giovedì 30 giugno 2016

Un avvocato contro la giustizia

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La repressione colpisce duramente le rivolte sociali. Ma è tutto l'insieme delle classi popolari che deve subire la giustizia nel quotidiano. Un avvocato analizza il Diritto e la Giustizia in quanto fondamenti dell'ordine capitalista. Clarence Darrow rimane una figura leggendaria del Foro degli Stati Uniti. È coinvolto in tutti i grandi affari giudiziari dell'inizio del 20° secolo. Difende, fra le altre cose, gli insegnamenti del darwinismo contro i fondamentalisti cristiani. Ma soprattutto, Clarence Darrow rimane l'avvocato dei sindacalisti rivoluzionari che subiscono una repressione feroce. Difende gli scioperanti ed i militanti dell'IWW, come Eugéne Debs o Bill Haywood.
Nel 1902, Clarence Darrow tiene una conferenza rivolta ai detenuti della prigione di Chicago. Per lui, il crimine è innanzitutto una strategia di sopravvivenza per i più poveri. Quindi, la polizia e la prigione non possono impedire la criminalità di quelle persone che subiscono la miseria e lo sfruttamento. Per quest'avvocato, «il crimine e la delinquenza, in quanto difesa spontanea del povero nei confronti dello sfruttamento capitalista, dureranno necessariamente fino a quando durerà la società di classe, e non potranno mai estinguersi finché questa dura».

Abolire la prigione
Nella sua prefazione, l'avvocato Thierry Lévy, riassume i vari discorsi che si tengono sull'argomento della prigione. La detenzione viene descritta come un'esperienza che permette al prigioniero di prendere coscienza del suo errore. La solitudine e il peso dei rimorsi devono sopraffare il detenuto. In seguito, la prigione viene descritta anche come criminogena. È una vera e propria scuola del crimine che permette ai prigionieri di indurirsi. Bisogna perciò riformare la prigione al fine di migliorarla.
Ormai, la prigione non viene più considerata come un bene, ma appare semplicemente come un male necessario. Ma la critica della detenzione non viene mai presa in considerazione. «Durante questi tre momenti, sono rari coloro che hanno osato proclamare che ci sono altrettante buone ragioni per abolire la prigione, di quanto ce ne siano per abolire la pena di morte. I loro discorsi sono stati e rimangono impercettibili».

Clarence Darrow, che rimane un avvocato rispettato, fa parte di questa minoranza. Nel 1902, interviene nella prigione di Chicago e dialoga con i detenuti. «Alcuni di loro stavano davanti a lui che diceva loro, con le frasi semplici di cui si era servito per difenderli ma il cui contenuto era ora del tutto differente, che non erano più criminali di quanto lo fosse la gente che stava fuori, nel mondo libero, e perfino che lo erano molto meno».
Il padrone, il proprietario o la compagnia elettrica che aumenta le sue tariffe appaiono essere assai più criminali. È la miseria che spinge al furto o alla rapina. Ma i veri responsabili del crimine non vanno mai in prigione. Per i poveri, il crimine rimane l'unica soluzione per sopravvivere. Gli atti di violenza contro le persone rimangono assai meno numerosi degli attentati alla proprietà.

Crimine e veri criminali
Per aprire la sua conferenza, Clarence Darrow mette in discussione la nozione di crimine. «Non esiste alcuna differenza significativa, sul piano morale, fra coloro che si trovano all'interno e quelli che sono all'esterno delle prigioni», afferma l'avvocato. Egli ritiene che il detenuto non è responsabile dei suoi crimini. Inoltre accusa il determinismo sociale. Non è per il fatto di essere buono, o di seguire una condotta morale, che si diventa ricchi e felici.
«Molte persone ritengono che una buona parte di coloro che stanno rinchiusi in prigione non meritano di starci e che, al contrario, il posto di molti di quelli che si trovano fuori dovrebbe essere dentro». Ma l'avvocato non mette in discussione soltanto questa giustizia di classe. Egli rivendica l'abolizione di ogni forma di prigione. «Credo che nessuno meriti di stare qui. Le prigioni non dovrebbero esistere» .
Ma l'avvocato non può essere accusato di idealismo. Conosce bene i criminali che gli stanno di fronte. Sono dei rapinatori professionisti pronti a derubare chiunque, anche l'avvocato che li difende. «Ma, riflettendoci, e da un altro punto di vista, nel mondo esterno, nel mondo della libertà, non sono praticamente tutti impegnati a derubarmi?», chiede Clarence Darrow. La compagnia del gas, ad esempio, impone un racket permanente per poter avere la luce e vivere in una condizione accettabile. Anche il servizio dei tram ci impone un taglieggiamento solo per potersi spostate. I padroni ed i borghesi possono rapinare la popolazione in assoluta impunità».
«Solo perché i membri di una qualsiasi corporazione hanno unto le tasche di qualcuno al Municipio ed hanno corrotto il legislatore, noi ci troviamo tutti costretti, di conseguenza, a pagare loro un tributo», osserva Clarence Darrow. La frode e la menzogna traspaiono da qualsiasi pubblicità. Ma questa classe sociale non rischia di ritrovarsi in galera. Può perfino appoggiarsi allo Stato per continuare i suoi imbrogli ed il suo dominio. «Questo perché tali persone hanno dalla loro parte la polizia. le prigioni, i giudici, gli avvocati, l'esercito e tutto il resto per continuare tranquillamente a depredare la Terra, e spazzar via dalla loro strada tutti quelli che pretendono di porre il problema», analizza Clarence Darrow.

Diritto e proprietà privata
Ma l'avvocato esamina anche le ragioni per cui i prigionieri sono stati condannati. Nella stragrande maggioranza, si tratta di furto o di rapina. Si tratta di attentato alla proprietà privata. I criminali sono assai spesso dei poveri che devono rubare per diventare ricchi. Queste sono anche delle persone che non hanno i mezzi per pagarsi un buon avvocato che li difenda. Al contrario, i borghesi sanno perfettamente come aggirare la legge per potersi arricchire. «Non ci sono molti rischi, per un uomo ricco, che un giorno egli possa varcare le porte di una prigione», constata Clarence Darrow.
I proprietari terrieri, in particolare in Inghilterra, si sono accaparrati il controllo del territorio e dei minerali. Adottano delle pratiche degne dei peggior criminali. Ma la giustizia e lo Stato permettono che questa proprietà venga difesa. «Queste persone che posseggono tutta la terra, perciò, creano delle leggi per proteggere la loro proprietà. Erigono un recinto o una barriera attorno a questa proprietà, e fanno delle leggi destinate ad evitare che altre persone, all'esterno, possano un giorno accedervi», descrive Clarence Darrow. Le leggi permettono di proteggere la classe dominante, ma non permettono di garantire la giustizia. «Le leggi non esistono, in realtà, che per organizzare la protezione degli uomini che dominano il mondo».
I poveri non possono pagare le numerose spese giudiziarie che permettono loro di fare appello. Allo stesso tempo, esiste un sospetto e un disprezzo di classe per i poveri, da parte della giustizia. «Per il povero, questa va molto più veloce. In ogni caso si viene considerati fin dall'inizio già un po' colpevoli, sennò altrimenti perché mai sareste qui, alla sbarra di un tribunale?», ironizza Clarence Darrow. I fascicoli sui più poveri vengono scorsi in maniera sbrigativa e gli avvocati non prendono mai le cose troppo sul serio. Inoltre, il procuratore dispone di tempo e di investigatori per le accuse.
Per abolire il crimine, bisogna abolire la miseria e la proprietà privata. «Nessuno andrebbe a rubare se potesse procurarsi questo o quell'oggetto con altri mezzi, più facili. Nessuno farebbe una rapina se la sua casa fosse piena di tutto ciò che può desiderare», sostiene Clarence Darrow. Delle giuste condizioni di esistenza e la soddisfazione dei bisogni umani possono permettere di eliminare il crimine.

Contro la criminalità, cambiare la società
Questa breve ed incisiva conferenza di Clarence Darrow ci fa capire i meccanismi del sistema giudiziario, L'avvocato disegna a grandi linee quella che è una giustizia di classe. Ci sono i poveri che cadono più facilmente nella criminalità, per delle evidenti ragioni di sopravvivenza. L'avvocato attacca anche la classe dirigente che si appoggia alla legge per sfruttare ed espropriare le classi popolari.
Le sue argomentazioni si contrappongono al discorso giuridico. Non declama l'eterno discorso dei cittadinisti della Lega dei Diritti dell'Uomo che pretendono di basarsi sul Diritto per difendere i più poveri. No, la giustizia ed il diritto non sono degli strumenti di cui le classi popolari si possono riappropriare. Non esiste alcuna giustizia dal volto umano. Se la legge può essere usata per difendersi, non per questo rimane uno strumento di reale trasformazione sociale. Clarence Darrow mette bene in evidenza i fondamenti di tutto il sistema giuridico: la difesa della proprietà privata. Lo Stato e la giusticia permettono perciò di difendere gli interessi della classe dirigente.
Clarence Darrow sottolinea anche quello che è un grande limite del processo legale. I tribunali hanno lo scopo di isolare l'individuo ed i problemi. Nel diritto non esiste alcuna dimensione collettiva. Ci sono degli individui che si ritrovano ad essere accusati, da soli davanti al giudice. E, soprattutto, le determinazioni e le cause sociali del crimine sono sempr elusi dalla giustizia. È la responsabilità individuale che viene sempre sottolineata.
Clarence Darrow quindi riguardo ai criminali non propone un discorso idealista, né propone un discorso ingenuo riguardo al diritto. Propone l'analisi di una società di classa vista come la vera causa della criminalità. Oltre alle prigioni, è tutto l'insieme dell'edificio capitalista che è indispensabile abbattere per poter creare un mondo di libertà e di uguaglianza.

- da: Clarence Darrow - Crimine e criminali (un discorso ai detenuti della prigione di Chicago) -

fonte: Zones subversives - Chroniques critiques

mercoledì 29 giugno 2016

Delirio di presunzione

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Il delirio di presunzione dell'Unione Europea
- di Gianfranco Sanguinetti

Il delirio di presunzione demente dell'Unione Europea è stato sanzionato l’altro ieri dal referendum in Gran Bretagna. I piccoli despoti corrotti di Bruxelles, che hanno dichiarato guerra ai diversi popoli sottomessi dall'Unione Europea, non se l'aspettavano affatto: abituati a decidere tutto senza mai tenere conto dei popoli, avvezzi all'impunità garantita loro dalla loro stessa irresponsabilità, abituati ad obbedire soltanto alle lobby internazionali, delle quali sono i mercenari armati, hanno continuato a provocare senza posa tutti i popoli, non immaginando neppure mai che questi potessero reagire. Dopo aver distrutto la Grecia e Cipro, dopo aver portato a termine un colpo di Stato nazista in Ucraina, scatenando una sanguinosa guerra civile nel cuore dell'Europa, dopo aver ridotto i popoli alla miseria ed alla disoccupazione, imponendo delle leggi sul lavoro che cancellano in un sol colpo due secoli di lotte per i diritti dei lavoratori, riducendo la Francia ed il Belgio ad un perpetuo stato di emergenza, e l'Italia, il Portogallo e la Spagna alla miseria, questi arroganti burocrati non eletti pretendono ancora di essere accettati ed obbediti dalle nazioni che umiliano ed opprimono. Si concedono addirittura il lusso di meravigliarsi se i britannici li rifiutano. Un vero e proprio delirio di presunzione.

L'Unione Europea, con le sue guerre in Africa ed in Medio Oriente, ha causato le migrazioni che vengono imposte agli Stati membri, ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero, ed i paesi europei in campi di concentramento per i rifugiati, servendosi del terrorismo per imporre dappertutto le sue leggi dittatoriali, governa per mezzo del terrore economico, della coercizione, attraverso l'austerità e l'espropriazione di ogni sovranità delle nazioni, con le sue leggi ottuse, con il cretinismo spietato delle sue regole, con il dispotismo della sua moneta, imponendo trattati segreti che vanno contro gli interessi dei popoli e che nessuno ha mai visto né discusso (TTIP). L'Unione Europea governa all'interno con la forza e la violenza, la menzogna e le minacce, i ricatti ed il terrore; all'esterno con la guerra, i colpi di Stato, le ripetute provocazioni nei confronti della Russia.

L'Unione Europea, così come è stato per l'Unione Sovietica, non è riformabile dal suo interno, al contrario di quel che le anime belle si compiacciono di ripetere, cantando il vecchio ritornello di ogni potere arbitrario ed abusivo. Non è riformabile, perché l'Unione Europea non è stata concepita per funzionare con le regole della democrazia, tali regole non fanno parte né della sua architettura né dei suoi meccanismi, tanto meno, soprattutto, del suo programma e dei suoi intenti.

Fin dal suo inizio è stata animata da un intento perverso, quello di distruggere l'autonomia di ogni nazione, di distruggere quello che il filosofo Hegel sosteneva "essere la prima libertà e la suprema dignità di un popolo" [*1].

A questo proposito, esiste un documento profetico: nel 1957, nel corso del dibattito sul Trattato di Roma, Pierre Mendès France aveva messo in guardia contro un progetto ispirato ad "un liberalismo ottocentesco". Quest'avvertimento dimenticato oggi risuona potente nel nostro presente dove è esplosa la crisi di un'Europa che ha perso la fiducia dei popoli. Vale la pena leggerlo.

«L'armonizzazione deve avvenire nel senso del progresso sociale, afferma il deputato Mendès France, nel senso di un innalzamento parallelo dei vantaggi sociali e non (...) a profitto dei paesi più conservatori e a detrimento dei paesi socialmente più avanzati.»

«Miei cari colleghi, continua Mendès France, mi è capitato spesso di raccomandare maggior rigore nella nostra gestione economica. Ma non mi rassegno, lo confesso, a farne giudice un Aeropago europeo in cui regna uno spirito che è ben lontano dall'essere il nostro. Su questo punto, metto in guardia il governo: non possiamo lasciarci spogliare della nostra libertà di decisione riguardo le materie che interessano così da vicino la nostra concezione stessa di progresso e di giustizia sociale; le conseguenze potrebbero essere troppo gravi, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista politico.»

«Stiamo attenti: il meccanismo una volta messo in moto, non potrà più essere fermato. (...) Non potremo più liberarcene. Saremo del tutto assoggettati alle decisioni dell'autorità sovranazionale davanti alla quale, se le cose vanno troppo male, saremo costretti a mendicare deroghe ed esenzioni, che non ci verranno concesse, siatene certi, senza contropartite e senza condizioni

Alla fine del suo discorso, Mendès France sottolinea il nocciolo del dissenso: questo progetto di mercato comune, riassume, «è basato sul liberalismo ottocentesco classico, secondo cui la pura e semplice concorrenza risolve tutti i problemi».

In altre parole, un liberalismo economico che manda in rovina ogni liberalismo politico, imponendo alla vita sociale la legge ferrea della concorrenza, a scapito della solidarietà collettiva e delle libertà individuali.

« L'abdicazione da parte di una democrazia può assumere due forme, conclude Mendès France, o il ricorso ad una dittatura interna, con la consegna di tutti i poteri ad un uomo della provvidenza, o con la delega di questi poteri ad un'autorità esterna, la quale, in nome della tecnica, eserciterà in realtà il potere politico, dal momento che è facile si arrivi, in nome di un'economia sana, a dettare una politica monetaria, di bilancio, sociale, insomma "una politica", nel senso più ampio del termine, nazionale ed internazionale.»

«Dire questo, aggiungeva Pierre Mendès France, non significa essere ostile all'edificazione dell'Europa, ma non volere che l'impresa si traduca, un domani, in una terribile delusione per il nostro paese, dopo una grande e luminosa speranza, dovuta alla sensazione che innanzitutto ad esserne le vittime sarebbero i suoi elementi già più svantaggiati.»

Per non averlo ascoltato, oggi viviamo in quei tempi di "terribile delusione" predetti da Mendès France. [*2]

Resta da notare anche che l'Unione Europea ha perso tutti i referendum popolari che si sono svolti fino ad oggi. Tuttavia continua, come se niente fosse, ad ignorare i risultati del voto democratico dei popoli, cosa che la dice lunga sulla guerra che conduce contro ogni espressione democratica. L'Unione Europea ignorerà anche il referendum britannico? Già si parla di annullarlo e di farne un altro.

Qualunque cosa accada, i popoli europei saranno costretti dall'arroganza dell'Unione Europea, uno dopo l'altro, a prendere congedo da questo mostro, come hanno fatto i britannici, senza alcun rimorso o scrupolo, senza nessuna nostalgia, e senza pietà, visto che, fin dalla sua nascita, questo mostro ha svolto il ruolo di abusare di loro. Ed è questo ciò che dovranno fare prima che sia troppo tardi.

- Gianfranco Sanguinetti - 25 giugno 2016 -

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NOTE:

[*1] - G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto.

[*2] - https://www.mediapart.fr/journal/international/240616/l-avertissement-prophetique-de-pierre-mendes-france

(traduzione dal francese di Franco Senia. Revisione di Gianfranco Sanguinetti)

martedì 28 giugno 2016

Convergenze e rotture

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INTERVISTA AD ANSELM JAPPE DELLA RIVISTA "CULT", maggio 2016

CULT: Nel suo saggio, "Guy Debord", del 1993, lei ha tentato di capire le fonti del pensiero dell'autore de "La società dello spettacolo", mettendo in luce l'importanza di Marx e della tradizione marxista ai fini dell'elaborazione della teoria dello spettacolo, e sottolineando, allo stesso tempo, il carattere eterodosso del pensiero di Debord. In cosa consiste la particolarità di questo pensiero e qual è la sua posizione in rapporto alla tradizione marxista?

Anselm Jappe: All'inizio, negli anni 1950, Debord si collocava, per via del lettrismo, su una linea di continuità rispetto al surrealismo originale ed al suo progetto di reinventare la vita, unendo la rivolta e la poesia. Ma ben presto è arrivato alla conclusione che era necessario cercare un'unione con quelle forze in grado di scuotere la società capitalista, ed è stato con un tale proposito che ha fondato l'Internazionale Situazionista. Quindi operò una profonda rilettura della teoria di Marx, il cui prodotto principale è stata "La società dello spettacolo" (1967). In quell'epoca, l'interpretazione leninista di Marx stava perdendo terreno, e gruppi come "Socialisme ou Barbarie" avevano messo in evidenza il ruolo nefasto della burocrazie sia nelle società capitaliste che in quelle che si pretendevano "comuniste". A partire da questo, se ne trasse come conclusione che i "Consigli operai" avrebbero dovuto sostituire i partiti ed i sindacati affinché si potesse arrivare ad una vera rivoluzione contro lo Stato e contro il capitalismo. Debord sottoscrive quest'idea. Ma riprende anche la critica marxiana della merce ed afferma che lo spettacolo è la forma contemporanea della merce. Cominciando il suo libro con la medesima frase con cui inizia "Il Capitale" di Marx, ma sostituendo la parola "merce" con la parola "spettacolo", Debord fa capire che pretende di presentare una versione contemporanea della critica di Marx. Mentre mantiene l'importanza conferita alla "lotta di classe", Debord dà grande peso alla "alienazione", ampliando questo concetto a settori come la vita quotidiana, l'urbanistica e la cultura. In questo modo, il proletariato non è più solamente l'operaio sfruttato, ma sono tutti quelli che hanno perso il controllo delle proprie vite e che ne hanno consapevolezza. Nell'ottica di Debord, ciò permette di vedere la rivoluzione sotto una nuova angolazione, e considera la rivolta del maggio 68 in Francia come la conferma della sua teoria. Ma quel che oggi appare essere più innovativo nella teoria di Debord consiste nel fatto di aver posto il feticismo della merce al centro della critica del capitalismo, mostrando che questo comporta sempre una passività generalizzata ed un esilio delle potenzialità umane in un al di là - che non è più religioso, ma che ha preso la forma di un'economia autonomizzata rispetto agli uomini che l'hanno creata.

CULT: In tale contesto, difficilmente la teoria dello spettacolo potrebbe essere confusa con una semplice teoria dei media. Che senso possiamo attribuire, allora, ai concetti di immagine e di spettacolo?

Jappe: Come nota Debord, i media, ed in particolare la televisione, sono soltanto la manifestazione più visibile - e "più travolgente" - del meccanismo spettacolare, ma non ne costituiscono il suo centro. Nello spettacolo, in quanto fase recente dello sviluppo della società capitalista, la contemplazione passiva della vita possibile sostituisce la vita reale. Gli individui "assistono" a quello che loro manca nella vita quotidiana. Sotto forma di immagini in senso stretto - per esempio, la vita brillante che vediamo al cinema consola gli spettatori della povertà della loro esistenza, sottomessa alle esigenze del lavoro e della vita borghese - ma anche in senso ampio - ogni merce, che si tratti di un'automobile, di un viaggio o di una visita al museo, promette una vita felice e sostituisce l'esperienza diretta della realtà. È per questo che viene consumata, e non per il suo valore d'uso. I paesi cosiddetti "socialisti" non sono meno spettacolari: ma lì è la contemplazione dell'ideologia e delle azioni del capo a sostituire il consumo delle merci. Si tratta, quindi, di "spettacolare concentrato", che Debord oppone allo "spettacolare diffuso" che domina nelle società "democratiche" occidentali. Anni dopo, Debord ha affermato che questi due tipi di spettacolo si trovavano sul punto di fondersi nello "spettacolare integrato" mondiale. Perfino i movimenti di contestazione cadono nella logica spettacolare quando i semplici adepti si limitano a sostenere l'azione di alcuni protagonisti, ed ancor più quando si installano delle burocrazie all'interno di queste organizzazioni. Per Debord anche l'arte è uno spettacolo: in essa la "rappresentazione" delle passioni sostituisce la vita diretta. L'esistenza dello spettacolo, però, non è una fatalità o una semplice conseguenza della "modernità". Lo spettacolo è una tecnica di dominio che permette di mantenere in uno stadio di passività la maggioranza della popolazione. Si basa sulla distinzione strutturale fra spettatori ed attori, impedendo agli individui di esercitare un controllo sulle proprie vite che, tuttavia, potrebbe essere possibile grazie allo sviluppo delle forze produttive. Pur avendo radici antiche, lo spettacolo si è sviluppato, soprattutto, dopo la prima guerra mondiale. È l'espressione dell'economia autonomizzata ed i suoi agenti non sono tanto i proprietari giuridici del capitale quanto i nuovi strati di burocrati, tecnocrati e manager.

CULT: Studiando gli archivi di Guy Debord, si può constatare che, prima di scrivere "La società dello spettacolo", egli quasi non avesse conoscenza degli autori della Scuola di Francoforte, poco tradotti in Francia, ad eccezione di Herbert Marcuse, il cui "Eros e civiltà" era apprezzato da Debord. Ciò nonostante, in più di uno scritto, lei ha messo in rilievo punti di contatto fra le riflessioni di Debord e quelle di Theodor Adorno, soprattutto circa l'industria culturale. Che rapporti possiamo stabilire fra questi due teorici?

Jappe: I filosofi tedeschi Theodor W. Adorno e Max Horkheimer hanno elaborato il concetto di "industria culturale" durante il loro esilio in California all'inizio degli anni 1940, rendendolo pubblico nel libo "Dialettica dell'illuminismo" (1947). Essi hanno denunciato, soprattutto, la riduzione della cultura ad una merce e la perdita del suo potenziale critico ed utopico, cosa che va di pari passo con un impoverimento generale della vita e della sensibilità. Questa critica ha incontrato un pubblico pià ampio solo vent'anni più tardi, e probabilmente era sconosciuta a Debord quando ha redatto il suo libro. Ci troviamo pertanto davanti ad una convergenza "oggettiva" di idee. Nonostante le evidenti differenze fra Debord, che si riteneva un sovversivo ed un rivoluzionario, e gli accademici della Scuola di Francoforte, nella loro maggioranza abbastanza tranquilli, vediamo che si ponevano gli stessi problemi: la fine della miseria del proletariato significa davvero che il capitalismo occidentale, chiamato d'ora in poi "società del consumo", abbia creato una società armoniosa? Oppure esistono nuove forme di alienazione che rendono l'individuo altrettanto impotente di prima, anche quando le forze produttive permetterebbero agli uomini di dominare le proprie condizioni di vita? La risposta è sempre una critica radicale della società del "miracolo economico", con termini che utilizzano la teoria di Marx mentre allo stesso tempo si distinguono dal marxismo tradizionale. Quelle che differiscono sono le conseguenze: Adorno non sembra più credere nella possibilità di una trasformazione radicale, se non una specie di cambiamento della mentalità che passi, soprattutto, per l'arte. Marcuse, al contrario, ammette la possibilità di una rottura nelle condizioni dominanti e scommette sugli studenti. Debord ed i situazionisti vedono comparire, in quest'epoca, una contestazione totale della "vita permessa" da parte di un "proletariato" che viene, in parte, identificato con il vecchio proletariato delle fabbriche e, in parte, con la massa di tutti coloro che sentono il vuoto causato dall'abbondanza di merci. Ma, a differenza di Adorno e di Marcuse, Debord sostiene che il potenziale critico dell'arte - che in passato è stato molto reale - si sarebbe esaurito e che la realizzazione dell'arte - che è allo stesso tempo il suo superamento in quanto realizzazione di quello che l'arte ai limiterebbe solo a promettere - sarebbe parte essenziale delle nuove forme di contestazione.

CULT: Più volte, lei ha cercato di mostrare che esistono punti di contatto anche fra il pensiero di Debord e quello di autori estranei alla tradizione marxista. È il caso, ad esempio, di Hanna Arendt, in particolare per "La condizione umana" (1958), il cui concetto dell'agire ed il cui concetto di tempo storico lei giudica vicini alle concezioni di Debord. Potrebbe commentare brevemente tale questione?

Jappe: Il pensiero di Hanna Arendt, discepola di Martin Heidegger, appare estraneo al marxismo e alla tradizione rivoluzionaria in generale. Tuttavia, a distanza di tempo, emergono alcuni parallelismo, come frequentemente avviene nella storia delle idee. "La società dello spettacolo" contiene una parte meno nota, nella quale Debord analizza il "tempo storico". Nel corso della storia, gruppi umani hanno cominciato a liberarsi dal tempo ciclico e a dare una direzione ed un senso alle loro azioni, rendendole uniche e degne di essere trasmesse - cosa che, per Debord, assomiglia ad un "gioco". L'esistenza di un materiale eccedente - che si trasforma in un'eccedenza temporale - e la sua appropriazione da parte di una classe sociale, sono state le sue condizioni. L'antica Grecia ha conosciuto così una "democrazia di signori della società". L'economia mercantile, con la sua correlata espansione delle forze produttive, avrebbe, da principio, reso possibile per tutta la popolazione un'estensione di questa libertà ed il gioco con il tempo. Ma la società di classe, soprattutto nella sua forma spettacolare, ha bloccato tale possibilità, sottomettendo la maggioranza degli uomini a nuove forme di ripetizione - soprattutto con l'obbligo a lavorare. Sotto questa forma, il "tempo spettacolare" è il contrario della storia realmente vissuta sotto forma di "situazioni costruite". Arendt, da parte sua, ne "La condizione umana" analizza la vita nell'antica Grecia come uno spazio dove ciascuno piò svolgere il proprio ruolo storico attraverso atti e parole. Inoltre, descrive il lavoro come una forma di alienazione volta alla semplice perpetuazione della vita biologica, in opposizione alla "opera". Per quanto differente sia la sua concezione rispetto a quella di Debord, ci troviamo un'aspirazione comune ad indicare una temporalità autentica - il che dovrebbe permettere agli individui di giocare fino in fondo il gioco del loro passaggio sulla Terra, se ne sono capaci. Da tutto questo emerge una certa concezione eroica della vita che viene spesso sottostimata dai commentatori.

CULT: Dopo aver studiato l'opera di Debord, lei ha collaborato alle riviste "Krisis" ed "Exit!", lavorando a fianco di Robert Kurz. Da allora è una delle principali voci (se non la principale) della critica del valore in Europa. Questo ci autorizza a ritenere che esista un filo di continuità fra la teoria di Debord e la Wertkritik. Ciò nonostante, è anche facile percepire che esistono punti di divergenza fra le due teorie, ad esempio, in relazione alla questione della lotta di classe. Quali sono i punti di convergenza e quali quelli di rottura fra il pensiero di Debord e la teoria della critica del valore?

Jappe: La principale voce della critica del valore è stata, senza dubbio, quella di Robert Kurz, fino alla sua morte improvvisa [a causa di un errore medico] nel 2012. In effetti, sono entrato in contatto con i teorici della critica del valore, elaborata inizialmente in Germania, dopo la pubblicazione del mio libro su Guy Debord, nel 1993. Loro praticamente non conoscevano le idee situazioniste. Non esiste, pertanto, filiazione diretta, né influenza di Debord sulla critica del valore al suo inizio. Ma ho trovato nella Wertkritik un pensiero con lo stesso grado di radicalismo, al di là degli altri diversi punti comuni: la centralità di concetti quali "alienazione", "feticismo della merce" o "reificazione"; la critica dell'esistenza stessa della merce e del lavoro, e non solo della sua gestione e distribuzione; la mancanza di fiducia nei confronti di gran parte del marxismo a favore di un ritorno alle categorie centrali di Marx; l'attenzione alla dimensione del quotidiano. E la Wertkritik, così come i situazionisti, si poneva fuori dal campo universitario e mediatico, evitando ogni forma di istituzionalizzazione ed imponendosi grazie al discorso - un discorso che sapeva, talvolta, essere abbastanza polemico, senza temere il conflitto con la sinistra radicale esistente. Allo stesso tempo non mancavano le differenze. In un certo qual modo, i situazionisti si fermarono a metà strada, nel loro mettere in discussione il marxismo classico, conservando in particolare la centralità della "lotta di classe" e della "soggettività rivoluzionaria" in generale. La Wertkritik ha molto insistito sul carattere ineluttabile della crisi del capitalismo e sul suo carattere oggettivo. Come si è visto vent'anni più tardi, la critica del valore ha saputo trarre profitto dalla critica del soggetto, ed in particolare dalla dimensione di genere, elaborate nel frattempo. D'altra parte, i situazionisti, e Debord in particolare, hanno avuto uno stile, un'attitudine che nessuno ha saputo riprendere e che proveniva, soprattutto, dalla tradizione artistica e letteraria francese alla quale si riferivano. La loro capacità di combattere lo spettacolo senza scendere nell'arena dello spettacolo è rimasta unica.

- Pubblicata sulla rivista "Cult" 212 del maggio 2016 -

fonte:  Critica Radical

lunedì 27 giugno 2016

Brexit: l'eccezione e la regola

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Il continente è isolato: l'euro affonda

Come dicono gli inglesi, "c'è nebbia sul canale della Manica, il continente è isolato".

In questo caso non potrà essere che un bene, d'altronde è stato chiaro fin dalla sua prima candidatura che il Regno Unito entrava nel Mercato Comune solo per poterlo meglio sabotare dall'interno, cominciando a farsi pregare ed esigendo (ed ottenendo) delle condizioni esorbitanti, come la famosa regola di bilancio secondo la quale avrebbe sempre recuperato, sotto forma di fondi strutturali o sovvenzioni, almeno l'equivalente del suo contributo al budget comunitario. Il Regno Unito, paese industriale il cui principale prodotto di esportazione agricola è stato di distaccare a Bruxelles un commissario europeo all'agricoltura aperto a tutte le concessioni da parte dell'Unione Europea (vale a dire concessioni francesi ed italiane) nei confronti degli Stati Uniti e dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, riuscendo così ad abbattere l'agricoltura francese ed italiana; situazione che l'ammissione della Romania e della Bulgaria, prima, e poi le ostilità contro la Russia, ultimamente, non hanno fatto altro che aggravare.

Non ci si impietosirà quindi più di tanto per la sorte delle regioni periferiche tradizionalmente povere del Regno Unito (Irlanda e Scozia) le quali, nonostante il sostegno della coalizione londinese della Borsa e dell'Islam, hanno visto allontanarsi le loro sovvenzioni franco-italiane. Da parte sua l'Inghilterra, al di fuori quindi della City dorata e delle sue verdi periferie, ha voluto riprendersi la sovranità, soprattutto perché gli Inglesi (neanche loro) non si sentono più a casa quando visitano la propria capitale, rappresentata da un nuovo sindaco che, simbolicamente, rassomiglia ad un conduttore di elefanti del ministero della difesa del Canadesh. Ciascuno per parte loro, il kebab non poteva scegliere che il multiculturalismo, e la bombetta non poteva scegliere altro che la redditività dell'eccezione britannica.

Perché quest'eccezione è molto redditizia. La svalutazione artificiale speculativa, del 20%, delle monete europee continentali, durante l'anno successivo alla loro fusione nell'euro, si era tradotta in una rivalutazione (relativa) della sterlina. Mentre il prodotto interno lordo della Francia, realizzato in franchi (ormai un sottomultiplo dell'euro), e il prodotto interno lordo del Regno Unito, realizzato in sterline, non erano affatto cambiati, il deprezzamento improvviso dell'euro e la corrispondente rivalutazione della sterlina hanno fatto passare il PIL (espresso in dollari) del Regno Unito davanti a quello (espresso in dollari) della Francia, retrocessa così al rango di quinta potenza economica mondiale, mentre la sua perfida rivale passava al quarto posto. Bastava questo alla stampa finanziaria inglese per stampare a titoli cubitali il passo avanti del Regno Unito, magnificando la salute e la competitività della sua economia (rimasta del tutto invariata) al fine di attirare i grandi capitali apolidi che in ogni caso rifuggivano le piazze finanziarie europee minate dalla speculazione contro la moneta "comune" di nessuno. In questo senso la sterlina è stata una beneficiaria collaterale della strategia statunitense (la fusione dei mercati e delle monete d'Europa). Si può anche dire che si sia vendicata sui suoi vicini per la grande svalutazione subita nei confronti del marco e del franco in occasione della sua sconfitta nel 1992 per mano di Soros, soprannominato "l'uomo che gettò sul lastrico la banca d'Inghilterra", nel momento in cui questi fece saltare soprattutto il Sistema Monetario Europeo; una missione sicuramente retribuita dai suoi sponsor della JP Morgan, della Chase Manhattan  e della Bank of America (o dal loro governo) ed il cui miliardo e mezzo di dollari di benefici apparenti (a scapito del Regno Unito) del suo fondo Quantum, come riportato dalla stampa, non era altro che un vantaggio accessorio e non il motivo principale. Il governo inglese aveva da parte sua certamente compreso che quest'obiettivo statunitense era la sola ragione per cui era stata spinta ad accettare, più di due anni dopo, che la sterlina (allora assai più instabile della lira) entrasse nello SME quando, dopo un decennio di disastri economici, e in un contesto d'inflazione doppio di quello della Francia, e triplo rispetto a quello della Germania, questo non poteva portare ad altro se non ad una seria sopravvalutazione della sterlina. Gli strateghi statunitensi sapevano bene che gli esecutivi dei paesi europei lavoravano contro i loro rispettivi paesi, e sapevano anche che già all'epoca rispondevano a tutti i fallimenti comunitari con un ancora più frenetica integrazione. Spingendo il Regno Unito verso il continente, il loro obiettivo era forse proprio quello di far esplodere due anni più tardi il Sistema Monetario Europeo, al fine di spingere i paesi europei verso una moneta unica, ancora più facile da manipolare, come il futuro avrebbe inequivocabilmente dimostrato.

E come il presente continua a confermare. Eppure sono più di quindici anni, dopo la creazione della chimera monetaria, che si continua sistematicamente a reagire agli scossoni economici d'oltreoceano e ad ignorare gli indicatori europei: la pubblicazione di un tasso d'inflazione o di disoccupazione riguardante l'Europa non ha alcun effetto sull'euro, mentre la pubblicazione di un tasso d'inflazione o di disoccupazione degli Stati Uniti d'America lo fa sempre scendere o salire, facendogli giocare perfettamente il ruolo per il quale l'euro è stato creato: quello di contrappeso alternativo su cui si piazzano i fondi quando ci si aspetta una svalutazione del dollaro e da cui ci si ritira quando si pensa che ci si possa aspettare che il dollaro salga. L'euro, certamente su una scala assai minore rispetto al dollaro, conferma anche il fatto che la speculazione finanziaria e monetaria si appoggia assai più sulla psicologia che sull'aritmetica, e la manipolazione è tanto più facile quando gli attori coinvolti sono ignari.

Un frequentatore del Bar del Commercio potrebbe pensare che la sterlina e l'euro evolvano indipendentemente, dal momento che sono le monete di spazi monetari distinti, e che tale indipendenza potrebbe perfino essere rafforzata dall'uscita del Regno Unito dal Mercato Comune. Un economista che sa che la sterlina non ha alcuna vocazione a fondersi nell'euro, potrebbe credere che la fine del regime di eccezione (soprattutto del bilancio) ed il rafforzamento dell'equilibrio fra la geografia economica e quella monetaria, attraverso l'eliminazione di una moneta ed attraverso il rafforzamento della prevalenza dell'euro nell'Unione Europea, giocherebbe a favore quanto meno dell'euro, forse anche della sterlina. Un politologo potrebbe immaginare che l'uscita di un guastafeste sistematico ed il consolidamento del processo di indecisione comunitario giovi di default alla politica economica dell'Unione Europea ed alla sua moneta, e che il ristabilimento della politica economica sovrana del Regno Unito giovi alla sua propria moneta. Uno speculatore interessato ad un'alternativa finanziaria e borsistica fuori dallo spazio regolamentato dalla banca federale statunitense e dalla banca centrale europea (e più solida di quella di Shangai) accoglierebbe con favore la rinascita della City, nel preciso momento in cui essa va a perdere il suo ruolo mondiale di fissaggio del prezzo dei metalli preziosi. Niente affatto! Avrebbero tutti torto. I padroni dei grandi mercati di speculazioni sulle valute hanno affondato, un venerdì, sia l'euro che la sterlina, ed hanno puntato tutto sul dollaro. Lo scioglimento, in Borsa, delle azioni (quindi dei capitali propri) delle banche europee ai due lati della Manica avvicinano l'inevitabile cataclisma finanziario, e fanno sì che si possa incolpare la Deutsche Bank (punita per aver denunciato la manipolazione del prezzo dell'oro), la cui bancarotta ormai imminente farà sembrare quella di Lehman Brothers del 2008 come un aneddoto minore.

I grandi speculatori capitalisti apolidi avevano annunciato che in caso del ristabilirsi della piena sovranità del Regno Unito, avrebbero ritirato i loro soldi da Londra, dove li avevano tuttavia piazzati a causa dell'indipendenza economica del paese, del suo codice di commercio assai compiacente, del suo accoglimento di fondi in gestione non residente (offshore), della sua resistenza ai diktat di Bruxelles, ed anche grazie alla possibilità di piazzarli o di convertirli in un'altra valuta diversa dal dollaro o dall'euro. Non è affatto detto che mettano in atto la loro minaccia agendo contro i loro stessi interessi, ora che la cosa è decisa, dal momento che forse cercano solo di intimidire ed influenzare l'elettorato britannico su ingiunzione degli Stati Uniti, che non hanno esitato da parte loro a minacciare apertamente il Regno Unito di sanzioni economiche in caso di uscita dall'Unione Europea, e che questo lunedì invieranno a Bruxelles (e certamente, di passaggio, anche a Londra) il loro ministro degli affari con l'estero, per comunicare le loro istruzioni ai capi di Stato e di governo europei, apparentemente poco imbarazzati dal fatto di essere convocati, collettivamente ed individualmente, da un semplice ministro, per di più inviato da un paese non membro dell'Unione Europea, al quale consacreranno un bel po' di energie e di riunioni di crisi a partire da venerdì.

Tutto questo significa che gli Stati Uniti la sfida non è economica, bensì politica. Ora, i due inconvenienti principali derivanti per loro dal ripristino della sovranità britannica sono innanzitutto legati al fatto che devono imporre il TTIP (Trattato Transatlantico) ad un decisore politico in più, ed al fatto che altri popoli rischiano, successivamente, di seguire quest'esempio, cosa che porterebbe ad introdurre altrettanti ulteriori negoziatori.
Per quel che si conosce riguardo la vera posta di questo Trattato, verosimilmente ignorato dalla quasi totalità dei commissari europei incaricati della sua preparazione segreta, si può capire come gli Stati Uniti faranno tutto ciò che è in loro potere per mantenere l'unicità del decisore dal lato europeo, e per preservare l'unità dell'Unione Europea (nel mentre che dappertutto altrove seminano il caos) e per assicurare la sopravvivenza dell'euro.

- Delenda Carthago - Pubblicato il 26 giugno 2016 su Stratediplo -

fonte: Stratediplo

domenica 26 giugno 2016

Comunità immaginarie

burattini

Gli abiti nuovi della peste identitaria nell'era del capitalismo di crisi
- di Clement Homs-

"Certo, c'è l'economia e c'è la disoccupazione, ma ciò che è essenziale è la battaglia culturale identitaria" (Manuel Valls, 4 aprile 2016).

Nei rapporti sociali capitalisti in cui ci troviamo tutti immersi fino al collo, siamo costantemente in lotta per ottenere un buon titolo di studio, per trovare lavoro, per arrivare a fine mese, per salire nella scala sociale, per restare in corsa, per fare carriera, per eliminare un concorrente, per non essere licenziato, per mantenere sempre ottimi rapporti, per affrontare le "fantasmagorie" (Klaus  Theweleit) della mascolinità, per svolgere in quanto donna il "secondo turno" a casa, ecc.. La paura del fallimento che deriva da tutto questo crea un enorme clima di ansia e di stress continuo (che porta al "burnout", al suicidio o al desiderio amok di uccidere tutti).
L'individuo-merce, per consolidare il suo status di soggetto particolare isolato che deve difendere i suoi propri interessi nel contesto della concorrenza capitalista, vendendo la sua forza lavoro - e, soprattutto, a fronte della sua impotenza rispetto alla sua relazione con la società, che subisce come una costrizione collettiva reificata -, è portato ad assumere, strutturalmente, una necessità soggettiva di identificazione .
Egli trasfigura tutto questo, così come fa con le minacce alla sua stessa esistenza, associandosi ad alcune identità collettive e compensatorie (con alcune "comunità fittizie, immaginarie", per usare la definizione di Benedict Anderson), che danno a chi è stato spogliato di tutto una sensazione illusoria di grande potere - che può essere riconosciuto come il "narcisismo collettivo" del soggetto moderno (Erich Fromm). Questo può avvenire per mezzo di comunità immaginarie che sono state create da tutta una storia di fuoco e sangue durante lo stesso capitalismo a partire dal 18° secolo, oppure, talvolta, per mezzo di comunità create a partire da zero attraverso l'invenzione di "nuove tradizioni" (Eric Hobsbawm): il popolo, la patria, la nazione, l'etnia, la "comunità razziale superiore", la religione, l'Occidente illuminato, i gruppi sportivi di cultori del corpo, la comunità del califfato, le "tribù" identificate da Michel Maffesoli e che sono state chiamate postmoderne (tribù musicali, ecc.), la comunità unificata da una "personalità autoritaria" (Adorno) o da un "leader carismatico" (Max Weber).

Dalla svolta del decennio del 1980, la crisi nei centri del capitalismo, così come il fallimento delle modernizzazioni di recupero nelle periferie, ha portato ad una radicale ristrutturazione all'interno del sistema IKEA di tali identità collettive compensatorie e di legittimazione (sistema questo che non è esterno o pre-moderno, bensì immanente alla totalità sociale capitalista). Ed è qui dove le monadi armate si dispongono alla lotta per la vita nel capitalismo, che vedono come il migliore dei mondi possibili.
Ricorderemo qui, in particolare, per mezzo delle più recenti figure identitarie e religiose, alcune delle forme contemporanee di questa nuova esplosione di peste identitaria che è emersa a partire dagli anni 1980-90:

- L'ascesa dell'islam integralista in un mondo arabo economicamente al collasso;
- Il ritorno nei centri capitalisti del discorso fondamentalista dei "valori occidentali" e della giustificazione del "ruolo positivo della colonizzazione";
- Il populismo trasversale della "sinistra della sinistra", così come dell'estrema destra, che afferma in maniera perversa e idiota il nazionalismo e la difesa della sovranità economica (il "made in Francia", il protezionismo a favore del "buon capitale produttivo nazionale");
- La crescita in tutta Europa dell'estrema destra a partire dal 2008, il differenzialismo etnico di Alain de Benoist o addirittura il dibattito, in Francia, sulla famosa "identità nazionale capitalista";
- L'accettazione della lettura culturalista come base comune sia ai difensori dello "scontro delle culture" che ai difensori del "dialogo delle culture". Ed ecco che molti, da Alain Finkielkraut a Houria Boutelja del "Parti des Indigènes de la Republique", ora condividono le identità collettive, culturali-religiose, o addirittura evocano, con tamburi e trombe, i cosiddetti valori universali "europei" ed "occidentali". Lo fanno anche se sono sempre più svalutati dalla logica dell'esclusione sociale e razzista prodotta dal sistema di concorrenza capitalista con il suo gioco di incantamento.

Lo scenario è quello del collasso. È proprio qui appare questa nuova peste identitaria. In quanto nuova ideologia di legittimazione, questa peste si trova ben annidata dentro il processo di crisi interna del capitalismo descritto da Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff ne "La grande svalorizzazione". Sarà il motore di aggravamento del processo di crisi?

Una scopa che spazzi via tutti i patrioti, tutti i nazionalisti, i populisti, gli identitari, i razzisti ed i culturalisti!

- Clement Homs -

Su questo argomento, si terrà un dibattito martedì 28 giugno alle 20:30, in Place du Vigan, Albi. Francia.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

sabato 25 giugno 2016

Ieri in Inghilterra, domani in Spagna

podemos elezioni

Il modello politico di Podemos

Il fenomeno della "Nuit Debout", con le sue occupazioni di piazze, rilancia l'idea di un Podemos alla francese. Grazie al successo avuto alle elezioni municipali e legislative, nel 2015 in Spagna, è diventata la forza politica in ascesa. Podemos emerge il 17 gennaio 2014 per iniziativa di un gruppo di universitari di estrema sinistra, i quali si appoggiano al movimento del 15M, esploso nel 2011, e pretendono di "trasformare l'indignazione in cambiamento politico". Podemos smette di essere soltanto un gruppuscolo della sinistra radicale per diventare la terza forza elettorale in Spagna.

Nel suo libro "Podemos, dall'indignazione alle elezioni", la sociologa Héloise Nez propone la sua analisi. Questo fenomeno politico rimanda alla specificità del contesto spagnolo ed alle conseguenze della crisi economica e della corruzione della classe politica. Allo stesso tempo, Podemos si inscrive nella continuità di un movimento sociale. Ma, come avviene in tutti i partiti, sorgono dei problemi: strutturazione interna, leadership, comunicazione, finanziamento. Podemos pretende di rispondere in maniera differente a tali problemi ed intende proporre un'alternativa alle politiche di austerità in Europa. Abbandona il folklore, il vocabolario e i simboli tradizionali della sinistra. Il suo discorso non si basa sulla distinzione fra sinistra e destra, ma sull'opposizione fra "quello che stanno in alto" e "quelli in basso". Questo partito non si rivolge unicamente alle classi popolari ma vuole essere un fattore di unificazione. Allo stesso tempo, Podemos porta alla luce del sole anche i problemi che attraversano le lotte sociali come quelli espressi dalla burocratizzazione del 15M.
"In particolare, mi sono interessata alle tensioni che hanno attraversato il movimento e che riguardano il rapporto con la politica, la tensione fra una volontà di inscriversi nel sistema esistente ed il rifiuto a farsi coinvolgere nella politica istituzionale", analizza Héloise Nez.

Le origini di Podemos
Se Podemos presenta una base sociale diversificata, il suo gruppo dirigenziale rivela un profilo molto omogeneo. Sono tutti degli intellettuali che hanno fatto esperienza politica con l'estrema sinistra. Il loro manifesto "Mover Ficha" (Muovere le Pedine) viene pubblicato il 14 gennaio 2014. Le elezioni europee del maggio 2014 gli permettono una prima vittoria elettorale ed una rapida ascesa. All'origine di Podemos ci sono due gruppi. Dei professori in scienza politiche dell'Università Complutense di Madrid si associano con dei militanti del gruppuscolo "Sinistra anticapitalista". Questi universitari fanno parte della piccola borghesia intellettuale, ma rimangono precari e marginalizzati in seno all'Università. Soprattutto, questi intellettuali sono dei militanti che partecipano ai movimenti sociali. Sono anche passati per dei partiti e dei sindacati, e se ne sono allontanati delusi. L'ondata antiglobalizzazione ed i movimenti studenteschi hanno forgiato la loro socializzazione politica. Però non partecipano attivamente al movimento 15M, bensì lo vivono come ispiratori o come spettatori coinvolti.
Questi universitari condividono alcuni riferimenti politici comuni, come Machiavelli e Gramsci, e perfezionano la loro capacità comunicativa per mezzo de "la Tuerka", un canale televisivo che trasmette attraverso Internet. Imparano a fare un discorso chiaro e sintetico.
L'atro gruppo fondatore di Podemos comprende i militanti di Sinistra anticapitalista, un partito che appare vicino al Nuovo Partito Anticapitalista (NPA) in Francia. Questi militanti partecipano al movimento del 15M e si associano con gli universitari per creare un nuovo partito, ma sono evidentemente gli intellettuali che monopolizzano tutte le posizioni di potere.

I dirigenti di Podemos fanno riferimento ai governi di sinistra in America Latina, come quelli del Venezuela o della Bolivia. Quel continente ha conosciuto una crisi economica negli anni 1990 e 2000, ed i piani di austerità imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale hanno portato alcuni Stati alla rovina. Il contesto sembra quindi simile a quello che è attualmente prevalente in Europa. Soprattutto in alcuni paesi, dei leader della sinistra hanno vinto le elezioni ed hanno dato inizio ad una "rivoluzione bolivariana", con aiuti sociali clientelisti e con la personalizzazione del potere. Ponendosi contro le tesi anti-globalizzazione spacciate da John Holloway, il quale vuole "cambiare il mondo senza prendere il potere", i dirigenti di Podemos insistono sulla presa del potere statale.

In Spagna, la crisi economica appare particolarmente violenta. La bolla immobiliare è esplosa, il settore delle costruzioni è crollato, gli sfratti si moltiplicano e la disoccupazione continua ad aumentare, andando a toccare, in particolare, i giovani laureati. Il movimento del 15M appare come una rivolta contro questa situazione. Le manifestazioni si trasformano nell'occupazione di luoghi pubblici. Gradualmente, in tutti i quartieri si diffondono le assemblee e lo spazio deliberativo si impone sul microcosmo della militanza. "Le assemblee riuniscono in questo modo una grande varietà di individui che non hanno necessariamente una precedente esperienza di mobilitazione, ma che prendono coscienza della loro capacità di azione collettiva attraverso la condivisione dei loro problemi e frustrazioni della vita quotidiana", osserva Héloise Nez. L'orizzontalità ed il consenso devono impedire la concentrazione del potere. Podemos si presenta come la traduzione elettorale di questo movimento sociale.

Podemos

Da movimento sociale a partito politico
Il 15M si oppone alla classe politica ed al sistema democratico. La rappresentazione e la monopolizzazione del potere vengono fortemente attaccate. Tuttavia, Podemos si appoggia a quest'esperienza per creare un partito con un capo carismatico. Ma il movimento del 15M si divide in due correnti: una parte vuole riformare il sistema elettorale e le istituzioni, ma una corrente piuttosto libertaria si appoggia alle lotte sociali, soprattutto quelle contro gli sfratti, alimentando il movimento degli squat e dei centri sociali.
"L'obiettivo è quello di rivendicare il diritto all'alloggio, ma anche quello di forgiare una contro-cultura, iscrivendosi in una tradizione politica autonoma", precisa Héloise Nez.
Al contrario, Podemos insiste sulla necessità del cambiamento istituzionale e riesce ad attirare numerosi militanti e simpatizzanti del 15M. La lotta collettiva e le assemblee accelerano la politicizzazione. Degli anonimi si esprimono davanti ad una considerevole popolazione, degli sconosciuti si incontrano e decidono collettivamente. I problemi non vengono più percepiti come individuali, ma come conseguenze di un sistema politico e sociale. Un'emancipazione individuale e collettivo pone la questione della trasformazione della società nel suo insieme.

Il discorso di Podemos riprende quello del 15M, ma la strategia politica è differente. Il movimento del 15M attacca la delega di potere, mentre Podemos valorizza la struttura partitica con un leader forte. In seguito, il cambiamento non passa più per le lotte sociali, ma attraverso le istituzioni. Ma Podemos si appoggia all'esperienza delle assemblee, si organizzano dei circoli su base territoriale o per settore professionale, in maniera spontanea senza la pianificazione del partito. Di converso, le riunioni sono sempre più regolamentate, il processo decisionale non si basa più sul consenso, ma sul voto; cosa che favorisce acquisizioni e manipolazioni.

A Parla (Madrid), i circoli Podemos appaiono essere più "anziani" e più "maschili" delle assemblee del 15M. Inoltre, i militanti si caratterizzano per mezzo di una significativa diversità sociale. I giovani disoccupati sono presenti, ma si trovano fianco a fianco con delle persone che hanno un impiego qualificato (architetti, informatici, psicologhi). Ci sono persone che militano da tempo, mentre altri si sono impegnati solo a partire dal 15M. Ma alcuni scoprono la politica con Podemos. La maggior parte dei militanti ritiene che le manifestazioni non servano a niente. Per loro, soltanto un passaggio attraverso le istituzioni può permettere un cambiamento politico.
"E poi c'è un numero ancora più piccolo, una minoranza di cui faccio parte, che ritiene che il successo del 15M non consiste nel divenire un partito politico, bensì nel contestare la logica della rappresentanza politica", dichiara Fernando.
Questa minoranza libertaria privilegia le lotte sociali ed i cambiamenti concreti, anziché le elezioni ed i posti di potere.

Un rinnovamento politico relativo
Podemos propone un nuovo discorso, il divario non è più fra la destra e la sinistra, ma fra l'alto ed il basso. Il 99% si oppone all'1% che costituisce le élite. Questa formula appare riduttiva, essa occulta le ineguaglianze, soprattutto quelle che attengono alle classi sociali, ma il rifiuto dell'etichetta di sinistra permette di rispolverare il vecchio militantismo. Per uscire dal microcosmo minoritario, vengono abbandonati il folklore ed i simboli della sinistra. Pablo Iglesias cerca di prendere le distanze dal "tipico militante di sinistra, triste, noioso, amaro".

Podemos vuole arrivare a vincere le elezioni per conquistare tutto il potere. Per questo, rifiuta il linguaggio sinistro e negativo della sconfitta e veicola un messaggio di speranza a partire da un discorso semplice: democrazia, sovranità e diritti sociali vengono martellati come concetti chiave. Ma il programma di Podemos appare simile a quello della socialdemocrazia tradizionale: lo Stato deve regolare l'economia capitalista per mezzo dei diritti sociali. Nondimeno, Podemos vuole ascoltare anche le proposte dei movimenti e delle associazioni, anche se i dirigenti del partito, in cerca di credibilità, si sottomettono alla classica logica del governo. Il programma viene elaborato dagli esperti, e non proviene più dalle discussioni e dalle delibere dei cittadini.

Podemos si basa sulla leadership e sulla personalizzazione politica. Il viso di Pablo Iglesias è stampato anche sulla scheda elettorale. Questo giovane intellettuale dal look banale, che fa discorsi semplici e che ama Games of Thrones incarna il suo partito. Soprattutto, in seguito alle sue frequenti apparizioni televisive, è diventato una figura mediatica. In seguito a questo, Podemos ha perfezionato la sua comunicazione attraverso un significativo utilizzo dei nuovi media.

Podemos è assai simile ad un partito classico, i suoi dirigenti impongono un'organizzazione gerarchizzata per vincere le elezioni, a detrimento di una presenza territoriale che possa permettere di costruire una forza politica a lungo termine. Il consiglio cittadino, una struttura rigida e verticale, si impone sui circoli. La partecipazione dei militanti di base continua ad essere sempre più affossata.
"Si assiste così ad una delega del potere, da parte dei militanti, agli eletti del consiglio cittadino, che corrisponde ad un classico processo di concentrazione di potere in seno ad un'organizzazione politica", analizza Héloise Nez.

Podemos viene spesso presentata come un partito di non-professionisti, che consente a chiunque di fare politica, però i suoi dirigenti insistono su una dimensione elitaria che distribuisce posti di potere secondo le competenze universitarie e militanti. Podemos si rinchiude nel quadro della democrazia rappresentativa, la quale si basa sull'elezione di una classe dirigente.

podemos syriza

Il vicolo cieco Podemos
Héloise Nez propone un'analisi pertinente del fenomeno Podemos. Il suo libro la fa finita col racconto dei dirigenti di partito che rifiutano la minima critica. Soprattutto, Héloise Nez conosce bene la situazione spagnola e spinge la sua ricerca fino alle radici del 15M. Podemos viene ben descritta in quanto emanazione di un movimento sociale.
Tuttavia, la novità di Podemos va ridimensionata. I suoi dirigenti non fanno altro che scaldare la vecchia minestra marxista-leninista, separano il sociale dal politico. La lotta concreta viene confinata nei limiti di una mera contestazione che ha bisogno perciò di uno sbocco politico sotto forma elettorale ed istituzionale. Peggio ancora, i dirigenti di Podemos fanno dell'ironia intorno alle manifestazioni che non servono a niente.
La loro strategia politica è soltanto quella di una socialdemocrazia decomposta e camuffata per mezzo di un marketing digitale. In realtà, Podemos non propone alcuna nuova idea, quel che cambia è soltanto la comunicazione. Si tratta sempre dell'eterno programma della sinistra del capitale che si trascina almeno dagli anni 1980; un semplice ritorno ai gloriosi Trenta senza alcuna reale trasformazione della vita quotidiana. Un'amministrazione dello sfruttamento capitalista al fine di cercare di renderlo un po' più umano. Podemos, come Syriza in Grecia, una volta arrivata al potere, può solo accontentarsi di gestire una politica di austerità. E' il triste destino storico della socialdemocrazia.
Inoltre, Podemos mostra la deriva dei movimenti sociale verso una burocratizzazione. Mentre le assemblee sociali del 15M permettevano a chiunque di prendere la parola e partecipare al processo decisionale, Podemos invece permette la confisca del potere da parte di un pugno di burocrati. Anche senza cravatta, la maschera di Podemos riesce a malapena a camuffare il viso odioso della vecchia classe politica, arrivista e disposta a tutto pur di prendere il potere.

Podemos non è affatto una nuova speranza, ma è diventato il becchino delle lotte sociali. Il ribollire contestatario del 15M rivela alcuni limiti, la lotta sembra essersi ben stabilita nei quartieri e per quanto riguarda il problema della casa, invece la rivolta non investe in alcun modo le imprese, il luogo di lavoro, per attaccare la precarietà e lo sfruttamento. Quel che manca al 15M non è uno sbocco elettorale, ma una generalizzazione della rivolta.
Ma quel che soprattutto rivela il successo di Podemos sono le contraddizioni del 15M, che finiscono per essere le stesse contraddizioni di tutti i movimenti sociali. Una tendenza riformista ritiene che le lotte debbano servire da pungolo per il potere, per riformare le istituzioni e cambiare le leggi. Un'altra corrente ritiene invece che i cambiamenti concreti della vita quotidiana rimangono essenziali, ma la lotta sociale deve diventare di per sé politica. Le assemblee non devono accontentarsi di fare delle proposte al potere, ma devono spazzar via la classe dirigente
Questa divisione politica rimanda ad una divisione di classe: Podemos si divide fra una piccola borghesia intellettuale divorata dall'ambizione e delle classi popolari che devono lottare per sopravvivere.
La piccola borghesia ambisce a rimpiazzare la borghesia alla testa dello Stato, mentre le classi popolari devono difendere i loro interessi nella prospettiva di un'abolizione della società di classe.

fonte: Zones subversives Chroniques critiques

venerdì 24 giugno 2016

Accordi sindacali

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L'accordo fra governo e organizzazioni sindacali per la manifestazione di ieri a Parigi, apre delle interessanti prospettive. Perché non creare un "anello di manifestazioni" in cui abbiano luogo d'ora in avanti tutte le proteste di massa? Lo stadio Charléty, che è già ricco di storia, farebbe perfettamento al loro caso. Un severo filtraggio agli ingressi, così come è avvenuto questo giovedì sui viali che portano alla Bastiglia, faciliterebbe non poco il lavoro di una polizia così tanto stressata. I cancelli alle entrate permetterebbero di contare i manifestanti, mettendo così finalmente fine alle stime fantasiose effettuate sia dalla Prefettura di polizia che dagli organizzatori.
La determinazione del numero dei partecipanti avverrà a partire dal numero dei giri di campo effettuati. I semplici simpatizzanti troveranno posto sulle gradinate. Le telecamere utilizzate per le trasmissioni sportive potranno servire per fornire immagini ai telegiornali.
In questo modo si impedirà ai casseur di agire e non ci sarà più nessuna congestione del traffico.

fonte: Le blog de Floréal

giovedì 23 giugno 2016

Comunità sessuali

Homo-03

Homo 03. La nascita di una "questione sessuale"
- di G.D. -

Perché l'omosessualità, teorizzata per la prima volta dai suoi difensori, è stata poi rapidamente assunta da dei censori desiderosi di reprimerla o di "guarirla". Perché la modernità capitalista ha separato "la sessualità", e l'ha creata come categoria a parte. Prima si è censurato l'oltraggio alle autorità, alla religione, così come si è fatto con la morale sessuale. Il 19° secolo laicizza i costumi. Ma, facendo del sesso un tabù, la società capitalista in ascesa lo tematizza nella politica pubblica e nel discorso, e promuove "la sessualità" a fenomeno da comprendere e da inquadrare. L'arrivo sulla scena pubblica della "omosessualità" è inseparabile dall'arrivo di una "questione sessuale".

La nascita di una specializzazione
È nel 19° secolo e all'inizio del 20° secolo che appare il termine ed il concetto di sessualità, e che viene consacrato da Freud nel 1905 nei suoi "Tre saggi sulla sessualità". Le realtà cui si riferisce questo termine (ed altre come il sadismo ed il masochismo) esistevano da molto tempo, ma è solo allora che entrano, in quanto oggetto specifico, nella gestione politica e nel discorso pubblico, poiché c'è bisogno di delimitare per mezzo di questo vocabolario una settore delle attività umane che "pone un problema".

Già l'Enciclopedia di Diderot, inventariando e classificando le arti, le scienze ed i mestieri, invitava l'individuo a fare il giro della proprietà, la passeggiata, come diceva Goethe, in "una grande fabbrica". Più di un secolo dopo, il capitalismo ha bisogno di denominare, di specificare tutto per un fine produttivo. È la prima società in cui ciascuno si trova ad essere definito innanzi tutto a partire dal suo posto nel sistema di produzione. Il capitalismo sistematizza delle conoscenze e delle tecniche - alcune di esse millenarie - al servizio della produttività delle imprese e non più semplicemente della ricchezza di un sovrano o di un paese. Parallelamente alla scienza economica, nasce un'economia politica della popolazione, in cui la demografia gioca il ruolo di conoscenza particolare, assistita dalla sociologia e dalla psicologia. Un modo di produzione caratterizzato dalla produttività e dalla normalizzazione, deve definire "il normale". In particolare, con l'assegnare alla donna un ruolo produttivo, nella casa così come nella fabbrica.

È cosa ben nota che i borghesi del 19° secolo hanno messo l'ordine morale, il rispetto della famiglia e le tradizioni di obbedienza, al servizio della disciplina che facevano regnare nelle loro fabbriche. Ma, allo stesso tempo, il lavoro salariato portava al declino della famiglia in quanto cellula economica di base e mandava a lavorare fuori casa il marito, la moglie e i bambini. Con un duplice effetto: nell'artigianato e nel commercio, la famiglia cominciava a non essere più l'unità economica di base, e nella borghesia la proprietà familiare cedeva terreno alla Società per Azioni.

«Il legame interno della famiglia, i diversi elementi relativi all'idea di famiglia, per esempio l'obbedienza, la pietà, la fedeltà coniugale, ecc., tutto questo è stato dissolto; ma il corpo reale della famiglia, le condizioni finanziarie, l'atteggiamento esclusivo riguardo le altre famiglie, la coabitazione forzata, le condizioni dovute al fatto stesso dell'esistenza di bambini, all'architettura delle città moderne, alla formazione del capitale, ecc., continueranno a sussistere, benché alterate sotto molti aspetti; gli è che l'esistenza della famiglia è resa necessaria dai suoi legami con il modo di produzione, che sfugge alla volontà della società borghese. (...) La famiglia continua ad esistere, anche nel 19° secolo, solo che questo processo di decomposizione è diventato più generale (...)» (Marx, L'deologia tedesca, 1846).

Anche prima del 1846, i contemporanei avevano constatato questa dissoluzione dei legami tradizionali, per deplorarla, o per rallegrarsene, considerando l'avvento di un "universalismo" celebrato da Hegel: parafrasando Saint Paul, annuncia una società in cui l'uomo "non vale in quanto è greco, romano, indiano, ebreo, in quanto nato buono o cattivo; ma egli ha al contrario un valore infinito in sé, in quanto uomo". Potenzialmente, la società salariale libera l'individuo dai legami di sangue, di origine, di natura, di suolo... e del sesso.

Il modo di produzione capitalista si dimostra in effetti come il solo sistema che ha dei problemi con gli "uomini" in quanto sesso dominante; trattando gli esseri umani prinicpalmente in quanto fattori di produzione, approfitta dell'ineguaglianza dei sessi ma promuove anche la fluidità degli individui - donna o uomo, cattolico o protestante, credente o ateo, etero o omo - sul mercato del lavoro. Una contraddizione alla quale si adegua, ma cui deve adattarsi, cosa che fa in modi diversi secondo il luogo ed il momento.

Perché i sessuologhi?
K.-H. Ulrichs faceva notare che la maggior parte di coloro che si opponevano alle sue teorie erano dei psichiatri, medici della follia, che avevano avuto a che fare con gli Uranidi solo nei manicomi, quindi avevano incontrato necessariamente soltanto dei "malati" [*1].

La parola sessualità fa data dal 19° secolo. Gli etimologisti discutono per decidere se la lontana origine del termine sesso si riferisce a ciò che separa o a ciò che accompagna. Non decideremo al loro posto. Constatiamo soltanto l'ambiguità prevalente, come se il linguaggio si fosse rassegnato ad opporre due facce della stessa realtà. Ogni definizione deve separare un significato dal significato simile, l'arte di classificare consiste quindi nel collegare ciò che è disunito, compito ancora più arduo quando si tratta del sesso. La medicina si impegna quindi a collegare azioni, comportamenti e dati biologici in cento modi differenti secondo il criterio scelto, moltiplicando in tal modo tipologie e neologismi. Il ritaglio esige un re-incollaggio. Richard von Krafft-Ebing, un best-seller, ha reso popolari una serie di parole, tra cui "pedofilia". Le autorità riconosciute saranno quelle i cui neologismi verranno trasmessi dall'ambito accademico al pubblico istruito, prima di essere adottato dal linguaggio corrente per passare ai posteri.

La sfida epocale, è quella di separare ciò che è innato da quello che viene acquisito: gli amori mascolini si spiegherebbero a partire da una degenerazione congenita, o per una mancanza morale, un difetto psicolgico, o per una causa sociologica? Qualunque sia l'opzione scelta, la scienza dell'epoca è quasi unanime nel vederla come una deviazione rispetto all'attrazione "naturale" fra i due sessi, un'inversione, da cui la longevità del termine 'invertito'. La patologia dell'omosessuale sarebbe quella di soffrire di una contraddizione fra la sua autonomia ed il suo desiderio.
Nel dibattito hanno corso giochi di potere. A seconda che si insista (come fa Zola nei suoi romanzi) sull'ereditarietà, o al contrario sull'educazione (e la rieducazione), si conferisce priorità all'azione del medico o a quella del poliziotto. Infatti, psichiatria e giustizia collaborano, il medico opera in qualità di esperto presso il tribunale.
In questo dispositivo, nel suo voler rendere conto solo a sé stessa, la psicoanalisi ha un ruolo eminente.

Se da più di un secolo Freud occupa così tanto posto nelle menti, ciò è dovuto non tanto a dei meriti intrinsechi ai suoi concetti (il complesso d'Edipo, in particolare), quanto alla sua capacità di sistematizzare uno stato di crisi, riassunto in un testo del 1908 dal titolo eloquente: La morale sessuale "civile" e la malattia nervosa dei tempi moderni. Fino ad allora i moralisti invocavano dei principi supposti come indiscutibili. La novità freudiana, è quella di fare come se l'individuo, anziché obbedire ad una morale che si pretende eterna, sia in grado (aiutato dalla psichiatria, ovviamente) di cercare la propria strada. Da modello, la famiglia passa ad essere ormai il nodo di contraddizioni da sciogliere. Da momento idealizzato di apprendimento, l'infanzia diviene patogena. Prima, dovevo rispettare la tradizione. Ora, devo fare ciò che mi consenta di inserirmi meglio che posso nella società. La morale sessuale si secolarizza: di passa dalla Legge alla legge.

È il momento in cui il regno del padre ha cominciato ad essere messo in discussione ed è diventato oggetto della teoria. La figura paterna centrale non va più da sé, ed il modello familiare "borghese" è arrivato ad essere percepito più come problema che come soluzione. L'edificio freudiano, appreso e volgarizzato, ha offerto allo "Occidente" un modo di pensare la sua crisi familiare ed la trasformazione del rapporto fra i sessi. Come diceva Karl Kraus, la psicoanalisi è la malattia mentale di cui crede di essere la terapia.

Freud vede nell'omosessualità l'effetto di uno sviluppo interrotto: ciascuno si costruisce per tappe, purtroppo l'omosessuale si è fermato per strada. Se Freud ritiene impossibile poter "guarire" un omosessuale, è perché lui (assai più della maggior parte dei suoi colleghi, dei suoi allievi e dei suoi successori) prende sul serio la fondamentale bisessualità dell'essere umano. In fondo, per Freud, l'omosessualità non è né più né meno ambigua dell'eterosessualità, dal momento che secondo lui tutt'al più la medicina addolcisce una vita affettiva e sessuale che è inevitabilmente fonte di problemi e di sofferenze.

Questo implica che vengano catalogati i disturbi. "Per cortesia, un po' d'ordine in queste orge; ne occorre anche nel delirio e nell'infamia.", scriveva Sade. Col medesimo sistematismo e con molto meno immaginazione, gli psichiatri non vogliono smettere di ordinare il disordine, classificando le perversioni come se fossero varietà di specie biologiche. Qualche volta con comprensione e tolleranza: Krafft-Ebing e Freud non sono gli unici medici contrari alla criminalizzazione dell'omosessualità. Ma dal momento che il loro obiettivo rimane quello di gestire ciò che supera il limite, psicologi e medici divengono degli specialisti della pacificazione della morale. Basandosi la società capitalista più sulla norma che sul divieto, bisogna riconoscere i problemi per governarli. In seguito, verso la fine del 20° secolo, il capitalismo approfondirà il suo dominio, la normalizzazione della morale non richiederà più una norma unica.

Discorso e rapporti di classe
Prima di gerarchizzare la morale, e per poterla gerarchizzare, si è dovuto sottomettere il lavoro, insegnando al proletario la disciplina di fabbrica e gli obblighi temporali. Si supponeva così di organizzare la popolazione lavoratrice, facendosi carico dell'ambiente, dell'urbanistica, della salute, della maternità e dell'istruzione. Le misure di salute pubblica vanno di pari passo con il collocamento e con l'inquadramento dell'immigrazione. Misurare e quantificare per controllare tutto. Fino all'assurdo, come l'ossessione del 19° secolo per la masturbazione, che veniva equiparata ad uno spreco dell'energia che bisognava riservare alla riproduzione della specie.

Ad esempio, mentre la prostituzione aveva potuto essere un commercio da organizzare (bordelli municipali nel Medioevo) oppure una professione da reprimere (reclusione e deportazione nel 17° secolo),è ora il soggetto di una politica sanitaria, con una regolamentazione, un controllo medico, e la trasformazione dei bordelli in case chiuse o di tolleranza.
Tuttavia, nel 19° secolo la parte di spesa sociale nel bilancio dello Stato è minimo, e tale rimane fino al 1914. L'evoluzione, assai lenta, avviene sotto la pressione delle lotte dei proletari, del movimento operaio e di imperativi economici, politici e militari. L'amministrazione della popolazione è determinata da relazioni sociali che sono in primo luogo rapporti di classe.

È precisamente questo ciò che Foucault non può comprendere, in quanto definisce il capitalismo come l'istituzione di tecniche di potere "disciplinare" e "bio-politica", di cui il rapporto capitale-lavoro sarebbe solo un effetto. Dall'abbondanza di testi destinati alle donne degli strati superiori, egli conclude che regolare la sessualità dei borghesi fosse prioritario rispetto all'organizzazione della riproduzione dei proletari. Come se la società borghese avesse come fondamento i suoi discorsi su sé stessa. Foucault rovescia la causalità. Il fatto determinante, è la sottomissione dei proletari - donne ed uomini - al loro ruolo di proletari, e ne deriva l'assegnazione dei borghesia del loro ruolo di borghesi.

In sostanza, per Foucault, la società capitalista non produce innanzi tutto del valore accumulato per mezzo del lavoro, ma del controllo e dell'assoggettamento. Ciò che lui privilegia, sono le istituzioni che codificano e riproducano le forme di potere, e spiega la storia a partire dal passaggio da un tipo di potere ad un altro. Ben lungi da venire approfondita ed arricchita, la critica dell'economia politica si vede qui rimpiazzata da una tecnologia del dominio, da una tecnologia allo stesso tempo politica, sociale, ideologica ed affettiva, in cui il rapporto lavoro salariato/capitale non è altro che una forma di potere fra le altre.

Produzione di un'identità
La storia e l'etnologia ci insegnano la ricchezza e la varietà dei rapporti sessuali fra gli uomini: che si tratti di pederastia (nel senso esatto del termine) nell'antichità, dalla fellatio iniziatrice fra adulti ed adolescenti maschi nella Nuova Guinea, o dalle abitudini di vita comune fra giovani uomini ed uomini adulti, abitudini che il nostro 21° secolo sarebbe tentato di definire omoerotiche. In queste diverse manifestazioni, non si tratta affatto di "pratica sessuale": ma solamente di riti di iniziazione necessari a raggiungere lo stadio di una mascolinità "eterosessuale", cioè a dire un un ruolo pienamente maschile: formare dei guerrieri e dei padri. Laddove noi vediamo della bisessualità (e/o della pedofilia) nei rapporti sessuali fra un "Erastès" adulto ed il giovane "Eromenos", l'antica Grecia vedeva un ingresso nella "vera" o completa mascolinità adulta. Dopo questa fase, una simile attività sessuale era proibita o condannata, e la "passività" sessuale in un adulto era malvista. Non era affatto questione di scelta, dell'incontro di due desideri che potevano avere la particolarità per cui l'uomo preferiva un altro uomo ad una donna.

Perché ci fosse omosessualità, si è reso necessario che la sessualità fosse trattata e pensata come una pratica, come un oggetto sociale specifico, distinto dalla vita della famiglia. Naturalmente, è in seno alla famiglia che hanno luogo un gran numero di pratiche sessuali, ma la sessualità non coincide con la vita della famiglia e con quello che ivi avviene (patriarcato, procreazione, cura dei bambini, educazione, trasmissione del patrimonio...). La novità è apparsa nel 19° secolo, è un processo sociale (accompagnato da opinioni e teorie diverse) dell'atto sessuale visto come specifico. Un secolo dopo, con la pillola, la separazione della sessualità dalla riproduzione (quindi dalla famiglia) è andato ancora più lontano, ma il processo era cominciato cento o centocinquant'anni prima.

Facendo della sessualità un'area specifica, la società capitalista stabiliva un parallelo: omosessualità ed eterosessualità venivano inventate l'un l'altra in una polarizzazione reciproca. Fra le due, non c'è parità, è evidente: la normatività sta dalla parte dell'eterosessualità, in quanto essa sola garantisce l'ordine sessuale necessario alla riproduzione sociale, ed il diritto così come la morale condannano l'omosessualità. Bisognerà attendere la fine del 20° secolo, ed un modo di produzione che domini tutto l'insieme dei rapporti sociali, perché la società si adegui a forme familiari flessibili e all'omosessualità.

Nel frattempo, quest'identità repressa ha spesso dato origine ad una sorta di "comunità" particolare, con una cultura marginale, generalmente sotterranea, frequentemente repressa, ma talvolta anche capace di affiorare alla superficie o ai margini della "buona" società.
Alla fine del 19° secolo, è diventato possibile arrivare a "concepirsi come definito dall'attrazione verso le persone dello stesso sesso (...) e più tardi a costruire una comunità su tale base" (Neil Miller)

(questo sarà il soggetto del capitolo seguente - continua...)

- G.D. -  pubblicato su DDT21 Douter de tout…


NOTE:

[*1] - Su Ulrich, difensore dell'omosessualità ed uno dei suoi primi teorici, vedi     http://francosenia.blogspot.it/2016/04/le-cose-e-le-parole.html

fonte:  DDT21 Douter de tout…

mercoledì 22 giugno 2016

I fiori recisi

Columbus Before the Queen


In quest'articolo, Roswhita Scholz discute le recenti teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione". Tali teorie hanno guadagnato slancio nel dibattito interno alla sinistra, almeno a partire dal crollo del 2007/2008. Secondo Klaus Dörre, l'assunto di base, nonostante tutte le differenze di ciascun approccio, è quello per cui il capitalismo ha bisogno di un esterno per poter continuare ad esistere. Assai spesso, si presuppone una "accumulazione primitiva" che si ripete successivamente. Quest'accumulazione non viene considerata limitata ai primordi del capitalismo, ma viene bensì dichiarata essere la legge centrale eterna del capitalismo. Scholz, in questo saggio, contrappone al teorema della colonizzazione, e alle corrispondenti ipotesi di una "accumulazione primitiva" permanente, la dinamica essenziale del capitale come "contraddizione in processo". Per evidenziare le differenze relative alla critica della dissociazione-valore, Scholz si focalizza sui concetti di colonizzazione di Klaus Dörre e di Silvia Federici - preminenti in Germania e non solo - a partire dai quali si può attribuire a Dörre un orientamento più sindacale e a Silvia Federici un orientamento più operaista-femminista. In questo contesto, l'articolo prosegue affrontando anche la dimensione delle attuali guerre civili mondiali, trascurata da Dörre e da Federici. Ma Scholz mostra anche come non sia sufficiente mettere al centro la "contraddizione in processo" ma che, al contrario, è la dissociazione-valore a dover essere intesa come contesto dinamico di base. Per riuscire, fra l'altro, a fare giustizia delle differenti disparità sociali (economiche, razziste, antisemite, ecc.), con le loro proprie qualità, bisogna fare i conti anche con la dialettica negativa di Adorno che è naturalmente conforme alla logica del non identico nella critica della dissociazione-valore. (da Exit, n°13)


Cristoforo Colombo forever?
- Per la critica delle attuali teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione" -
di Roswitha Scholz

1. Introduzione: "colonizzazione" - una spiegazione corrente della crisi attuale
In seguito al crollo del 2007/2008, e anche a partire da una nuova coscienza della crisi ecologica, è diventato chiaro che il capitalismo si trova bloccato in una "crisi multipla". A questo talvolta si aggiunge anche la dimensione "di genere" (vedi:  Demirovic, Alex/Dück, Julia/Becker, Florian/Bader, Pauline (Hrsg.) (2011): Vielfachkrise. Im finanzmarktdominierten Kapitalismus [Crisi multipla. Nel capitalismo dominato dal mercato finanziario], Hamburg). In questo contesto, quanto meno dal 2008, va segnalato un riferimento sempre più accentuato alla teoria della colonizzazione, che assumerà nella prima metà degli anni 2010 una posizione di rilievo nel discorso sulla crisi. Dal momento che tali posizioni, per quanto mi è dato vedere nelle discussioni, appaiono in qualche modo ovvie per molti che si trovano nell'orbita della dissociazione-valore, bisogna che vengano qui sottoposte ad una critica. Queste posizioni hanno chiaramente un'evidenza assai immediata.
Non è forse vero che oggi tutti e ciascuno ci si sente un po', se non magicamente "colonizzati", quanto meno mercificati, penetrati dal capitalismo, e tutto questo non corrisponde forse anche alle attuali teorie della critica del valore rispetto alla crisi? Non è forse anche così che attualmente il capitalismo arriva a noi? Il mondo, non è forse diventato da molto tempo, di fatto, una merce, e non ci sentiamo forse anche noi derubati della "Terra" in maniera insopportabile?

Al contrario, è necessario qui evidenziare e presentare le differenze fra le teorie della colonizzazione e la critica della dissociazione-valore, sottolineare che le teorie della colonizzazione attengono ad un'epoca storica passata e che assumono la colonizzazione in maniera anacronistica come modello eterno per nuovi sviluppi. Faccio questo procedendo a delle comparazioni per mezzo di citazioni più ampie. Mostro come il teorema della colonizzazione è già di per sé inadatto quando si tratta della mobilità temporale del processo di socializzazione capitalista; anche la "mobilità" temporale del processo capitalista dev'essere qui compresa minuziosamente per mezzo di questa metafora, anche in senso non spaziale, come "conseguenza delle colonizzazioni". Così torneremo al concetto di "accumulazione primitiva" di Marx per poter intendere gli attuali processi di crisi. Sul tema vengono invocati i teorici e le teoriche come soprattutto Rosa Luxemburg, Hannah Arendt, Burkhard Lutz e David Harvey. È questo ciò che è accaduto con Klaus Dörre che si è fatto un nome come teorico della colonizzazione in Germania e non solo. Così egli riassume il nucleo delle attuali idee sulla colonizzazione: "L'idea centrale che unisce le diverse varianti della teoria della colonizzazione afferma che il capitalismo è incapace di riprodursi a partire da sé stesso. Ai fini della loro stabilizzazione, le società capitaliste hanno bisogno: a) di una crescita continua della ricchezza sociale che, tuttavia b) può essere ottenuta soltanto per mezzo dell'internalizzazione delle esternalità. per mezzo della mercificazione di territori fino a quel momento ignorati dalla valorizzazione. Contrariamente a quello che suggerisce il concetto, le colonizzazioni non sono limitate ad una dimensione socio-spaziale o fisico-materiale. L'espansione del capitalismo avviene nel medio termine, tanto fuori quanto dentro le società nazionali, sia a livello settoriale che in campi specifici, ed interessa differenti modi di produzione, gruppi sociali, forme di vita e perfino le strutture della personalità... Tuttavia, la razionalità dello scambio di equivalenti in forma di merce, che nelle società capitaliste tende alla generalizzazione, non arriva ad imporsi completamente, poiché rimane incrostato in altre razionalità di azione a cui la mercificazione reagisce, o può reagire, espansivamente, possessivamente, e perfino IMPERIALISTICAMENTE. Estendere lo sviluppo capitalista come sequenza di colonizzazioni significa, quindi, superare la costruzione di un capitalismo puro e, al suo posto, prendere sistematicamente in considerazione la dipendenza della socializzazione di mercato capitalista da un ESTERNO" (Dörre 2013, 113).

Dopo di che, vorrei discutere, nel contesto della critica della dissociazione-valore, due concetti di colonizzazione che si distinguono non solo nello spazio di lingua tedesca: la teoria della colonizzazione di Klaus Dörre, che a mio avviso offre una prospettiva modificata del movimento operaio, e la concezione di Silvia Federici, che argomenta a partire da un punto di vista operaista-femminista. In termini di logica dell'esposizione, sarà qui rilevante spiegare la connessione fra "contraddizione in processo" e decadenza del capitalismo, per poi entrare nella sua dinamica in termini di contenuto, nella prospettiva della critica della dissociazione-valore. In questo contesto, parlerò anche ripetutamente della inidoneità della metafora della colonizzazione, o di altri termini simili, in quanto CONCETTI teorici. Infine si intende mostrare che, tuttavia, tutto questo dev'essere collocato nel contesto della critica della dissociazione-valore (plusvalore), nella sua frammentarietà, che dà anche seguito ad altre critiche del razzismo, antisemitismo, antizinganismo, omofobia e disparità sociali nella loro propria qualità. Nel corso della mia argomentazione, soprattutto verso la fine, farò riferimento anche a dimensioni fin qui non affrontate, come ad esempio i processi di imbarbarimento nel contesto della destatizzazione nelle periferie e gli interventi politi di ordinamento mondiale sempre più maldestri. L'ultimo punto delle mie osservazioni riguarderà le strategie di azione nei concetti di colonizzazione di  Dörre e Federici.

2. Robert Kurz: contraddizione in processo e decadenza del capitalismo
   2.1. Presupposti di base
Contrariamente alle diverse concezioni di colonizzazione, Robert Kurz vede il take-off del capitalismo come basato su molteplici fattori, fra i quali il protestantesimo. Rispetto a questo, tuttavia, evidenzia in maniera particolare la "rivoluzione delle armi da fuoco" [*1]. Per questo motivo la creazione di denaro è stato centrale durante l'assolutismo, visto che il "denaro" nelle società precedenti svolgeva solo un ruolo marginale e non era un elemento costitutivo sociale. È perciò sbagliato considerare il mercato, il denaro, il lavoro, la circolazione e la produzione semplice di merci come costanti antropologiche. Al contrario, bisogna constatare il seguente meccanismo: È nella "nuova macchina di distruzione" che risiede "un'astrazione delle necessità materiali e sociali... Una paradossale 'astrazione reale' della forma del valore, ed il carattere trascendentale della relazione sociale ad essa associata ha qui la sua origine. Il denaro trasmutato dei primordi della Modernità è stata la forma primordiale di quest'astrazione reale trascendente, ossia, la merce primordiale che si è imposta a tutti gli oggetti... la forma di merce autonomizzata, fino ad allora inesistente" (Kurz, 2012) [*2]. In questa situazione anche la forza lavoro dei produttori e delle produttrici dev'essere trasformata in una merce; il lavoro materiale astratto, così come il denaro in quanto principio di socializzazione, si costituiranno in generale solo in questa fase.

Qui occorre suddividere il concetto storico di crisi. Bisogna differenziare fra la costituzione storica del capitale e la crisi nel momento in cui essa comincia ad operare sulle sue stesse basi, con il lavoro astratto in quanto "sostanza materiale astratta". Kurz parla qui, con Marx, di "movimento in sé" del capitale. Questo processo non si è sviluppato in maniera lineare: "Va considerato che la costituzione e lo sviluppo storico del capitale, per molto tempo e fino al 20° secolo, ha avuto come conseguenza una situazione ibrida di logica pura del feticcio del capitale in quanto 'movimento in sé', da un lato, e una molteplicità di imposizioni, asincronie e mutamenti nella struttura del mercato mondiale, dall'altro lato".

Per Kurz si tratta della "contraddizione in processo" che costituisce il punto essenziale della sua teoria della crisi, quando il capitale ha assunto il suo "movimento in sé". Scrive, riferendosi a Marx: «Con questo... viene stabilita una contraddizione fondamentale oggettiva in seno al 'soggetto automatico' del feticcio del capitale e della sua dinamica storica: da un lato, il fine in sé della 'ricchezza astratta' basata unicamente ed esclusivamente sul dispendio sempre maggiore di energia lavorativa umana, che, secondo Marx, è la “sostanza del capitale” di cui il denaro (capitalista) non è altro che la forma di manifestazione palpabilmente reificata. Dall'altro lato, l'aumento costante delle forze produttive rende proprio questa sostanza sempre più superflua, la ritira dal processo produttivo e causa così la lenta e, alla fine, drammatica svalorizzazione  della 'oggettualità del valore' sempre più formale (gradualmente desustanzializzata) della merce e del denaro. Nel frammento sulle macchine dei Grundrisse, a questo proposito Marx dice che '(...) il capitale qui riduce a un minimo - in maniera del tutto involontaria - il lavoro umano, il dispendio di energia...; ossia, proprio questa sostanza di energia umana astratta di 'nervi, muscoli e cervello'... All'energia umana che ne costituisce la sostanza si sostituisce, secondo Marx, il 'potere degli agenti'... che vengono messi in movimento'... da essa stessa in quanto dimensione votata alla sparizione. Così, 'lo (...) stesso capitale è la contraddizione in processo, per il fatto che tenta di riprodurre il tempo di lavoro ad un minimo, mentre, dall'altro lato, stabilisce il tempo di lavoro come unico criterio e fonte di ricchezza'... Tuttavia, una contraddizione dinamica non può essere 'in processo' in tutto e per sempre, deve arrivare al culmine: 'Il capitale lavora così alla sua propria dissoluzione come forma che domina la produzione'... In questo modo, il fine in sé feticista nega sé stesso e pone davanti a sé il suo limite interno oggettivo, che finisce per diventare assoluto... 'In questo modo la produzione che si basa sul valore di scambio collassa'».

Ma questo non avviene linearmente, bensì mediato dai passaggi dello sviluppo storico: "Tuttavia, quel che è decisivo ai fini di una comprensione sufficiente è quest'altra modulazione storica che avviene sul piano categoriale, ossia, il meccanismo di compensazione relativa che si estende lungo le diverse epoche, a causa del quale la contraddizione fondamentale comincia a non manifestarsi più nell'immediato, non essendo risolta, ma... riprodotta su una scala sempre maggiore, e solo in questo senso viene (periodicamente) temporaneamente superata". Se in una fase precedente del capitalismo si trattava di espansione assoluta del dispendio di energia lavorativa, successivamente si è trattato di aumento della parte relativa di plusvalore, per mezzo dell'applicazione di macchinari richiesti dalla concorrenza fra i capitali individuali. Sul lungo periodo questo processo fa saltare per aria lo stesso auto-movimento feticista.
Non si tratta qui di un "ritorno dello stesso", in cui il capitalismo possa continuare per tutta l'eternità, ma si tratta, per così dire, di un "movimento diretto", che si dirige verso una fine.

In termini storici concreti si deve qui tener conto dell'espansione interna ed esterna: "Anche quando il capitale si riproduceva già 'sulla base delle sue stesse fondamenta'... o come 'movimento in sé', era ancora assai lontano dal conquistare, anche nei paesi definiti come capitalisti, la totalità dello spazio della riproduzione. Strutture definite, dal punto di vista economico moderno, come 'di sussistenza', così come relazioni di merce e denaro ancora associate ai resti delle relazioni d'obbligo (personali ed istituzionali) ancora non completamente 'economificate'... coesistevano alla relazione di capitale - o intrecciate ad esso - che avanzava con aggressività, sebbene in gradi estremamente variabili". Qui, "le condizioni che erano rimaste non si mantenevano costanti; la massa dura e pura di dispendio di capitale monetario addizionale aumentava in maniera incessante, a misura che il capitale guadagnava terreno in tutti i rami produttivi e 'capitalizzava' lo spazio terrestre in tal senso storico, ossia, lo trasformava in uno spazio globale di valorizzazione. Sebbene il dispendio di energia lavorativa per merce diminuisse incessantemente, il numero degli effettivi della forza lavoro applicati ad una forma produttiva nella prospettiva del capitale cresceva, anche così, in modo continuo, a causa di questo movimento espansivo esterno. Solo per mezzo di una tale espansione permanente, anche l'aumento del plusvalore relativo per elemento di forza lavoro aumentava addizionalmente la produzione di plusvalore rispetto alla sua massa assoluta, che sembrava crescere 'fino a raggiungere dimensioni mostruose'... Il concetto di un'espansione 'esterna' si riferisce qui alla riproduzione (ancora) non occupata dal capitale (e che non potrà mai essere occupata in forma assoluta)".

In termini di teoria della crisi, tuttavia, per Kurz è ancora più importante la "espansione interna del capitale" sulle sue proprie basi: "Nella misura in cui il capitale incorpora in sé i rami produttivi preesistenti e li modella a sua immagine, ossia, li trasforma in componenti di una produzione di 'ricchezza astratta', tali produzioni vengono profondamente trasformate anche nel loro piano interno. È questo il processo definito da Marx come transizione storica della sussunzione 'formale' in sussunzione reale dell'attività produttiva sotto il capitale. Nel suo corso, le tecniche, la disposizione dei mezzi di produzione, le organizzazioni dei processi, ecc., vengono adattate, ossia, alienate dalla loro finalità legata alla soddisfazione delle necessità in termini di produzione di beni d'uso".
Ciò significa concretamente: "L'innovazione dei processi si riferisce ai rami produttivi già esistenti o trasformati dal capitale. Nella misura in cui vengono sottomessi alla 'sussunzione reale', ossia, le loro tecniche tradizionali preesistenti sono sostituite da tecniche capitaliste, anche il loro processo di produzione viene influenzato dalle innovazioni permanenti; e non solo la tecnica propriamente detta, ma anche i processi di organizzazione e di comunicazione. Se, nelle industrializzazioni di base del 19° secolo, l'enfasi si focalizzava ancora sull'aumento dell'utilizzo di macchine, nel 20° secolo, a partire dalla seconda rivoluzione industriale (taylorismo, fordismo), l'innovazione si è sempre più dislocata verso l'affilatura dei processi produttivi; non solo la famosa catena di montaggio e le tecniche di organizzazione del lavoro, che cominciarono a trasformare gli esseri umani in robot, ma anche l'utilizzo di macchine-utensili e quindi, anche, le tecniche di comando, ecc.. Questa cosiddetta 'razionalizzazione' causò un mostruoso aumento della produttività". Questo meccanismo compensatorio della "espansione interna" del capitale consiste, pertanto, nel "risparmio massiccio di dispendio di lavoro, o di energia lavorativa, umano per prodotto". Questo "raggiunse anche rami produttivi che, fino ad allora, erano stati organizzati nella loro struttura interna in maniera essenzialmente artigianale, sebbene fossero già oggetto di una concentrazione simile a quella di una fabbrica", il che si vide chiaramente nella produzione di massa di automobili, frigoriferi ed altro.

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    2.2. Globalizzazione
A partire dal decennio 1980, c'è stato un salto di qualità nello sviluppo delle forze produttive, sulla scia della rivoluzione microelettronica, per mezzo del quale la fine del movimento di espansione interna è entrata nel campo visivo. Questo poteva essere visto, per esempio, nel fatto che i personal computer si deprezzavano assai più rapidamente di quanto fosse avvenuto con i precedenti beni di consumo. "Ma era venuto a mancare un momento decisivo: ossia, lo sviluppo corrispondente nell'applicazione di una forza lavoro che fosse produttiva nella prospettiva del capitale ". Il significato, in termini di crisi, di tali sviluppi divenne ancora più chiaro nel corso degli ultimi decenni ed in particolare nel crollo del 2007/2008: "Una volta che la connessione interna viene mediata alle spalle degli attori, e non può essere adeguatamente compresa per mezzo delle statistiche borghesi, dal momento che queste si limitano ad elaborare 'proiezioni' di momenti isolati e senza alcun nesso con la percezione distorta dalle transazioni di merce e denaro determinate dalla concorrenza, la crisi irrompe in tutta evidenza necessariamente in maniera sorprendente e repentina, e non può essere in alcun modo spiegata a partire dal gretto punto di vista empirico". A questo punto non può più essere generato nessun "nuovo modello di accumulazione"; ma in alcune sinistre si può ancora trovare la speranza in un nuovo regime di accumulazione. "L'esaurimento di importanti mercati interni, i flussi crescenti di esportazioni unilaterali ed il loro finanziamento per mezzo dei deficit o delle bolle finanziarie... non costituiscono un dislocamento dell'accumulazione sostenibile, ma sono già in sé manifestazioni estreme di crisi. Per questo, del resto, anche la presunta ascesa della Cina non è un proseguimento dell'espansione, sia esterna che interna, del capitale... dal momento che questo 'miracolo' è sostenuto soprattutto attraverso i deficit interni ed esterni". Anche il "nuovo modello di accumulazione" atteso da molte sinistre relativamente alla "società dei servizi" non appare; al contrario, avviene una diminuzione del "plusvalore assoluto": "Le vergognose misure coercitive a livello imprenditoriale che, sul piano sociale, sembrano indicare un ritorno alla preponderanza del plusvalore assoluto, possono essere interpretate come reazioni cieche e disperate al limite interno della produzione di plusvalore in quanto tale". Questo, tuttavia, è soltanto uno stadio intermedio nel disfacimento del capitalismo, dovuto alle rivoluzioni tecnologiche che rendono superfluo il lavoro astratto - con conseguenze brutali e barbare.

Riassumendo, si può quindi registrare che: «Il capitalismo raggiunge il suo culmine quando l'espansione interna viene raggiunta e superata dallo sviluppo delle forze produttive. Allora la caduta relativa del tasso di profitto si trasforma in una caduta assoluta della massa sociale di plusvalore e quindi di profitto, mandando a sbattere così la valorizzazione del valore presunta come eterna contro la sua svalorizzazione storica [*3]. Si possono indicare alcuni indizi del fatto che lo sviluppo capitalista è entrato nel suo stadio finale a partire dagli anni 1980, con la terza rivoluzione industriale. Il culmine della contraddizione interna viene modificato e filtrato dall'espansione storica del sistema di credito, che continua a riflettere specularmente la stagnazione ed il declino della massa di lavoro produttore di valore. Già l'aumento relativo permanente di capitale ha portato progressivamente i costi morti anticipati fino a delle altezze tali che ora i profitti correnti possono essere finanziati sempre meno. Il credito si è trasformato da elemento propulsore coadiuvante la produzione di plusvalore, nel suo sostituto. L'accumulazione viene alimentata con sempre meno della sostanza del lavoro reale passato e sempre più di anticipo di lavoro immaginario futuro. Investimenti e posti di lavoro senza alcuna base reale, vengono finanziati attraverso un debito globale senza precedenti e per mezzo delle bolle finanziarie da esso risultanti... Tuttavia, nonostante le apparenze temporanee, non si accumula capitale, come si può vedere nell'industria delle costruzioni in molti paesi dopo lo scoppio delle bolle immobiliari... Dopo una catena di crisi finanziarie, che negli ultimi anni hanno scosso paesi e settori economici isolati, il crollo finanziario del 2008 ha assunto, per la prima volta, una dimensione globale. La rottura delle catene di credito ha messo all'ordine del giorno la grande ondata della svalorizzazione. Gli Stati, già di per sé altamente indebitati, hanno impedito l'inizio della valanga, per mezzo della magica iniezione di credito addizionale e di emissione monetaria... I debiti statali non copribili si assommano ai crediti non copribili dei mercati finanziari; si avvicina la fusione nucleare del sistema creditizio. Il futuro capitalista ormai già consumato è diventato il presente. La Grecia mostra in maniera esemplare come le persone debbano smettere di vivere per anni se vogliono continuare a soddisfare i criteri capitalistici. Appena l'emissione monetaria non si limiterà più a rinviare la svalorizzazione dei titoli di debito, ma passerà ad alimentare direttamente la congiuntura economica per mezzo di denaro senza sostanza, attraverso la simulazione del credito, lo stesso mezzo del denaro in sé si svalorizzerà» (Kurz, 2013).

Pertanto, Kurz tiene perfettamente in conto le "colonizzazioni" capitaliste, pur senza usare esplicitamente tale concetto, o usando come Marx concetti simili, quali espansione interna ed esterna, fra gli altri. Il punto cruciale della sua argomentazione, tuttavia, è la logica del capitale nel senso delle contraddizione in processo che è arrivata alla fine, così come le "nuove colonizzazioni", in quanto fonte di un NUOVO modello di accumulazione, volenti o nolenti vanno a sbattere contro un muro; nuove "colonizzazioni", "nuovi recinti" e la corrispondente esplorazione, come FENOMENI che devono essere presi sul serio, non vengono in nessun modo sospesi, tuttavia devono essere classificati categorialmente nella dimensione storica, avendo come sfondo la contraddizione in processo.

3. Klaus Dörre: La nuova colonizzazione
3.1. Presupposti di base
Dörre assume la "colonizzazione" come punto centrale della sua elaborazione TEORICA. «Di conseguenza, "colonizzazione" significa espansione del modo di produzione capitalista all'interno e all'esterno. La separazione di un gran parte della popolazione contadina dalla terra ha costituito in tal modo un "mercato interno"; la popolazione senza terra è stata costretta ad alimentarsi attraverso la vendita della sua forza lavoro. È stato così che è avvenuta la rimozione dell'orientamento basato sulle necessità; materie prime ed alimenti sono ora diventate merci. Il susseguente annichilimento delle industrie locali ed il processo di separazione fra manifattura ed agricoltura realizzano una riformulazione ancora più radicale, che crea per il modo di produzione capitalista in espansione il necessario potenziale di forza lavoro» (Dörre 2009). Ciò si applica fin da quando il capitalismo comincia ad elaborare le sue proprie basi. Qui, hanno svolto un importante ruolo gli interventi statali, ad esempio le leggi che avevano come oggetto l'obbligo a lavorare e la regolamentazione dei salari. « In tal modo, il capitalismo già fin dai suoi inizi non è stato un'economia di mercato auto-regolata, ma al contrario lo Stato ha svolto l'indispensabile ruolo di levatrice del nuovo modo di produzione. Si è preso cura del fatto che la formazione del mercato avesse successo in condizioni di asimmetrie strutturali di potere. Venne promossa anche politicamente l'espansione esterna del modo di produzione capitalista, basata sul fatto che il capitalismo fin dalla sua nascita si costituisse come un sistema internazionale, cioè, interconnesso al di sopra degli Stati nazionali » (ivi). Dörre, pertanto, non mette in evidenza, come fa Kurz, la rivoluzione delle armi da fuoco e l'attività statale ad essa associata nell'assolutismo come momento essenziale di un contesto formale capitalista in costituzione, che portava con sé la formazione del "lavoratore salariato doppiamente libero". Di fatto, egli vede anche, come Kurz e Marx, la liberazione di questo "lavoratore salariato doppiamente libero" e la valorizzazione delle materie prime e degli alimenti; tuttavia, per Dörre, lo Stato svolge sempre un ruolo centrale nella storia del capitalismo e delle sue "colonizzazioni", e lo fa proprio anche nella misura in cui "è riuscito ad aggirare le leggi economiche", ad esempio nel fordismo (vedi più avanti). Si aggiunga che per Dörre, nella sua interpretazione di Marx, un grande ruolo viene svolto dalle "asimmetrie del potere" - e parla chiaramente di opposizione delle classi - mentre per Kurz rimane decisivo il Marx del feticcio e del "soggetto automatico". Se per Kurz lo Stato è l'istanza centrale dell'ordinamento delle relazioni feticiste, per Dörre lo Stato è l'istanza giuridica che si prende anche cura della "giustizia sociale", come dimostra la storia.

Sul ruolo dello Stato che, per molte sinistre, d'accordo con questo, riveste oggi una grande importanza, Kurz scrive: «La trasformazione delle strutture feudali decentralizzate in apparati statali burocratici che reperivano denaro fece dello statalismo - costituitosi esso stesso in questo processo - il demiurgo di questa "reinvenzione" del denaro. La correlazione originale delle reciproche produzioni di Stato e la trasmutazione del denaro portò, con il suo orientamento unilaterale verso la funzione dello Stato come demiurgo, ad un'illusione, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi (soprattutto nella sinistra di tutte le socialdemocrazie). Tuttavia, questa prima istanza di "economia politica" ben presto perse il controllo sulla sua creatura, che veniva supposta come funzionale ad un fine determinato. La monetizzazione di tutti i contributi in natura e la continua invenzione di nuove imposte, pagabili in denaro, costrinsero ad una monetizzazione sempre più completa della totalità della riproduzione, con conseguenze inaspettate» (Kurz, 2012). Kurz definisce il carattere dello Stato facendo riferimento a Marx nel seguente modo: « È vero che lo Stato è la "forma" che "riassume" la società borghese... ossia, la relazione di feticcio capitalista è, quindi, parte integrante della stessa. Proprio per questo, però, non può trascenderla nel suo concetto; quel che essa "riassume", alla fine, è proprio il processo cieco della concorrenza, ai cui risultati può solo reagire » (ivi). Per Kurz, quindi, lo Stato è tutt'altro che un modo per aggirare le leggi economiche, come sostiene Dörre, ma al contrario è parte integrante immanente, moderatrice e feticista, della socializzazione capitalista, perfino nel processo del suo diventare sempre più obsoleta.

Dörre ora critica nelle posizioni di Rosa Luxemburg e di Hannah Arendt quanto segue: « Non c'è dubbio che le colonizzazioni capitaliste siano, sotto diversi punti di vista, irreversibili, ad esempio quando assorbono modi di produzione tradizionali o quando consumano risorse naturali. In questo senso, la capitalizzazione dei mercati esterni si presenta come un processo che deve raggiungere alla fine un punto di fuga distante, in quanto senza mercati esterni non c'è capitalismo » (Dörre 2009). Invece, Dörre vuol dare ad intendere che le colonizzazioni capitaliste sono in realtà illimitate, oppure che il capitalismo crea per sé incessantemente un esterno, sia sotto forma di regioni devastate che anche nella forma di forza lavoro inutilizzata. Questo "esterno" potrebbe "in una fase successiva di sviluppo, rivelarsi come oggetto di investimenti di riparazione a lungo termine" (ivi).

In relazione al ruolo dello Stato, Dörre si distingue anche da David Harvey: « Il suo (delle colonizzazioni) modus operandi si basa - cosa che in Harvey viene evidenziata solo in maniera implicita - su forme di intervento statali estremamente differenti ». Qui può avvenire « il germogliare di leggi puramente economiche, come ad esempio nel caso dell'espansione dei servizi pubblici, della produzione di beni pubblici o dello sviluppo di sistemi collettivi di previdenza, e può avvenire anche per mezzo della de-mercificazione (disconnessione dai rischi del mercato) e del fissare a lungo termine il capitale in ambiti secondari o terziari. Tali strategie, che Harvey designa come "accumulazione attraverso l'espropriazione", utilizzano lo sfruttamento delle strutture pubbliche e la deregolamentazione dei mercati del lavoro come leva per una ri-mercificazione o una de-mercificazione della forza lavoro. Trasposto nella problematica dello sviluppo, ciò significa che il capitalismo non può esistere senza colonizzazioni, senza l'utilizzo di beni esterni (ivi inclusa la forza lavoro improduttiva) » (ivi). Qui vengono mobilitati da Dörre livelli storici differenti, gli uni contro gli altri: una revoca postmoderna di domini e di meccanismi capitalisti precedentemente socializzati che vengono ora equiparati in maniera indifferenziata  al meccanismo di colonizzazione presupposto come essenziale per il capitalismo, proprio anche quando non è possibile sostenere una comprensione ontologica dello Stato nel capitalismo, come possiamo vedere oggi. Secondo Dörre, quel che fondamentalmente avviene è che: « L'esercito industriale di riserva nelle sue differenti manifestazioni può essere utilizzato nelle fasi di congiuntura favorevole al fine di mobilitare forza lavoro addizionale. Inversamente, soprattutto in tempi di crisi, gli esclusi dalla produzione capitalista rappresentano un potenziale di pressione che serve a mantenere il più possibile bassi i costi del lavoro » (ivi).

Di conseguenza, per Dörre "la formazione di questo capitalismo social-burocratico" si basa su "un ciclo di investimenti effettivi in infrastrutture a lungo termine, su un assorbimento di potenziale di forza lavoro da un settore di economia tradizionale, agrario e di piccole imprese, così come su un'istituzionalizzazione finora sconosciuta del 'potere dei lavoratori'. La sua genesi può essere ricondotta in primo luogo a strategie di de-mercificazione della forza lavoro" (ivi). Tuttavia, la dinamica interno-esterno anche nella fase fordista non è stata annullata. « Proseguendo, la questione sociale si presenta nella funzionalizzazione delle attività di riproduzione delle donne, nella figura di super-sfruttamento dei migranti o nella costruzione di esternalità sociali da parte della società maggioritaria » (ivi). In tal modo, le ipotesi di colonizzazione, in Dörre, vengono trasportate sulle donne, sui migranti e su altri "outsider" in maniera di fatto forzata, quasi un po' riluttante, dal momento che pretende che l'opposizione di classe continui ad essere sempre realmente decisiva. Del resto, l'opposizione delle classi continua ad essere un punto di riferimento centrale anche per Harvey, il quale svolge il ruolo di decano (maschile) del teorema della colonizzazione in tempi più recenti, dal momento che negli ultimi decenni le pioniere dei nuovi approcci della sinistra alla colonizzazione sono state di fatto femministe (cfr. Feministische Autorinnengruppe 2013; su questo assunto vedi più avanti).

3.2 Globalizzazione
Secondo Dörre, a partire dalla fine degli anni Settanta è sorto un nuovo sviluppo. « Anziché l'espansione delle capacità produttive e della massa di plusvalore, ora l'obiettivo preferito dell'impresa è diventato l'aumento del tasso di profitto. Tuttavia, le sovra-capacità e la pressione sul tasso di profitto non sono stati gli unici focolai di crisi, Negli affari e nelle imprese si sono esaurite le risorse di produttività del tipo dominante di razionalizzazione, in quanto la decomposizione, la standardizzazione ed il controllo del lavoro sono entrate sempre più in contraddizione con le necessità della forza lavoro, in media altamente qualificata. L'individualizzazione degli stili di vita e dei desideri dei consumatori è entrata in collisione con un sistema di produzione orientato alla produzione in massa standardizzata. Internazionalmente, il crollo del sistema del tasso di cambio fisso ha creato una divisione internazionale del lavoro [*4] modificata, provocata dall'espansione oltre frontiera delle grandi imprese, così come dalla industrializzazione basata sull'indebitamento di molti paesi in via di sviluppo, insieme alle turbolenze in tal modo scatenate da un ambiente modificato del regime di accumulazione su base nazionale » (Dörre 2009). Qui si mescola ancora una volta il piano macro con il piano micro, soprattutto con le necessità degli occupati altamente qualificati; anche la crisi viene spiegata riferendola in primo luogo ad una modificazione del "regime di accumulazione su base nazionale", situazione in cui non capisce il tutto, il contesto capitalista globale, il "movimento in sé" capitalista su scala globale. Dörre preferisce qui mantenersi categorialmente nel contenitore del movimento operaio tradizionale e del quadro di riferimento nazionale, che è stato distrutto per caso dal crollo del tasso di cambio internazionale.

Dörre constata che «i cambiamenti più importanti... [si sono consumati] nelle relazioni fra imprese, Stati e mercati finanziari. Qui, la globalizzazione segna la crescente interconnessione e penetrazione da parte della tecnologia dell'informazione dei diversi segmenti finanziari. Dagli anni 1990 fino alla crisi globale del 2008, i mercati finanziari sono stati il settore dell'economia con più forte crescita. In primo luogo, come conseguenza della crescente internazionalizzazione del commercio, della produzione e delle imprese, la sfera finanziaria si è autonomizzata rispetto all'economia reale» (ivi). Qui è centrale il disaccoppiamento dei mercati finanziari. « L'eccesso di liquidità nei mercati finanziari è l'humus in cui cresce la trasformazione del capitale finanziario in capitale fittizio. Promossi dalla deregolamentazione dei mercati finanziari e ulteriormente accelerati dalla moderna tecnologia di informazione e comunicazione, i rischi associati alle transazioni finanziarie vengono decomposti nei loro elementi di base e risolti in strumenti finanziari con cui negoziare. “D”, espresso in titoli finanziari, diventa, da mezzo di pagamento e di credito, puro oggetto di speculazione utilizzato con il fine di realizzare “D'”. Ciò, ovviamente, senza poter creare, con tali operazioni, nuovo valore in maniera adeguata, in quanto in ultima analisi può essere ripartito solo quello che è stato prima creato come plusvalore nell'economia reale. L'idea feticista secondo cui il capitale monetario slegato dall'economia, nella figura dei titoli finanziari e dei derivati, potrebbe ugualmente moltiplicarsi a partire da sé stesso, costituisce l'origine di tutte le economie delle bolle » (ivi). In questo contesto, Dörre parla di un "regime di accumulazione dominato dalla finanza" (ivi). Dörre vorrebbe cominciare ad obiettare alla tesi di un "regime dominato dalla finanza": « Vi è di fatto una molteplicità di argomenti plausibili che dal punto di vista dell'efficienza economica parlano contro la tesi di un REGIME finanziarizzato. Tuttavia qui si difende il punto di vista per cui il capitalismo del mercato finanziario semplicemente non proviene da un modello di riproduzione pensato e particolarmente efficiente. Contrariamente alla formazione del fordismo, l'egemonia della razionalità del capitale finanziario non si radica principalmente nella fabbrica, nell'interazione fra concetti pensati di razionalizzazione e di consumo di massa. Diventa reale in quanto visto dal lato del potere è APPLICABILE in maniera efficiente. Predominando sullo Stato, il nuovo regime ha consegnato ai mercati finanziari funzioni economiche centrali per quel che riguarda l'impostazione, il livello e l'orientamento degli investimenti. Il che ha portato a cambiamenti profondi nel sistema di governance societario; ha influenzato la fusione di imprese e la riorganizzazione dei conglomerati imprenditoriali, così come il controllo del livello di consumo ed il comportamento dei consumatori» (ivi, maiuscole nell'originale).
Pur essendo questo il nuovo capitalismo del mercato finanziario con le sue caratteristiche dominanti rispetto all'orientamento, va sottolineato che anche così esso non costituisce alcun nuovo regime, nel senso di "regime di accumulazione", ossia, non costituisce alcun nuovo modello che rappresenti un nuovo ciclo di valorizzazione, nel senso di un capitalismo che rimane eterno; al contrario, il capitalismo del mercato finanziario annuncia la fine del capitalismo. In esso si mostra proprio la "desustanzializzazione del capitale" e la "svalorizzazione del valore", e questo avviene esattamente in relazione al capitalismo visto come una totalità, che non può essere spiegato a partire dalla natura delle modificazione interimprenditoriali.
Qui Dörre vede soprattutto tre meccanismi di "trasferimento": « Primo: il valore dell'azionariato ed il controllo centrato sul mercato » (ivi). Per gli imprenditori la questione non è già più il profitto in sé, ma il "rendimento del capitale stesso". Il primato fordista dell'economia di produzione a fronte dell'economia di mercato qui si inverte. L'organizzazione dell'impresa e del commercio si orienta verso gli acquirenti, così come verso i mercati finanziari, e ne costituisce le corrispondenti strutture  organizzazionali... "l'impresa integrata verticalmente viene smembrata; si sviluppa il principio della sovvenzione incrociata all'interno del conglomerato imprenditoriale e perfino all'interno dell'impresa. In questo modo le congiunture delle vendite si ripercuotono immediatamente nelle unità organizzative. Il risultato non è un qualche tipo di organizzazione uniforme, ma la ristrutturazione permanente" (ivi). Qui si presenta un'altra riflessione: « Le gerarchie e le forme burocratiche di organizzazione di fatto non spariscono, poiché il management insieme al potere di decisione alimenta il "potere diffuso" del mercato, ammortizzando le fluttuazioni congiunturali e le irruzioni della crisi con le stesse risorse. La leva decisiva per creare una flessibilità compatibile con il mercato è la concorrenza continua fra lavoratori » (ivi).
Come secondo meccanismo di trasferimento, egli vede un "dispositivo di regolamentazione basato sulla concorrenza". Riferendosi a Boltansky/Chiapello, scrive: "Con questo... vengono identificati dislocazioni nel dispositivo di regolamentazione che sono centrali per il passaggio al capitalismo finanziario. La forza propulsiva è un nuovo spirito del capitalismo che... proclama il primato della socializzazione del mercato contro il comando gerarchico e l'incrostazione burocratica. Questo nuovo spirito può creare armonia solo perché si presenta come progetto di liberazione" (ivi). Il capitalismo ha incorporato le esigenze di autonomia, creatività e responsabilità personale dei nuovi movimenti sociali che erano rivolti contro il regime fordista.
Come terzo meccanismo di trasferimento indica la "precarizzazione": « Quando la promessa di libertà dell'economia di mercato non si realizza, viene completata con un nuovo regime disciplinare. "Hartz IV", per esempio, fa aumentare la disponibilità a fare concessioni a tutti quelli che ancora hanno un lavoro. Viste in termini sistematici, le rigide regole di tollerabilità del capitalismo finanziario svolgono una funzione simile al resto delle leggi al tempo del feudalesimo nel contesto dell'accumulazione primitiva. Attivano e disciplinano la forza lavoro ai fini di un nuovo modo di produzione flessibile... Il compromesso di base dello stato sociale del fordismo, sostenuto da forti blocchi di interessi, si è irreversibilmente rotto. Ancora sotto la copertura di istituzioni apparentemente statali, nel regime di accumulazione avvengono modifiche dei modelli di produzione e dei dispositivi di regolamentazione sociale che nel loro insieme annunciano un nuovo stato di aggregazione della società » (ivi). Questo significa anche che: « In caso di crisi del mercato finanziario, il modus operandi della colonizzazione funziona immediatamente sulle relazioni di proprietà [*5]. I titoli di proprietà sono svalorizzati per poi essere reintrodotti nel circuito del capitale a prezzi di liquidazione e con relazioni di proprietà modificate » (ivi).

Dopo il crollo del 2008, i nuovi interventi di Stato, secondo Dörre, proseguono la "accumulazione attraverso l'espropriazione" sotto forma di tagli alle pensioni, ad esempio. Banche ed imprese di rilevanza sistemica vengono messe al sicuro dagli Stati. Qui si esercita la pressione del management e delle corrispondenti istituzioni nel senso di un "rischio morale" (ivi). Dörre determina come complesso causale della crisi anche "gli squilibri dell'economia mondiale ed i limiti della politica monetaria", così come la "mancanza di trasparenza dei prodotti finanziari" ed i relativi rischi (visibili, ad esempio, nella crisi dei subprime) (ivi). Su questo, qui non posso entrare nei dettagli. Per Dörre la crisi del mercato finanziario è anche una crisi sociale, in cui la paura della caduta sociale rappresenta un punto essenziale (ivi). Questo ha anche come conseguenza che: « Se la razionalità del capitalismo finanziario, che include i suoi meccanismi di trasferimento, fallisce in maniera così evidente di fronte alla sua auto-formulata pretesa di efficienza, le conseguenze sono i problemi di legittimazione del nuovo regime di mercato » dal che si deduce «che la colonizzazione politico-finanziaria va a sbattere contro limiti immanenti» (ivi). La speranza di Dörre è ora che anche la struttura sociale contraddittoria continui a creare movimenti di protesta, in cui egli vede l'ecologia (alterazioni climatiche, ecc.) come campo essenziale del problema. « Forse la strada del capitalismo eco-sociale è di fatto un salvataggio provvisorio del sistema » (ivi). Qui, secondo Dörre, non sono solo i movimenti dei lavoratori ad essere centrali, come ad esempio in Brasile ed in Sudafrica. Egli mette in gioco anche una "economia solidale" e la «ricostruzione di un dominio pubblico che vada al di là della motivazione del profitto. «Essendoci... una risposta concettuale, sono perciò convinto che essa viene descritta nel modo migliore per mezzo del concetto di DEMOCRAZIA ECONOMICA. Mentre negli ultimi anni i sociologhi, nelle loro analisi, hanno fatto soprattutto delle variazioni sul capitalismo, democrazia economica significa pensare a soppiantarlo » (ivi, maiuscole nell'originale).

Così diventa chiaro che ora Dörre dichiara radicali quelle che sono semplicemente strategie riformiste di soluzione precedentemente definite come immanenti. In questo modo si pretende che si paghi un tributo ai nuovi sviluppi. Ciò vale anche per le "nuove" soluzioni alla questione della trasformazione che sono apparentemente distanti dal movimento operaio, come ad esempio quelle date dalla "economia solidale", che rappresentano un'opzione nel quadro riformista "radicale". Davanti a questo sfondo, Dörre constata poi che oggi andrebbero inclusi anche altri soggetti, oltre il lavoratore salariato, ad esempio, donne e migranti (su questo entrerò un po' più nei dettagli alla fine delle mie osservazioni, come ho già detto).

Dörre ottiene il suo concetto di colonizzazione anche facendo ricorso a Gramsci, oltre ad includere riflessioni sulla teoria della regolazione e a basarsi sulla teoria delle "onde lunghe". Quindi, gli si deve contrapporre, con Kurz, il fatto che qui emerge ciò che Kurz constata a proposito della teoria istituzionale, soprattutto il fatto che « la teoria istituzionale, nella migliore delle ipotesi, è adatta per argomentare a fronte della logica basilare della dinamica capitalista, e per spiegare la crisi a partire solamente da molteplici fenomeni sociali e da interazioni istituzionali, culturali ecc. con l'economia, mentre la legge dello sviluppo storico interno in sé rimane una scatola nera » (Kurz, 2005). E quel che vale per la teoria della regolazione vale anche per Dörre: « Quel che rimane del tutto nascosto nella teoria della regolazione, così come in tutte le precedenti teorie degli stadi o delle onde, è la relazione delle rispettive configurazioni, modelli, regimi, onde, stadi ecc. con la forma del valore e con la sua sostanza, il "lavoro astratto"... Viene semplicemente presupposto a priori che in linea di principio si tornerà sempre a produrre "quota e massa sufficiente" di plusvalore e di profitto in ogni nuovo momento, nelle nuove configurazioni ecc.... La maggior parte de Il Capitale di Marx, dall'analisi della forma valore fino alla caduta tendenziale del saggio di profitto, è completamente superflua per la teoria della regolazione, così come per i teoremi con essa imparentati; i concetti sono di fatto menzionati occasionalmente, ma non vengono in alcun modo mobilitati come strumenti di analisi». Si tratta « sempre soltanto di MANIFESTAZIONI superficiali storiche di questa struttura fondamentale ontologizzata esattamente come avviene nel marxismo tradizionale » (ivi). Nel caso di  Dörre, queste manifestazioni vengono poi sottomesse al concetto fenomenologico della "colonizzazione", cioè, egli vede lo scambio delle merci e degli equivalenti come "apparenza" e le relazioni di sfruttamento e di dominio come la vera essenza (cfr. Dörre 2015). Si può riconoscere in questo procedimento di Dörre un "individualismo metodologico" nel senso di Kurz. Questi scrive, nel contesto di una critica della teoria dei sistemi: « I "fatti" o le "azioni" individuali vengono solo astratti in maniera induttiva, in una certa misura, fino al famigerato "piano mesoeconomico" dei cosiddetti domini, mentre la vera relazione globale sparisce, per così dire, nella nebbia e appare solo come legame esterno o come un cosiddetto effetto reciproco fra i "veri" domini individuali » (Kurz 2012). È vero che in Dörre si parla anche di possibili "limiti" del capitalismo, ma questi limiti si trovano paradossalmente nel contesto delle teorie che in fondo suppongono un capitalismo eterno, e in realtà non sono affatto appropriate per avanzare logicamente verso una fine del capitalismo, come avviene con una contraddizione in processo pensata fino alla fine.

Le "colonizzazioni" identificate oggi come tali non devono essere semplicemente sottomesse ad un CONCETTO generale di colonizzazione; al contrario, devono essere collocate nel contesto complesso di questa contraddizione in processo; pensati come "principio", i TEOREMI della colonizzazione e le ipotesi delle infinite possibilità di accumulazione inducono in errore. Nel caso di Dörre e non solo, il suo intervento funziona nel senso di auto-salvataggio del capitalismo, anziché nel senso del suo superamento. Questo è più o meno il programma segreto della sinistra in sé che, con tutte le sue pretese differenze, non vuole sapere niente di una "rottura categoriale" e si colloca così, di fatto, a disposizione della futura amministrazione della crisi, ivi incluse qui le concezioni volgari della critica del valore.

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4. Silvia Federici: accumulazione primitiva, riproduzione e globalizzazione
   4.1. Presupposti di base

Finora non si è parlato del processo di riproduzione, nel senso di una "dissociazione del femminile" nell'insieme della riproduzione. Per Dörre questo funziona nella forma del lavoro femminile di riproduzione come "esterno" al capitalismo, forma che (secondo lui) non ha a che vedere con la forma capitalista, ma può, dall'altro lato, rappresentare una riserva per la trasformazione del capitalismo; questione sulla quale tornerò più avanti. Per Kurz questa dissociazione è centrale per l'insieme della riproduzione (cfr. Kurz 2005). Tuttavia, per esempio nel suo libro "Denaro senza valore", non viene esaminata sistematicamente (cfr. Kurz 2012). Silvia Federici, al contrario, annuncia da subito in maniera evidente di aver tenuto conto di questo problema, facendo riferimento a "quelle di Bielefeld", ma solo in un'ottica operaista [*6]. « La mia tesi è che la teoria marxista che pretende di avere risonanza nei movimenti anticapitalisti del 21° secolo deve ripensare la questione della "riproduzione" e dei suoi diversi aspetti (come riproduzione degli individui e riproduzione della forza lavoro), e questo in una prospettiva che tenga conto dell'insieme del pianeta. Se pensiamo alle attività per mezzo delle quali la nostra vita viene riprodotta, possiamo superare l'illusione per cui lo sviluppo capitalista sarebbe nella posizione di creare le condizioni materiali per un società senza sfruttamento. Possiamo così anche evidenziare come gli ostacoli sul cammino della 'rivoluzione' non consistono possibilmente nella mancanza o nell'indisponibilità del know-how tecnico, ma semmai nella svalorizzazione sistematica della vita umana e nelle scissioni che al di là di questo lo sviluppo capitalista produce all'interno della comunità globale dei lavoratori e delle lavoratrici » (Federici 2012). Secondo Marx « il valore della forza lavoro viene anche calcolato attraverso il valore delle merci (alimentazione, vestiario, abitazione) 'senza il cui rifornimento quotidiano il portatore di forza lavoro, la persona, non potrebbe rinnovare il suo processo vitale', pertanto per mezzo del tempo di lavoro necessario alla sua produzione » (ivi). A partire da questo Federici constata, con Mariarosa dalla Costa, che il lavoro non remunerato della riproduzione « produce la merce più importante per la società capitalista, dalla quale dipende la produzione di tutte le altre merci: la forza lavoro » (ivi). La concezione di Federici, a mio avviso, può essere sussunta a ragione nel concetto generale di "teoria della colonizzazione", anche se non utilizza questo concetto esplicitamente come concetto centrale. Conseguentemente, parte dalla seguente ipotesi fondamentale: per lei « l'accumulazione primitiva non è stato accadimento storico unico..., limitato all'origine del capitalismo, in quanto punto di partenza della 'accumulazione come funzionamento abituale delle cose'... Al contrario, si tratta di un fenomeno che in qualsiasi momento si trova alla base, come costitutivo delle relazioni capitaliste, e che si ripete sempre come 'parte del processo continuo dell'accumulazione capitalista'... che simultaneamente porta sempre con sé la sua espansione » (Federici in riferimento a de Angelis e Lazzarato, 2013). Qui «la separazione dei produttori dai loro mezzi di produzione'... per Marx la chiave essenziale dell'accumulazione primitiva - dev'essere percepita come qualcosa che si ripete continuamente, in particolare in tempi di crisi capitaliste, quando le relazioni di classe sono messe in questione e richiedono nuove basi... Nel contesto della resistenza generalizzata contro la regolamentazione capitalista e l'impoverimento della nostra vita, non c'è da stupirsi che l'accumulazione primitiva sembri essere diventata un PROCESSO DURATURO, con crisi economiche, guerre ed espropriazioni di massa, che ora appaiono essere i presupposti per l'organizzazione della produzione e dell'accumulazione su scala mondiale » (ivi, maiuscole nell'originale).

Qui già diventa chiaro che per Federici classe, lotta di classe, lavoro e accumulazione primitiva sono eterni nel capitalismo, e pertanto si applicano anche nell'epoca della globalizzazione. Per Federici, il punto di partenza è qui soggettivo-operaista dall'inizio alla fine, ed esclude qualsiasi ipotesi di socializzazione feticista. A questo viene sottomessa la problematica di genere e non solo. Secondo Federici, la teoria della lotta di classe di Marx dev'essere allargata: « Dobbiamo riconoscere soprattutto che la storia dell'accumulazione primitiva non può essere intesa dal punto di vista di un soggetto astratto universale. Dal momento che un aspetto importante del progetto capitalista è stata la disarticolazione del corpo sociale, visto che le persone sono state obbligate a differenti regimi disciplinari, che hanno prodotto un'accumulazione di 'differenze' e gerarchie. Queste influenzano profondamente il modo in cui vengono sentite le relazioni capitaliste » (ivi). Questa storia deve anche essere scritta  « dal punto di vista degli schiavizzati, dei colonizzati, dei popoli indigeni, le cui terre al di là di questo sono l'obiettivo principale delle recinzioni - in sintesi, di tutti quei soggetti il cui posto nella storia del capitalismo non può essere equiparato alla storia del lavoratore salariato » (ivi). Si pretende che una moltiplicazione di soggetti disparati e postmoderna venga qui reinterpretata massicciamente dal punto di vista del marxismo del movimento operaio. Diventa evidente un tabù dell'astrazione, che negli ultimi decenni ha caratterizzato il femminismo e non solo (cfr. Scholz, 2011). I macro contesti globali vengono sospesi ed il punto di partenza metodologico va a coincidere immediatamente con l'esperienza e con le diverse preoccupazioni, com'è caratteristico delle posizioni operaiste, anziché considerare, da un lato, le diverse dimensioni nella loro differenza qualitativa e, dall'altro lato, collocarle come tali in una relazione reciproca in maniera globale, nel contesto di una relazione di dissociazione-valore frammentaria. Nell'ipostatizzazione del lato soggettivo, del resto, risiede anche il pericolo della "sorelizzazione", se avviene un'invocazione vitalista della "esistenza" immediata in maniera astratta e nel senso di una falsa immediatezza non-dialettica, esistenza che in sé non ha né alcun contenuto né alcun orientamento e, pertanto può anche derivare a destra. Cosa che, circostanzialmente, è avvenuto nella cosiddetta ribellione araba, cui anche Federici, e non solo, si riferisce nel corso della sua danza delle resistenze. Karin Priester parla in questo contesto di una "filosofia vitalista postmoderna" (Priester, 2008; cfr. anche Scholz, 2008). La (pretesa) comprensione verso i colonizzati, gli schiavizzati, i "popoli" indigeni, può così virare verso la denuncia sciovinista della stessa colonizzazione/occupazione, ad esempio degli USA, o anche da parte di un capitale finanziario ebraico. Aggiungiamo che Federici suppone che dalla situazione della schiavitù, proletarizzazione, repressione delle donne ecc., risultino gruppi ed individui affetti da un'esperienza e da una coscienza omogenea; ma non è affatto questo il caso, come hanno indicato proprio le analisi postmoderne e post-strutturaliste, anche se in questo caso si sono sottomessi ad un'ipostatizzazione della differenza, trasferendo i piani STRUTTURALI OGGETTIVI all'altro mondo. Qui, bisogna rendere pienamente giustizia ai colonizzati e agli schiavizzati, ma non nel senso riduttivo di una falsa immediatezza, come avviene in Federici (vedi più avanti).

4.2. Donne, riproduzione e globalizzazione
Per Federici, la caccia alle streghe ha svolto un ruolo importante nel processo di accumulazione primitiva nei secoli XVI e XVII: « È stata la caccia alle streghe che ha permesso allo Stato di appropriarsi dei corpi delle donne e trasformarli in macchine di riproduzione della forza lavoro, poiché venne criminalizzata qualsiasi forma di contraccezione e venne interrotta qualsiasi forma di controllo della riproduzione da loro usata. La caccia alle streghe servì anche a distruggere le forme esistenti di cooperazione fra le donne, dal momento che vicine ed amiche vennero obbligate, sotto tortura, ad accusarsi le une con le altre e a porre sotto il sospetto del diabolismo qualsiasi forma di associazione femminile. Alla fine vennero approfondite le divisioni fra uomini e donne, dacché il potere delle donne venne presentato come potere che le donne userebbero contro gli uomini per distruggere i loro corpi e le loro anime. In questo modo, la caccia alle streghe nel 16° e 17° secolo svolse un ruolo chiave nella formattazione della società capitalista moderna, dal momento che le gerarchie sulla base del sesso e le identità costruite divennero centrali per la definizione dell'organizzazione capitalista del lavoro e per la disciplina lavorativa capitalista » (ivi) [*7].

La caccia alle streghe ed il disciplinamento del corpo, per Federici deve passare innanzitutto per la cruna dell'ago del marxismo operaista del movimento operaio ed e dev'essere assunto come sfondo delle altre dimensioni della repressione. Qui, viene mescolato il processo di costituzione del capitalismo ai suoi attuali livelli di sviluppo, assumendo un processo duraturo di accumulazione primitiva. Per arrivare a chiarire il disciplinamento dei corpi nel capitalismo, tuttavia, non serve prenderli come punto di partenza assoluto, come fa Federici. Al contrario, l'importanza ed il ruolo della caccia alle streghe all'inizio dell'età moderna diventano chiari solamente se vengono interpretati come transizione nella storia della costituzione del patriarcato capitalista, per arrivare al momento in cui il capitalismo comincia a funzionare sulla base dei suoi propri fondamenti. Si tratta qui di collocare tale sviluppo nel contesto della dissociazione-valore (e non solo del valore, o del plusvalore) come determinazione fondamentale del patriarcato capitalista; IN QUESTO contesto, il disciplinamento dei corpi come TALE e la caccia alle streghe assumono allora un'importanza propria. Altrimenti il corpo sofferente in astratto smentisce sé stesso e diventa un mero trastullo degli interessi del vecchio marxismo, o dell'operaismo, nel contesto di una "falsa immediatezza". La caccia alle streghe all'inizio dell'età moderna anche per Kurz è importante, ma dal punto di vista della critica del feticismo (Kurz, 2012; tornerò a questo più avanti); Dörre tace completamente sull'argomento.

Attraverso il prolungamento della giornata lavorativa - continua Federici - e attraverso la massima riduzione dei costi durante il XIX secolo - resa possibile anche grazie all'introduzione delle donne nel processo lavorativo, nonostante la loro minor valutazione rispetto agli uomini - vennero tuttavia pregiudicate a causa di questo molte attività di riproduzione; in maniera corrispondente, ad esempio, la mortalità infantile era alta (cfr. Federici, 2012). Ben presto questo cambiò: « In termini marxisti, lo sviluppo del lavoro riproduttivo e la formazione della casalinga a tempo pieno da questo risultante sono state le conseguenze del passaggio da un modo di sfruttamento del lavoro basato sullo spremere plusvalore 'assoluto' ad un altro modo basato sullo spremere plusvalore 'relativo' » (ivi). La riduzione della giornata lavorativa venne allora compensata dall'applicazione della tecnica e dall'aumento dell'intensità del lavoro. A seguito di questa transizione venne investito più lavoro e più denaro nella riproduzione dei/delle lavoratori/lavoratrici. Il salario medio del lavoratore maschio aumentò, anche nel contesto di una nuova politica salariale. « Marx non ha compreso l'importanza del lavoro riproduttivo perché accettava i criteri capitalisti riguardo al lavoro e la prosperità ed assumeva il punto di vista per cui lo sviluppo del lavoro industriale avrebbe raggiunto un grado in cui sarebbe diventata imminente la lotta per l'emancipazione dell'umanità dallo sfruttamento » (ivi).

Di conseguenza, secondo Federici, l'aumento dell'attività professionale delle donne negli ultimi decenni dev'essere valutata in tal modo: Bisogna  « constatare che l'ingresso delle donne nel lavoro salariato avvenne ai tempi di un'offensiva storica contro i diritti e le rivendicazioni dei/delle lavoratori/lavoratrici, durante i quali le riduzioni dei costi imprenditoriali, la dislocazione di parti del processo produttivo e l'indebolimento delle determinazioni relativamente ai diritti lavorativi avevano portato ad un abbassamento dei salari e avevano reso il lavoro precario e sempre più nocivo. Non c'è da stupirsi che i posti di lavoro a disposizione delle donne si trovassero al fondo della scala salariale. Si trattava di attività più monotone, più insicure e peggio remunerate. Ora anche questi posti di lavoro sono minacciati, proprio a causa della crisi economica globale che oramai si ripercuote - seppure ancora solo in una dimensione limitata - sulla parte femminile del mercato del lavoro » (ivi). Le donne vengono frequentemente impiegate in attività del settore dei servizi che sono state aperte all'iniziativa privata. Inoltre hanno dovuto esse stesse tornare a svolgere i servizi mancanti a causa dei tagli dei servizi sociali. Ora lavorano soprattutto nei call center.

Nei centri capitalisti, una parte significativa dei lavori casalinghi sono stati sottratti alla casa e commercializzati. Sono aumentate le case con una sola persona. Tuttavia: « Mentre i salti tecnologici nei settori chiave dell'economia mondiale hanno indotto un riordino della produzione, nella sfera del 'lavoro domestico' non è avvenuto alcun salto tecnologico che abbia diminuito significativamente il tempo di lavoro in media socialmente necessario alla riproduzione dei/delle lavoratori/lavoratrici » (ivi). E questo nonostante il fatto che il computer sia in parte entrato nella sfera della riproduzione. Così, per esempio, gli acquisti ed il lavoro sessuale possono essere "trattati" in questo modo. Oltre Twitter e Facebook nascono nuove reti sociali. Si lavora con robot di sostegno personale, fra l'altro (cfr. ivi). Tutto ciò, però, non può costituire alcuna « sostituzione per il lavoro di riproduzione della vita, in quanto questa include la soddisfazione di necessità complesse, ed in modo tale che gli aspetti fisici ed affettivi sono indissolubilmente legati l'un l'altro ed in gran misura vengono richiesti... nella forma dell'interazione umana » (ivi). Queste attività presentano una struttura temporale differente da quella del lavoro astratto. Oggi vengono spesso assunte da migranti. Attraverso la svalorizzazione del lavoro domestico, che continua ad esistere, il lavoro domestico a pagamento, con le sue condizioni miserabili, diventa lo "analogo in termini di tempo storico del lavoro nelle piantagioni" (ivi). Qui sono soprattutto le donne del Sud che devono stare al passo con le conseguenze negative della globalizzazione. Oggi devono sforzarsi sempre di più per ottenere i mezzi di sussistenza, devono assistere i malati ecc.. Le donne ricorrono frequentemente al lavoro a domicilio, con salari minimi, per poter conciliare famiglia e professione. Tuttavia, bisogna qui notare che le attività femminili di riproduzione hanno un carattere differente da quelle del lavoro nelle piantagioni, in primo luogo perché sono sottomesse ad una "logica di perdere tempo" e sono sviluppate in privato; al contrario, il lavoro nelle piantagioni, che nel "Terzo Mondo" ha costituito a partire dalla formazione del capitalismo una sorta di analogo del lavoro di fabbrica, avveniva nella sfera pubblica ed era segnato da una "logica di risparmiare tempo" (cfr. Frigga Haug). È indispensabile stabilire qui le differenziazioni.

4.3. Globalizzazione, (ri)colonializzazione e riproduzione
Federici intende per « globalizzazione, una serie di misure politiche attraverso le quali il capitale internazionale ha reagito alla crisi del lavoro e dell'accumulazione negli anni che vanno dal 1960 al 1970. In questi anni è avvenuto uno straordinario ciclo di lotte a livello mondiale, stimolato dai movimenti anticoloniali e dal movimento dei diritti civili negli Stati Uniti. Sono stati mobilitati continuamente nuovi soggetti » (ivi). Da questo deriva la questione di sapere  « come le mutazioni sociali epocali degli ultimi quattro decenni si siano ripercosse sulla riproduzione della forza lavoro » (ivi). Federici vede nella globalizzazione anche un "processo di 'ricolonizzazione'" (ivi) che si è esteso a tutto il mondo. Federici evidenzia qui delle posizioni che concepiscono l'informatizzazione e la finanziarizzazione come gli aspetti principali della globalizzazione:  « Secondo un'idea molto diffusa, la 'controrivoluzione' capitalista che costituisce il nucleo della globalizzazione è consistita in una doppia dislocazione. In primo luogo, un tipo di accumulazione assente nella produzione di merci sarebbe stata sostituita da un altro tipo in cui predomina la finanziarizzazione. In secondo luogo, si sarebbe già passati dalla produzione industriale fondata sulla fabbrica ad un sistema in cui scienza, conoscenza, informazione e cultura sarebbero gli oggetti più importanti della produzione, cosa che avrebbe portato ad una crescente dematerializzazione del lavoro, ma anche ad una ridotta domanda di lavoro... Concetti come "società della conoscenza" e "rivoluzione informatica" vengono utilizzati superando linee di divisione politica ed Internet viene vista come modello di nuove forme di cooperazione e di produzione di benessere » (ivi).
In Hardt/Negri la diagnosi è "capitalismo della conoscenza", in Jeremy Rifkin, "fine del lavoro". In questo contesto anche Federici critica i riferimenti della sinistra e del femminismo al "Frammento sulle macchine" dei Grundrisse di Marx (ivi). Per Federici, al contrario, è più importante  « la capacità del capitale di far abbassare i costi di produzione dei/delle lavoratori/lavoratrici attraverso un allargamento su grande scala del mercato del lavoro mondiale » (ivi). Assume qui l'aumento permanente del lavoro, proprio nell'era della globalizzazione. Anche riconoscendo benissimo che c'è stata una rivoluzione microelettronica, per lei rimane decisiva l'espansione della forza lavoro a livello mondiale, cosa che è diametralmente opposta all'ipotesi di una "contraddizione in processo".

Il processo di globalizzazione, continua Federici nella sua esposizione operaista,  « ha acutizzato la disuguaglianza e la polarizzazione sociale ed economica. Le gerarchie, che hanno segnato storicamente la divisione sessuale ed internazionale del lavoro, e che erano state impedite dai movimenti anticoloniali e dal movimento delle donne, sono state fermamente ristabilite da questo processo. Le ex colonie erano state fino ad oggi il centro strategico dell'accumulazione primitiva... Le colonie sono state il palcoscenico delle forme di sfruttamento più intensive. Sono state il luogo della schiavizzazione e delle piantagioni. Per secoli, dalle antiche regioni coloniali sono state sottratte le più preziose risorse (argento, oro, diamanti, legname, gomma, lavoro vivente) per poi essere imbarcate verso l'Europa e gli Stati Uniti. Definisco queste regioni come 'centro strategico' in quanto la loro riorganizzazione economica e sociale è diventata il fondamento e la condizione della riorganizzazione globale della produzione nel mercato del lavoro mondiale. Di fatto, non sarebbe mai stato possibile per l'Europa e per gli Stati Uniti esporsi alla 'deindustrializzazione', distruggere le strutture organizzative cui si appoggiavano le comunità di lavoratori/lavoratrici europei e nordamericani e dislocare le installazioni industriali dove i costi salariali sono più bassi, se la riorganizzazione economica delle ex colonie non avesse sviluppato una grande riserva di forza lavoro, e se questa forza lavoro non fosse stata fornita al mercato mondiale. Quindi non è stato per caso che proprio nelle colonie che abbiamo visto i primi e più brutali processi di espropriazione e di impoverimento, i più radicali disinvestimenti pubblici rispetto alla riproduzione di forza lavoro ed i più violenti attacchi alle popolazioni locali. Tali attacchi sono avvenuti, sia sotto forma di sanguinose guerre per procura come quelle che si sono sviluppate negli anni che vanno dal 1980 al 1990 in America Centrale e che si possono vedere fino ad oggi in molti paesi africani, sia sotto forma di interventi militari diretti come vediamo in Somalia, in Afghanistan e in Iraq. Di fatto, la violenza ancora una volta è stata la 'levatrice' di una nuova forma di accumulazione. Per mezzo di essa si sono aperti nuovi territori all'estrazione di petrolio, diamanti, litio e coltan. Simultaneamente, sono stati reclutati nuovi corpi per il mercato del lavoro e gli ex padroni coloniali hanno potuto assicurare il controllo generale totale dell'economia politica. Le occupazioni di terra a tutto questo associate hanno provocato una nuova diaspora, spingendo milioni di persone dalle campagne verso le città, che assomigliano sempre più a campi di rifugiati » (ivi).

Secondo Federici, nel "Terzo Mondo" la disoccupazione aumenta ed i salari diminuiscono drammaticamente. Le popolazioni sono state private della terra che serviva all'estrazione di materie prime e per la produzione di beni alimentari. « Centrali elettriche pubbliche messe fuori servizio... Sono stati ridotti i bilanci pubblici per la salute e per l'istruzione, così come le sovvenzioni ed i servizi di sostegno all'agricoltura, che dovevano consentire la soddisfazione delle necessità umane di base. Di conseguenza, si abbassa la speranza di vita e si assiste al ritorno di fenomeni che 'l'influsso civilizzatore' del capitalismo si riteneva avesse fatto sparire dalla faccia della Terra: fame, sottoalimentazione, epidemie periodiche e perfino la caccia alle streghe. Così in Africa sono state uccise migliaia di donne in quanto presunte streghe... Questo trae origine in parte dalla manipolazione delle autorità locali, che parlano di pretese minacce di stregoneria al fine di distogliere l'attenzione dalla liquidazione dei terreni comunitari. La caccia alle streghe si spiega in parte anche con il deprezzamento cui sono state condannate le donne anziane, le quali vivono delle attività dell'economia di sussistenza in società sempre più monetizzate » (ivi).

Nella determinazione delle tendenze della globalizzazione diventa ora perfettamente chiaro che Federici non ha niente in comune con le tendenze al collasso provocate dallo sviluppo delle forze produttive, come quelle che vengono invocate nel Frammento sulle Macchine. Per lei non esiste il diventare obsoleto del lavoro astratto, la desustanzializzazione del capitale e la svalorizzazione del lavoro, provocati dalla contraddizione in processo, come ha spiegato Kurz. In maniera tipicamente operaista, invece, vede nella globalizzazione una "ricolonizzazione", in quanto "controrivoluzione", nel senso di una comprensione soggettivista della classe modificata. Alle posizioni che scoprono nella finanziarizzazione un nuovo tipo di accumulazione, contrappone un'accumulazione eterna del capitale. Per lei non vi è alcun "climax del capitalismo"; il capitalismo in realtà può esistere fino alla fine dei tempi e mobilitare forza lavoro malpagata su scala mondiale.

Secondo Federici, si deve avere qui semplicemente un'espansione del lavoro, in quanto anche le attività femminili di riproduzione, le attività di sussistenza dei contadini, le attività nell'economia parallela ed altre si presentano come "lavoro" e pertanto suppostamente creano "valore". Le attività femminili di riproduzione sono per lei particolarmente rilevanti, avendo come sfondo la riproduzione della forza lavoro, senza considerare la loro logica in sé, nel contesto della dissociazione-valore, come relazione di base frammentaria e contraddittoria. Ma, queste attività devono anche essere sottomesse alla critica, proprio come il lavoro astratto (torneremo dopo su questo). Invece, la vita della casalinga della fase fordista viene spiegata in maniera riduzionista, meramente economica, in un contesto di marxismo tradizionale, soprattutto per mezzo della riduzione dei costi del lavoro attraverso il lavoro domestico. Nel quadro di riferimento di una contraddizione in processo riformulata, con sfondo la dissociazione-valore come contesto globale ed il climax del capitalismo che è ad essa associato, tuttavia, anche la nuova caccia alle streghe, per esempio in Africa, con sullo sfondo le relazioni tradizionali, dovrebbe essere classificata in una situazione nella quale si uniscono relazioni tradizionali e relazioni capitaliste, e non avendo come sfondo un'accumulazione primitiva, in quanto principio strutturale centrale ed eterno del capitalismo, che solo a prima vista può apparire plausibile.

4.4. La colonizzazione complessiva come principio fondamentale attuale?
Gran parte dei settori di lavoro intensivo della produzione industriale, come sottolinea giustamente Federici, è delocalizzata verso paesi dell'Europa Orientale ed anche verso paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Vecchie fabbriche "socialiste" sono state disattivate e completamente privatizzate. Prodotti locali hanno smesso di essere messi in vendita. Molti paesi del Terzo Mondo sono stati obbligati ad una "riforma strutturale". Imprese estere di sono appropriate delle risorse di queste regioni e dei loro beni di investimento. "Simultaneamente le imprese hanno aperto nuovi mercati di vendita per i loro prodotti, occupando il posto dei produttori locali" (ivi). Qui hanno svolto un ruolo decisivo le organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, FMI, WTO, ecc.). Anche il welfare è arrivato alla sua fine. «Così si è arrivati anche ad un dislocamento all'interno della relazione temporale fra riproduzione ed accumulazione. Con i tagli nel settore della sanità e dell'istruzione, nelle pensioni e nei trasporti pubblici, così come con l'introduzione dei 'canoni di utenza', molti aspetti della riproduzione della forza lavoro sono diventati fonte immediata di accumulazione» (ivi). In questo modo anche le attività riproduttive sono state finanziarizzate.

Si verifica anche una deregolazione - nel fatto che i/le lavoratori/lavoratrici diventano precari e nel taglio delle pensioni, nella riduzione dell'assistenza sanitaria e delle offerte formative - anche nei paesi "ricchi", come risultato delle riforme strutturali, della finanziarizzazione, della guerra e della crisi del debito, così come della crisi ipotecaria; si tratta di "attivare un nuovo impulso di accumulazione" (Federici, 2013). Qui Federici assume il benessere del capitalismo come limitato a determinati periodi e a determinati luoghi. Tale benessere è stato «chiaramente il risultato di un'interazione specifica di circostanze storiche ed accordi di servizi che sono arrivati alla fine delle lotte degli anni 1960 e con il collasso del comunismo» (ivi). Le tendenze all'impoverimento, tuttavia, colpiscono una gran parte della popolazione, ad esempio, anche in Grecia, Italia, Spagna e Stati Uniti. Particolarmente colpite sono le donne a basso reddito e le donne nere, che devono 'sostentare' sé stesse e le famiglie. Vanno a lavorare come domestiche in paesi lontani, si mettono a disposizione come madri surrogate, danno i figli in adozione ecc.. Secondo Federici, ovunque «viene attaccata la loro capacità a controllare la propria riproduzione» (ivi).

Constata Federici: « I programmi economici e sociali che il capitale internazionale ha messo in atto per sconfiggere i movimenti di liberazione degli anni 1960 e 1970 sono riusciti a garantire che L'ESPROPRIAZIONE (DELLA TERRA E DI TUTTI I DIRITTI ACQUISITI), LA PRECARIETÀ DELL'ACCESSO AI REDDITI MONETARI E DI OCCUPAZIONE, UNA VITA SOTTO IL SEGNO DELL'INCERTEZZA E DELL'INSICUREZZA E L'AGGRAVARSI DELLE GERARCHIE BASATE SUL RAZZISMO E SUL GENERE FOSSERO ISTITUZIONALIZZATI come condizioni di produzione per le generazioni future". Di modo che, secondo Federici, DAPPERTUTTO LA FIGURA DEL LAVORATORE DIVENTI FIGURA DI IMMIGRANTE, DI LAVORATORE DISLOCATO, DI RIFUGIATO » (ivi, maiuscole nell'originale). Sono tornate antiche forme di schiavitù. La speranza di vita della classe lavoratrice si abbassa anche nei paesi ricchi. Nel "Terzo Mondo" si diffonde il modo di vita del salariato a giornata. In tali circostanze, la classe dei capitalisti, secondo Federici, ci fa credere che non ci sarebbe alternativa al capitalismo. Al contrario, in tutto il mondo si possono vedere resistenze. « Poiché qualsiasi sistema che non riesce a riprodurre la sua forza lavoro, né ha niente da offrirle per il futuro se non le crisi che si ripetono, è condannato a cadere » (ivi). Nonostante tutta l'evocazione della riproduzione della forza lavoro, secondo Federici oggi è il LAVORATORE migrante a rappresentare il prototipo della pauperizzazione capitalista. Il nemico principale qui è "il capitale"!

5. Riassunto intermedio
Proprio come per Dörre, il lavoro precario subappaltato, anche nella sua forma migrante, è il prototipo dello sfruttamento nell'era della globalizzazione. Federici vede nella stessa posizione identica il lavoratore migrante, rifiutando tuttavia decisamente una posizione riformista, al contrario di Dörre. Vede le relazioni di lavoro precarie come "desiderate" e le suppone come "obiettivo" del capitale. Assume di fatto che la "colonizzazione" sia un principio che anche oggi abbia ancora effetto in termini di teoria dell'accumulazione. Una critica del "disciplinamento dei corpi", nel senso della moderna disciplina del lavoro, che viene ben recepita anche da vari critici del valore (e della dissociazione), in lei avviene nella maniera tradizionale-operaista ed ANCHE SEMPLICEMENTE NEL CONTESTO DI UN'ONTOLOGIA DEL LAVORO! Se Dörre sta in una tradizione sindacale del movimento operaio, nella quale viene attribuita una grande importanza allo Stato, e si tenta di prolungare tale punto di vista nei tempi attuali, avendo come sfondo Gramsci, l'ipotesi della teoria della regolamentazione, la teoria delle onde lunghe, ecc. - una situazione in cui di passaggio si presta attenzione alle donne, ai migranti e all'ecologia, ma lo si fa contro voglia - nel caso della Federici è in primo piano l'impeto soggettivista della lotta di classe in senso operaista, ma entrambi mantengono come punto di partenza un pensare in termini di teoria del punto di vista e/o un individualismo metodologico, che ha non da ultimo radici nel pensiero della lotta di classe tradizionale.

È noto che il background della Federici è ancora più arido di quello di Dörre. I suoi veri riferimenti sono Marx, con la separazione fra produttori e mezzi di produzione nel contesto dell'accumulazione primitiva, così come la concezione di Dalla Costa, secondo cui anche le attività riproduttive sono necessarie alla formazione di forza lavoro, ed anche alcuni teorici che fanno ricorso all'importanza del "Terzo Mondo" ed infine anche Foucault. Del resto rimane soprattutto sul piano descrittivo. Nessuno dei due arriva al punto essenziale della contraddizione in processo, con tutte le sue conseguenze di un limite sistemico. Questa prospettiva della contraddizione in processo, che deve arrivare alla sua fine, del resto non ha niente a che vedere con un punto di vista dell'ottimismo del progresso, che Federici ad esempio censura in Hardt/Negri. Un modo di vedere che assume un climax del capitalismo, al contrario, si muove su un piano OGGETTIVO della teoria dell'accumulazione, in cui lo sviluppo delle forze produttive non viene connotato semplicemente come positivo, come avviene nel marxismo tradizionale o nelle concezioni neo-operaiste; le forze produttive e le rispettive tecnologie possono anche essere forze distruttive.

Federici non contesta completamente la rivoluzione tecnologica e finanziarista, tuttavia per lei ciò che è decisivo è la strategia del capitale volta a restringere i costi su scala mondiale. Tuttavia, in questo modo le sfugge il carattere feticista della crisi mondiale, in cui l'opzione dei bassi salari è solo una fase di transizione verso la superfluità (vedi più avanti). Chi oggi è precario, più o meno, non è ancora caduto completamente fuori...La precarietà è quindi così soltanto la minaccia del pericolo realmente esistente della superfluità. Quest'obiezione è valida tanto per Dörre quanto per Federici. LA SUPERFLUITÀ oggettiva è la vera categoria, in cui è decisiva, non semplicemente la precarietà, che è la mera sensazione di tutto ciò che appare essere soggettivamente vero, con il mantenimento di un'attività professionale di qualsiasi tipo, che dev'essere mantenuta incondizionalmente, pure nella forma di un postmoderno imprenditoriato di sé stesso, con sullo sfondo una società del lavoro concepita come ontologica. La paura di diventare superfluo è talmente grande che si riesce solo ad identificare teoricamente sé stesso con il diventare precario, essendo tabù considerare la fine assoluta della società del lavoro; questo è semplicemente horror puro e semplice per il precario, che si vede obbligato a posizionarsi all'interno delle relazioni in  via di decadenza per poter mantenere sé stesso come qualcuno che si sforza al massimo. Tutto ciò va inteso nel quadro di una critica generale della dissociazione-valore, come critica che afferma sé stessa e simultaneamente si restringe.

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6. Critica della dissociazione-valore, razza, classe, genere, globalizzazione e decadenza del patriarcato capitalista
    6.1. Presupposti di base

Di seguito verrà evidenziata la dinamica della dissociazione-valore in quanto dinamica fondamentale in opposizione ai teoremi metafisici della colonizzazione. Anche Kurz parte da un'alterazione qualitativa delle relazioni di genere, facendo riferimento alla teoria e alla critica della dissociazione-valore (sulla base di: Scholz, 2001/2000). Anche se la teoria della dissociazione-valore nel suo insieme, per lui rimane marginale, com'è già stato detto, soprattutto nel suo ultimo libro "Denaro senza valore", in ultima analisi tutta la sua opera dev'essere semplicemente situata all'interno di un approccio critico alla dissociazione-valore. Ma Kurz non presuppone in alcun modo - e questa era già sempre la sua tesi centrale nel contesto della critica del valore - una classe di capitalisti (personificata), che sia personalmente responsabile dello sfruttamento della classe lavoratrice (e, nel caso di Federici, anche della formazione delle relazioni gerarchiche di genere), ma semmai un contesto feticista globale. Kurz scrive, sulla transizione verso il capitalismo: «Nell'ambito di questa trasformazione anche le relazioni fra i sessi sono stati profondamente scossi... Si è trattato di un momento essenziale della costituzione capitalista, fin dai primordi della trasformazione del denaro. In questo processo, tutti gli elementi di riproduzione sociale non passibili, o difficilmente passibili di essere rappresentati nell'ambito della logica del denaro che determinava anche lo Stato (dall'atto di preparare il cibo alla cura dei figli e fino a "l'amore") sono stati ritirati dalle relazioni vincolanti, o di obbligo, esistenti fino ad allora, ma sono stati allo stesso tempo dissociati dalla nuova socialità della merce, e sono stati delegati alle donne... Al fatto per cui il denaro moderno (il capitale) e lo Stato condividono un'origine comune in seno alla società ufficiale, si sovrappone un'altra coincidenza delle origini ancora più importante, fra l'universalità astratta (denaro e Stato), da una parte, e la dissociazione sessuale dei momenti di riproduzione che in tale universalità non ha posto, dall'altra: « Quello che viene dissociato non è un mero "sottosistema" di questa forma (come, ad esempio, il commercio con l'estero, il sistema giuridico o la politica), ma è essenziale e costitutivo della relazione sociale globale... È stato in questo modo che sono nate le moderne relazioni fra i sessi e la famiglia borghese, che hanno a che vedere con le strutture precedenti che portano lo stesso nome tanto poco quanto lo ha il denaro trasmutato con le sue antiche forme di esistenza. Anche qui, com'è evidente, non si stabilisce coscientemente una meta, nel senso di una relazione nuova ed esauriente e della sua logica trascendentale; gli attori, semmai, agiscono sulla base di motivazioni di portata limitata (per esempio, la dissoluzione delle antiche rappresentazioni personali patriarcali), le quali, anche sotto quest'aspetto, si sviluppano "alle loro spalle" in direzione di un'altra costellazione di relazione fra i sessi» (Kurz, 2012).

Qui, Kurz si riferisce anche alla caccia alle streghe in quanto evento cruciale: «Il processo delle attribuzioni simboliche e riproduttive al sesso femminile è avvenuto in maniera altrettanto sanguinaria e repressiva dello sradicamento di parti considerevoli della popolazione e della trasformazione del denaro. Prova di questo è la barbara caccia alle streghe che ebbe luogo dal 15° secolo fino all'inizio del 17°. Il patriarcato dell'Antichità e del Medioevo feudale si trasformò così in quello moderno, mediato dalla logica del denaro. Il dominio maschile non si era diluito, ma aveva assunto un'altra costituzione, quasi "oggettiva", determinata dalla "economia" in formazione. Il carattere strutturalmente "maschile" del processo di "svincolo", associato alla mobilitazione originale intorno alle armi da fuoco, venne iscritto nella base del capitale nascente - ma ciò avvenne, propriamente, come momento dissociato delle forme di base e non esplicitamente contemplato nella riflessione ufficiale. Dopo la macchina auto-referente della moltiplicazione del denaro venivano stabiliti e venivano sessualmente dissociati tutti i momenti della riproduzione che essa era incapace di coprire, la "economia" così creata aveva prodotto, grazie alla sua dinamica propria, "leggi proprie"» (ivi. vedi anche Scholz, 1992).

In questo contesto, nel fordismo si abbassarono i costi di produzione della forza lavoro relativamente al plusvalore, che era aumentato anche dal punto di vista del capitale: il che significò che i salari reali ed il potere di acquisto aumentarono continuamente, risultando in un'ottimizzazione delle possibilità di consumo dei salariati. La formazione del modello di famiglia uomo-capofamiglia/donna-domestica andò così di pari passo con il passaggio dalla produzione di valore assoluto alla produzione di plusvalore relativo, provocato dallo sviluppo delle forze produttive.

Nel post-fordismo, con la rivoluzione microelettronica, si sviluppano le istituzioni della famiglia e del lavoro retribuito, sulla scia dei processi di globalizzazione, che risultano essi stessi dal processo di dissociazione-valore; le relazioni tradizionali di genere si disfano senza che spariscano le gerarchie di genere. Nel patriarcato capitalista, le relazioni fra i sessi addirittura si imbarbariscono. L'uomo in quanto capofamiglia che guadagna e la moglie come donna di casa diventano obsoleti; le relazioni di genere ora sono apparentemente individualizzate, le donne sono "doppiamente socializzate" (Regina Becher-Schmidt), cioè, sono allo stesso tempo responsabili sia per la famiglia che per la professione, anche se ora vengono liquidati i lavori di riproduzione sempre più professionalizzati, affidati a loro volta alle donne. Gli uomini "sono trasformati in casalinghe" (von Welhof), nella misura in cui si muovono in relazioni precarie di occupazione. Tendenzialmente, si manifestano anche nel "Primo Mondo" relazioni che conosciamo nelle favelas dei paesi del "Terzo Mondo". Le donne educano i figli con l'aiuto delle familiari donne e delle vicine, gli uomini vanno e vengono, e sono spesso mantenuti dalle donne; così continua il patriarcato capitalista, anche nella sua erosione. Ora, le donne devono riprodurre una società che di fatto non può essere riprodotta, nella decadenza del patriarcato capitalista, dal momento che gli uomini, con la tendenza a "diventare casalinghe", spesso si deresponsabilizzano. In questo la situazione delle donne nel Terzo Mondo o in Europa dell'Est si presenta senza dubbio più drammatica che in Germania.

Lo sviluppo delle forze produttive e della tecnologia, tuttavia, non è mediato solo materialmente dalle attività di riproduzione "private" eseguite dalle donne, ma è anche legato alla dissociazione del femminile nella psicologia sociale e nei simboli culturali, come mostrano diversi studi (cfr. per esempio, Scheich, 1993). Qui è decisivo il fatto che la dissociazione del femminile relativamente al valore (plusvalore) non è un "esterno" al capitalismo, ma la relazione di dissociazione-valore (plusvalore) è semmai una relazione basilare dialettica, che fin dall'inizio ha costituito il tutto feticista ed il "movimento in sé", proprio perché la dissociazione del femminile è simultaneamente esterna alla relazione di valore (di plusvalore). Perciò, nel caso delle attività femminili di riproduzione, non si tratta semplicemente della riproduzione della particolare merce della forza lavoro (nel caso in cui questa può poi essere di nuovo sottomessa al "valore"), ma al contrario questa dimensione ha una sua logica propria, che risulta esattamente dalla relazione dialettico-dinamica con il valore, e di fatto nel senso della riproduzione sociale totale nel patriarcato capitalista. In questo, la dissociazione è sia presupposto del valore (del PLUSvalore) che l'inverso. È questa logica stessa, che non da ultimo risulta dalla separazione fra lavori produttivi ed attività dissociate improduttive, ciò di cui bisogna sempre tener conto. È questa dinamica di dissociazione-valore che in ultima analisi rende possibile la contraddizione in processo e genera la caduta del capitalismo, ragion per cui questo contesto di dissociazione-valore dev'essere riformulato come contesto basilare (cfr. anche Scholz, 2013). Questa dissociazione attraversa tutti i piani ed i domini, non può semplicemente essere ridotta alla divisione fra sfera privata e sfera pubblica; ad esempio, le donne nella vita professionale continuano a guadagnare meno degli uomini, anche con qualifiche equiparabili. La dissociazione-valore (plusvalore) è un contesto basilare oggettivo che costituisce il tutto sociale mondiale come tale e non ha come oggetto solo le relazioni di genere in senso stretto, come un "aspetto" della totalità sociale della socializzazione del "valore". Come tale, anche la critica della dissociazione-valore deve dare spazio alle differenti disparità sociali (vedi più avanti).

Ma Federici, con la sua concezione di colonizzazione, non riesce a vedere tutto ciò perché è rivestita di operaismo e di lotta di classe, e a partire da questo utilizza rispetto alle donne, contadine, "povere" indigene, ecc., il suo punto di vista sempre già soggettivista. Generalmente questo si applica anche alla sua ingenua definizione di concezione della natura. Non c'è bisogno di aggiungere che nella concezione di colonizzazione di Dörre, per ancora più ragioni non si riesce a trovare tale approccio in termini di teoria della dissociazione-valore.

6.2. Colonizzazione, (ri)colonizzazione. globalizzazione?
Se si prende come punto di partenza la contraddizione in processo, il contesto di dissociazione-valore, includendo il "meccanismo di compensazione relativa" nel fordismo (per cui la contraddizione fondamentale sembrava essere stata rimossa nel fordismo, per poi mostrarsi molto più chiaramente nell'era della globalizzazione), allora non si può parlare del processo di globalizzazione come di una ricolonizzazione rinnovata nel contesto di una colonizzazione permanente in quanto principio capitalista fondamentale; al contrario, si deve parlare di un processo orientato, che ora o presto arriverà alla sua fine.
Federici vede le cose in maniera del tutto differente: invece di constatare - avendo come sfondo la dissociazione-valore come contesto fondamentale del patriarcato capitalista - il divenire obsoleto del lavoro astratto e constatare la svalorizzazione del valore, nel contesto di una contraddizione in processo che si avvicina alla sua fine con la finanziarizzazione e l'informatizzazione e con la rivoluzione microelettronica, Federici assume un aumento del lavoro, oggi, che oltretutto continuerebbe per sempre.

Invece, bisogna classificare le tendenze effettivamente osservabili della "colonizzazione" nel contesto del climax del capitalismo, del "Collasso della modernizzazione" (Kurz) e del diventare superflui a livello di massa, anziché rilanciare l'essenza e la legge fondamentale (a-storica) del capitalismo. A questo proposito, già nel 1991, Kurz scriveva: «Le idee circa una "colonizzazione" capitalista dell'Est sono chiaramente orientate intorno al vecchio paradigma della sinistra che parla di "sfruttamento neo-colonialista" del Sud; in entrambi i casi si evoca come motivo fondamentale l'assorbimento di "manodopera a basso costo" da parte del "vampiro" capitale. Ma queste idee hanno la loro base reale nella storia dell'imposizione pre-fordista del capitale, da lungo tempo passata. Manodopera a basso costo come mezzo principale di accumulazione, lavoro forzato e schiavista in produzioni poco dispendiose, nello sfruttamento di materie prime (miniere, piantagioni) o in giganteschi progetti di infrastrutture, come costruzione di ferrovie e di dighe, facevano parte (in particolare nell'Unione Sovietica) delle forze motrici storiche del capitale, cioè, della sua "accumulazione primitiva". Chi riferisce tali forze e tali ragioni senza tanti complimenti all'attuale sistema globale sta vivendo ideologicamente del passato e non riesce a vedere i potenziali che nel frattempo sono sorti grazie alla scientifizzazione ed il livello di produttività da essa risultante» (Kurz, 1991). L'accumulazione primitiva nei paesi del Terzo Mondo, paragonabile a quella registrata circa 400 anni prima in alcuni paesi europei, è avvenuta in gran misura solo dopo la seconda guerra mondiale, ad un livello già elevato di socializzazione mondiale (in cui quel che rimaneva della sussistenza tradizionale era stato mantenuto, anche la fase brutale della colonizzazione). Perciò, rispetto alla "modernizzazione ritardata" degli Stati del Terzo Mondo, si tratta per così dire di cannoni, in quanto questi Stati non possono più realizzare un'accumulazione primitiva nel contesto di un "nuovo modello di accumulazione" su scala globale (cfr. ivi). L'industrializzazione "si è fermata a metà strada, cioè, dopo aver sradicato le masse, ha smesso di integrarle nella moderna macchina di sfruttamento dell'economia d'impresa" e si è limitata a determinate regioni (ivi). Tali tendenze continuano essenzialmente nel processo di globalizzazione degli ultimi decenni.

Allo stesso modo in cui Federici concepisce erroneamente gli attuali processi di globalizzazione come "ricolonizzazione", ci sono anche posizioni che semplicemente negano i processi di globalizzazione in quanto processo mondiale. Kurz si oppone anche a tali posizioni: non ultimo in quanto «nel corso della globalizzazione... si sono stabilite in maniera completamente nuova "zone economiche speciali" e soprattutto Zone di Lavorazione dell'Esportazione nelle quali si muove il capitale transnazionale. Già la designazione di "Zona" indica il carattere extraterritoriale di crisi di tutta l'organizzazione. L'extraterritorialità consiste sicuramente in condizioni fiscali speciali, di licenziamento, di diritto del lavoro, ecc. in cui si esprime la crescente rinuncia da parte dello Stato nazionale alla sua capacità di regolazione. Tali zone si espandono a gran velocità, mentre simultaneamente si rompe la coerenza dell'economia nazionale e, inversamente, aumentano velocemente anche le zone di paralisi e di abbandono» (Kurz, 2005). C'è da notare che Kurz designa queste zone economiche speciali attraverso il termine di "extraterritorialità" e non per mezzo del concetto di "colonizzazione". In quanto esse hanno più a vedere con lo "stato di emergenza" di quanto abbiano a che fare con il portare dentro il sistema le regioni esterne al capitalismo, nel senso di un auto-rinnovamento permanente (vedi più avanti).

Kurz parte fondamentalmente dal fatto che «la globalizzazione raggiunge sempre più paesi - ma proprio in quanto processo di crisi interna, con divisioni economico-sociali. La dimensione di penetrazione transnazionale può essere più o meno forte; la maggior parte delle volte esiste solo in dose omeopatica, mentre il più dello spazio rimane abbandonato alla disintegrazione. Tutta la periferia globale nel suo insieme viene quindi, da un lato, coinvolta, e, dall'altro lato, questo avviene in forma irregolare» (ivi). Bisogna notare qui, ancora: «All'interno della compressione del processo di globalizzazione di determinate regioni su scala planetaria, continentale e nazionale avvengono continui dislocamenti e raggruppamenti» (ivi). Questo si applica anche ai paesi in via di sviluppo e ai BRICS. Così, perfino la redazione della rivista Prokla constata in una relazione del 2014: «Anche le prospettive di sviluppo dei BRICS non sono affatto chiare: se Stati come l'India ed il Brasile ancora fino a poco tempo fa venivano considerati dei successi, più recentemente ci sono dei segnali secondo i quali questi paesi stanno per entrare in crisi. La Russia, fino a pochi anni fa una potenza leader, viene oggi considerata un paese in via di sviluppo, la cui politica si vede obbligata a creare una nuova sfera di influenza» (Redazione della Prokòa, 2014). Si può constatare che ovunque i paesi in via di sviluppo si trovano in una crisi profonda.

Al contrario, Federici vede i ciechi processi della globalizzazione - ceterum censeo - come una volontà di colonizzare da parte del "capitale", nel contesto di una "accumulazione primitiva" globale e permanente, con un risucchio di forza lavoro che può continuare senza fine.

Avendo come sfondo una prospettiva di critica della dissociazione-valore, gli attuali processi di globalizzazione « non avvengono, tuttavia, nel senso di un movimento ascendente del capitalismo globale, ma semmai nel senso di un movimento discendente. Perciò, nella formazione strutturale di "auto-somiglianza" globale predomina la tendenza negativa e, di conseguenza, rimane la vecchia distanza fra centro e periferia; ma all'interno di una storia comune di crisi e di disintegrazione... L'auto-somiglianza del sistema mondiale permane superficiale, in quanto si presenta al centro ed alla periferia in densità completamente diverse... Per questo motivo si espandono... i processi di disintegrazione sociale nei paesi periferici ancora più rapidamente di quanto avvenga nei paesi centrali del capitalismo » (Kurz, 2005). I fenomeni di disintegrazione dei paesi della periferia, tuttavia, sono anche un serio avvertimento e lo sono proprio per i paesi del cosiddetto Primo Mondo, come da tempo si può vedere (Kurz, 1991). La logica della contraddizione in processo, del credito, della finanziarizzazione e dell'economia del deficit si mostra oggi - quando il "limite interno" del capitalismo è in piena vista, ossia, empiricamente - nelle relazioni che non sono affatto tornate uguali neppure empiricamente; la storia coloniale si svolge anche nel presente e lo determina, cosa in cui bisogna concordare con Federici; ma è per questo che le recenti mutazioni qualitative, su scala mondiale, hanno smesso da tempo di poter essere spiegata per mezzo di una TEORIA della colonizzazione, che in fondo parte dalle precedenti relazioni nelle vecchie colonie.

Quindi, in Federici, è visibile un etnocentrismo capovolto: per lei, i margini del capitalismo, nella fattispecie le colonie, le popolazioni indigene, o anche le donne della "cultura dominante ((Birgit Rommelspacher, vedi più avanti) vengono trasformati ancora una volta in "centro strategico", ma sempre dentro un modificato marxismo del movimento operaio, che si sente evidentemente nella necessità di cavalcare, per potersi ancora legittimare, fra le altre cose, il presupposto di base della colonizzazione. Su questo lo stesso Kurz constata ancora per quel che attiene ai paesi emergenti come la Cina: « Qui non c'è alcun territorio industrializzato, ma si svolgono attività economiche deterritorializzate, specifiche, la cui coerenza non è fornita né dalla Cina né da altri paesi in quanto economie nazionali, ma semmai esclusivamente per mezzo di funzioni particolari dell'economia d'impresa » [*8] (Kurz, 2005).

Questo implica, dice ancora Kurz, che: « Nelle condizioni della terza rivoluzione industriale, che ha reso questa immediatezza del mercato mondiale una realtà, le forze produttive ed i mezzi di produzione della maggior parte del mondo diventano superflui per mancanza di redditività, in termini di economia imprenditoriale, ma senza che nella forma capitalista (che da tempo ha costituito anche la sua forma interiore di soggetto) siano superflue anche le persone, dacché questa forma di soggetto soffre anche il peso della moderna relazione fra i sessi, ossia, è sessualmente modificata. Laddove non vengono resi puramente e semplicemente superflui, i mezzi di produzione (non da ultimo i terreni agricoli fertili) soffrono di un re-orientamento forzato verso il mercato mondiale universale, il che significa, ad esempio, nell'ambito dell'agro-business globale, una produzione - poco esigente in termini della manodopera di prodotti ad alta tecnologia  - di beni di lusso tipo fiori recisi o alimenti selezionati per i centri occidentali, mentre la popolazione locale viene espulsa dalle sue terre e privata delle sue risorse vitali, che non (o non più) possono essere rappresentate economicamente sotto la forma del valore, senza che, nel nuovo livello delle forze produttive, possano essere integrate nella produzione rivolta al mercato mondiale, nemmeno in forma meramente repressiva come "braccia". È un fatto che i flussi di merce e di denaro, sotto la cui forma si presenta la produzione agraria marginalizzata o si presentano le specifiche situazioni di sfruttamento salariale a basso costo, sono di una trascurabile dimensione ridotta in confronto alla totalità del prodotto globale e, soprattutto, in confronto al volume del capitale finanziario vuoto di contenuto; ma è proprio in questa dimensione relativamente microscopica della creazione di ricchezza "valida" a livello mondiale che scompare la vita di enormi masse di popolazioni di "superflui". La ricchezza (in sé stessa solamente astratta e distruttiva) dei paesi centrali dell'Occidente non dipende dalla massa di fiori recisi a basso costo, provenienti dalla Colombia o dall'Africa centrale, che vengono mandati nelle metropoli per via aerea; ma è a causa di questa mezza dozzina di fiori recisi che popolazioni intere vengono sacrificate socialmente, proprio perché l'esistenza nell'ambito del mercato mondiale è stabilita in maniera ferrea come unica forma di esistenza possibile » (Kurz, 2003).

L'estrazione del coltan e di altre materie prime, così come lo sfruttamento del lavoro per produrre telefoni cellulari, oggi sono qualcosa di differente rispetto ai tempi della colonizzazione. I "fiori recisi" per Kurz sono solo una metafora della ricchezza superficiale dell'Occidente. In gran percentuale, l'economia attuale gira intorno alla transazioni sul mercato finanziario e alle catene transnazionali di creazione del valore, cioè, investimenti in razionalizzazione che sfruttano la riduzione dei costi. È proprio una ricchezza mercantile superficiale quella che per lo più esige tale sfruttamento approfondito  e che ha bisogno di dislocazioni di investimento, condizionato dalla razionalizzazione, verso altre parti del mondo, nelle quali poi viene esercitato un massiccio sfruttamento della forza lavoro, dal momento che nel suo insieme si abbassa la massa di valore e si abbassa il lavoro astratto nella sua "sostanza materiale astratta". Tali relazioni di sfruttamento, tuttavia, al presente devono essere considerate sulla scala di un Tutto sociale (mondiale) costituito, essendo esse stesse mediate soprattutto dal credito, e non da ultimo finanziate nel contesto di un circuito di deficit. Anche gli alimenti di base oggi sono brevettati e sono resi oggetto di speculazione. IN QUESTO contesto le materie prime continuano ad essere sfruttate come prima, con le relative conseguenze ecologiche, per esempio, anche in forme nuove come il fracking [fratturazione idraulica], ed avvengono "colonizzazioni". Per questo oggi si può anche parlare di "protezione delle riserve strategiche di materie prime", dal momento che la protezione delle materie prime fossili, su cui si basa tutto il modo di vita capitalista, nel momento in cui esse diventano sempre più scarse, assume un ruolo più importante di quello che aveva precedentemente (ivi).

Naturalmente, qui, la riprivatizzazione delle strutture pubbliche non può passare per una nuova colonizzazione in senso stretto - come avviene per Dörre ed anche per Federici. Si tratta di una ristrutturazione all'interno della socializzazione patriarcale capitalista che, dopo la fase fordista del "meccanismo di compensazione relativa", annuncia ora la fine del capitalismo. Gli attuali movimenti dei rifugiati a questo proposito parlano un linguaggio chiaro. E così il lavoratore in subappalto/ il lavoratore migrante/ il rifugiato, lo sfruttato di fatto in una maniera nuova ed il precario non è possibilmente una nuova versione del lavoratore/proletario, ma è l'espressione del suo diventare obsoleto; una via di sfruttamento di nuovo tipo, che per ora la contraddizione in processo assume nella sua forma di sviluppo, in una determinata fase della decadenza del capitalismo. È vero che a partire dagli anni 1990 c'è stata una nuova fase di espansione della produzione di plusvalore assoluto su scala globale, tuttavia questo è già una conseguenza dell'evidenziarsi del limite interno della produzione di plusvalore nel contesto capitalista globale, come si mostra anche nei paesi del centro per mezzo di tagli salariali, aumento del tempo di lavoro, ecc. (cfr. Kurz, 2012). Ma presto o tardi, tuttavia, tali tendenze diverranno delle leve verso nuovi passaggi della razionalizzazione, come si vede, ad esempio, nella discussione intorno al fenomeno "Industria 4.0", anche se entrambe le tendenze devono svilupparsi parallelamente per qualche tempo. Gli esseri umani verranno semplicemente abbandonati. Pertanto è necessario formulare le disparità sociali, anche nella loro dimensione globale, al di là delle categorie del vecchio movimento operaio (vedi, per esempio, Scholz 2005, e più avanti). In questo il marxismo occidentale ed il marxismo del blocco dell'Est non sono così lontani come viene suggerito [*9]. In sintesi, si può dire che le macchie vuote nel Terzo Mondo mostrano che gli esseri umani concreti sono da tempo tanto superflui quanto attualmente vengono considerati i precari qui in Germania, dove, nella loro imprenditoria di sé stessi, presagiscono da tempo che non verranno risparmiati da questo destino, che invece minaccia la paralisi assoluta (vedi la Grecia ecc.), cosa che però pretendono di ignorare - dal momento che la Grecia e gli Stati ad ovest dei Balcani, scossi dalla crisi, sono essi stessi obbligati ad accogliere i rifugiati, come Stati terzi che vengono presunti come sicuri, quando invece sono regioni dalle quali le persone scappano, per sfuggire alla prospettiva della superfluità.

6.3. Amministrazione della crisi nazionale ed internazionale, ovvero il diventare obsoleto del lavoro astratto, la rovina della periferia e la guerra civile mondiale
Per concludere, si può constatare ancora una volta che: « È ... un'illusione ottica vedere in questo una reindustrializzazione a partire da nuovi percorsi orientati all'esportazione, che potrebbero condurre al di là della vecchia divisione di funzioni in cui i paesi periferici sono stati degradati a fornitori di materie prime. Al contrario, la vecchia degradazione viene soltanto completata o sostituita per mezzo di una nuova degradazione, vale a dire per mezzo dell'utilizzo di opzioni a basso costo, disconnesse, per l'economia imprenditoriale transnazionale, mentre il corpo dell'economia nazionale crolla » (Kurz, 2005). Come si è visto, il capitalismo determinato dal mercato finanziario, essenzialmente mediato dal credito e caratterizzato da un circuito di deficit, ormai non può più "arrangiare" un nuovo modello di accumulazione, dopo la fine del paradigma della produzione. Esso crea costantemente "bolle finanziarie" che presto o tardi devono scoppiare. Anche una potenza fino ad ora considerata iper-sovrana, come la Cina, sta cominciando a passare per tutto questo (cfr. Konicz 2015).

Di seguito verrà affrontata in particolare, quanto meno alla luce del contesto, la relazione fra amministrazione della crisi nazionale ed internazionale, il divenire obsoleto del lavoro astratto, il crollo della periferia e la guerra civile mondiale, di cui finora non abbiamo quasi parlato e che in Dörre e Federici emergono come dimensioni della "colonizzazione", dal momento che entrambi retrocedono davanti ad una CRISI, di fatto FONDAMENTALE, del patriarcato capitalista, che non può essere evitata da qualsiasi classe dominante o subalterna (rivoluzionaria). ... In questo contesto, anche Kurz contraddice tutte le teorie che continuano a considerare lo Stato nazionale come base regolatrice primaria, dal momento che esse vedono in questo contesto delle possibilità di ordine mondiale, sia nella dimensione meso come in quella macro della globalizzazione, un'illusione che per alcuni consiste ancora oggi nel vedere una decadenza più o meno probabile del capitalismo, che anche così dev'essere dominata nel modo quanto più immanente possibile. Invece, Kurz vede l'amministrazione della crisi nazionale ed internazionale come momento caratteristico dell'attuale socializzazione mondiale. Le guerre di ordinamento mondiale degli ultimi decenni non sono solo servite per la sicurezza delle riserve di materie prime (non da ultimo il petrolio) e dei meccanismi di trasferimento capitalisti, al fine di garantire una creazione (ridotta) di valore per la riproduzione capitalista. Scrive Kurz, già nel 2005: «Nella periferia i processi di collasso hanno già in parte portato alla dissoluzione dello stesso apparato di violenza nazionale in strutture di signori della guerra e in sub-culture terroriste. L'imperialismo globale ideale (nel senso dell'Occidente e degli Stati Uniti creatori di ordine) non ha qui alcuna prospettiva di ricostruzione delle possibilità di accumulazione; si limita a tentare di ricostituire gli apparati nazionali di violenza e di amministrazione delle persone (come in Iraq, in Afghanistan e nella ex-Jugoslavia) e dove ormai non funziona più niente passa la politica dei protettorati, i campi di detenzione e, per finire, l'annichilimento delle persone su grande scala... In un certo modo sembra qui ripetersi la storia della costituzione della moderna società borghese. In principio era lo stato di necessità, la sottomissione del materiale umano alla valorizzazione del capitale, come lo ha descritto Marx nel capitolo sull'accumulazione primitiva e come lo ha descritto Foucault, fenomenologicamente, per quel che riguarda la storia del disciplinamento per le esigenze del lavoro astratto. Il nucleo violento di tutto il diritto borghese, ivi inclusi i diritti umani, viene svelato. Tuttavia, c'è una differenza decisiva. Il capitalismo iniziale, ad un livello di produttività relativamente basso, aveva ancora davanti la storia dell'accumulazione e dell'imposizione del capitale; il capitalismo di crisi della terza rivoluzione industriale, in un livello enormemente elevato e ormai non integrabile nelle sue forme, ce l'ha alla sue spalle. Perciò è fondamentalmente sbagliato descrivere l'attuale amministrazione della crisi planetaria come nazionale, come una rinnovata 'colonizzazione capitalista', come fa gran parte della sinistra (per poter così rispondere in qualche modo, ripetendo i suoi paradigmi obsoleti). 'Colonizzazione' implicherebbe che qui si trattasse di mobilitare risorse e soprattutto forza lavoro per il rinnovamento del movimento di accumulazione. La situazione è esattamente il contrario; per l'amministrazione di crisi si tratta di smobilitare risorse e forza lavoro, poiché il capitale mondiale, al livello raggiunto di standard di produttività e redditività, ormai non è più capace di un riassorbimento allargato delle capacità produttive nella forma di 'lavoro astratto'. Il nuovo colonialismo di crisi esterno dell'Occidente cerca solo di mantenere nell'ordine le masse di esseri umani inutilizzabili nelle regioni in collasso. Il nuovo colonialismo di crisi interno degli apparati nazionali di amministrazione delle persone, dall'altro lato, cerca solo di placare, repressivamente, la smobilitazione della 'propria' forza lavoro e di darle una forma continuamente gestibile. Quello di cui è alla ricerca è l'amministrazione della povertà fino all'esaurimento, e non il rinnovamento regolatore di 'progetti' sociali globali. Il capitalismo transnazionale ormai semplicemente non si trova in tale posizione» (Kurz 2005). Di conseguenza, sono anche, fra l'altro, "condannati al fallimento i progetti di bassi salari e di lavoro comunitario obbligatorio indotti dallo Stato, in quanto non possono costituire alcuna base di accumulazione autonoma ma, al contrario, rappresentano solamente una fase di transizione verso nuovi strati di paria" (Kurz, 2003) [*10]. La Pax Americana, quindi, non è più una costruzione imperialista qualsiasi, nel senso di assecondare un'egemonia nazionale, ma caratterizza l'agglomerato del capitale già multinazionale, al di là di un centro di dominio nazionale. Imperialismi securitari funzionano da molto tempo, ma sono rivolti ai lavoratori "stranieri" messicani negli Stati Uniti, per esempio, mostrandosi attualmente in particolare nei movimenti di rifugiati che la fortezza Europa cerca disperatamente di contenere, e che viene applicato quanto meno rispetto ai/alle migranti "superflui/e" scarsamente qualificati/e. Non sarebbe sorprendente che la "colonizzazione" venisse rivoltata a destra: siamo "noi" che veniamo invasi e colonizzati da loro, non siamo "noi" che li stiamo spremendo.

Ancora una volta Federici vede le cose esattamente al contrario, anche se parla frequentemente di chiusure e di perdita di sempre più posti di lavoro: "Dobbiamo, tuttavia, rifiutare la conclusione secondo la quale l'indifferenza che la classe capitalista internazionale mostra di fronte alla perdita di vite umane provocata dalla globalizzazione provi che il capitale ormai non ha più bisogno di lavoro vivente, ragion per cui ci troveremmo sempre più circondati di popolazione 'superflua'. Di fatto, la distruzione della vita umana su grande scala è fin dalla formazione del capitalismo una delle sue componenti strutturali. È la contropartita necessaria all'accumulazione di forza lavoro, cosa che costituisce sempre inevitabilmente un processo violento. Le 'crisi di riproduzione' periodiche, cui stiamo assistendo nel corso degli ultimi decenni in Africa, rientrano in questa dialettica di accumulazione e distruzione della forza lavoro" (Federici, 2012). Federici colloca in questo contesto relazioni di lavoro precarie, schiavitù infantile, traffico di organi, ecc.. Ora, di fatto, il feticcio del capitale, per ottenere valore (plusvalore), da un lato, dipende dalla forza lavoro umana, dall'altro lato, in questo fine in sé irrazionale, astrae rispetto all'ottenimento di plusvalore da ogni essere umano. Federici tuttavia forza tale dialettica, ancora colorata nel senso del vecchio marxismo delle classi, in maniera astorica, al fine di cercare di non vedere oggi il divenire obsoleto del lavoro astratto ed il crollo del capitalismo.

Salta qui agli occhi che l'anomia ed i processi di inselvaggimento in quanto tali quasi non meritano attenzione da parte di Federici (a tal proposito vedere le osservazioni di Gerd Bedszent sulla Nigeria in questo stesso numero di EXIT!). La miseria del mondo attuale è per Federici il risultato del capitale, nel senso della classe capitalista. Gerd Bedszent, al contrario, scrive, ad esempio: « Le regioni "liberate" dalla dittatura si trasformano... rapidamente, nella loro maggioranza, in scenario di milizie etniche, guerrieri religiosi e bande armate di criminali comuni. Un esempio particolarmente evidente è l'Iraq, dove la guerra di ordinamento mondiale del 2003 ha portato di fatto alla rapida caduta del dittatore Saddam Hussein, ma il paese, in seguito alla crescente distruzione dell'economia e delle infrastrutture pubbliche, è caduto in un'interminabile guerra civile fra milizie religiose che combattono una contro l'altra... Dopo il collasso delle economie nazionali degli Stati periferici, spesso rimangono delle localizzazioni ancora più isolate della creazione del valore, per lo più estrazioni di materie prime o imprese agricole organizzate in maniera industriale. Queste localizzazioni sono sempre più slegate dall'economia reale delle relative regioni e funzionano ormai solo come fornitrici di economia per le metropoli capitaliste » (Bedszent 2014). In questo contesto, Bedszent constata che: « In seguito al crollo dello Stato si verificano assai spesso lotte sanguinose fra i resti dell'esercito statale, i movimenti ribelli, le milizie etniche e i guerrieri religiosi, per il controllo delle ultime fonti della creazione duratura del valore. Il partito che si afferma nel conflitto, in ciascuna regione, può saccheggiare il denaro delle imprese produttive sotto forma di licenze di vendita, di imposte o di estorsione pura e semplice, per potersi finanziare. Se poi le lotte vanno fuori controllo, in modo che il flusso di materie prime dalle regioni finisce per essere seriamente minacciato, si richiedono allora nuove guerre di ordinamento mondiale da parte dell'Occidente. » (ivi). Tuttavia: « L'assenza della statalità... non può essere ricostruita attraverso la pura forza militare.» (ivi). Inoltre, qui cresce anche la violenza maschile. Oggi, in questi tempi,  con una situazione di guerra civile mondiale realmente peggiorata, rispetto alla quale non si può non vedere che essa arde in ogni angolo della Terra, in questi tempi di continua crescita della superfluità, in cui l'opzione dei salari bassi sarà soltanto una fase di transizione in quanto stanno diventando obsoleti il lavoro astratto ed il lavoro domestico, in questi tempi di finanziamento a credito, ecc., tutte queste stime di collasso vengono più che confermate.

In questo si rivela l'impotenza dell'Occidente, o degli Stati Uniti, che ormai da tempo non sono in grado di presentarsi come mega-autorità/sovranità. Lo scenario di una guerra civile mondiale oggi ha assunto contorni ancora più chiari: si pensi solo alla zona araba, al Mali, alla Nigeria, ecc., in realtà non c'è bisogno di alcun elenco, basta vedere le notizie quotidiane. C'è da presumere che nel caso del conflitto Russia/Ucraina si voglia simulare ancora una volta il conflitto Unione Sovietica/Russia contro Occidente, dal momento che questo conflitto ha un carattere del tutto diverso, a causa della nuova situazione di collasso mondiale; tanto la Russia, quanto anche la Cina, gli Stati Uniti e la Zona Euro sono minacciati da propri scenari di rovina, anche se finora abbiamo sempre continuato "qualche volta a salire, altre volte a scendere" (cfr. Kurz, 2013). Perciò il conflitto Russia/Ucraina non è in alcun modo una mera tempesta in un bicchier d'acqua, ma non suggerisce semplicemente un antico scenario di conflitto, nel quale sarebbe probabile lo svilupparsi di una grande "contraddizione principale" nella prospettiva geo-politica, in cui l'economia mondiale viene mediata con sé stessa, cioè, passa sopra alle "economie nazionali" individuali. Anche l'asse Russia-Cina-India, ad esempio, che ancora una volta pretende di affermarsi in termini geopolitici, è influenzato da questo. Così, non dobbiamo lasciarci impressionare dall'intervento "di Putin" nel conflitto in Siria.

In questo contesto, il tema del momento, assai discusso, della "Industria 4.0", circa una robotizzazione ancora sconosciuta e l'importanza della "intelligenza artificiale, oggi fa concorrenza alle recenti teorie della colonizzazione e all'affermazione circa l'allargamento strutturale mondiale dello sfruttamento della forza lavoro, anche con l'opzione dei bassi salari, e indipendentemente dal fatto che si tratti di lavori nell'industria o di lavori nei servizi (anche se possono rimanere aperte per più tempo questioni tecniche, come ad esempio quelle relative alle automobili senza autista). Anche concependo quest'innovazione ancora una volta come colonizzazione, nel senso di espropriazione fordista della sicurezza, come fa Dörre. Questo riguarda non solo il "Primo", ma anche il "Terzo Mondo”, così come riguarda i paesi emergenti, visto che l'avvicinamento al "Terzo Mondo" ormai è in fase avanzata anche in alcuni paesi del Sud Europa. Come già detto, il risparmio sul lavoro e l'espansione del lavoro potrebbero qui entrare in competizione ancora per qualche tempo, in un quadro che sta diventando sempre più insicuro, competizione che tuttavia finirà a danno del "lavoro", dal momento che i probabili crolli finanziari potrebbero accelerare ancora di più tale processo. La forma esatta del fondamentale sviluppo della crisi non può tuttavia essere anticipata; tanto meno si può indicare la data esatta in cui il capitalismo collasserà, come piacerebbe ad alcuni che intendono questo collasso come se fosse un infarto cardiaco improvviso (cfr. su questo Kurz 2012). Si tratta di un processo più lungo, che può essere percepito a partire dal decennio 1980, ma che ancora non è avvenuto, come oggi possiamo affermare retrospettivamente (vedi Kurz 1986).

Anche se arriva una "onda lunga", lunga o corta che sia, la fine del patriarcato capitalista dovrà essere confermata, e la cosa ovviamente non significa incondizionatamente che sarà una fine emancipatrice. Tuttavia, la questione delle forze produttive, e non solo, rimane sempre la questione della relazione di dissociazione-valore, in quanto CONTESTO BASILARE in sé contraddittorio che, nel senso di un approccio dialettico negativo, differisce dalla vecchia comprensione della contraddizione nel senso di Marx.

6.4. Sulla relazione fra critica della dissociazione-valore, "razza", "classe", genere, globalizzazione e teorie della colonizzazione.
Per Federici c'è una occupazione/colonizzazione dappertutto e sempre - e addirittura di ciascuna persona - in cui "il capitale" è sempre interessato allo sfruttamento della forza lavoro, vista la sua fame insaziabile. Ciò vale anche per l'era della globalizzazione, in quanto si pretende che sia vitalmente interessato all'espansione del "proletariato mondiale". Per lei i soggetti sono le donne, i contadini, gli indigeni, gli operai, i lavoratori precari dislocati, ecc.. Differenti regimi di disciplinamento generano un accumulo di differenze e di gerarchie, in modo tale che il capitalismo viene sofferto e vissuto a partire dalle specifiche localizzazioni. Differenti disparità sociali, si trasformano in questo modo nella categoria della colonizzazione in quanto accumulazione primitiva duratura, equiparata addittivamente nelle sue diverse qualità, attraverso un procedimento di logica dell'identità. Fondamentalmente, Federici parte dal principio per cui le donne, i contadini, le popolazioni indigene, e in fondo anche la natura, creano "valore".

Al contrario, la teoria della scissione-valore parte dal principio secondo cui il femminile è stato dissociato dal valore (plusvalore), dal lavoro astratto e dal soggetto maschile, ed è stato delegato alle donne (attività di cura, ma anche qualità come sensibilità, emotività, debolezza di carattere ed altro), il che ha portato con sé la divisione fra una sfera pubblica ed una sfera privata, con le loro corrispondenti connotazioni sessuali gerarchiche. Le moderne idee di genere si sono così diffuse in tutto il mondo. La dissociazione-valore non può restare prigioniera della divisione fra queste sfere, al contrario, essa attraversa tutti i piani e le sfere della società e mantiene anche un lato socio-culturale e socio-psicologico. Dev'essere compresa come processo, cioè, essa non è sempre la stessa. Nella postmodernità ha un volto differente da quello che aveva nella modernità. Ora, le donne sono "doppiamente socializzate", e finisce il ruolo degli uomini che guadagnano - degli uomini capofamiglia. Questa dissociazione del femminile ora è anche il presupposto di una contraddizione in processo, per mezzo della quale al culmine del capitalismo il lavoro astratto diventa obsoleto, a fronte di un'enorme crescita della ricchezza materiale. Il fantasma di una femminilità irrazionale non solo è stato decisivo nello sviluppo delle scienze naturali e delle forze produttive, ma è servito anche alla formazione della famiglia nucleare nel fordismo, con le sue attribuzioni di genere, che oggi, nella loro forma tradizionale, stanno scomparendo. Così, il valore e la dissociazione si condizionano l'un l'altro: uno è il presupposto dell'altro e viceversa, il valore non ha il primato.

Tuttavia, non si può per questo parlare di relazione gerarchica di genere come contraddizione principale - dal momento che la dissociazione del femminile dal valore, ha avuto come conseguenza, nella comprensione scientifica, che il mondo della vita, il contingente, il non comprensibile analiticamente e concettualmente che in gran misura continua ad essere associato al femminile, fosse trascurato, disprezzato e considerato inferiore, non solo in economia ed in politica, ma anche perfino nella scienza. Quel che ha dominato, è stato un pensiero classificatore che non prende in considerazione la qualità particolare, la "cosa" in sé non compresa nel concetto, e che quindi non riesce a tollerare le rotture, le ambivalenze e le differenze ad essa associate e, pertanto, assolutizza l'identità e nega la non-identità (cdr. Adorno, 1966). Se la critica della dissociazione-valore prende conoscenza di questo, ne consegue che deve necessariamente ammettere la spaccatura che consiste, da un lato, nell'affermarsi come contesto basilare, e dall'altro lato nel poterlo fare soltanto se essa stessa si ritrae e ammette quello che non viene assorbito nel suo concetto, al contrario di come avviene nel pensiero androcentrico universalista. Si verifica in tal modo la situazione paradossale per cui essa può continuare ad esistere se è pronta a smentire anche sé stessa. Ma questo non significa che essa si batta dalla parte delle differenze, delle ambivalenze, delle rotture, delle de-sincronizzazioni, ecc., nella loro libera fluttuazione, ma al contrario deve affermarle per così dire in sé stesse, facendo valere simultaneamente la sua propria qualità. Per questa ragione, razzismo, antisemitismo e antiziganismo non posso essere derivati dalla dissociazione-valore, in quanto contesto sociale basilare, così come la dissociazione non può essere derivata dal valore. Ciò significa che la dissociazione è in un certo qual modo il paradosso di un concetto non identico, e questo perfino anche nel suo fluire storico-dinamico.

Già nel 1995, Birgit Rommelspacher ha scritto, a proposito dell'equiparazione di donne, di "selvaggi", di colonialismo: "Di conseguenza le donne sono discriminate allo stesso modo delle minoranze etniche, poiché il razzismo coloniale ha sostanzialmente seguito la medesima logica del sessismo. Questa logica funziona come costruzione della "donna" e del "selvaggio", che assai spesso si sovrappongono" (Rommelspacher 1995). Da questo ne consegue: "Un simile rilevamento di punti comuni dovrebbe in realtà sollevare anche la questione delle differenze. Ma tale questione di regola non viene posta. Ciò vale soprattutto anche per i dibattiti influenzati dall'eco-femminismo, che sottolineano il legame fra lo sfruttamento dei popoli colonizzati e lo sfruttamento delle donne, in quanto "materia prima". L'appropriazione coloniale della terra e delle risorse naturali viene equiparata alla colonizzazione delle donne nei paesi industrializzati. Qui viene assunta non solo l'equiparazione delle immagini, ma anche quella dei principi dello sfruttamento e del dominio politico" (ivi).

È facile rendersi conto che questo vale anche per Federici, e significa, nel contesto qui criticato di colonizzazione, che la critica della dissociazione-valore deve riconoscere la sua logica e denunciare pubblicamente non solo le strutture sessiste, ma anche razzismo, antisemitismo e anti-ziganismo, così come disparità economiche, anche nel senso di caduta delle classi medie formatesi nella fase fordista (che oggi sono collocate al centro dell'attenzione, piene di autocommiserazione). Questo vale anche per la composizione specifica delle relazioni sociali in diverse regioni del mondo, fino agli scenari microdimensionali, ad esempio, delle identità ibride e di un accumulo di forme di discriminazione degli individui isolati, sullo sfondo di un esser diventato [Gewordensein] storico, nel contesto globale patriarcal-capitalista. Al contrario delle critiche del valore, oggi ampiamente note, la critica della dissociazione-valore assume, quindi, assai bene la rilevanza delle disparità e delle gerarchie economiche e sociali, così come la necessità della loro analisi. La critica di quella che è una mera prospettiva di redistribuzione da parte del marxismo tradizionale, non deve spingere a buttare via il bambino insieme all'acqua sporca, al contrario, bisogna tener conto delle dimensioni della disuguaglianza, al di là della sua comprensione nel senso del marxismo del movimento operaio. Pertanto anche qui non si dovrebbero evitare i piano meso e micro, né le prospettive più vicine all'empirismo. Queste non devono essere trattate semplicemente come inferiori rispetto alla dissociazione-valore come teoria macro (cfr. Scholz, 2009). Nella teoria della colonizzazione di Federici, al contrario, avviene una "totalizzazione" (Hedwig Dohm), come se lei, con l'affermazione di un'accumulazione primitiva permanente, sottomettesse tutto a concetti fenomenologici quali espropriazione, recinzione, occupazione delle terre, sullo sfondo di una determinazione di riproduzione sociale.

Per Federici qui si attua un riferimento ai soggetti discriminati a prescindere da qualsiasi mediazione, nel modus della pura immediatezza.  Nella quale non ha luogo una determinazione strutturale della "razza", del genere e delle disparità economiche; le quali vengono trattate e analizzate soprattutto sul piano descrittivo. Ancor meno vengono criticate da Federici le mutazioni sul piano soggettivo, nella loro forma di identità compulsive flessibili, richieste senza appello dal turbocapitalismo, non solo perché per lei tutti i soggetti devono essere resistenti, ma anche perché lei ipostatizza ed apprezza in partenza la soggettività del movimento, anche se trasformata in fondamento e motore dello sviluppo capitalista. Come operaista, lei ignora semplicemente i momenti ed i potenziali barbari dei movimenti sociali "di resistenza".

La critica della dissociazione-valore non si limita semplicemente ad esaltare le differenze, né le lascia a fluttuare come nelle teorie postmoderne, fino al punto di dissolversi essa stessa in quanto grande categoria. Al contrario di un pensiero postmoderno della differenza, per essa non si tratta solo della qualità di una determinata cosa, al contrario, si tratta di insistere paradossalmente in una totalità, presupposta sia per gli individui che per i gruppi sociali, che piaccia o meno. La grande categoria dissociazione-valore, come contesto basilare, diventa tale solo attraverso il fatto che essa stessa deve affermarsi come assoluto, dando seguito a differenze, contraddizioni e disuguaglianze. Questo avviene anche in forza del suo oggetto speciale. Ora, quest'oggetto speciale non è in alcun modo arbitrario, ma si tratta di una relazione sociale fondamentale fino ad oggi poco tematizzata in quanto tale: dato che le donne sono state e sono considerate in partenza come "particolari, minori, diverse" (Gudrun-Axeli Knapp), anche nella maggior parte delle altre culture e regioni del mondo, e che proprio per questo la dissociazione del femminile come principio fondamentale è stata mascherata anche nella teoria e nella scienza, la teoria fondamentale della dissociazione-valore non può essere formalizzata come semplice auto-relativizzazione, né il genere può essere concepito solo come una differenza ed una gerarchia fra le tante differenze e gerarchie (cfr. Scholz, 2011).

Nella guerra civile mondiale, come risultato della dissociazione-valore in quanto contesto feticista di base in tutta la sua complessità, di conseguenza avviene anche che proprio le donne diventano rilevanti come amministratrici della crisi, sia nella periferia con i gruppi di auto-aiuto, sia nelle leve del potere - anche su scala globale - come relazioni sociologiche di disuguaglianza a basso costo indipendentemente da "razza", classe e genere, proprio quando il patriarcato capitalista non può essere più riparato e non può più ritrovare il modo patriarcale abituale. Ma le donne tornano anche alla situazione di maltrattate al massimo grado di "banalità", in quanto vengono costrette alla prostituzione, al lavoro di domestiche, ecc. (assai spesso migranti). L'aumento parziale del potere delle donne diventa perciò una vittoria di Pirro, che consiste solo nella linea di caduta del patriarcato capitalista in collasso, ma che ha molto poco a che vedere con l'emancipazione, nel senso di un superamento fondamentale di tali relazioni.

La teoria della dissociazione-valore, come detto in precedenza, deve riformulare la contraddizione in processo di questi eventi. Non è semplicemente il valore (il plusvalore) che produce la relativa dinamica, al contrario, la dissociazione è il suo stesso presupposto in un incrocio dialettico con esso, incrocio che rende possibile tale dinamica e che solo così genera il "soggetto automatico". Di conseguenza, è la dissociazione-valore, in quanto principio dinamico del patriarcato capitalista, che modifica anche sé stesso in questo processo contraddittorio, che determina tutto lo sviluppo storico ed il "movimento in sé stesso" attraverso tutte le tappe storiche fino all'attuale inselvaggimento del patriarcato.

Qui bisogna, ancora una volta, sottolineare e trattenere: è vero che in linea di principio non si può partire da un patriarcato universale, neppure nei tempi premoderni o in altre culture, in quanto anche nelle società non moderne c'erano molte eccezioni (cfr. Arbeitsgruppe Ethnologie Wien 1989) e si deve anche distinguere le diverse facce delle gerarchie patriarcali. Ma, da un altro lato, non si può ignorare che dai tempi premoderni e fino ad oggi la maggior parte delle società sono state/sono costituite patriarcalmente. Le concezioni decostruttiviste, che procedono sempre dalle interrelazioni di genere, non riescono a tener conto di questo fatto. Per esse, questo fatto violento viene semplicemente fatto magicamente sparire. Non si tratta qui di assumere un punto di vista assolutamente culturalmente relativistico e storicistico, né di promuovere l'ipostatizzazione della differenza, come solitamente avveniva negli approcci postmoderni degli ultimi decenni. È anche necessario assumere che le idee di genere ed i modi di vita occidentali sono entrati in maniera differente nell'amalgama con le strutture patriarcali tradizionali anche nella periferia. L'affermazione della dissociazione-valore in quanto contesto sociale basilare, che si colloca ad un alto livello di astrazione, non deve qui essere confusa con un punto di vista della classe media occidentale, che generalizza la posizione delle donne occidentali della classe media; al contrario, si tratta qui di una struttura oggettiva fondamentale che per ora non ha a che vedere con determinazioni identitarie, con punti di vista ed interessi particolari. In questo caso bisogna anche pensare che il modello di civiltà patriarcale occidentale aspira di fatto a sottomettere tutto fino al suo collasso, per cui deve essere assunto come una totalità sociale frammentaria a livello mondiale nel senso della dissociazione-valore. Federici non arriva a pensare un tale piano fondamentale in quanto pensa prioritariamente in maniera identitaria, sulla base del marxismo del movimento operaio operaista, e in questo senso considera le donne, i contadini, le popolazioni indigene, i lavoratori migranti post-proletari, come oppressi e come "colonizzati dal capitale". Senza universalizzare in maniera sbagliata la dissociazione-valore, bisogna ora intendere assai bene nel senso della critica della dissociazione-valore le dimensioni di "razza", classe, genere e colonizzazione nelle differenti regioni mondiali, così come le disuguaglianze, i processi di globalizzazione e il collasso del patriarcato capitalista nell'odierno scenario di guerra civile mondiale, nel contesto di una "contraddizione in processo" modificata.

Anche l'attributo "femminile" non può essere considerato come utopico, al contrario, è sempre immanente al contesto della socializzazione in sé frammentaria della dissociazione-valore, come "l'Altro" del valore. In questo contesto si dovrebbe criticare anche le cosiddette relazione eteronormative che, come ordine eterosessuale nelle società moderne, provengono dalla divisione delle aree di produzione e di riproduzione, ma simultaneamente non si deve dimenticare che le relazioni maggioritarie, anche nelle società tradizionali, non di rado implicavano una gerarchia di genere fra uomini e donne, una circostanza che viene frequentemente fatta scomparire nell'argomentazione postmoderna. La discussione della doppia sessualità non significa in nessun modo una garanzia della sparizione della gerarchia uomo/donna. Per quanto anche le differenti dimensioni debbano essere tenute in conto, la dissociazione-valore, in quanto contesto categoriale di base, non può essere semplicemente gonfiata e differenziata. Come meta-teoria globale, che conosce assai bene i propri limiti e non si può collocare ingenuamente come universalista, essa dev'essere affermata incondizionatamente come tale, ed è su questo sfondo che poi anche i mutamenti nella relazione di genere possono essere compresi. Detto in altre parole: la dissociazione-valore, come contesto di base, dev'essere vista in una certa misura come il vero fondamento sociale, che co-costituisce essenzialmente il capitale come soggetto automatico, ossia, il feticcio del capitale, il quale, in generale, può essere possibile solo insieme ad essa. In questa maniera si libera del punto di vista del marxismo del movimento operaio, che di conseguenza non può essere trasferito neanche su altri soggetti, come avviene in Federici, così come si libera di qualsiasi idea di una contraddizione principale. Questo viene frustrato dal suo stesso oggetto, la contraddizione di genere, dal momento che questa - ceterum censeo - è condannata dalla sua stessa logica a fare spazio a tutto ciò che non le si sottomette.

Dörre argomenta contro altre teorie della colonizzazione emerse nel contesto femminista: «Con la gestione violenta delle relazioni di sfruttamento che viene usata nel lavoro di sussistenza, tuttavia, si afferma un meccanismo di formazione NON-specifica come validità generale e fondamentale, il quale NON corrisponde al principio di scambio di equivalenti capitalistici. Lo sfruttamento, nella sua versione essenziale di somma della produzione di plusvalore, viene considerato come frode basata sulla forza, come "furto". Al contrario, la teoria di Marx pretende di chiarire come sia possibile lo sfruttamento, a prescindere dal principio di uguaglianza contrattuale vigente nel mercato del lavoro» (Dörre 2015, 45, maiuscole nell'originale) . In riferimento alle ultime, Dörre parla di "forme di sfruttamento primarie". dove nel caso delle prime parla di "forme di sfruttamento secondarie". «Quindi si può parlare di sfruttamento secondario sempre che vengano utilizzati meccanismi di disciplinamento legittimati in termini simbolico-culturali, oppure statali e politicamente, con l'obiettivo di conservare differenze interno-esterno, al fine di fare pressione sulla forza lavoro o a livello di vita dei gruppi sociali, ad esempio attraverso la svalorizzazione razzista o sessista, ben al di sotto del livello generale salariale e di riproduzione assicurato dallo Stato e dal Welfare sociale, oppure ancora, al fine di poter utilizzare attività interne ed esterne alla sfera professionale come risorse gratuite non pagate» (ivi, 46). Qui abbiamo a che fare con la vecchia tesi della contraddizione principale e della contraddizione secondaria, che ci viene presentata da Dörre nella nuova forma di un design coloniale. ""Forma", per lui è soltanto la vecchia "forma" mediata dal plusvalore. Dörre non arriva alla determinazione della dissociazione-valore, come contesto basilare contraddittorio ed in processo, ossia, una relazione di dissociazione-valore che conosce l'informe (dissociazione) nella mediazione dialettica con il valore (plusvalore) come suo presupposto non riconosciuto, cosa che implica anche che quei piani, dimensioni e domini differenti all'interno della dissociazione-valore debbano essere considerati nella sua stessa logica. "Dissociazione" è così in un certo qual modo un concetto-anticoncetto e solo esso rende possibile un concetto della forma capitalista del valore (del plusvalore) in generale. Dörre è assai lontano da quest'idea, così come lo è anche Federici. In particolare,  Dörre dovrebbe qui forse "lavorare" un po' di più alle sue idee (androcentriche) di forma. Le attività femminili di cura dovrebbero quindi rappresentare soprattutto "l'Altro", ma dove sta la determinazione per cui la dimensione sessuale è davvero il decisivo, ciò che costituisce la forma? Bisogna tenerlo in conto, anche se questa dimensione della dissociazione-valore - come si è visto - deve poi ugualmente ritirarsi considerando Altri con uguali diritti.

7. Teorie della colonizzazione e prospettivi di trasformazione
Come già accennato, per Dörre gli interventi statali, non da ultimo promossi anche dai movimenti sociali di protesta, sono cruciali al fine di effettuare un cambiamento sociale fondamentale; così si potrebbe forse materializzare un nuovo "New Deal Verde" ed un nuovo "ciclo Kondriatiev" ecologico. Per lui l'obiettivo è soprattutto una dimensione di post-crescita accoppiata ad una prospettiva di ridistribuzione. In maniera corrispondente, le istituzioni "lavoro professionale, costituzione economica, ... Stato del welfare e democrazia" devono essere modificate Dörre 2013, 135). In fondo qui si lamenta la fine del socialismo reale, che ha già avuto una prospettiva di proprietà collettiva che ora si pretende di reinstallare. «Il campo di interventi ecologici e di decisive innovazioni verdi viene scoperto in quanto accumulatore potenziale, che dovrebbe rendere possibile sia la crescita sul lungo periodo, così come anche la sua de-carbonizzazione e de-materializzazione» (ivi, 136). Questo dovrebbe ora accadere nel contesto di un "ordine mondiale multilaterale", una prospettiva che del resto rimane in gran parte fuori dall'analisi di Dörre (Dörre 2009, 83).

Dörre qui vede perfettamente che anche le "migliori concezioni di Green New Deal" in fondo non rappresentano alcuna soluzione per il dilemma della crescita. E constata: «La transizione verso le società post-crescita attualmente si presenta come utopica, poiché questo interessa il nucleo essenziale della socializzazione capitalista» (ivi, 136). "Nucleo essenziale" qui vuol dire orientamento al profitto e alla crescita compulsiva, fondamentalmente intesi nel contesto di una vecchia relazione di classe. Nonostante tutto lo scetticismo, in Dörre si può riconoscere che rimane presente in qualche modo una prospettiva socialdemocratica. Ma le speranze socialdemocratiche sono state svergognate fino al midollo dagli esempi di Obama e di Tsipras.

Attualmente, in questo vago contesto vede anche embrioni di una trasformazione sociale. Che riconosce "nelle attività di nutrire, educare, formare, curare e proteggere", attività oggi mal pagate e solo difficilmente suscettibili di razionalizzazione, che vengono svolte soprattutto da donne. «Se ci sono... questi sono i settori che possono crescere - lentamente - nel capitalismo avanzato. Valorizzazione e miglior pagamento di una parte di queste attività, finanziamento attraverso imposte e politica redistributiva, nuove forme di proprietà, come prestazioni di servizi organizzati cooperativamente, democratizzazione del lavoro di prestazione di servizi per mezzo della cogestione dei produttori e dei clienti, riduzioni dell'orario di lavoro in termini di genere e di tempo per la democrazia, queste sono alcune importanti note per una significativa prospettiva di trasformazione centrata sul lavoro. Una simile trasformazione non si ottiene senza controllo pubblico dei settori sociali chiave (energia, finanze, ecc.). Dovrebbe trasformare le grandi imprese che hanno una posizione dominante sul mercato in quello che esse implicitamente già sono - istituzioni pubbliche, le cui attività sono legate ad una volontà collettiva democratica» (Ivi, 138). Qui diventa chiaro in Dörre il vivo interesse a mantenere un capitalismo (addomesticato) e non solo; nel caso delle "migliori concezioni di Green New Deal", la questione non è solo se, con le loro esigenze ecologiche, non riesconoa fermare la spirale della crescita nel capitalismo, ma anche di come possa un Green New Deal, così come i lavori (femminili) di cura, essere appoggiato in tempi di finanziarizzazione, di circuiti di deficit e di lavoro astratto diventato obsoleto, i quali non ammettono meccanismi di compensazione come nel fordismo, quando oggi dappertutto emerge una contraddizione fra materia e forma, accompagnata da una diminuzione massiccia del plusvalore (cfr. Ortlieb 2009). Concretamente, questo significa che anche lo Stato dispone di meno imposte per finanziare le attività di riproduzione. E si pone la questione di sapere perché il capitale dovrebbe investire in tali settori non redditizi, quando un'applicazione sui mercati finanziari è sostanzialmente più proficua. Va qui notato anche che Dörre, da un lato, colloca il "genere" come esterno alla determinazione della forma, dall'altro lato, però, lo considera proprio per questo come trascendente (lavoro di curare). Si tratta qui semplicemente di un modo superficiale di vedere, nella realtà è per così dire una legge immanente al patriarcato che le donne e quello che viene loro associato siano viste come soluzione e come uscita dalla miseria capitalista, in accordo con un cantico religioso: "Stendi il tuo manto, Maria!" (cfr. Scholz, 2009). Al contrario, la dissociazione-valore dev'essere collocata in quanto relazione sociale basilare, nella sua contraddittorietà processuale, nella quale il femminile dovrà esser visto come la forma senza forma della forma del valore, come presupposto perché il valore (plusvalore) possa esistere in generale. Il quale tuttavia viene posto come "l'Uno".

Dörre include nel suo portafogli di trasformazione anche qualcosa come una "economia solidale". Qui le attività femminili di riproduzione sono solo una fra le molte forme di attività informali. «È necessaria la prova pratica delle alternative, l'ampliamento dei settori sottratti al settore privato orientato al profitto, ad esempio nella forma dell'economia solidale o di ricostruzione di un settore pubblico» (Dörre, 2009). Lungi da qualsiasi idea di critica del feticismo, ancora una volta si ipostatizza immediatamente un piano pratico nella forma di pseudo concetti.

Qui si incontra ancora una volta con Federici, che vede nei "beni comuni" e nella "economia solidale" un'uscita dal capitalismo. «Negli Stati Uniti osserviamo anche lo sviluppo di diverse "economie solidali", che consistono in banche del tempo, monete locali, siti di conoscenza (KNOWLEDGE COMMONS), scambio diretto e diverse altre forma di auto-sussistenza comunitaria e mutuo appoggio» (Federici 2013, 50 sg., maiuscole nell'originale). Qui diventa evidente che la grande resistente in fondo è completamente prigioniere di criteri, categorie e quantità immanenti, in cui si tratta di compensare qualcosa: banche del tempo, monete locali, proprietà giuridica e relativa democratizzazione ecc. «Mentre il vero problema della soppiantazione della forma della merce rimane nascosto» (Kurz, 2013).

Qui il presupposto sarebbe naturalmente quello di partire da una teoria della relazione di dissociazione-valore in processo, la quale, per affermare sé stessa, deve prendere le distanze da sé stessa e, in questo contesto, non solo includere dimensioni apparentemente qualitative come l'ecologia, ma anche disuguaglianze sociali come "razza", classe, genere, antisemitismo, antiziganismo, al di là del vecchio schema di classe.

A partire da questo ci sarebbe anche bisogno di mettere in discussione (vedi sopra) pseudo-concetti immediati tipo beni comuni, economia solidale e schemi di open source, che si presentano tutti come possibilità di soluzione nel contesto di una critica popolare del valore, al momento con tante vie d'uscita. Tuttavia, del resto, le discussioni sull'industria 4.0 nel contesto della scena dei beni comuni e dell'open source svolgono un loro ruolo (stampanti 3D, messa in rete di macchinari e produttori, Big Data, ecc.). Se la robotizzazione di "tutti e ciascuno" nel discorso egemonico viene assai spesso immaginata come possibilità per la sopravvivenza del capitalismo, i relativi sviluppi, dall'altro lato, vengono trattati molte volte - in una prospettiva strisciante e limitata - come possibilità di elaborare nuove utopie. Invece si dovrebbe già trattare di sondare, con una visione critica, queste nuove potenzialità tecnologiche, proprio avendo come sfondo la critica della dissociazione-valore, sotto il punto di vista dell'ecologia sociale - come ci si richiama sempre così tanto bene - al fine di un cambiamento sistemico complessivo radicale, punto di vista che non si perda in un'ideologia del piccolo, basata su una filosofia vitalista, alla quale, come si è visto, non da ultimo di sottomette anche la prospettiva della colonizzazione.

Tuttavia, si tratta di tutto tranne che di dissociazione del femminile, che costituisce il presupposto dialettico del lavoro astratto; invece, la prospettiva della dissociazione viene spesso inclusa solamente come appendice del valore, o ci si riferisce ad essa come questione secondaria. È chiaro che non viene percepito il carattere dialettico negativo della dissociazione-valore, né quello della sua comprensione della totalità, di essa che si è sempre intesa come frammentaria in sé insieme alla sua determinazione di razzismo, antisemitismo, antiziganismo e disparità economiche su scala mondiale del processo storico, ivi inclusa una critica della storia del colonialismo. La vecchia critica del valore androcentrica ed universalista dev'essere sopportata in maniera ovviamente disperata e continua ad affermarsi come tale. Come se la forma fondamentale della dissociazione-valore non fosse mai stata formulata, o esistita, così per esempio nella "Never Work Conference" - una conferenza di critica del valore tenutasi in Inghilterra - nella quale i critici universalisti ed androcentrici del valore si sono riuniti, avendo tematizzato tutt'al più molto di passaggio la dissociazione-valore come contesto basilare sociale, con un'ampia esclusione delle donne (alla Conferenza), ci si presta al fatto che la prospettiva del Terzo Mondo appaia certamente inclusa. Si festeggia il feticcio astratto del lavoro in tutta la sua reificazione: "Viva il feticcio!", si festeggia in quanto esso apparentemente si nega a sé stesso (Scholz 2014), tutto ciò, chiaramente, nella discussione accademica (maschile) internazionale, attraversando contesti e paesi.

- Roswitha Scholz - Pubblicato su "EXIT! Krise und Kritik der Warengesellschaft", nº 13 (01/2016) -


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NOTE:

[*1] - Di certo può essere posta la questione di sapere se le armi da fuoco, nella loro qualità di nuove armi, siano state di fatto un elemento costitutivo essenziale del capitalismo, ma c'è un consenso generalizzato circa il fatto che nella fase assolutista o mercantilista l'ottenimento di denaro da parte dell'esercito di guerra era l'obiettivo supremo.

[*2] - Nel prossimo numero della rivista Exit!, anche Aabromeit affronta dettagliatamente il ruolo del denaro e le teorie monetarie recenti.

[*3] - Decisivo, ai fini della determinazione del tasso di profitto, tuttavia, è che esso non deve essere relazionato al capitale individuale, ma al capitale globale che non è economicamente misurabile, non essendo perciò verificabile quantitativamente, come invece pensano i marxisti di diverse correnti e fra loro anche  Dörre (vedi più sotto), e come cercano anche di convincersi per mezzo della divulgazione di modelli matematici dell'economia politica (cfr. Kurz, 2012). Perciò è anche assurda l'ipotesi di una merce del mercato finanziario, intesa come merce di second'ordine, che per ora avrebbe salvato il capitalismo nel corso degli ultimi decenni (cfr. Lohoff/Trenkle, 2012). Al contrario, quello che qui si mostra è il patriarcato capitalista in quanto processo storico sul punto di diventare obsoleto nel suo complesso, cosa che non può essere ridotta ad un'idea di collasso repentino meccanico (vedi sopra); ma, soprattutto, con una formulazione più complessa, la socializzazione patriarcale capitalista sotto forma di merce non può essere equiparata alla "proprietà", che ora dovrebbe essere trasferita ad uno Stato quasi naturale nella forma dei beni comuni. Al contrario, è necessario soppiantarla.

[*4] - Kurz mette in discussione il concetto di "divisione internazionale del lavoro" nel contesto degli attuali processi di globalizzazione: "... nel caso dello scambio di merci fra loro, dei paesi industrialmente sviluppati, non si può parlare neppure in questo senso negativo di divisione del lavoro nel senso di Ricardo. Il cui presupposto sarebbe che ciascun paese industriale si specializzerebbe in determinati prodotti o componenti di produzione industriali" (Kurz, 2005). Ma non è questo il caso. Tale divisione del lavoro "sarebbe possibile solo se si trattasse di un'associazione di produzione mondiale il più possibile razionale di beni naturali e materiali volti alla soddisfazione di necessità generali. Ma l'obiettivo della produzione capitalista è completamente diverso, ossia, il fine in sé stesso della valorizzazione del capitale" (ivi). Tutto questo, tuttavia, detto solo di passaggio.

[*5] - Le relazioni di proprietà non vengono intese in Kurz (né del resto in Postone) nel senso di titoli giuridici di proprietà, come in fondo avviene in Dörre, né vengono considerate, come avviene in questi, un vero e proprio pilastro fondamentale dell'analisi del capitale, al contrario, avviene l'inverso; le relazioni di proprietà sono esse stesse prodotto e parte integrante della socializzazione feticista come un tutto e risultano proprio da questa, dal momento che la stessa apparenza del privato pertiene alla socializzazione feticista (vedi, ad esempio, Kurz 2012 e anche Postone 2003).

[*6] - Sono state "quelle di Bielefeld" ad aver creato innanzitutto la teoria della colonizzazione della "Nuova Sinistra". Per loro si tratta di dimostrare "che la divisione gerarchica del lavoro fra i sessi, la sottomissione e lo sfruttamento delle donne rappresentano la base e la serratura di ogni relazione successiva di sfruttamento e che la colonizzazione del mondo, lo sfruttamento della natura, dei territori e delle persone, di cui soprattutto il capitalismo ha bisogno come presupposto, seguono questo modello... Il controllo sulle donne e sulla terra è, pertanto, il fondamento di ogni sistema basato sullo sfruttamento. Si tratta, quindi, di POSSEDERE queste "relazioni di produzione". La relazione con loro è una relazione di appropriazione. Questa relazione di appropriazione è, da un lato, il presupposto per la formazione della relazione centrale di produzione fra il lavoro salariato ed il capitale, dall'altro lato, quest'ultimo esige l'appropriazione delle donne e delle colonie come "risorse naturali" (von Werlhof/Bennholdt-Thomsen/Mies 1983, maiuscole nell'originale). Scrivono: "La nozione più importante che si è imposta con gli studi più dettagliati delle cause storiche del dominio maschile è stata che il sessismo ed il patriarcato non sono segnali di ritardo, bensì componenti necessarie, centralmente ideologiche ed istituzionali del sistema industriale e del suo modello di accumulazione" (ivi). Von Werlhof e le altre continuano Rosa Luxemburg. Qui non possiamo affrontare le differenze fra "quelle di Bielefeld" e la concezione di Federici.

[*7] - Scrive in questo contesto: "L'appropriazione da parte dello Stato dei corpi delle donne e della loro capacità di riproduzione è stata... il principio della regolamentazione delle risorse 'umane', il primo intervento 'biopolitico' dello Stato ed il suo contributo all'accumulazione del capitale, contribuendo all'aumento del proletariato " (Priester, 2008). Bisogna mettere in dubbio il fatto che ci sia stato un calcolo da parte dello "Stato" per lo "aumento del proletariato". Astraendo dal fatto che lo Stato, in senso moderno, cominciò a costituirsi solo allora, quel che qui vediamo ancora una volta è il punto di vista marxista delle classi di Federici. Inoltre rimane questionabile se le donne siano state di fatto perseguitate come streghe a causa della loro conoscenza della contraccezione, o se invece non si tratti qui del desiderio del padre proprio di determinate correnti femministe (vedi, ad esempio, Heinemann, 1989). In ogni casi, il libro momento, molto considerato di Federici, "Calibano e le streghe", dove affronta l'importanza della caccia alle streghe nella formazione del capitalismo, è nel suo insieme molto interessante per la revisione del materiale storico (vedi, ad esempio, Bareuther, 2014). Rispetto a questo punto, si può attuare nei confronti di questo libro anche una critica della dissociazione-valore, sotto vari aspetti, chiarendo che il suo inquadramento operaista è altamente problematico.

[*8] - Simili formulazioni, emerse già frequentemente dalle citazioni di Kurz a proposito del contesto qui trattato, a volte non sono state più usate da Kurz, in quanto corrispondono al piano micro del capitale individuale e, pertanto, si basano sull'individualismo metodologico, considerato che invece Kurz nel frattempo ha posto in primo piano il "movimento in sé" del capitale e la "totalità" del capitale (cfr. Kurz 2012). Ma questo non costituisce alcuna rotture nell'argomentazione di Kurz, in quanto per lui anche prima in questione era il piano globale, pur essendo tuttavia egli stesso ancora prigioniero di un vocabolario del capitale individuale-particolare che ormai non corrisponde più realmente al contenuto.

[*9] - Gramsci ed Althusser, ad esempio, difficilmente potrebbero smettere di essere inquadrati nel marxismo del movimento operaio, al contrario della Scuola di Francoforte fino a Backaus & Co.. Ingo Elbe, con il concetto generale di "marxismo occidentale", applica qui lo stesso metro a situazioni differenti. Marxismi centralmente critici del feticismo vengono qui equiparati a marxismi strutturalisti e politicisti, anche quando sono profondamente avvinghiati al marxismo tradizionale (è il caso di Elbe, 2008). Bisognerebbe differenziare qui anche la critica della dissociazione-valore, che va al di là di entrambe queste prospettive. Questo punto di vista, tuttavia, viene trascurato da Elbe, in primo luogo perché egli tratta unicamente ed esclusivamente dei marxismi occidentali androcentrici. Tutte le altre modifiche del marxismo, come per esempio quelle di provenienza post-coloniale (anche se basati su Gramsci ed Althusser) vengono esclusi.

[*10] - La Germania in stile Biedermeier [Il periodo Biedermeier (1815-1848) è segnato dal conservatorismo in politica, letteratura ed arte] della Merkel, nonostante l'Hartz IV ed altre cose, si considera senza nessun motivo fuori da tutto questo, secondo il motto: "Buon San Floriano, risparmia la mia casa, brucia quelle degli altri". Quello che avviene quando la falsa sicurezza si rivela essere tale (cosa che in fondo tutti sanno) non ha realmente bisogno di più spiegazioni. In Germania la povertà aumenta sempre più, com'è generalmente noto; rispetto alla Grecia, qui avviene solo un'esternalizzazione dei costi interni, anche ideali. Negli ultimi decenni postmoderni, il risentimento contro ebrei, "zingari" ed "altri stranieri" parla qui un linguaggio eloquente. Nonostante tutte le pseudo-revisioni del nazionalsocialismo e dell'Olocausto, negli ultimi anni, ora si dice già ufficialmente "Tu sei la Germania". Dio impedirà (soprattutto "agli altri") che con la continuazione dello sviluppo sociale le cose si aggravino ulteriormente. Anche con gli incendi delle case dei richiedenti asilo a metà del decennio del 2010. E ancora continuano ad arrivare rifugiati...

fonte: EXIT!