venerdì 29 luglio 2016

L'impegno emotivo degli imprenditori sensibili

donne

L'eterno sesso debole
- di Robert Kurz -

Secondo il mito biblico della creazione, la donna nacque nel momento in cui Dio rimosse una costola dall'uomo. Questa immagine patriarcale è ambigua: da una parte, la donna appare essere una semplice appendice dell'uomo; dall'altro lato, però, si vuole sottintendere che l'uomo, nell'essere "scisso" dalla sua parte femminile, rimane ferito e soffre una perdita. Naturalmente, il problema non si situa sul piano dell'anatomia. La "piccola differenza" che ben presto i bambini scoprono nei loro corpi non ci dice niente, essenzialmente, sul modo in cui le attribuzioni culturali e sociali vengono suddivise fra i sessi.

Il dominio maschile (patriarcato) non è dovuto a delle caratteristiche biologiche, ma è piuttosto un aspetto basilare della forma sociale, ed è quindi il risultato di processi storici. Per questo motivo, il patriarcato è ben lungi dall'essersi verificato in tutte le culture. Nella storia, ci sono sempre state società che hanno sperimentato una relazione abbastanza egualitaria fra i sessi. E i confronti interculturali mostrano che anche quelle "qualità" sociali o psichiche che vengono etichettate con apparente spontaneità come "tipicamente femminili" o "maschili", possono apparire sotto forme del tutto contraddittorie in epoche diverse, in differenti strutture sociali e in differenti modi di produzione.
L'universalismo astratto del moderno sistema produttore di merci ha sempre dato l'impressione di essere relativamente neutro riguardo al prisma sessuale. La merce è merce ed il denaro è denaro; dove sarebbe mai inscritta in questo una valorizzazione rispetto al sesso? La sopravvivenza delle strutture patriarcali nella famiglia e nella società poteva quindi sembrare, ad un'analisi superficiale, un mero residuo del passato premoderno. In tal senso, il femminismo ha rivendicato, fin dalla Rivoluzione francese, una "uguaglianza di diritti" così come veniva promesso dalla forma universale dell'economia monetaria moderna. Da questo punto di vista, la riduzione maschile del motto "libertà uguaglianza, fraternità" era un puro arbitrio del dominio maschile ereditato dal passato, in quanto avrebbe dovuto essere ampliato per comprendere non solo una fraternità tra "fratelli", ma anche fra "sorelle".
Fino ad oggi il femminismo come politica non è mai andato oltre l'esigenza della partecipazione femminile all'universalismo del moderno sistema produttore di merci. L'«uomo astratto», l'atomo individuale della società, può essere tanto uomo quanto donna. D'altra parte, la ricerca storica e sociologica femminista ha scoperto da tempo che lo svantaggio e la svalutazione della donna nella modernità, non rappresentano né un "residuo" delle relazioni premoderne né una semplice rivendicazione maschile di potere, ma sono profondamente radicate in queste stesse relazioni moderne. Ciò perché il moderno sistema produttore di merci non è poi così universale come sembra essere. Possiede in un certo qual modo un rovescio, che rimane oscuro nella sociologia ufficiale. Mi riferisco a tutti gli ambiti e a tutti gli aspetti della vita che non si lasciano esprimere in denaro. E questo rovescio del sistema è tutto tranne che sessualmente neutro, in quanto fondamentalmente di tale rovescio le donne sono state rese responsabili.
Si tratta, da una parte, di alcune attività concrete che si svolgono nell'orizzonte domestico, al di là della produzione delle merci: cucinare, lavare, pulire, allevare i figli, ecc.. Da un altro lato, quest'attività, definita come "femminile", trascende l'attività meramente meccanica; la donna deve anche creare un'atmosfera piacevole ed accogliente, in cui non risuoni la tonalità aspra della concorrenza come avviene "nella vita là fuori", come avviene nello spazio pubblico dell'economia, della politica e della scienza. La donna, pertanto, è in un certo qual modo responsabile dello "impegno emotivo", del "lavoro amoroso" dedicato all'uomo e ai figli. Perciò, una delle "virtù femminili" è quella di avere fiuto nelle relazioni personali, essere emotiva e "dolce"; d'altro canto, l'uomo deve fare l'intellettuale, il duro, quello sempre pronto alla concorrenza. Pertanto, non ha bisogno di essere bello, cosa che invece è il primo dovere della donna.

A differenza dell'opinione corrente, la modernizzazione non ha attenuato il patriarcato, ma piuttosto lo ha aggravato. È stata l'economia capitalista che per prima ha scisso in forma così estrema uomo e donna, come se fossero esseri appartenenti a pianeti differenti. Nelle società premoderne ancora non esisteva una divisione rigida fra la produzione di beni e la gestione domestica. Per questo, gli attributi sessuali erano anche meno univoci; le donne avevano il loro posto nella produzione agraria ed artigianale. La moderna economia di mercato, al contrario, ha trasformato la produzione di beni in una sfera economicamente autonoma, in una sfera di massimizzazione imprenditoriale astratta di profitti, e, così facendo, in un aspetto centrale della sfera pubblica borghese dominata dal sesso maschile. Capitalisti ed imprenditori, come è noto, così come i politici, sono soprattutto uomini.
Questa nuova ed aggravata ripartizione funzionale fra i sessi, nella modernità, non poteva essere egualitaria. Le attività ed i comportamenti definiti come "femminili", è vero, sono necessari alla sopravvivenza quanto lo è la produzione di beni, la quale è stata dislocata verso il campo funzionale "maschile" della logica di impresa. Ma alle donne non è stata accreditata la quota di queste attività e comportamenti. Proprio perché sono state rese responsabili per tutto ciò che, per sua natura, non si lascia esprimere in denaro e, pertanto, "non ha valore" secondo i criteri capitalisti, la donna è stata considerata, al pari delle sue sfere di attività, della qualità e virtù assegnatele, come inferiore e secondaria.
È ovvio che, nella modernità, si sono sempre incontrate donne nell'ambiente borghese, sia nelle attività remunerate della sfera economica che nella politica, nella cultura, ecc.. Ma lo stigma del suo deprezzamento sessuale ha perdurato anche in questi ambiti. Una donna che esercita una professione o politicamente attiva non per questo si smarca dai compiti sociali che le vengono assegnati dalla cultura dominante maschile. Continua, in linea di principio, ad essere responsabile della cucina, dei figli e dello "amore", ossia, non viene mai presa sul serio in economia ed in politica. E questo non è solo un modello imposto dall'esterno, ma è anche un aspetto psicologicamente introiettato, alla cui origine c'è la socializzazione femminile. Come tutti sanno, le donne sono fino ad oggi in numero minore rispetto agli uomini nelle attività professionali e pubbliche; assai più raramente degli uomini arrivano ad occupare posizioni di rilievo e, di regola, sono peggio remunerate.

E qui arriva il dilemma de movimento femminista: per superare realmente il patriarcato, avrebbe dovuto mettere radicalmente in dubbio tutto il modo di produzione moderno; ovviamente, non nel senso di un'idealizzazione retrograda delle relazioni agrarie, ma come esigenza di una forma di organizzazione fondamentalmente diversa rispetto alle forze produttive moderne. Dal momento che la razionalità distruttiva e "maschile" della logica imprenditoriale non è stata rotta, devono essere perpetuate anche le forme di attività e le pseudo qualità definite come inferiori e relegate nella sfera privata. Solo superando la scissione strutturale fra una "logica del denaro", da un lato, ed una "mancanza di logica" della vita domestica, dell'impegno personale e dell'emotività, dall'altro, potrebbe fiorire una relazione emancipatrice fra uomini e donne.
Al contrario, un femminismo che si limita all'esigenza dei "diritti uguali" all'interno del modo di produzione dominante finisce necessariamente per soccombere alla forma scissa della vita sociale. Gli appelli per cui gli uomini dovrebbero partecipare in misura uguale alle attività e comportamenti scissi in seno alla vita personale e familiare, sono sempre caduti nel vuoto. Inversamente, la visione femminista si è ristretta sempre più, ed in maniera automatica, alla sfera economica-politica. L'emancipazione femminile non viene misurata dal cambiamento degli uomini nell'ambito privato, ma dal cambiamento delle donne nell'ambito pubblico. Il modello postmoderno non è più la bambolina timida e dolce, ma il tipo androgino della "donna in carriera". Accanto alla bionda ossigenata, alla vamp e alla madre amorevole, fedele casalinga, emerge la banchiera che fa jogging e naviga su Internet, che nel suo cammino di zitella passa, come un uomo, su tutto e su tutti.
Difatti, almeno nelle metropoli del mercato finanziario, sembra crearsi una sinistra convergenza fra i sessi e le loro attribuzioni. Mentre la donna che esercita una professione è obbligata a dimostrare una buona dose di rigore e di "freddezza" emozionale per andare avanti nella vita, la gestione postmoderna ha scoperto, da parte sua, la cosiddetta "intelligenza emotiva" ai fini del calcolo imprenditoriale e della pianificazione individuale del successo nel contesto della lotta di concorrenza. In libri e seminari viene offerto un programma innovativo di formazione per "imprenditori sensibili". "Esperti in emozione" e "studiosi dell'emozione" nascono in massa, chiacchierano senza posa. Si parla sia di una "cultura dell'emozione" che di "imprenditoriato stressato". Si tratta quindi di manipolare e regolare in maniera funzionale le sensazioni soggettive ed i sentimenti stessi. L'emotività fino ad oggi circoscritta alla sfera privata e delegata alla donna, dev'essere assunta a fini capitalisti e dev'essere trasformata, in un certo qual modo, in una formula di successo.

La perversità di questo proposito appare chiare specialmente quando la "tecnologia emozionale" appare come gestione imprenditoriale o politica dei subalterni. L'economista tedesca Hans Haumer, ad esempio, parla in tal senso di un "capitale emozionale" la cui funzione è quella di rendere "guadagni sufficienti". La misura di questo è un "coefficiente emozionale del capitale" che indicherebbe la grandezza secondo cui la "tecnologia umana" della dedizione personale si converte in beneficio del profitto d'impresa. Questo implica il requisito, attraverso la "razionalizzazione emozionale", dell'assoggettamento dei lavoratori alle esigenze della flessibilità imprenditoriale, all'accettazione di eccessi di ogni genere e allo stimolo della produttività individuale. Il capo "emotivamente intelligente" evita attriti personali e trasmette ai lavoratori la sensazione di essere amati e riconosciuti, anche quando li tratta come semplice materiale umano. Il rendimento del "capitale emozionale" raggiungerebbe il culmine dell'efficienza quando le persone, commosse fino alle lacrime, ringraziano l'imprenditore per il fatto di essere stati messi in mezzo alla strada.
Appare evidente, in questo caso, una reintegrazione delle forme di vita e dei comportamenti scissi, ma in senso errato: il sistema economico autonomizzato comincia ad ingoiare le norme, i modelli e le "qualità" finora riservate all'ambito domestico ed all'intimità, al fine di strumentalizzarli nel senso della logica del denaro. Solo dentro tali orizzonti, gli uomini postmoderni sono più emotivi che in passato, mentre la donna postmoderna può ora fare uso in maniera economicamente funzionale delle sue "virtù femminili" asocializzate. Quello che attraverso i media viene suggerito come distensione nella battaglia dei sessi, sotto forma di calcio femminile, spogliarello maschile o matrimonio degli omosessuali, nella realtà si traduce nella riduzione economicamente funzionale della sfera domestica, un tempo roccaforte dei sentimenti. L'androginia consiste nel fatto che gli individui di entrambi i sessi mobilitano, in egual misura, "tenerezza e freddezza" ai fini della concorrenza e uniscono la competenza tecnica alla competenza emotiva, per far continuare ad andare a tutto vapore la macchina per fare soldi.
Se in passato l'emotività domestica della società capitalista era ripartita in maniera diseguale, ora si ritiene distrutta per sempre. Poiché solo sotto questo aspetto vige, ironicamente, la legge della scarsità. Quello che viene consumato in dedizione e sentimento personale nell'impresa, col proposito di mantenere lubrificata la macchina economica, si perde nell'ambito scisso della vita privata e dell'intimità. Se le attività ed i comportamenti "femminili", come rovescio della produzione di merci, non sono stati superati insieme all'economia capitalista, ma sono state invece fagocitate proprio da quest'economia, allora il risultato può essere soltanto quello di una nuova dimensione della crisi. Gli aspetti necessari della vita sociale, benché non rappresentabili in forma monetaria, in questo modo non verranno ripartiti in maniera uguale fra uomo e donna; tutt'al più, ne resteranno le macerie.

Quello che oggi dà il tono è il modello televisivo della "donna dinamica", che unisce carriera e famiglia sotto lo stesso tetto e per di più si fa bella ogni giorno per strappare sospiri in quanto "oggetto del desiderio". Ma per la maggioranza tutto questo significa chiedere troppo, è qualcosa del tutto impraticabile. La percentuale di donne che riesce a destreggiarsi in questo modo è irrisoria. Solo una ridotta minoranza di "donne in carriera" può concedersi il lusso di una simile illusione, delegando il fardello dell'amministrazione della casa, della cura dei figli, ecc. a lavoratrici domestiche (immigrate, nere, svantaggiate), che, a loro volta, smettono di avere tempo per i loro propri figli. La maggior parte delle donne è assurdamente gravata dal compito di dover rispondere, contemporaneamente, per il denaro, per le attività domestiche e per "l'amore". Nella postmodernità il patriarcato non sparisce, prima "rimane inebetito" e si frantuma in forme molteplici di barbarie, come scrive la femminista tedesca Roswitha Scholz.
È questo il mondo che trasforma i bambini in assassini e in psicopatici.

- Robert Kurz - Pubblicato il  09/01/2000 sulla rivista Mais! Folha de São Paulo.

mercoledì 27 luglio 2016

Nuove e vecchie lotte

intervista

"Il Collasso della modernizzazione" - 15 anni dopo
- Intervista a Robert Kurz - San Paolo, Ottobre 2004 -

Reportagem: Quando è caduto il muro di Berlino nel 1989, tu appartenevi già da anni ad un gruppo che elaborava una teoria critica radicale. Poco dopo è uscito il tuo libro, "Il collasso della modernità". In che contesto sociale è stata da voi elaborata la critica del valore nella moderna società produttrice di merci?

Robert Kurz: Il nostro punto di partenza non è stato accademico. Eravamo tutti attivisti facenti parte di movimenti sociali di sinistra. All'inizio del decennio 1980, avevamo l'impressione che a partire dal 1968 le idee della cosiddetta "nuova sinistra" si fossero esaurite. Nel gruppo, esisteva una spinta a rielaborare la nostra storia in maniera critica. Non volevamo più partecipare a quello che vedevamo come una sorta di "ciclo maniaco-depressivo" di campagne politiche. Ritenevamo che la teoria non dovesse continuare in maniera immediatamente legata alla pratica politica, essa doveva perdere il suo carattere di "legittimazione" e doveva essere preso sul serio nella sua autonomia. Questo significava una presa di distanza dalla sinistra politica.
La "nuova sinistra", nonostante tutta la sua critica dello stalinismo, non metteva sistematicamente in discussione il carattere socialista e post-capitalista dell'Unione Sovietica. I pochi teorici che parlavano di "capitalismo di Stato", per esempio, in generale erano orientati al maoismo cinese e non andavano al di là di una teoria sociologica, a breve raggio, circa il "potere della burocrazia". Un'analisi più profonda invece constatava che il vero problema del cosiddetto "socialismo reale" era un altro: gli ordinamenti sociali determinati dalla rivoluzione russa e dai movimenti anti-coloniali di liberazione hanno continuato ad essere "modi di produzione basati sul valore" (Marx). La forma sociale del moderno sistema produttore di merci non ha potuto essere soppiantata. Tutte le categorie del capitale sono state mantenute, e sono state solamente moderate e controllate in maniera politico-statale nella forma nazionale. Le persone sono state subordinate al sistema del "lavoro astratto" (Marx) allo stesso modo che in Occidente. Non c'è stata una trasformazione nel senso del "superamento del capitalismo", bensì una mutazione all'interno del capitalismo. Questo ha corrisposto alla situazione storica reale dei paesi dell'Est e del Sud. Tali società non avevano raggiunto il limite dello sviluppo capitalista, al contrario, zoppicavano alla periferia del mercato mondiale in cerca di questo sviluppo. In tal modo, le rivoluzioni dell'Est e del Sud, nonostante la loro nomenclatura anticapitalista e marxista, in realtà sono state rivoluzioni borghesi di paesi storicamente arretrati, da cui sono sorti regimi di modernizzazione ritardata. In fondo, si sono ripetute, con altri orpelli ideologici, quei fenomeni che avevano già caratterizzato la proto-storia assolutista e borghese-rivoluzionaria del capitalismo nel periodo che va dal 14° al 19° secolo.

Reportagem: Gli ultimi decenni del 20° secolo hanno portato, da un lato, ad una crisi qualitativamente nuova che ha aperto uno spazio per una critica del riformismo tradizionale e del neoliberismo. Dapprima questo ha permesso soprattutto la critica del "lavoro astratto", in quanto categoria centrale della riproduzione del moderno sistema produttore di merci, dal momento che la crisi era espressione di un "limite interno" contro cui la società del lavoro andava a sbattere. Dall'altro lato, dopo la sbornia del marxismo strutturalista e dopo il trionfo del pensiero postmoderno nelle università, qualsiasi analisi legata a Marx veniva accusata di economicismo. A partire da questo, come vi siete posti criticamente rispetto alle categorie economiche del marxismo tradizionale, e in che misura la vostra nuova teoria della crisi si distingue da quelle analisi?

Robert Kurz: La nuova interpretazione della storia della modernizzazione nel 20° secolo ha posto il problema di come sia stato possibile, in generale, che tale modernizzazione continuasse "a dispetto" del marxismo. In quanto bisogna esigere sempre dalle innovazioni della teoria sociale che esse siano in grado di spiegare sé stesse. Qui inizia una nuova teoria della crisi: fino ad allora, la teoria marxista aveva analizzato le crisi in quanto interruzioni passeggere dell'accumulazione capitalista, cioè, come crisi congiunturali o come rotture strutturali nella transizione verso un nuovo modello di accumulazione. La teoria della crisi, così come l'idea e la prassi del socialismo politico-statale, è rimasta catturata dentro l'orizzonte del lavoro astratto e dentro le forme sociali del sistema produttore di merci. Non si è considerato possibile un limite interno assoluto dell'accumulazione, oppure, nelle poche eccezioni che abbiamo avuto (come nel caso di Henryk Grossmann), non si è messo in relazione questo limite con il "lavoro astratto", in quanto "sostanza del capitale" (Marx). La nostra nuova teoria della crisi, al contrario, ha abbozzato la tesi secondo cui la "desustanzializzazione" del capitale portata a termine dalla terza rivoluzione industriale della microelettronica rappresenta un limite interno assoluto del processo di accumulazione. Per la prima volta nella storia capitalista, avviene una razionalizzazione che rende inutile la forza lavoro in maniera più rapida (e in volume maggiore) dell'ampliamento dei mercati, reso possibile dal deprezzamento dei prodotti. Sfuma cos' il meccanismo di compensazione delle crisi vigente fino ad allora. Il capitale fugge dall'accumulazione reale e si rifugia nel "capitale fittizio" (Marx), in bolle finanziarie che in ultima analisi devono scoppiare, non solo congiunturalmente, ma strutturalmente. Nella misura in cui, in questa crisi qualitativamente nuova, si dimostra il limite storico dell'accumulazione del "modo di produzione basato sul valore" (Marx), il sistema produttore di merci, il "lavoro astratto" e, insieme ad essi, l'ontologia marxista del lavoro diventano obsoleti.

Così, la stessa posizione storica della nuova e più fondamentale critica del capitalismo si è determinata a partire dalla teoria della crisi. Ma è solo con "Il collasso della modernizzazione" che si è potuto articolare sistematicamente questa nuova teoria della crisi insieme ad una critica concettuale del socialismo basato sul "lavoro astratto" e sulla produzione di merci. La crisi delle forme di base comune del sistema produttore di merci si è palesata per prima fra i ritardatari storici, avanzando poi verso i centri del capitale occidentale. La fine della "modernizzazione ritardata" è l'inizio della fine della modernità e del suo "lavoro astratto", vale a dire, anche la fine della politica, come forma di regolazione, e la fine della nazione, come spazio relazionale del sistema produttore di merce, come dimostra nella pratica il processo di globalizzazione. Tutte le interpretazione che pretendevano di comprendere la caduta dell'Unione Sovietica e la fine del socialismo come se fossero la "vittoria" del capitalismo occidentale, si sono rivelate prive di senso. Al 21° secolo attiene il compito di formulare una nuova critica sociale radicale, vale a dire, trasformare la critica del "lavoro astratto", della forma valore, della produzione di merci, della regolazione politica e della limitazione nazionale in una critica di superamento cosciente di questa connessione formale della società moderna.

Reportagem: Quindi, si tratta di una teoria che non si riferisce più esclusivamente alla categoria del lavoro. Al contrario, diventa chiaro come davanti alla crisi sia le forme di pensare che la prassi, siano esse sociali, economiche o politiche, si aggrappano all'ontologia moderna senza rendersi conto del potere della negatività che si esprime in questa crisi. In Brasile, ad esempio, nelle primi discussioni su "Il collasso della modernizzazione" si sono sentite espressioni come "diavolerie metafisiche", "passo falso" e "catastrofismo". Che impatto ha avuto la tua analisi sulla cosiddetta "opinione pubblica" in generale, e che tipo di ricezione c'è stata nella sinistra tradizionale in particolare?

Robert Kurz: La comparsa di questa nuova analisi e critica ha causato sorpresa nella misura in cui si opponeva completamente alle opinioni allora dominanti. Dall'altro lato, intellettuali lucidi come Hans Magnus Enzensberger, in Germania, e Roberto Schwarz, in Brasile, hanno ritenuto che la nuova teoria critica meritava di esser fatta conoscere ad un pubblico più vasto. Senza una tale approvazione il libro non sarebbe mai stato né pubblicato né tradotto. L'accoglienza da parte del grande pubblico e da parte della sinistra è stata molto articolata. Per alcuni, si trattava di una spiegazione coerente del collasso orientale e della crisi occidentale, considerate nel loro insieme; in special modo, per molti intellettuali della Germania Orientale, che erano caduti in depressione dopo la riunificazione tedesca, la spiegazione è apparsa loro come una sorta di luce salvatrice in fondo al tunnel, poiché offriva loro la possibilità teorica di digerire la fine del "loro" socialismo senza l'accettazione incondizionata del capitalismo occidentale. Per altri, questa nuova teoria ed interpretazione della realtà della società mondiale era errata, "esoterica" e più o meno "assurda"; soprattutto la teoria radicale della crisi è stata denunciata quasi come "apocalisse".

Quel che è stato strano è che sia la ricezione positiva che quella negativa de "Il collasso della modernizzazione" si limitavano quasi esclusivamente al piano analitico, mentre i fondamenti teorici, la critica del "lavoro astratto" e della forma merce, non sono stati riconosciuti o sono stati considerati come una sorta di "UFO teorico". È apparso con sorprendente chiarezza quanto profondamente la coscienza teorica si trovi sottomessa all'egida dell'immanenza delle forme sociali moderne per tutto quanto attiene allo spettro di posizioni filosofiche e politico-economiche. In questo senso, la ricezione negativa, con la denuncia rabbiosa del carattere "esoterico" e "apocalittico" delle analisi, ha impiegato più tempo a comprenderne la novità teorica, in quanto aveva intuito chelì veniva messa radicalmente in discussione l'ontologia della modernità. Questo ben presto ha cominciato a diventare chiaro anche per una parte della sinistra che, all'inizio, aveva approvato l'analisi. L'intellighenzia tedesca orientale, in particolare, è diventata visibilmente più riservata da quando le critiche all'ontologia marxista del lavoro, alla forma politica ed alla nazione, si sono rivelate parte integrante della nuova formulazione teorica. In Germania, il marxismo tradizionale ha tentato diverse volte di porsi contro il nuovo approccio della "critica del valore" (è questo il termine che viene di solito utilizzato per la nuova teoria critica), dal momento che lo vive come una distruzione della propria identità.

Anche una parte del pubblico borghese che, all'inizio, aveva registrato il nuovo approccio come un "Gioco delle perle di vetro" intellettuale, con l'avanzare, e con l'effettiva manifestazione, della crisi si è chiuso ed ha fatto resistenza. Dall'altro lato, sempre più riformatori nel mondo, ciarlatani e settari di ogni genere hanno tentato di attaccarsi a questa nuova teoria; dai "riformatori del denaro", sulla linea di Silvio Gesell, fino ai nazionalisti di destra, antimodernisti reazionari, che (e a somiglianza di molti marxisti tradizionali) si lamentavano della critica alla nazione, come se questa non fosse parte indispensabile della critica dell'ontologia moderna.

Fino ad oggi, nessuna nuova teoria è diventata socialmente operante se non passando attraverso l'indurimento della coscienza dominante, con la difesa veemente delle vecchie posizioni diventate obsolete per la critica sociale, attraverso ricezioni in parte eclettiche ed oscure, o perfino attraverso grossolane interpretazioni. Quando si spezza il piccolo cerchio degli specialisti, tali fenomeni sono inevitabili. Perciò, la risonanza contraddittoria avuta dal libro è servita come incentivo per lo sviluppo e la concretizzazione della nuova teoria in uno spazio sociale più grande. Pertanto, ormai esisteva un numero sufficiente di mediatori, traduttori e collaboratori intellettuali indipendenti che avevano colto la nuova formulazione. Si sono formati circoli di discussione della critica del valore non solo in Germania ed in Austria, ma anche in Brasile, in Italia, in Francia, Spagna e Portogallo.

Reportagem: Lo sviluppo delle vostre riflessioni ha fatto sì che venissero integrati nuovi contenuti nella teoria critica. Si è chiarito quanto l'ontologia moderna, nonostante la crisi, continuava ad influenzare i diversi aspetti del pensiero e della comprensione. Quali nuovi elementi sono stati integrati nella teoria critica e come ha continuato ad essere sviluppata la critica del valore?

Robert Kurz: Inizialmente, la nuova teoria si era concentrata sullo sviluppo della critica dell'economia politica. La teoria della crisi e la critica del sistema produttore di merci, ivi incluse le forme della politica e della nazione, erano di fatto degli argomenti nuovi, ma il pensare tali contenuti si muoveva ancora nello spazio della comprensione tradizionale della teoria. Il carattere astratto-universalista di ogni elaborazione teorica nel mondo moderno, in quanto momento della sua ontologia, ci faceva riflettere, così come il concetto di soggetto e la moderna relazione fra i sessi ad esso legata. Il nuovo approccio seguiva il procedimento "logico-deduttivo", secondo il modello della filosofia hegeliana, in cui la relazione fra essenza ed apparenza dev'essere risolto come se fosse un'equazione matematica. Questo modo di pensare astratto-universalista comune a tutte le teorie moderne, che affonda le sue radici nella filosofia dell'Illuminismo, era legato a qualcosa di irriflesso, che rimane nella metafisica illuminista della storia: abbiamo messo in discussione il futuro del moderno sistema produttore di merci, avendo come base la teoria della crisi, ma non abbiamo messo in discussione il suo passato, nel senso che lo stesso veniva compreso senz'altro come "progresso", al di sopra dei presunti oscurantismo, naturismo ed animalità del mondo agrario premoderno. Seguendo i passi di Marx, la teoria della critica del valore aveva tematizzato in maniera innovatrice il feticismo di una modernità apparentemente razionale. Ma, anche questo sulle tracce di Marx, aveva analizzato questa scoperta sempre sulla base della filosofia della storia ideologica di questa falsa razionalità.

Questo modus della teoria non era stato rotto dal di dentro, ma da fuori, grazie ad un intervento "femminile". Non a caso, l'approccio teorico astratto-universalista corrisponde ad una struttura di associazione maschile del gruppo centrale dell'elaborazione teorica della critica del valore, in cui non c'erano donne. Roswitha Scholz, che veniva dalla teoria femminista, criticava fin dall'inizio del decennio 1990 la comprensione hegeliana ed universalista della critica del valore, caratterizzandola come androcentrica. Con la complessa teoria della dissociazione, la Scholz ha tentato di rompere la logica ermetica deduttiva apparentemente coerente di tale comprensione.

Reportagem: Il saggio di Roswhita Scholz, "Il valore è l'uomo", pubblicato in Brasile sulla rivista "Novos Estudos Cebrap", nel 1996, su raccomandazione di Robert Schwarz - fondamentale per l'elaborazione della teoria della dissociazione - è passato qui sorprendentemente quasi del tutto inosservato. Ci piacerebbe che tu parlassi del concetto di dissociazione: qual è il suo statuto teorico relativamente alla critica della forma merce e che significato ha la dissociazione per la critica del valore e per la critica del soggetto?

Robert Kurz: La dissociazione, secondo il suo teorema, significa che la struttura del valore (della forma merce), in quanto forma fondamentale del processo di valorizzazione, pretende di coprire la totalità, ma in realtà gran parte di questa riproduzione sociale, sia nell'aspetto materiale ("lavoro domestico", assistenza, educazione dei figli, ecc.) che nella prospettiva socio-psicologica e cultural-simbolica ("amore", empatia, dono, ecc.) non può essere coperta dalle forme di valore e di "lavoro astratto". Questi momenti sono stati dissociati dalla socialità ufficiale e sono stati assegnati storicamente e socialmente alle donne. Per usare un termine del dibattito femminista, le donne sono "doppiamente socializzate": da un lato, appartengono (attraverso l'attività professionale, la forma denaro, ecc.) alla connessione formale ufficiale e, dall'altro lato, sono strutturalmente responsabili per tutti quei momenti della vita che non rientrano in essa. Poiché questi momenti non appartengono al "lavoro astratto" né alla forma del valore/forma del denaro, essi vengono considerati inferiori dal punto di vista della forma sociale dominante; anche lo status delle donne è strutturalmente inferiore nel moderno sistema produttore di merci. Di regola, sono peggio remunerate, assumono meno posizioni di comando rispetto agli uomini, sono considerate "irrazionali", con meno capacità di imporsi e, assai spesso, come mere appendici degli uomini. Il dissociato non è una "area" separata, rigorosamente delimitabile, ma permea tutte le sfere della società. Se è vero che nel processo di sviluppo capitalista determinate parti dissociate sono state integrate nell'universo ufficiale della forma merce, attraverso la commercializzazione o la statalizzazione, è anche vero che diverse relazioni e dimensioni della vita non possono essere coperte dal denaro né dallo Stato, e che, in tempi di crisi, molti momenti necessari alla vita vengono espulso dalla logica della forma merce e sono ri-delegati alla relazione di dissociazione connotata come femminile. La relazione di valore non può essere pensata senza una simultanea relazione di dissociazione; perciò, i concetti di entrambi i lati della società moderna si trovano ad uno stesso alto livello di astrazione teorica e formano, insieme, in quanto relazione di valore-dissociazione, il concetto essenziale (e contraddittorio) di modernità.

Alla luce della teoria della dissociazione, l'universo apparentemente neutro del "lavoro astratto" e della forma merce si rivela essere strutturalmente determinato come "maschile". L'illusione ottica di un universalismo astratto è generata dal fatto di limitare la riflessione alla sfera della circolazione, dove apparentemente tutti i gatti sono grigi. Se non si limita l'analisi alla superficie della circolazione (la cosiddetta "astrazione dello scambio") diventa visibile il fatto che la relazione di dissociazione comprende e ingloba tutto il processo di riproduzione sociale. Su scala globale, cadono fuori dal falso universalismo anche grandi porzioni di umanità non-occidentale. Il soggetto apparentemente neutro della modernità è, in realtà, il soggetto maschile e bianco occidentale (abbreviato, MBO).

Analogamente, l'elaborazione teorica della modernità astrattamente universalista - e secondo la logica della deduzione - si relaziona in realtà, fin dall'Illuminismo, soltanto con la struttura interna della forma della merce, determinata in modo maschile e bianco occidentale. Il dissociato viene represso e non ha concetto. La teoria della dissociazione parte qui dalla critica di Adorno al concetto moderno di teoria. Il concetto non funziona come un'equazione, ma è necessario riflettere su di esso nella sua frammentazione. La critica del valore, della merce e del "lavoro astratto" ha bisogno di essere allargata alla critica della dissociazione. In tal senso, la dissociazione non è, per esempio, la "metà migliore", o quello che nella forma valore va inteso positivamente, ma è soltanto il rovescio negativo della stessa medaglia. Il superamento emancipatore del moderno sistema produttore di merci include il superamento della relazione di dissociazione, nella quale le donne (e anche l'umanità non-occidentale) vengono collocate come inferiori. Non si tratta di rivalorizzare ideologicamente questa inferiorizzazione, ma di abolirla insieme alla relazione del valore.

Reportagem: Ma questo approccio non è stato accettato all'unisono e senza contestazioni da tutto il gruppo Krisis...

Robert Kurz: La teoria della dissociazione, nel contesto della critica del valore, che fino ad allora era un'elaborazione teorica androcentrica-universalista strutturata in modo maschile, è stata presa in considerazione solo dopo grandi resistenze e non è stata integrata in forma generalizzata. Ma si trovava già alla base del testo "Dominio senza soggetto" (1993), nel quale, per la prima volta, la crisi e la critica del sistema produttore di merci è stata definita anche teoricamente come crisi e critica del soggetto moderno e del suo concetto positivo; cioè senza avere niente a che vedere con i poco entusiasmanti propositi postmoderni, che non hanno alcuna concezione del "lavoro astratto" né della forma merce. Quest'approccio è stato ampliato e si è arricchito di una base empirica con il "Libro nero del capitalismo" (1999), una grande analisi storica svolta per dare un fondamento alla critica dell'Illuminismo e della sua filosofia della storia. Per la prima volta nel contesto dell'elaborazione teorica della critica del valore, il moderno sistema produttore di merci non appariva più come "progresso", anche in relazione al passato. Questa critica, allo stesso tempo, si distanziava decisamente da qualsiasi romanticizzazione delle società agrarie premoderne. Non si trattava di un'evocazione reazionaria delle condizioni passare, ma di una critica radicale del pensiero ontologico. La teoria della crisi veniva ampliata al fine di coprire la crisi del soggetto maschile e bianco occidentale, passando, da una critica fino a quel momento meramente implicita e ridotta all'economia politica, ad una critica esplicita dell'ontologia moderna e dell'ontologia delle relazioni di feticcio in generale. Ma quest'ampliamento è rimasto essenzialmente limitato alla riflessione teorica di determinate persone e a dei lavori individuali, non essendo stato assunto in tutto l'ambito e da tutti i partecipanti all'originaria elaborazione teorica della critica del valore, senza che sorgesse apertamente un principio di dissenso.

Reportagem: In tale momento di stato ibrido ambiguo di "integrazione non integrata" della teoria della dissociazione, che ruolo ha svolto la pubblicazione del "Manifesto contro il lavoro" nella sedimentazione dei rapporti che c'erano in Krisis o nell'eventuale assunzione interna delle differenti prospettive individuali?

Robert Kurz: Durante la coesistenza di posizioni che erano nascostamente già in opposizione, anche la critica del "lavoro astratto" è stata formulata in un progetto congiunto, oramai su un piano già non puramente teorico. Il dibattito sociale sulla "crisi della società del lavoro", le misure socialmente repressive dell'amministrazione capitalista di crisi ed i primi indicatori di un nuovo movimento sociale avevano suggerito la divulgazione ad un pubblico più ampio dei "segreti" teorici della critica del valore. Il risultato di queste riflessioni è stato il "Manifesto contro il lavoro" (1999) che in poco tempo ha fatto scalpore, ha avuto grandi tirature ed è stato tradotto in diverse lingue - un successo che ha sorpreso i suoi stessi autori. È stato un saggio esplorativo e, apparentemente, ha toccato un nervo scoperto della società in crisi, esprimendo quello che in generale era sentito ma che non aveva voce.

L'elaborazione del Manifesto non è avvenuta, però, senza conflitti. Non era solo l'insolita forma stilistica, ad aver obbligato a più riformulazioni. Non a caso il punto che riguardava la relazione fra i sessi è stato aggiunto solo successivamente. La divergenza era soprattutto circa le aspettative intorno alla funzione del Manifesto. Per alcuni, si trattava di una realizzazione puntuale, in cui la critica del valore e della dissociazione riceveva una formulazione letteraria in grado di presentarla davanti ad un pubblico più ampio, oltre che a stimolare la riflessione teorica degli attivisti che erano alle prese con i problemi della crisi della società del lavoro; per questi, il processo di elaborazione teorica avrebbe dovuto continuare senza interruzione, senza preoccuparsi delle cosiddette esigenze pratiche. Per altri, al contrario, il Manifesto significava già il punto culminante e di svolta per la prassi sociale: con il Manifesto volevano arrivare ad un reorientamento fondamentale dell'attività della critica del valore, concentrandosi sulla critica del lavoro ed integrandosi così direttamente nei nuovi movimenti sociali con carattere "anti-politico" e giornalistico.

Reportagem: Nel tuo libro "Il collasso della modernizzazione", pubblicato nel 1991, anticipi l'attentato dell'11 settembre di dieci anni quando scrivi che il fondamentalismo e la « ideologia secondaria islamica » generano « ...imprese kamikaze e di commando ». Dopo l'11 settembre si è dovuto constatare un'accentuazione degli aspetti conservatori nella sinistra europea, cosa che probabilmente ha accentuato anche i conflitti interni alla redazione di Krisis. Come si sono svolti questi conflitti e che ruolo hanno avuto in quel momento la critica della dissociazione e la critica del soggetto?

Robert Kurz: Sebbene su scala più ridotta, le contraddizioni interne vengono accelerate dai grandi "avvenimenti storici" esterni. Il terrore dell'11 settembre 2001 a New York, in senso psicologico, ha scosso i centri occidentali fino al midollo. Nelle grandi zone di crisi e di collasso della periferia, l'11 settembre non è stato percepito con la medesima intensità, forse perché già da tempo la barbarie era diventata come il pane quotidiano. Per gli Stati Uniti e per l'Europa, al contrario, gli attacchi terroristi sono stati uno shock ed un faro, mostrando che l'attuale modo di vita stava arrivando alla fine e che anche la voragine della crisi cominciava a raggiungere con violenza incalcolabile la loro vita quotidiana. Questa percezione simbolica avvenuta a tutti i livelli sociali ha scatenato molti conflitti sotterranei o repressi, tanto nelle correnti politiche e nei gruppi teorici quanto nelle relazioni personali. La sinistra si è polarizzata come non si vedeva da decenni. Di fronte alle minacce oscure, l'intellighenzia ha improvvisamente scoperto i "valori occidentali" e parte della sinistra ha evocato la presunta "promessa borghese di felicità" che avrebbe dovuto difenderci contro la "barbarie del Terzo Mondo". La metafisica illuminista della storia irrompeva come flatulenza mentale.

Fino ad allora la nuova formulazione teorica della critica del valore e della critica della dissociazione si era concentrata sulla rivista "Krisis", che era diventata nota a livello internazionale. L'agitato clima ideologico e socio-psicologico post-11 settembre, tuttavia, fece venire a galla le contraddizioni interne al gruppo. La teoria della dissociazione, nella sua definizione sociologica di generi e cultural-simbolica, non era stata adottata da tutti i membri allo stesso modo, ma da alcuni veniva solo corteggiata e tollerata. In particolare, per gli uomini della teoria era inaccettabile che i concetti della forma valore e della dissociazione venissero posti allo stesso livello di astrazione ed avessero la stessa importanza. Se la tematica della dissociazione veniva assunta, essa appariva a gradi differenti come un "settore" subordinato alla "vera" totalità del sistema produttore di merci, anziché concepire la dissociazione stessa come categoria della totalità (insieme alla forma del valore o della merce) all'interno di quello che era un nuovo approccio, frammentato, lontano dalla vecchia comprensione hegeliana. Nei testi in questione, la relazione di dissociazione viene fino ad oggi generalmente intesa come un "fenomeno" storico-empirico e come una "sfera" che viene presunta come delimitabile e subordinata (anziché come un momento del concetto di essenza), e quindi teoricamente ridotta. In tal modo, anche la critica del soggetto, della forma del soggetto maschile bianco occidentale, rimane ugualmente ridotta. Apertamente o nascostamente, si pensa che sia "necessario" adottare determinati elementi di tale soggetto ai fini di una futura società emancipata. In questo modo, non si critica in maniera conseguente l'ontologia moderna, in quanto vengono ancora accolti dei resti della metafisica illuminista della storia. Questa prospettiva, come avviene nel caso di Adorno, rimane strettamente legata ad un concetto diffuso di "astrazione dello scambio", in cui il "lavoro astratto", come la dissociazione, appaiono come i risultati di questa stessa "astrazione delle scambio". Vale a dire: non sono il "lavoro astratto" e la dissociazione a rappresentare le categorie essenziali e generali, ma la circolazione apparentemente "neutrale". Ora, è questo concetto equivocato di circolazione, intesa come presunta essenza e connessione globale della società, a costituire la fonte principale di ogni ideologia illuminista borghese.

La critica della reazione occidentale al mega-terrore e delle guerra di ordinamento mondiale in Afghanistan ed in Iraq, in principio formulata comunemente, era solo superficiale; tuttavia, negli strati più profondi dell'elaborazione teorica si era già formata un'altra comprensione completamente contraria per quel che riguardava la critica del soggetto, dell'illuminismo e dell'ontologia moderna, che era emersa nell'atmosfera avvelenata del post-11 settembre in maniera eruttiva. Quando nella primavera del 2002 si sarebbero pubblicate, con il titolo "Ragione sanguinosa", delle tesi teoricamente basate sulla dissociazione ed acutamente polemiche nella loro critica dell'illuminismo e del suo revival ideologico attuale da parte delle correnti principali dell'intellighenzia occidentale, per la prima volta nella storia dell'elaborazione teorica critica si è tentato di impedire con espedienti formali la pubblicazione di un testo da parte di un autore centrale. Di conseguenza, all'inizio del 2002, il nucleo iniziale si è diviso in due gruppi che, qualche tempo, hanno agito nel testo comune della rivista. Questa scissione è stata dovuta anche a rotture personali e a forti motivazioni concorrenziali e di auto-affermazione personale da parte di chi, sotto vari aspetti, sebbene non in forma costante ed omogenea, era rimasto fissato sul vecchio modello androcentrico ed universalista di elaborazione teorica. Nella misura in cui le donne entravano nel cerchio interno, alcuni uomini se ne ritiravano. Alla fine, nel febbraio del 2004 i "modelli interrotti" si sono impadroniti con un colpo di mano del "marchio Krisis", strumentalizzando sul piano formale l'associazione di sostenitori, secondo i modi della politica di potere dei partiti, ed espellendo la maggioranza della vecchia redazione (incluse tutte le donne).

Ma era evidente che con questa "presa di potere" puramente formale non si poteva recuperare il precedente livello teorico. Ora è la maggioranza della vecchia redazione insieme ai nuovi partecipanti a proseguire l'elaborazione teorica della critica del valore e della critica della dissociazione sulla rivista "EXIT!", ed intorno a questa si è costituito anche un nuovo contesto organizzativo. Il gruppo usurpatorio di quel che rimane di "Krisis", al contrario, non ha tardato ad effettuare un cambiamento per trasformare la critica del valore, mantenuta ad un "livello di accesso" teorico diventato obsoleto, in una semplificazione giornalistica e di "prassi" propagandistica, al livello di quel che era stato annunciato fin dalla pubblicazione del "Manifesto contro il lavoro". Agendo in questo modo, hanno in gran parte abbandonato la dimensione della critica dell'ideologia per poter, quasi alla maniera della sinistra tradizionale, guadagnare influenza nei nuovi movimenti sociali con meno problemi. Al contrario, "EXIT!" rifiuta qualsiasi opportunismo attivista e qualsiasi minimizzazione dei problemi di una critica tronca del capitalismo; piuttosto pone l'accento sul fatto di intervenire con una critica dell'ideologia relativamente ai movimenti sociali ed ai progetti che vanno emergendo, senza negarli in quanto tali.

Reportagem: La vostra espulsione dalla redazione di "Krisis", dovuta secondo le tue parole a divergenze pratico-teoriche riguardanti la teoria della dissociazione e la critica dell'illuminismo, può anche essere analizzata in un contesto più ampio dello sviluppo della crisi della società produttrice di merci, crisi che si sta aggravando?

Robert Kurz: La scissione della ex-"Krisis" si è situata in maniera inequivocabile in un quadro di aggravamento della crisi nei centri occidentali. Ormai non si tratta più semplicemente di esprimere opinioni e riflessioni teoriche "interessanti" nel ruolo di spettatore, ma di affrontare l'esistenza nuda e cruda in condizioni di una situazione di collasso. La precarizzazione colpisce anche le sfere intellettuali, accademiche, giornalistiche-mediatiche e delle strutture statali. Dopo i "produttori immediati" agrari ed industriali, anche la "nuova classe media" sta per essere precipitata nel gorgo della crisi mondiale scatenata dalla terza rivoluzione industriale. SI verifica nella pratica che tutti questi settori non hanno una base economica indipendente nella struttura dell'accumulazione capitalista, ma dipendono dalla ridistribuzione di plusvalore proveniente dal centro industriale. Tale dipendenza strutturale, che rimaneva temporaneamente invisibile a causa della congiuntura delle bolle finanziarie, si avverte ora in maniera violenta. In questo modo, l'insieme del sistema di istruzione e ricerca, così come quello dei media, ora sta per essere fuso e riorganizzato in maniera negativa, secondo il modello della crisi industriale.
Come già avviene da molto tempo negli strati inferiori, ora anche in quella che è stata la "nuova classe media" si fa sentire la frammentazione della non superata relazione di dissociazione sessualmente connotata, in una sorta di "trasformazione dell'uomo in donna di casa" ("Hausfrauisierung des Mannes", un termine della teoria femminista tedesca degli anni 80). Ma anche le "donna con una carriera professionale" e che ha fatto carriera nella sfera pubblica (soprattutto nel settore accademico), definita strutturalmente come "maschile", si vede ora esposta alle circostanze provocate dalla crisi. Sulla base del sistema produttore di merci, la concorrenza e la lotta per la sopravvivenza aprono le porte all'odio, anche nei gruppi di elaborazione teorica emancipatrice radicale. Ma la maggior parte di coloro che tagliano i loro legami per poter trionfare nella società e approfittano delle occasioni per far carriera, in realtà salgono a bordo di barche che stanno già affondando.

Reportagem: In un clima sociale di ottimismo spaventato e sotto una forte pressione, qui in Brasile, ivi inclusa parte della sinistra dopo l'elezione di Lula a presidente, viene frequentemente citata la Cina come esempio di un possibile "futuro promettente" del capitalismo e del suo presunto "potenziale di sviluppo". Come valuti queste prospettive?

Robert Kurz: Quando la crisi strutturale interna entra in un vicolo senza uscita, il "pensiero positivo" si aggrappa ai segnali esterni di una nuova era di accumulazione. Dopo il Giappone e le "piccole tigri" asiatiche, ora viene invocata la Cina come nuova portatrice di crescita globale e come modello. Ma questa speranza è altrettanto ingannatrice delle precedenti. Gli alti tassi di crescita cinese sono dovute soltanto al basso livello di partenza. Una volta che è stato raggiunto un livello di crescita intensiva, che dipende da enormi investimenti in infrastrutture ed in microelettronica, i tassi di crescita cadranno alla stessa velocità con cui è avvenuto nel caso dei precedenti portatori di speranza. Senza dimenticare che la crescita cinese si basa su un'industrializzazione unilaterale, che lascia da parte la grande massa della popolazione, minando la base della riproduzione sociale. Ma anche l'industrializzazione minoritaria rivolta all'esportazione si indirizza quasi esclusivamente verso gli Stati Uniti, e dipende dalle strutture globali del deficit concentrate nell'ultima potenza mondiale. La crisi cinese sarà più disastrosa di tutte le crisi precedenti.

Il limite interno del sistema globale produttore di merci è generale, ma si concentra in situazioni completamente differenti di sviluppo di questo sistema. In virtù di questo si crea ripetutamente, soprattutto nella periferia, l'illusione che sia possibile raggiungere un livello di sviluppo che è già diventato obsoleto da molto tempo anche in Occidente. Non è stata solamente la "modernizzazione ritardata" a finire a mal partito - la crisi della modernizzazione colpisce i paesi capitalisti centrali ed i paesi ritardatari non possono più rivolgersi ad essi. La vecchia "non simultaneità" dello sviluppo è stata livellata, non in maniera positiva, ma negativamente. La nuova "simultaneità" globale della crisi esige una nuova prospettiva, capace di mirare, a partire da differenti punti di partenza, ad un nuovo modo di socializzazione al di là della forma del valore e della dissociazione. L'umanità non è preparata a questo, ma non ha altra scelta.

Reportagem: Come è emerso chiaramente nel corso della nostra conversazione, è evidente che è necessario assumere una posizione teorica che sia nitidamente differenziata. Ci troviamo un una crisi sociale e categoriale che rende tutti i concetti relativi alla riproduzione della modernità talmente obsoleti che non si può stabilire una teoria coerente con delle nuove categorie positive. Perciò è necessario partire dalla negatività. Cosa significa questo per i diversi movimenti sociali che prendono sul serio una prospettiva di emancipazione dalla moderna società produttrice di merci nel momento in cui la crisi continua ad aggravarsi?

Robert Kurz: Per la teoria, l'importante è non perdere la testa e resistere alle contraddizioni, invece di indulgere ad una realtà falsificata con ricette a basso costo. Nella quotidianità dei gruppi teorici c'è bisogno di solidarietà e mutuo appoggio, senza magniloquenza, ma questo non va confuso con l'ideologizzazione di un concetto diffuso di "vita quotidiana" dotato di una carica pseudo emancipatrice. Il superamento emancipatore del moderno sistema produttore di merci e della relativa dissociazione, esige un intervento sociale di alto livello, e solo un'elaborazione della teoria critica può perciò contribuire a mantenersi a distanza dagli eventi e non cedere alla pressione di un'esigenza di pratica di falsa immediatezza.

- L'intervista è stata pubblicata nel novembre del 2004 sul n°64 della rivista "Reportagem", col titolo "Nuove e vecchie lotte" -

fonte: EXIT!

martedì 26 luglio 2016

Pistole, candele e preghiere

himes

8 luglio. Sparatoria a Dallas. Micah Xavier Johnson, un riservista nero, uccide cinque poliziotti bianchi. Quarantotto ore prima la polizia aveva ucciso due neri a Falcon Heights (Minnesota) e a Baton Rouge (Luisiana). Appelli all'unità. Funerali e messa solenne alla presenza di Barack Obama, di sua moglie Michelle ed i coniugi Bush. 17 luglio, una nuova sparatoria, stavolta a Baton Rouge: Gavin Long, un ex marine nero di ventinove anni uccide due poliziotti bianchi. Altri funerali, altra notte di veglia e di preghiera. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che gli Stati Uniti entrano in uno strano loop. Nel giugno dello scorso anno, un ragazzo di ventun'anni aveva assassinato nove persone di colore in una chiesa del Sud Carolina. Anche quella volta, preghiere. Solo pochi mesi prima, nell'agosto del 2014, era esplosa la rabbia in seguito alla morte di un ragazzo nero di diciotto anni, crivellato di colpi da un poliziotto per aver rubato un pacchetto di sigarette, a St. Louis (Missouri). Dell'altre candele e preghiere. E grida contro l'odio. La ruota di un conflitto che non smette di girare.

Settant'anni fa, uno scrittore nero di successo che aveva denunciato il razzismo in Nord America scappava dagli Stati Uniti per stabilirsi a Parigi. In un'intervista aveva dichiarato che il fatto di « nascere in America non ti rende americano ». Non condivideva quello che stava avvenendo nella terra dello zio Tom riguardo alla situazione dei neri. Ma inoltre, non era nemmeno d'accordo col modo in cui venivano condotte le manifestazioni contro le persecuzioni razziali che negli anni cinquanta stavano cominciando. Quest'autore era Chester Himes (1909-1984). Dopo essersi esiliato in Francia, se ne andò in Spagna, sulla costa dalle parti di Alicante, dove morirà nel 1984. È sepolto nel cimitero di Benissa. Oggi quasi nessuno lo ricorda. Non esiste nemmeno una strada intitolata a suo nome. Himes rimane nella memoria allo stesso modo in cui è morto: al suo funerale c'erano solo dodici persone e nessuna autorità.

E tuttavia la persona e l'opera di Himes spiegano come poche quel che avviene negli Stati Uniti, e perché. Lo scrittore era nato nel profondo sud degli Stati Uniti, a Jefferson City, Missouri, e aveva studiato a Cleveland (Ohio), proprio dove si è tenuta la Convention repubblicana che ha incoronato Donald Trump come candidato alla presidenza, e dove non è proibito portare armi per strada durante le proteste. Himes proveniva dalla classe media, aveva studiato nell'Università di Columbus, ma venne espulso per furto e di lì a poco, a diciannove anni, andò in prigione con una condanna di vent'anni per rapina a mano armata. E fu lì, come era accaduto ad altri scrittori, come Edward Bunker, che cominciò a scrivere come un ossesso. « Un lottatore lotta, uno scrittore scrive », era il suo motto. Scriveva piccole storie che spediva a riviste e periodici. Nel 1934 riuscì a pubblicare la prima. E anche se allora non lo sapeva, la sua sarebbe stata una carriera implacabile.

L'anno dopo esce dal carcere e, dopo aver fatto ogni tipo di lavoro, nel 1945 pubblica il suo primo romanzo con la Doubleday, "Se grida, lascialo andare", in cui sono già esposte tutte le sue inquietudini: il razzismo in America, ma senza un briciolo di condiscendenza verso i neri. Il libro è una critica brutale dell'atteggiamento dei bianchi e dei neri, che descrive senza alcun pudore la criminalità degli uni e degli altri. Il romanzo è un successo e Himes diventa uno dei primi scrittori neri - stiamo parlando degli anni quaranta, quando questo era qualcosa di insolito - ad essere riconosciuto come tale sia dalla critica che dai lettori. Tuttavia, il fatto di non schierarsi né con gli uni né con gli altri, lo porterà a subire ritorsioni da entrambe le parti, tanto dai neri quanto dai bianchi. Il suo editore non tollerava la violenza, la brutalità delle sue storie (lo stupro di una donna bianca da parte di un nero, fra le altre storie) e anche la  National Association for the Advancement of Colored People lo condannò ufficialmente.

« Himes intendeva esporre l'ingiustizia razziale, soprattutto nelle sue dimensioni più subliminali. Il suo stile e le sue storie facevano vergognare molti scrittori del tempo, ma lui insisteva sul fatto che non era così semplice spiegare il conflitto razziale nella storia americana, ma si doveva anche considerare un certo rapporto di condiscendenza da parte dei liberal di sinistra », spiega il professore della Johns Hopkins University, Lawrence Jackson, che il prossimo anno pubblicherà una biografia di Himes.

Tale questione può essere osservata in quello che è stato il suo secondo romanzo, "Crociata solitaria", nel quale si mescolanto tutte le tensioni razziali e politiche di una Los Angeles vista negli anni della seconda guerra mondiale. Il protagonista è Gordon Lee, un nero che è stato eletto per organizzare un sindacato in un'impresa manifatturiera. Una pagina dopo l'altra, appaiono i lavoratori neri, i comunisti e gli ebrei, in una notevole esposizione di come, per Himes, la sinistra - compreso l'ebreo progressista - sostenesse l'uguaglianza razziale, però con delle sfumature: l'uguaglianza con i neri, ma non troppo. E come, a loro volta, i neri disprezzassero tale uguaglianza. Lo mostra in uno dei dialoghi che si svolgono nel libro:
« Un negro deve guadagnare ventimila dollari per sentirsi al sicuro quanto un bianco che ne guadagna cinquemila. Perché? Lo sai perché. Perché fa parte delle convinzioni di un negro pensare che deve essere buono il doppio per essere almeno considerato. Non c'è modo di evitare questa cosa (...) Perciò, all'inizio di ogni movimento democratico, i negri saranno sempre un problema particolare », dice Lee rivolto ad uno dei compagni bianchi del sindacato che cerca ciecamente di ottenere la più piatta "unità" razziale e di non trattere i neri come un "problema".

Naturalmente, questo modo di intendere il problema per la maggioranza non era facile da assimilare, né da una parte né dall'altra, e questo lo si può capire dalla frustrazione condivisa da tutti i personaggi di Himes. Era, in qualche modo, la stessa frustrazione provata dallo scrittore alla fine degli anni quaranta e all'inizio dei cinquanta. « A metà della sua carriera, Himes divenne un capro espiatorio perché era lo scrittore nero che rifutava di accettare che gli Stati Uniti si fossero convertiti in una società multirazziale che funzionava. Era emarginato a causa del suo rifiuto a voler preconizzare un futuro ottimista fatto di una sana integrazione razziale e di giustizia economica », sottolinea il professor Jackson. Perché per Himes erano importanti anche le disuguaglianze economiche esistenti nelle imprese e nelle fabbriche, disuguaglianze che non smise mai di criticare in tutto il corso della sua vita. Nei suoi romanzi c'è sempre un mantra: se c'è povertà, sfruttamento e schiavitù, si può fare ben poco con un discorso a proposito dell'uguaglianza delle razze. « La storia ha dimostrato che i suoi acidi giudizi non erano sbagliati » conclude Jackson.

Nei suoi successivi romanzi, "Tira la prima pietra", "La terza generazione" e "Fine di un primitivo", lo scrittore continua ad insistere sulla stessa tematica. « Quello su cui stava cercando di riflettere era il fatto che il razzismo in Nord America non consisteva tanto nel linciare i negri quanto nel distruggerli psicologicamente », sostiene il suo biografo. Una lenta guerra che faceva schizzare meno spruzzi di sangue, ma il cui risultato ero lo stesso. Per cui, nel 1953 deciderà di lasciare gli Stati Uniti. Nel 1956 si stabilità definitivamente in Francia, come già avevano fatto altri scrittori come Hemingway. Ed è qui che finalmente diventa uno scrittore di fama mondiale con i suoi romanzi che hanno per protagonista due detective negri di Harlem, Coffin Ed Johnson e Gravedigger Jones, e dove si lascia alle spalle la frustrazione degli anni americani. Non è più uno scrittore dolente ed amareggiato. « Nei romanzi francesi aveva invertito i suoi sforzi, non tanto nel mostrare l'ipocrisia etica quanto nel mostrare lo spettacolo carnevalesco creato dalla schiavitù e dalla segregazione. Il dolore che prima sentiva ora lo risolveva con umorismo e lo faceva riconoscendo l'assurdo della società occidentale e la visione confusa che la popolazione nera ha degli Stati Uniti », afferma Jackson. Una rassegnazione dotata di una qualche speranza che fece sì che i suoi libri fossero trasformati in film e che lui fosse acclamato dai lettori. « La generazione che aveva cominciato a scrivere dopo l'assassinio di Malcom X ha potuto chiamarsi con orgoglio negra, definendo la sua identità nella tormenta della politica di sinistra e dell'estetica negra nazionalista, e lo ha considerato un proprio antenato », sostiene Jackson.

Chester Himes è morto praticamente da solo, sulla costa di Alicante. Quando era arrivato lì era un uomo malato che riusciva a malapena a camminare. Lo accompagnava la moglie, Lesley, che continuò a vivere a Moraira fino alla morte avvenuta nel luglio 2010, e fu lei che si fece carico della sua eredità (diciassette romanzi, un'autobiografia e un buon numero di storie brevi). Non sono rimaste molte tracce di quello che è stato uno dei primi scrittori neri che abbia parlato con onestà del razzismo negli Stati Uniti. L'unico autore che ha rivolto lo sguardo laddove nessuno intendeva rivolgerlo. Tuttora. Perché laggiù continuano a dominare le pistole, le candele e le preghiere.

lunedì 25 luglio 2016

È la fetta che spiega la torta!

mito

Venti tesi sull’essenza del mito, sulla civilta` degli antichi e sulla lontananza del divino.
In pagine serrate e profetiche, Otto, uno dei maggiori pensatori tede- schi e storico delle religioni, ripercorre lo sviluppo spirituale dell’Occi- dente sul filo di parole fondamentali quali Legge, Archetipo e Mito.
Per Otto il prototipo o archetipo dell’essere umano non e` la natura intesa come insieme di leggi fisico-psichiche, ma lo Spirito, un mondo che anche se oltrepassa la sfera naturale non la abbandona pero` mai del tutto, anzi la vivifica e le conferisce una nuova dimensione. Adottando una visione della grecità come sintesi perfetta di naturale e spirituale, sulla scia di Hölderlin, Keats e Goethe, Otto indica nella lingua (la lingua come rivelazione spirituale, esclusivamente umana) la chiave per comprendere da una parte l’origine e l’essenza del mito e dell’esserci a questo mondo e dall’altra le modalita` effettive del suo apprendimento da parte del bambino. La risposta umana all’essere, la sua rivelazione.
Da questa compenetrazione si svela dunque la vera essenza del mito: quella «forma dello spirito» che non è fede, da sempre rappresentazione di un’assenza, ma visione, ascolto e presenza diretta del dio. Secondo Otto gli dèi hanno davvero camminato con gli uomini.

«Solo quando non ci sarà più alcuna poesia, né arte figurativa, né musica, né architettura, sarà giunta la fine del mito. Ma questo giorno non verrà mai, se non con il tramonto del genere umano».

(dal risvolto di copertina di: Walter Otto, "Il volto degli dèi", Fazi)

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C’era una volta il caos, e il mito vinse
- Walter Friedrich Otto insegna: l’orizzonte classico resta attuale -
di Mauro Bonazzi

L’infinita sequenza di cose ed eventi, che compone il flusso della nostra esistenza intrecciandosi con quella degli altri, ha un senso o è soltanto una combinazione casuale di fatti isolati, come dune di sabbia che si creano e disperdono su una spiaggia? Figlio di un’epoca frenetica, ossessionata dall’angoscia della futilità, James Joyce aveva le idee ben chiare in proposito, quando scrisse l’ Ulysses . Non è vero che tutto è accidentale; persino la giornata — mediocre, apparentemente inutile — di un impiegato qualsiasi in un qualsiasi ufficio di Dublino (Milano, Roma, Catania) rinnova qualcosa che c’è già stato e che di nuovo sarà, ripete un disegno che gli dà senso e valore, è un’impresa non meno eroica di quella di Odisseo. Ci sono schemi ricorrenti, strutture costanti nella vita degli uomini e dell’universo. Sempre in cerca dell’impresa estrema e mirabolante, del gesto di rottura che salva il mondo, non vediamo la bellezza del quotidiano, di ciò che si ripete sempre uguale, del sole che sorge tutte le mattine e degli uomini che tutti i giorni si avventurano nel mare dell’esistenza. Se sapremo accorgercene, potremo riscoprire le trame segrete che innervano le nostre giornate.
Erano le idee che, in quegli stessi anni, stava maturando anche un grande studioso del mito greco, Walter Otto. Perché questo è il mito: la convinzione che c’è un ordine dietro all’apparente frammentarietà degli eventi, e che il particolare, l’individuale — noi, nella nostra presunta irripetibilità — si comprende solo all’interno dell’intero di cui fa parte. Non esiste la fetta se non c’è la torta. Bisogna essere moderni per capire le sfide dell’antico.
Scritto in uno stile chiaro, Il volto degli dèi (Fazi) è un saggio breve, erudito, e molto attuale. Il mito è racconto. Linguaggio e parole insomma: nel Novecento non si è discusso che di questo. Oggi se ne parla molto meno, convinti che contino le cose e non le parole. Così ognuno attribuisce alle cose il significato che vuole e la realtà assomiglia a uno specchio rotto che riflette tante immagini discordanti. La realtà passa anche per le parole che la dicono, e il mito è un modo per mettere in ordine il mondo, dare forma al caos: racconta le cose per farle venire all’essere, scrive Otto, e progressivamente si dispiega davanti a noi lo spettacolo meraviglioso dell’universo.
Naturalmente, il mito non è soltanto ricerca dell’ordine, come se si trattasse solo di un primo e incerto tentativo, che poi scienza e filosofia perfezioneranno con ben altri mezzi, sostituendo all’idea di un destino imperscrutabile la regolarità delle leggi di causa ed effetto. Il mito è anche la pretesa che quest’ordine sia divino, sacro. Servono, oggi, simili rivelazioni? Forse no, penseranno in molti, magari con qualche buona ragione. Ma del mistero, della capacità di stupirsi per l’infinita ricchezza di ciò che sta intorno a noi, c’è ancora bisogno, e tanto. «In momenti particolari succede anche a noi che di fronte ai fenomeni di ciò che ci circonda, siano essi alberi, animali, monti, acque, avvenimenti celesti o le condizioni o gli eventi della vita umana, ci troviamo come afferrati e proviamo un brivido, come se dal suo abisso volesse rivelarsi qualcosa che oltrepassa ogni nostra conoscenza e comprensione».
Non si tratta di fuggire nell’aldilà di una trascendenza irraggiungibile, ma di riscoprire la potenza vitale, e la bellezza, di ciò che ci circonda — «l’essere nella pienezza della sua manifestazione», come scrive Otto. Non sono solo ingenue superstizioni: il mito ci ricorda che non tutto è a nostra disposizione, perché non possiamo tutto. La terra è troppo grande per essere solo nostra. E se invece di volerla piegare ai nostri bisogni, impareremo a comprenderne il ritmo, e i cicli che ne regolano la vita, riconoscendoci come parte di un insieme più vasto, la lezione del mito non sarà stata vana. Lo ha detto bene Friedrich Hölderlin: «È un’eterna serenità, una gioia divina poter porre ogni singola cosa ov’essa appartiene, nel luogo del tutto».

- Mauro Bonazzi - Pubblicato sul Corriere La Lettura del 19.6.16 -

domenica 24 luglio 2016

Complotti

complotto

Il cospirazionismo
- di Benoit Bohy-Bunel -

I - Introduzione
Nell'era del web 2.0, assistiamo sulla Rete alla proliferazione di un'incredibile diversità di visioni del mondo [N.d.T.: Weltanschauungen], dalle più fantasiose alle più "serie", senza che l'attenzione loro accordata attenga a dei criteri ponderati di selezione. Infatti, in questo contesto, quel che conta non è tanto la potenza argomentativa dei discorsi, oppure l'indiscutibilità dell'esposizione dei fatti, e nemmeno - e questa è la cosa più inquetante - le opinioni espresse, sia che esse siano favorevoli o contrarie; piuttosto, l'aspetto determinante sembrerebbe consistere nell'importanza quantitativa dell'audience coinvolta. Apparire massicciamente è condizione necessaria e sufficiente perché i "concetti" esposti divengano consistenti e degni d'interesse. La loro verosomiglianza verrà a dipendere dal loro tasso di viralità, un tasso la cui portata rimane misteriosa quanto quella di un decreto divino, e che tende a sostituirsi alla capacità di giudizio, a vantaggio del pensiero magico di un nuovo ordine.
È su un simile terreno che fiorisce una nuova generazione di cospirazionisti disinibiti, talmente sicuri del fatto loro da riuscire a trovare un pubblico sostanzioso. A livello psicologico, il successo di questi pensieri mutilati e confusi, nemici della complessità e del rigore analitico, si può spiegare a partire dall'inedita costruzione cognitiva indotta dall'uso sistematico ed irriflesso di Internet: l'effetto delle mode passeggere, quello della recensione e dell'esposizione e, soprattutto, la tendenza a suddividere le conoscenze in compartimenti stagni per poi collegarle a posteriori in maniera superficiale attraverso la sopravvalutazione di un settore dell'informazione che dovrebbe illuminare tutti gli altri, sono tutte componenti del pensiero cospirazionista ampiamente favorite dalla navigazione errante sul web. Inoltre, la moltiplicazione, sempre sulla rete, delle "conoscenze" disponibili, e la diversificazione dei modi di esposizione di tali "conoscenze", spaventano, e condizionano ad un ripiegamento verso l'unificazione semplicistica propria delle teorie del complotto (il ricorrere dei toni, del tema e dello schema interpretativo), un'unificazione che contraddice la pluralità empirica.
Tuttavia, il nocciolo della questione non riguarda solo lo strumento Internet, che dopo tutto è solamente un sintomo fra i tanti di una realtà più globale, realtà la cui configurazione determina un ricorso disperato alla personalizzazione ingenua dei rapporti di dominio. In questa prospettiva, il web svolge soltanto il ruolo di facilitare le cose, nella misura in cui non è mai altro che uno strumento che viene adattato alle condizioni di produzione in cui è stato inserito.

Il contesto in cui appare un certo cospirazionismo specificamente moderno ci rivela la sua essenza e la sua ragion d'essere. Nel 1798, l'abate Augustin Barruel denuncia un complotto anti-cristiano in atto nel movimento rivoluzionario francese. È così che emerge la prima forma di teoria del complotto in senso moderno, mentre ha inizio proprio quella dinamica secondo cui il complotto in senso tradizionale diventa impossibile. Infatti, l'universalismo formale che sul piano politico trionfa, in quella fine secolo, lo fa a vantaggio di una nuova strutturazione giuridica delle condizioni socio-economiche strutturazione che si fonda sull'astrazione del valore, sull'impersonalità del mercato e sulla neutralità assiologica, in opposizione alla personalizzazione concreta e teologicamente orientata dei rapporti feudali. Mentre la politica ratifica un'opacità inedita nei rapporti di classe, in cui i dominanti sono essi stessi dominati da delle vuote astrazioni su cui non hanno alcun controllo, ed in cui di fatto non hanno alcun controllo reale sulla società che si presume governino, sorgono paradossalmente i primi tentativi di chiarire il sociale edificato sull'onnipotenza iper-cosciente seppure dissimulata di una minoranza ben precisa. Questa contraddizione apparente chiarisce perfettamente la funzione intrinseca del cospirazionismo, che è una maniera propriamente moderna di considerare il mondo umano: esso tende a re-iniettare della soggettività, della responsabilità, della personalità, un progetto, laddove tutte queste cose vengono sempre più a mancare.

Nella sua analisi della società di mercato, Marx insiste sulla specificità del rapporto capitalista, che si distingue radicalmente dai rapporti schiavisti e feudali. Detto volgarmente, "il nemico del popolo" non è più propriamente umano, per cui non si tratta più di denunciare, in assoluto, il potere di un qualche gruppo sociale ben definito. Infatti, nei moderni rapporti di produzione, così come "il lavoratore non è altro che la personificazione del lavoro", anche "il capitalista è soltanto la personificazione del capitale". In altre parole, gli agenti economici, sia che si tratti di "sfruttatori" che di "sfruttati", sono tutti, in ultima analisi, ed allo stesso modo, modellati da delle categorie astratte la cui logica sfugge loro completamente. Di conseguenza, il vero soggetto di questa società non è il "borghese", né tanto meno il salariato, bensì è il valore, concettualizzato da Marx come "soggetto automatico". Il valore, il "soggetto automatico", è il mezzo e la finalità della società di mercato: è per mezzo suo che le merci diventano commensurabili fra loro, ed è questo valore che va accumulato indefinitamente; non l'umanità concreta in carne ed ossa, ma il lavoro umano gelificato nei suoi prodotti come purà quantità astratta, altrimenti detta "lavoro astratto". La sua esistenza come entità autonoma si basa sull'inversione propriamente capitalista della formula M-D-M (Merce-Denaro-Merce) in D-M-D' (Denaro-Merce-Più Denaro), vale a dire che si basa sul gesto capitalista che consiste nell'elevare il denaro - il mezzo dello scambio - a fine in sé, a qualcosa che avrebbe la qualità quasi magica di accrescersi nel processo di scambio (in realtà, è l'esistenza del plusvalore, estorto al salariato, che rende possibile tale accrescimento). In questo enorme automatismo tautologico, va da sé che l'individuo, con i suoi progetti, i suoi desideri, e la sua coscienza, non ha alcuna voce in capitolo, anche nel caso in cui possiede i mezzi di produzione. È solamente una forza senza volontà guidata dalla logica impersonale degli oggetti prodotti. Perciò, nessuna psicologizzazione, nessuna moralizzazione dei rapporti di domnio può essere presa in considerazione. Certo, è sempre possibile distinguere in seno al campo sociale un gruppo di privilegiati ed un gruppo di svantaggiati, nella misura in cui la distribuzione dei beni che vengono prodotti rimane ineguale. Ma non è pertinente opporli in maniera assoluta, presupponendo delle intenzioni esplicite da parte dei privilegiati, dal momento che non può essere imputato loro nessuna intenzione, nessuna responsabilità, nessun progetto cosciente: sono solamente le vittime di una matrice che non controllano.

In questo modo, il cospirazionismo appare nel momento in cui il potere si disumanizza. L'abate Barruel, dal momento che non voleva riconoscere le premesse di una de-soggettivazione della politica, doveva affermare con forza, e in maniera un po' caricaturale, che una volontà umana, nell'occorrenza anti-cristiana, era all'opera nel movimento rivoluzionario francese, e permetteva di spiegare la totalità degli sconvolgimenti dell'epoca. Ma così facendo, peccava di ottimismo, occultando il fatto che era ormai sempre più difficile identificare fra gli uomini i nemici degli uomini. È vero che il 1789 è stato la prima tappa, decisiva, nel declino del cristianesimo. Ma non in maniera concertata, non come un progetto cosciente: meccanicamente, inconsciamente, i moderni hanno dovuto ammettere che non avevano più bisogno della religione, nella misura in cui il divino si sarebbe ben presto incarnato nella materialità terrestre (nella merce in quanto feticcio). Le ragioni che assegnarono al loro ateismo non furono perciò altro che degli effetti scambiati per cause: delle giustificazioni a posteriori di uno stato di fatto non scelto (la loro confusione è altrettanto assurda di quella di chi, inciampando e cadendo a causa della forza di gravità, dice: "voglio cadere").

II - Il cospirazionismo antiebraico
Le varie teorie del complotto che sono fiorite fino ad oggi, sono tutte portatrici della medesima illusione. Il cospirazionismo antiebraico, ad esempio, inizialmente volto a denunciare l'impurità del capitale finanziario; che in quanto tale è una categoria astratta risultante dalla logica impersonale del capitale. Tuttavia, non si accontenta di denunciare un semplice meccanismo impersonale. Associando la speculazione finanziaria ad una qualche immaginaria volontà di potenza (di fatto, la valorizzazione del denaro conferisce qualche potere nei confronti della comunità astratta del valore, ma non direttamente nei confronti della comunità reale), e basandosi su una certa "stima statistica" (i grandi banchieri sarebbero in maggioranza ebrei, cosa che in ogni caso tenderebbe a provare la loro emarginazione, nella misura in cui il lavoro del denaro era, all'origine, empio), si perviene ad un'essenzializzazione del tipo ebraico, ed alla determinazione di una psicologia, di una morale e di un progetto di dominio assai preciso. Il punto di partenza è un puro automatismo disumanizzato, che afferma il suo carattere astratto, e la sua esteriorità nei confronti di tutte le culture (il capital finanziario); il punto di arrivo è una comunità storica il cui intento sarebbe cosciente, determinato, e relativo ad una cultura, ossia ad una "razza" (nel peggiore dei casi), dai tratti marcati e noti. Quest'induzione erronea, è bellamente volta a localizzare un nemico comune, a conferirgli un volto umano, al fine di eludere la disperazione dovuta al constatare che non c'è niente di umano in ciò che ci domina.
[...]

III - Il cospirazionismo maschilista
Ma passiamo ad un secondo esempio, nella continuazione del primo. Oggi fioriscono, su Internet o alla TV, i pensieri cospirazionisti che suppongono ci sia un complotto per la "femminilizzazione della società" che opererebbe a livello sotterraneo (Soral, Zemmour). La perdita di "virilità" da parte degli uomini diventa palpabile, nei rapporti domestici, nei rapporti di seduzione, e perfino nei rapporti di potere. Le donne finirebbero per appropriarsi dei valori che inizialmente erano "maschili", e alla fine si "maschilizzerebbero" a tal punto che tutto diverrebbe confuso. La postmodernità "decostruzionista", la "teoria dei generi", farebbero violenza al buon senso elementare ("un uomo e una donna non sono la stessa cosa"), e confonderebbero i significati stabiliti. Su un piano politico ed economico, tutto questo sarebbe il risultato di un ultra-liberismo sfrenato, che dissolve i rapporti tradizionali familiari che garantiscono una società più "stabile", più "armoniosa", e più "ordinata". Il "liberalismo dei costumi" (norme sociali e morali attenuate a favore di un'uguaglianza "astratta", "perniciosa") ed il "liberalismo economico" (libero scambio, dititti borghesi) si terrebbero mano nella mano, a vantaggio di una totalità socio-economica errante, amorale, deprivata di riferimenti fissi.
Anche qui una forma di pensiero "anticapitalista" (e che qui e là può ricorrere a Marx) pretende di esprimersi, per denunciare una realtà caotica dove più niente avrebbe senso. Tali pensieri confusi e confusionisti si appoggiano essenzialmente su dei fatti superficiali, empirici, visibili all'interno di una sfera spettacolare inessenziale, e occultano deliberatamente le basi oggettive di un dominio patriarcale che, nel quadro di una realtà capitalista fondata sull'accumulazione del valore, non fa altro che confermare sempre più la propria barbarie. Giova ricordare: l'impersonalità del valore, l'auto-movimento delle merci, che innescano questa incapacità a riconoscere dei "cospiratori" umani nei meccanismi di dominio, può benissimo coabitare con un dominio incosciente e latente di alcuni su altri (degli uomini sulle donne, per esempio). Soltanto i dominanti che non hanno coscienza di esserlo, che non sanno più di essere dominanti nel contesto dove sono essi stessi dominati da un processo di accumulazione delle cose che non controllano, non sopportano questa situazione per loro incomprensibile. Agendo inconsciamente come dei dominanti, senza tuttavia sentirsi responsabili di una "cospirazione" intenzionale da loro condotta, ma allo stesso tempo sentendosi dominati da una logica oggettiva superiore a loro, cercheranno di identificare dei gruppi umani differenziati colpevoli di questo "dominio" oggettivo che loro subirebbero. Paradossalmente, andranno a considerare responsabili della loro sottomissione oggettiva proprio coloro che dominano senza saperlo (occultando così la dimensione non-umana di ciò che li sottomette).

Per quel che riguarda la condizione delle donne nella società capitalista, Roswitha Scholz evoca il principio di una dissociazione sessuale fondata su una dissociazione-valore. Inizialmente, le donne, nelle società moderne, vengono assegnate al lavoro domestico, che avviene nella sfera privata, cioè a dire svolgono dei compiti che non vengono valorizzati nel senso della merce, ossia non si inseriscono nel processo di accumulazione della merce. Gli uomini, da parte loro, dal momento che svolgono un lavoro che produce valore (lavoro astratto), sono inseriti a partire da questo nella totalità sociale ed economica per mezzo della quale emerge ogni "valore" (non solo economico, ma anche simbolico, politico e culturale, nella misura in cui il valore economico implica tutte le altre forme di valorizzazione sociale, in un contesto capitalista). Tuttavia, il lavoro domestico femminile, indirettamente, permette la riproduzione della forza lavoro maschile che produce il valore, e rimane un elemento indispensabile nel processo capitalista di accumulazione del valore. Ma questa "partecipazione" ad un processo di produzione di valore, dal momento che rimane indiretto e nascosto (confinato nello spazio privato), non viene "riconosciuto" in quanto tale. Per cui, innanzitutto, la condizione della donna nella realtà capitalista sarà questa: una partecipazione non riconosciuta ad un processo di valorizzazione che di fatto mantiene una logica di dipendenza dal capitale per quel che attiene ad una forma che tuttavia la esclude. Su un piano psicologico, si può quindi pensare che l'odio sessista e maschilista diretto contro il "femminile", la tendenza a reificare la donna, a sottometterla in maniera aggressiva, si riferisce ad una forma di cattiva coscienza maschile, ad un inconscio collettivo maschile, furioso perché si sente allo stesso tempo dipendente e colpevole, e che può manifestarsi solamente in maniera violenta, quella stessa maniera per cui, assai spesso, la negazione assume delle forme violente - per esempio, vediamo che in Nietschze, grande ispiratore delle cospirazioni sessiste, il femminile è il principio del senso di colpa maschile (senzo di colpa insopportabile per i "maschi virili"!); le donne ricordano agli uomini, infatti, questo fatto elementare, che loro preferirebbero dimenticare: "il vostro spazio pubblico in cui si esercita un potere patriarcale dominante non sarebbe niente senza la nostra partecipazione, per quanto essa sia condannata al disprezzo ed al silenzio; voi godete di una volontà di potenza che si basa sull'intervento necessario di una forza espropriata, cosicché noi siamo il continuo ricordo della vostra stessa espropriazione".

Detto ciò, in seno alla nostra modernità tardiva, le cose sono cambiate. Le donne si sono maggiormente inserite nella sfera pubblica della valorizzazione del valore, accedendo in massa al lavoro salariato, e perfino anche ad alcuni posizioni di gestione economica o politica del capitale. Questo cambiamento avrebbe portato, culturalmente e socialmente, alla situazione che i cospirazionisti sessisti deplorano: perdita dei punti di riferimento, rimessa in discussione "costruttivista" della differenza ontologica fra i generi, ecc.. Ma si può vedere in questo accesso, da parte delle donne alla sfera pubblica della valorizzazione, un modo di impadronirsi di un potere che permetterebbe loro di rimettere in discussione il dominio maschile? Certamente no, per più ragioni. Da un lato, la sfera della valorizzazione è inizialmente, storicamente, la sfera del dominio maschile. Se le donne finissero per accedere a questa sfera, questo non vorrebbe dire che mettono in discussione le basi del dominio maschile: in quanto, nell'assenza della creazione di nuovi valori, non farebbero altro che appropriarsi dei valori predeterminati dagli uomini. Tale appropriazione non è veramente un'emancipazione, ma è piuttosto una nuova forma di sudditanza. D'altra parte, le donne "inserite" nella sfera del valore non è per questo che non continuino a dover assicurare, in maggioranza, lo svolgimento dei compiti domestici nella sfera della casa privata. In questo senso, Roswitha Scholz evoca il principio di una "doppia socializzazione" (pubblica e privata, "riconosciuta" ed ignorata). Questo principio di una "doppia socializzazione" non è affatto una forma di emancipazione, ma si tratta piuttosto dell'accrescimento della sottomissione: all'alienazione del lavoro produttore di valore si sovrappongono i faticosi compiti domestici. La negazione del riconoscimento in questo modo aumenta: le donne, che dovrebbero sentirsi "onorate" di essere inserite nella sfera del valore, di essere alla fine "riconosciute" socialmente, di fatto vengono iscritte in un'attività impegnativa sdoppiata, della quale non viene mai tematizzato l'aspetto privato, e di cui l'aspetto pubblico, di conseguenza, viene ignorato in quanto fattore di accrescimento della soggezione. Alla fine - dal momento che l'accesso delle donne alla sfera pubblica, ed inizialmente maschile, del valore è solamente derivata e secondaria - si deve perpetuare, malgrado tutto, un dominio maschile in questa sfera: disuguaglianza dei salari uomo/donna, maggioranza di uomini nei posti "ad alta responsabilità", ecc.. All'accrescimento della sottomissione legata ad una semplice appropriazione "reattiva" dei valori maschili, e ad una "doppia socializzazione" doppiamente gravosa, si sovrappone una disuguaglianza economica e sociale nella sfera pubblica del valore.

Già su queste basi, si potrebbe denunciare la totale impostura dei cospirazionisti sessisti (Soral, Zemmour, ecc.). Questi, in effetti pretendono di denunciare "l'ordine liberale" postmoderno, cioè a dire, a denunciare implicitamente una qualche "struttura capitalista" intesa in maniera confusa, evocando un principio di "femminilizzazione" della società, perfino un "dominio femminile" latente. Ma è chiaro, alla luce del principio della dissociazione-valore, che il capitalismo è intrinsecamente patriarcale e si perpetua in quanto dominio maschile, fin nelle forme barbare della "doppia socializzazione". I sessisti o i maschilisti oggi non possono essere degli anticapitalisti, ma al contrario difendono una struttura capitalistica primitiva. Non vedono che la "doppia socializzazione" di cui inconsciamente si lamentano (nei suoi effetti culturali o sociali) non mette in discussione il dominio maschile, ma al contrario lo mantiene, perfino lo radicalizza. Se fossero veramente dei maschilisti coerenti, inoltre, si rallegrerebbero dello stato attuale delle cose: di fatto, le donne, oggi, sono più assoggettate che mai nell'ordine capitalista che difendono senza nemmeno saperlo. Infatti, non c'è, in questa realtà, alcuna rimessa in discussione dei "generi" ontologizzati, ma la riaffermazione costante di una differenza di natura fra "l'uomo" e "la donna".

Che cos'è dunque questo "liberalismo" dei costumi che deplorano? Innanzitutto si tratta di una confusione: una confusione fra i movimenti libertari di emancipazione - realmente anticapitalisti, in quanto denunciano gli effetti perniciosi di una "doppia socializzazione" fondata su un'accresciuta sottomissione-reificazione delle donne (lotte per il diritto all'aborto, lotte per il diritto delle donne a disporre del proprio corpo, lotte femministe materialiste per l'abolizione del lavoro salariato, lotte contro la cosificazione pubblicitaria dei corpi delle donne) - e i movimenti, inscritti nella logica liberale, di integrazione delle donne nella logica del valore. La prima forma di movimento (emancipazione libertaria) non ha niente a che vedere con il liberalismo: questi movimenti non sono né individualisti, né inscritti in una logica di mercato, ma sono inizialmente collettivi e critici della società patriarcale della merce. La seconda forma di movimento (integrazione liberale) non ha niente di emancipatorio per le donne, e non corrisponde in niente a delle forme di "femminizzazione" della società: al contrario questi movimenti perpetuano una logica di dominio maschile, legata alla "doppia socializzazione" già evocata. La confusione tra questi due movimenti crea una miscela assai strana: uno pseudo anticapitalismo, in realtà fondato su un desiderio inconscio di mantenere un capitalismo "eterno", e sull'incapacità a vedere che il dominio maschile, grazie alla sconfitta della prima forma di movimenti libertari, è oggi più fiorente che mai.

Cosa fare quindi, alla fine, con le basi "empiriche" esposte dai cospirazionisti sessisti, quando vogliono giustificare il loro delirio a proposito di un complotto per la "femminizzazione della società"? Gli uomini farebbero sempre più lavori domestisci, diverrebbero "effemminati", meno autoritari, meno duri, meno "virili", laddove le donne avrebbero la tendenza a "smascolinizzare" gli uomini, ad imporre loro norme di uguaglianza in maniera dittatoriale, al punto che tali norme diventano dei nuovi princìpi di dominio (femminile), ecc.. Su un piano sociale, in primo luogo, queste nauseanti descrizioni ignorano i fenomeni concreti e di massa di dominio maschile, anche se spesso nascosti: violenza domestica prevalentemente maschile, lavoro domestico prevalentemente femminile, molestie sessuali e stupri, ecc.. Ma loro vi risponderanno che questi dati elementari sono solo ideologici (negazionismo). Riferendosi quindi a dei fenomeni superficiali e spettacolari, talvolta perfino a fatti di "moda", si lasceranno andare ad un balbettio penoso e fragile. Come rispondere loro? In primo luogo, per quanto riguarda quest'idea di una pretesa "virilità" intrinseca agli uomini che sarebbe minacciata, possiamo constatare che tale minaccia è soltanto apparente: nell'ordine oggettivo materiale delle cose, gli effetti della dissociazione-valore (fino alla "doppia socializzazione") privilegiano in maniera esplicita, da un punto di vista economico e politico, gli individui maschi. Il fatto che siano, in superficie, "effemminati" o "meno autoritari", non cambia niente allo status privilegiato che gli conferisce il loro genere, e quindi non mette in discussione la forma di autorità oggettiva di cui godono. Materialmente parlando, gli uomini non hanno perduto niente della loro "virilità", assegnatagli in virtù del loro status superiore nell'ordine del valore. D'altra parte, la figura fantasmatica della donna "dominatrice" e "castratrice", a volte posizionata ad alti livelli gerarchici nell'ordine del valore, non può essere assimilata in alcun modo, materialmente, all'esercizio di un qualche "dominio femminile". Il fatto che alcune donne si riapproprino di valori definiti "intrinsecamente maschili" (ma che sono in realtà dei valori costruiti storicamente dai maschi dominanti) non sembra tradurre un progetto di dominio "femminile", ma appare piuttosto come una sottomissione ad un ordine fin dall'inizio maschile, che si vede perciò confermato nelle sue strutture. Inoltre, anche qui la "trasformazione" avviene solamente in superficie, e, nell'ordine materiale delle cose, una donna, anche "autoritaria" o "mascolina", "dominatrice" (tutti dati soggettivi ed ideologici), rimane un soggetto donimato nel senso della dissociazione-valore. Infine, per quel che attiene alla divisione più egualitaria dei ruoli domestici, il cui progresso viene deplorato implicitamente, e a volte esplicitamente, dai cospirazionisti sessisti, va semplicemente notato che una tale divisione, che è in ogni caso desiderabile per qualsiasi società che non vuole essere barbara (vale a dire, che non vuole fondare la divisione del lavoro su dei rapporti "biologici" o "naturali"), rivela innanzitutto una logica di emancipazione quanto meno relativa, che non conferma in niente l'ordine "liberale", ma che al contrario si oppone agli effetti disastrosi della "doppia socializzazione", che sono degli effetti legati all'economia capitalista (in questo senso, chi deplora questa divisione più egualitaria dei ruoli difende un "capitalismo eterno" e si oppone a tutto ciò che può contrastare la logica barbara di tale "capitalismo eterno").

In questo contesto, le donne, e anche le donne definite "borghesi", o "privilegiate", sono le vittime principali del processo astratto del valore. Abbiamo già notato come questo universale astratto - il valore - si incarna necessariamente, indefinitamente, in delle forme particolari concrete, e da qui la violenza di una dissociazione totalitaria (il popolo ebraico, ad esemplio, è stato assimilato  in maniera ingannevole a questo universale astratto). Sarà la forma empirica maschile, inizialmente, e stavolta realmente, il contenuto particolare di questo universale astratto, e "l'integrazione" a posteriori di alcune donne in questo universale astratto produrrà una violenza, simbolica e reale, certa. In tal modo, l'emancipazione delle donne, borghesi o "proletarie" ("integrate" o abusate nel senso del valore, ma in ultima analisi sempre sottomesse alle devastazioni patriarcali della dissociazione-valore) implica sicuramente una lotta intrinsecamente anticapitalista. Le donne, che subiscono universalmente, e concretamente, la violenza della dissociazione, potrebbero così difendere gli interessi della società nel suo complesso, nella misura in cui la società avrebbe tutto da guadagnare dall'abolizione dei rapporti capitalistici (gli uomini "proletari", direttamente, gli uomini capitalisti, indirettamente). Come uomini, in un primo momento, nella lotta anticapitalista forse non avevamo abbastanza interessi "reali" da difendere, per proporre degli orizzonti che fossero realmente radicali. Ma, per effetto dell'universalizzazione, la lotta femminista (che è comunque una lotta anticapitalista, esplicitamente o implicitamente) potrebbe rivolgersi, in ultima analisi, ai maschi dominanti, i quali forse soffrono senza saperlo di una volontà di potenza che si basa soltanto sul disprezzo e sull'occultamento di tutto quello che ne rende possibile l'esercizio (volontà di potenza espropriata, colpevole, e infine piena d'odio), e che rimangono comunque ugualmente sottomessi all'auto-movimento delle merci, che non controllano affatto. Si potrebbe vedere, nel modo in cui Soral e Zemmour disprezzano il femminile, la manifestazione di un senso di colpa non ammesso, un senso di impotenza che viene ignorato e che si tramuta in risentimento, in desiderio di vendetta. Questi individui sinistri, con i loro discorsi complusivi e confusi, sembra che ci chiedano di porre fine alla loro angoscia inconscia. Ci chiedono di venire educati: la lotta femminista forse serve anche a questo.

In questa prospettiva, nell'associare la questione ebraica a quella femminista, si potrà notare una cosa che appare paradossale: il progetto politico ebraico iniziale, se attualizzato, in quanto progetto di emancipazione mondiale di tutti gli schiavi, non può più essere patriarcale. Infatti, il capitalismo ha finito per disvelare la struttura patriarcale di ogni dominio, di ogni schiavismo. Di fronte a tale evidente realtà moderna, un individuo che si inscrive nella lotta universale-concreta condotta dal popolo ebraico, oggi sarà necessariamente anti-patriarcale: radicalizzando il gesto di emancipazione, e relativizzando le figure dei patriarchi ebrei secondo un principio di limitazione storica.

IV - Il cospirazionismo anti-gay
La costellazione cospirazionista di cui abbiamo parlato (Soral, Zemmour, ecc.), sviluppa anche un cospirazionismo anti-gay. Questi tristi individui in tal caso si riferiscono, implicitamente, ad una concezione mutilata della morale giudaico-cristiana (quella che stacca la concezione di un atomismo dell'anima dalla lotta concreta per l'emancipazione), laddove altrimenti tenderebbero a "denunciarla" confusamente. Rappresentano, in altre parole, un essenzialismo disgregante ed irriflesso. Una "natura" dell'uomo che consisterebbe nell'avere dei rapporti sessuali con una precisa finalità biologica: la riproduzione, la preservazione della specie. Significa dimenticare che ogni sessualità, in una cultura umana data, è anche un fine in sè, un gioco di amore e seduzione, sia omosessuale che eterosessuale. Questi individui, che riducono l'Uomo, psichicamente atomizzato, a delle proprietà essenziali definite inalienabili, in fondo non fanno alcuna differenza fra l'essere umano, il quale, a priori, gode per godere, e l'animale, che solitamente copula per finalità biologiche esterne all'atto del godere. Abbiamo a che fare con giudaismo-cristianesimo paradossale, che finisce per negare la specificità dell'essere umano (laddove ogni giudaico-cristiano ama invece ricordare che Dio distingue questa creatura da tutte le altre). L'essenzialista paranoico omofobo vede nell'omosessuale, anche se inconsciamente, colui che umanizza l'essere umano, colui che afferma la sessualità in quanto fine in sè, colui per il quale ogni eterosessuale deve riconoscere che la sua sessualità, il suo matrimonio, non sono solamente asserviti ad un rigoroso ordine biologico. In altre parole, Soral e Zemmour vedono nella figura dell'omosessuale le loro proprie contraddizioni: la figura dell'omosessuale è la dimostrazione di ciò che i giudaico-cristiani affermano ontologicamente (una specificità dell'essere umano in generale), e simultaneamente la dimostrazione dell'assurdità delle morali reazionarie e confuse giudaico-cristiane, dell'idea di una "famiglia" giudaico-cristiana in sè che rifiuta la suddetta affermazione ontologica. È l'affermazione ontologica giudaico.cristiana, nella sua relazione con delle prescrizioni normative assai concrete che necessariamente la negano, è quest'atomismo dell'anima in quanto contiene delle contraddizioni irriducibili (in quanto separate dalle loro basi storiche, considerate sia nei loro limiti che nella loro dimensione positiva di emancipazione), ad essere in gioco nel cospirazionismo omofobo. L'omosessuale, che ciascuno è, in maniera manifesta o latente, rimanda alla sofferenza di indossare una specificità universale dell'essere umano (la sessualità, come fine in sé) e doverla poi mettere a confronto con un ordine morale che difende tale specificità universale, ma in una maniera tale per cui essa sarebbe prerogativa di coloro che più se ne allontanano (ad es.: alcune famiglie cattoliche "virtuose" reazionarie, che riducono il sesso a finalità animali, perciò non si elevano al rango di umanità, come genere specifico, non-animale). L'omosessuale che ciascuno è, che quindi io sono, a causa di un complotto al quadrato, è questa dimensione inconscia del mio essere che potrebbe permettermi di svelare l'assurdità palese di ogni atomismo dell'anima separata, di universale-astratto giudaico-cristiano mutilato, ma che, proprio in quanto inconscio, è suscettibile di farmi odiare (Solar, Zemmour) ciò per mezzo del quale potrebbe tuttavia avvenire la mia liberazione (liberazione che attiene anche ad una forma di emancipazione nei confronti di un ordine economico biologizzante, funzionalista ed utilitarista, che quando si tratta di tener conto dell'amore individuale umano, considera cinicamente solo il punto di vista dello spazio biologico umano).

Su un piano più "politico", anche qui, i dominanti inconsci, non essendo più consapevoli del loro dominio, in quanto mossi da una logica economica astratta, accuseranni alcune frange minoritarie e tradizionalmente escluse di essere responsabili del dominio oggettivo che loro subiscono (senza sapere che ciò che li domina non è umano). Il maschio eterosessuale virilista, immagine per eccellenza dell'uomo privilegiato, finisce per accusare il suo opposto, che egli giudica come un cospiratore (il quale in tal modo sarebbe colpevole di innescare un fenomeno di "femminizzazione").

V - Conclusione
Avviene che i tre esempi esposti in questo testo coincidono con dei temi particolarmente presenti in un Alain Soral, gran sacerdote della sciocchezza cospirazionista su Internet. Dunque, questa è l'occasione, non per tornare sul "pensiero" di quest'uomo del risentimento, ma per affrontare piuttosto la riflessione che abbiamo inizialmente proposto su Internet e sull'uso di Internet che favorisce il pensiero cospirazionista, in quanto è proprio su Internet, e non su altri media, che Alain Soral dilaga. Ci troviamo certamente ad avere a che fare con un importante sintome dell'era della tecnologia, proprio nel suo rapporto con la critica marxiana del feticismo della merce. Infatti, l'era della tecnologia è proprio quest'epoca umana dove non solo il prensiero tecnico, accademico (degli esperti) trionfa, e dove, inoltre, gli strumenti tecnici pensano al nostro posto, o meglio ci fanno pensare in questa o in quella maniera senza che noi ne abbiamo coscienza e senza che si abbia il controllo su questa passività. Ora, l'influenza di Internet in questo preciso caso è tale , e questa influenza ci riporta all'analisi marxiana: Internet determina un pensiero, i suoi riflessi, la sua povertà, le sue scorciatoie, e lo fa nella misura in cui questa merce che Internet costituisce è fedele alla missione che ogni commerciante assegna ai suoi prodotti; una missione di occultamento, di ritorno alla semplicità spettacolare del feticcio. L'uno spiega l'altro.

Possiamo riflettere un minuto, senza farci impressionare da questo "tasso di viralità", e da queste cortine fumogene: abbiamo a che fare con degli individui che ci dicono, senza batter ciglio, che un popolo di schiavi millenari, perseguitati per millenni (gli ebrei), che una parte della popolazione dominata fin dalla notte dei tempi (le donne), e che una minoranza esclusa e marginalizzata nel corso della storia (i gay), tutti questi sarebbero i responsabili della "nostra" oppressione universale, e quelli che ce lo dicono sono i più eminenti rappresentanti, sono le figure del dominio (uomini bianchi eterosessuali con un "elevato" capitale culturale). Non c'è forse qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto questo? Non dovrebbe essere poi così tanto difficile farli tacere.

- Benoît Bohy-Bunel - 17 luglio 2016 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme