innanzitutto quello che viene considerato come la loro cultura molto spesso è stata solamente una loro reazione moderna negli ultimi 100 o 150 anni alla sconfitta ed alla perdita di potere, che rappresenta sé stessa come un ritorno ai "fondamentali autentici". Ma non è così. In ogni caso, tali "fondamentalismi" dovrebbero essere letti come reazioni ad un mondo globalizzato, ed essi hanno alcune caratteristiche che coincidono con le caratteristiche del fascismo. C'è il pericolo che la sinistra possa cadere nel buco del coniglio. La sinistra deve cominciare a verificare il potenziale di emancipazione della globalizzazione. Molti lo assumono senza prendersi la briga di analizzare realmente la propria forma di vita, e ciò che questo implica relativamente ad un'altra forma di globalizzazione, forse una forma più emancipatrice di globalizzazione. Quella che chiami la svolta all'immanenza ed al particolare è essenzialmente romantica ed è stata una caratteristica del capitalismo negli ultimi 200 anii e continuerà ad essere una caratteristica del capitalismo. Viene generata dal capitalismo stesso, così come l'astratto universale, contro cui reagisce. E le forme puramente anarchiche di organizzazione non riusciranno mai a svolgere questo compito storico. Dobbiamo cercare di sviluppare nuove forme di organizzazione, che siano realmente organizzate. Suggerisco che un'organizzazione ha più possibilità di sviluppare una significativa democrazia interna rispetto alla maggior parte delle modalità anarchiche.

Hamza & Ruda: In "Time, Labor and Social Domination" sostieni ad un certo punto che si potrebbe paragonare strutturalmente e sistematicamente l'affermazione di Hegel secondo cui l'Assoluto è sostanza ma anche soggetto, alla determinazione di Marx del capitale in quanto valore auto-valorizzante in cui il capitale sarebbe per l'appunto l'anonima, impersonale forma di dominio che è tanto la sostanza quanto il soggetto del capitalismo. In Hegel, questa storia dello spirito (ed anche lo spirito Assoluto . vale a dire, l'Assoluto in quanto spirito) arriva necessariamente ad una fine (che per lui è precondizione perché continui in maniera non-predeterminata). Intendi che si potrebbe dire qualcosa di simile anche per Marx? Potrebbe essere che bisogna prima abbracciare - come sembra fare Jean-Pierre Dupuy, il teorico france delle catastrofi - la fine (del capitalismo e dell'emancipazione, ecc.) per poter ottenere in ultima analisi una nuova prospettiva riguardo l'emancipazione?

Moishe Postone: Non credo che il capitale come il Geist arrivi necessariamente ad una fine. Una delle differenze importanti fra Hegel e Marx è che per Hegel l'arrivo di una fine implica la piena realizzazione della totalità Per Marx, se il capitale arriva ad una fine, questo non comporta che realizzi sé stesso, ma lascia il posto ad una nuova forma di vita che è stata resa possibile e concepibile dal capitale stesso. Ciò comporta il superamento del capitale sulle basi del capitale. La comprensione anarchica di una società emancipata è di solito quella di un modello locale. Non so come uno si immagini che un pianeta che è stato costituito storicamente ora torni alle comunità locali che hanno tenui relazioni con altre comunità che non sono vicine. Penso che l'anarchismo oggi possa essere visto come una fuorviante ma comprensibile reazione al tipo di burocratizzazione della società civile e dello Stato che è caratteristica del capitalismo avanzato. Ma non è adeguato alla catastrofe verso cui stiamo andando. Penso che ci sia una ragione per cui sono stati realizzati tanti film distopici ultimamente. Quella che possiamo avere è un'immagine del completo collasso sociale. Il capitalismo non collasserà necessariamente economicamente, in quanto sistema di mediazione sociale della ricchezza. Ma la società cui ha dato origine collasserà. Il risultato potrebbe essere una forma di vita sociale allo stesso tempo hobbesiana - violenta cattiva e breve (penso a Mad Max) - e militarmente controllata. Ci troviamo alla vigilia di questo collasso sociale. Lo dico anche se non sono affatto un amico delle teorie della catastrofe. Non amo le visioni apocalittiche, in genere sono state sempre distruttive.

Hamza & Ruda: Dupuy fa un ragionamento leggermente diverso in quanto sostiene che la strada che porta al nostro futuro è parte della catastrofe che sta già avvenendo. Afferma che il nostro modo di affrontare la crisi ecologica si basa su una struttura di calcoli che deve rimanere stabile e noi stiamo agendo assumendo che sia così e che non ci sia alcun punto di non ritorno che una volta raggiunto cambierebbe il quadro. Ma potrebbe esserci un punto di irreversibilità proprio come effetto del nostro modo di affrontare la catastrofe che vogliamo prevenire (assumendo che possiamo gestirla), poiché la catastrofe avverrà sicuramente se noi cerchiamo di prevenirla nel modo in cui lo stiamo facendo.

Moishe Postone: Questo ha per me più senso. Ma, le persone che sostengono l'importanza di limitare l'aumento delle temperature di due gradi sono a conoscenza di un dilemma. Se dici a tutti che ora la catastrofe ambientale è irreversibile, questo potrebbe indurre le persone a rifiutare tale posizione come semplicemente allarmista oppure potrebbe indurle a dire che non c'è niente da fare. Le persone che conosco e che pensano che ci sarà sicuramente una catastrofe fanno parte dell'ala destra dei "survivalisti" americani, che costruiscono i propri rifugi sotterranei, rifornendoli con un sacco di cibo, armi, ecc.. Questa può essere ridicola come risposta, ma è una risposta immediata. Non è propriamente quello di cui sta discutendo Dupuy. Ma mi sembra che ci troviamo di fronte ad una catastrofe e che essa può essere ostacolata solo se le persone comprendono che si tratta di una vera e propria catastrofe, e non penso che si dovrebbe abbracciare una catastrofe.

Hamza & Ruda: Prima hai detto che gli ebrei divennero l'oggetto di un dominio astratto. Potremmo forse fare un paragone con la crisi dei rifugiati?

Moishe Postone: Non lo penso. Ma questo non significa che razzismo e xenofobia nei confronti degli emigranti non sia reale e reazionario e che non sia un problema reale. Ma penso che l'antisemitismosia veramente qualcos'altro e che la sinistra sia insensibile rispetto a questo. L'antisemitismo attiene a chi controlla il mondo. Nessuno pensa che i rifugiati siriani, afgani o i africani controllino il mondo. Vengono considerati una minaccia per il proprio modo di vita. Questa è una cosa diversa. Assomiglia più a come i bianchi del sud negli Stati Uniti considerano i neri in quanto minaccia al loro modo di vita se ottengono pieni diritti civili. C'è una differenza. Nessuno nel sud ha mai pensato che i neri governino il mondo. Nessuno pensa che i rifugiati governano il mondo, che si trovino dietro le banche, per esempio. Se nella cornice di questo modo populista di pensare qualcuno domina il mondo è l'America ed Israele e questo ha molto a che fare con l'antisemitismo. Fare questa distinzione non significa dire che l'antisemitismo è male ed essere contro i rifugiati non è poi così male. È molto male, e le persone lo usano come un modo per dare senso alla miseria delle loro vite. La miseria ha molto a che fare con le politiche di austerità europee quanto con la crisi strisciante del lavoro proletario, di cui ora i rifugiati stanno diventando le vittime involontarie.

Hamza & Ruda: Un'ultima domanda sulla Brexit, appena avvenuta. Proviene da un movimento nazionalista, che è peculiare in quanto sembra che quello che vuole riguadagnare è la sua autonomia. Ma tuttavia saranno del tutto dipendenti dalle politiche dell'Unione Europea. Così sembra che la Gran Bretagna sia uscita dalla possibilità di essere ancora in grado di influenzare il quadro politico che continuerà a condizionarla. Che ne pensi di questa situazione?

Moishe Postone: Direi che mi ha colpito, ed io non sono un esperto di queste cose, guardando alle varie opinioni, sondaggi e grafici, non solo a causa delle differenze demografiche (Londra, la Scozia sono per l'Europa ed il resto dell'Inghilterra ed il Galles, sorprendentemente, sono per uscirne, e l'Irlanda del Nord per l'Europa - potrebbe significare la fine del Regno Unito), ma per il fatto che per le persone che volevano rimanere, per loro i problemi principali erano quelli economici. Per quelli che volevano uscire, sotto sotto, il problema principale era l'immigrazione. In un certo senso, l'immigrazione dev'essere intesa come una metafora. Perché, dopo tutto, quanti migranti arrivano in Inghilterra? Non molti. Sentono anche quello che i tedeschi chiamano “überfremdet” (sovrinfiltrati dallo straniero), ma non a causa dell'arrivo dei siriani, ma in quanto i polacchi e i rumeni sono già arrivati. Durante i periodi di difficoltà economica, è sempre un errore aprire le porte. E una delle ragioni per cui lo dico è che, data le decisione della UE sulla libera circolazione delle persone, il governo britannico ha deciso di non eliminare tale politica, ma di aprire le loro frontiere a tutti i cittadini europei. Se sei un operaio polacco, hai diritto a lavorare in Germania e in Gran Bretagna. Tuttavia, potresti andare immediatamente in Gran Bretagna, mentre ci vorrebbe un po' per andare in Germania, in quanto la Germania ha scelto di regolare il movimento delle persone. Ma questo è solo un livello. Lo scenario reale è che l'economia manifatturiera è in caduta da lungo tempo. Nessuno discute e spiega questo massiccio cambiamento strutturale a coloro che ne vengono colpiti e non si trovano in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, le persone lavorano nell'economia del carbone, e i lavoratori del carbone credono che la loro economia sia in declino a causa dell'ambientalismo e delle regolamentazioni del governo. Nessuno dice loro che oggi viene prodotto molto più carbone che in passato, usando molto meno lavoro. Le imprese nascondono questa cosa accusando il governo. In America, la reazione popolare contro la crisi del lavoro prende la forma del populismo di destra: siamo contro il governo e gli immigranti. In Europa prende la forma di essere contro i migranti ed essere contro l'Europa. Ho avuto solo un piccolo assaggio di stampa britannica. È incredibilmente cattiva. Non stupisce che The Guardian, che non è un giornale così grande, ma è un giornale decente, brilli come un gioiello splendente, un faro contro le bugie razziste xenofobe. Boris Johnson a quanto pare, e sono venuto a conoscenza di questo solo la scorsa settimana, si è fatto un nome lavorando come reporter per il Telegraph negli anni 90, quando si trovava a Bruxelles. E lui è uno di quelli che è venuto fuori con le storie di burocrati senza volto che determinano quanto devono essere grandi i cetrioli o i preservativi. La maggior parte di quello che ha scritto era empiricamente falso, erano sciocchezze, eppure per la stampa britannica la cosa non ha fatto differenza; sono tutti saltati a bordo. Penso che quel che è accaduto è che molte persone si sentono impotenti di fronte a queste trasformazioni strutturali. Allo stesso tempo, l'Unione Europea ha un forte deficit democratico. Ci sono solo due strade da poter prendere. Una è quella di democratizzare l'Europa e l'altra è quella di tornare agli Stati nazionali. A quanto pare c'è poco movimento verso la democratizzazione europea. Così, l'unica altra reazione, che è di frustrazione, è quella di lasciare tutto quanto. Non so se quando i sei ministri si incontreranno, proprio ora a Berlino, questo sia o meno nella loro agenda. O se si limiteranno solamente a punire la Gran Bretagna per essersene andata.

Hamza & Ruda: E allora il pericolo sarebbe quello per cui l'Europa potrebbe andare avanti come se niente fosse successo.

Moishe Postone: Esatto. Proprio come per l'EUro, l'Europa dev'essere fondamentalmente riformata. Ora, non so se ci sia qualche possibilità perché questo avvenga, visto che ci sono 26 paesi ed ogni cosa dece apparire in 26 lingue, e la cultura politica della maggior parte di questi paesi è discutibile.

- Intervista del giugno 2016, pubblicata su "Crisis and Critique Critique of Political Economy" Volume 3, issue 3, del 16-11-2016 -

fonte: Crisis and Critique