martedì 31 maggio 2016

Statalismo o capitalismo, è sempre il capitalismo

Kurz

« Lo stato non è un'agenzia al servizio di una qualchessìa classe dominante o di alcuni gruppi economici, è l'istanza generale e sovra-sociale del potere che costituisce il quadro esterno della valorizzazione del capitale e di tutte le sue "maschere" (Marx). Ed è proprio per questo che non è fuori dalla legge dei movimenti oggettivi del capitale e non può governarle o modificarle a suo piacere. Al contrario, non è meno assoggettato di quanto lo sia ciascun capitale individuale; è il medesimo assoggettamento, ad un livello sociale più elevato. Tutto quel che fa lo Stato dev'essere finanziato allo stesso modo in cui lo fa ogni capitale individuale, o allo stesso modo in cui avviene per gli individui, e la fonte di tali finanziamenti non può essere altro che la produzione reale di plusvalore. Lo Stato si procura del denaro, sia direttamente, prelevando dalla sua fonte originale, sia sotto forma di prestiti sui mercati finanziari. Nel secondo caso, è esso stesso un attore a livello di capitale finanziario, e rimane legato alle condizioni di quest'ultimo. »

- Robert Kurz - da "Vita e morte del capitalismo" - 2011 -

lunedì 30 maggio 2016

Degradi

cultura

La degradazione della cultura
- di Robert Kurz -

Oggi, per la maggior parte delle persone, una critica fondamentale dell'economia moderna appare altrettanto insensata del tentativo di passare attraverso la parete anziché dalla porta. Quella stessa economia che, se osservata, rivela tutte le sue tracce di follia, considerate però come normali, dal momento che i criteri della macchina capitalista sono stati interiorizzati universalmente. Quando i pazzi sono la maggioranza, la follia è un dovere del cittadino. Sottoposta ad una simile pressione, la critica sociale si ritrae dal campo dell'economia e va in cerca di evasioni. La sinistra, specialmente, non vede di buon occhio il fatto che si metta il dito nella piaga delle relazioni economiche predominanti: è penoso ricordare la propria capitolazione incondizionata. Teoricamente disarmata, la sinistra preferisce denunciare qualsiasi seria critica del mercato, del denato e del feticismo della merce, come "economicismo" antiquato e inutile, superato da tempo.

E allora di che cosa si occupa una critica sociale ormai indegna di tale nome? Prima, il grande rifugio era la politica. Si pretendeva che tutte le questioni del sistema produttore di merci ( e pertanto anche l'economia) fossero regolate per mezzo del "discorso razionale" dei membri della società, all'interno delle istituzioni politiche. Di questa speranza è rimasto ben poco. Da tempo, la politica è stata degradata a sfera secondaria dell'economia totalitaria. Oggi, il fine in sé del capitalismo ha divorato la supposta "relativa autonomia" della politica. Per questo motivo, nella postmodernità la critica sociale si rifugia nella cultura, abbandonando la politica, allo stesso modo in cui prima aveva cercato rifugio nella politica, abbandonando l'economia. La sinistra postmoderna è diventata, sotto ogni aspetto, "culturalista" e ritiene di essere capace, con la massima serietà, di agire "sovversivamente" nell'ambito dell'arte, della cultura di massa, dei media e della teoria della comunicazione, mentre trascura praticamente del tutto l'economia capitalista e la menziona soltanto di passaggio, con evidente fastidio.

Ma a prescindere da quali siano i domini sociali in cui si rifugia una sinistra che ha calato il silenzio sulla critica dell'economia, l'economia capitalista continua ad essere sempre presente e le si rivolge con un sorriso ironico. È vero che questa "economia ha divorziato dalla società" - come scrive la critica sociale francese Viviane Forrester nel suo libro a proposito del "Terrore dell'economia" - ma il capitalismo si è dimenticato della società soltanto in senso sociale, senza però lasciarsela sfuggire dalla grinfie. Al contrario, l'economia totalitaria veglia attentamente affinché sotto il sole non avvenga mai niente che non serva direttamente al fine in sé della massimizzazione dei profittti. E oggi questo vale anche per la cultura.

L'economia moderna si è affermata man mano che la sfera capitalista di produzione industriale si è dissociata dagli altri ambiti della vita. La cultura, in senso ampio, sembrava essere un'attività "extra-economica", espulsa, come semplice sottoprodotto della vita, verso il cosiddetto "tempo libero". Questa è stata la prima degradazione della cultura nella modernità: si è trasformata in un argomento poco serio, in un semplice "momento di svago". Ma nel momento in cui il capitalismo ha dominato integralmente la riproduzione materiale, il suo appetito insaziabile si è esteso anche alle configurazioni immateriali della vita e, nei limiti del possibile, ha cominciato a rilevare pezzo dopo pezzo gli ambiti dissociati e a sottometterli alla sua peculiare razionalità imprenditoriale. Questa è stata la seconda degradazione della cultura: è stata essa stessa industrializzata.

In questo modo, si è ripetuto ciò che Marx aveva detto a proposito delle mutazioni della produzione materiale, in quanto anche la cultura è passata dalla fase "formale" alla fase "reale" della sussunzione al capitale: se, in un primo momento, i beni culturali venivano considerati solo esteriormente e, a posteriori, come oggetti di compravendita secondo la logica del denaro, nel corso del 20° secolo la loro produzione stessa è passata a dipendere sempre più, aprioristicamente, da criteri capitalisti. Il capitale non ha più voluto essere solo l'agente della circolazione dei beni culturali, ma è passato a dominare tutto il processo di riproduzione. Arte e cultura di massa, scienza e sport, religione ed erotismo sono diventati prodotti sempre più simili alle automobili, frigoriferi o detersivi. In questo modo, i produttori culturali hanno anche perso la loro "relativa autonomia". La produzione di canzoni e romanzi, di scoperte scientifiche e riflessioni teoriche, di film, quadri e sinfonie, di eventi sportivi e spirituali poteva avvenire soltanto come produzione di capitale (plusvalore). Questa è stata la terza degradazione della cultura.

Tuttavia, nell'epoca di prosperità successiva alla seconda guerra mondiale, in molti paesi si è formato un paraurti sociale che ha protetto parte della cultura dall'impatto devastante dell'economia. Parlo del meccanismo keynesiano di redistribuzione. Il deficit spending ha alimentato non solo la produzione di armamenti militari e lo stato sociale, ma anche alcuni ambiti culturali. Non c'è dubbio che la sovvenzione statale abbia imposto dei limiti rigorosi all'autonomia della cultura. Ma il controllo dello Stato era aperto alla discussione pubblica, e non era tirannico: in caso di conflitto, si può negoziare con funzionari e politici, ma non con le "leggi del mercato". Attraverso il "keynesismo culturale" una parte della produzione culturale dipendeva solo indirettamente dalla logica del denaro. Dal momento che le trasmissioni radio e televisive, le università e le gallerie, i progetti artistici e teorici venivano sovvenzionati o promossi dallo Stato, non bisognava sottomettersi direttamente ai criteri imprenditoriali; esisteva un certo campo di azione per la riflessione critica, per gli esperimenti e le "arti improduttive" minoritarie, senza che venissero minacciate sanzioni materiali.

Questa situazione si è modificata essenzialmente a partire dall'inizio della nuova crisi mondiale e con la conseguente campagna neoliberista. La fine del socialismo e del keynesismo ha scosso fortemente la cultura, dal momento che essa si è vista privata dei suoi mezzi. Gli Stati non si sono disarmati militarmente, ma si sono disarmati culturalmente. In una piccola porzione dello spettro culturale, la sponsorizzazione privata ha preso il posto degli incentivi statali. Non ci sono più diritti sociali e civili, ma solamente l'arbitrio caritatevole dei vincitori del mercato. I produttori culturali si trovano esposti agli umori personali dei magnati del capitale e dei mandarini dell'amministrazione, per le cui mogli devono servire da hobby e da passatempo. Come i giullari di corte e i servitori del Medioevo, sono costretti a indossare i loghi e gli emblemi dei loro signori, al fine di essere utili al marketing. Questa è la quarta degradazione della cultura.

Per la stragrande maggioranza delle arti, delle scienze e delle attività culturali di ogni tipo, però, la questione dell'umiliante ed arbitraria sponsorizzazione privata non viene nemmeno messa in discussione. Oggi, tutti queste attività si trovano direttamente esposte, in una proporzione inaudita e senza alcun filtro, ai meccanismi del mercato. Istituti scientifici ed associazioni sportive devono fare ricorso alla Borsa, università e teatri devono fare profitti, la letteratura e la filosofia devono battersi contro i criteri della produzione di massa. Nella grande distribuzione, ottiene successo soltanto quello che si presta a diventare un'offerta per lo svago degli schiavi del mercato. Da qui, le grottesche distorsioni nelle remunerazioni dei produttori culturali: nel calcio e nel tennis, i giocatori ricevono milioni, mentre i produttori di critica, di riflessione, di rappresentazione ed interpretazione del mondo sono messi allo stesso livello dei pulitori di cessi. Con la razionalizzazione capitalista dei media, vengono trasposti nella sfera culturale i salari di fame, l'esternalizzazione e la schiavitù imprenditoriale.

Il risultato può essere soltanto la distruzione del contenuto qualitativo della cultura. Pagati una miseria, socialmente degradati e ricattati, i lavoratori della cultura e dei media producono, com'è ovvio, beni ugualmente miserabili; ciò vale tanto per questo campo quanto per tutti gli altri. E la riduzione brutale ad un orizzonte di tempo abbreviato e la distribuzione di massa del mercato, eliminano tutto quello che pretende di essere qualcosa di più di un prodotto usa e getta. Ben presto nelle librerie troveremo soltanto libri pornografici, esoterici e di ricette, per la classe media depravata. Ma anche nelle scienze, la logica di mercato si lascia dietro una scia di distruzione. Dal momento che, per loro natura, non possono assumere forma mercantile, le scienze sociali e dello spirito vengono sradicate dall'impresa accademica come se fossero erbacce. Sono soprattutto gli istituti storici a soffrire dei tagli nelle loro dotazioni, poiché il mercato non ha alcun bisogno di passato; la scienza naturale si è definitivamente sostituita alla filosofia ed alla teoria sociale. Nella scienza naturale, tuttavia, la ricerca "senza obiettivo" viene svalutata e strangolata a favore della ricerca su commissione, più redditizia per il capitale.

Queste tendenze, così come avevano già degradato la soggettività religiosa o politica, portano necessariamente al collasso della soggettività culturale nella società borghese, senza sostituirla con qualcosa di nuovo. Oggi, neppure un conservatore "è" ancora conservatore, ma è solamente qualcuno che compra il conservatorismo come se fosse salsa di pomodoro o lacci per scarpe. Anche l'attuale papa, per quanto ortodosso sia, dimostra di essere uno specialista di marketing per eventi religiosi; ben presto, le religioni e le sette saranno quotate in Borsa e saranno guidate dai principi del valore azionario. Gli artisti e gli scienziati si sottomettono alla medesima degradazione della loro personalità. Quando pensano e producono, con premurosa obbedienza, secondo le categorie a priori della venalità, hanno già perso il loro tocco e possono ratificare soltanto il loro ruolo, come il celebre pittore Baselitz che in un lampo di lucidità gira i suoi quadri verso la parete.

"L'economicismo" non è un'idea sbagliata ed unilaterale di incorreggibili marxisti, ma è la tendenza reale al totalitarismo economico dell'ordine sociale predominante, che viene colta nella crisi attuale durante il suo più grande e forse ultimo scoppio. Ma il capitalismo non può stabilizzarsi sulle sue proprie basi. Allo stesso modo in cui l'industria farmaceutica perderà la sua grande fonte di conoscenza e di materie prime se le foreste tropicali vengono devastate, così anche l'industria della cultura si esaurirà quando non potrà più trarre sangue dalle sottoculture, una volta che l'attività non-commerciale delle masse sarà definitivamente morta. Una società composta solo di insistenti venditori che non comprano, e che è oramai incapace di riflettere su sé stessa, è diventata inostenibile anche in termini sociali ed economici.

- Robert Kurz - Pubblicato su Folha de São Paulo del 15.03.1998 -

Fonte: EXIT!

domenica 29 maggio 2016

La classe ansiosa

invasionedegliultracorpi

L’uomo forte e le democrazie
di Zygmunt Bauman

Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un Uomo (o Donna) forte.
 
Come suggerisce Robert Reich, nel suo «Donald Trump e la rivolta della classe ansiosa», quello spettro (che nel caso in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce (proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo) dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando «la grande classe media americana», oggi impaurita dalle «elevatissime probabilità di finire in miseria».
Due terzi dei cittadini americani oggi vivono con i soldi contati e la stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un momento all’altro. Molti ingrossano le file della manodopera «a chiamata» — lavorano cioè quando sono necessari, si accontentano dei compensi che gli vengono offerti, a discrezione del datore di lavoro. Eppure, queste stesse persone, nel momento in cui non riescono più a pagare l’affitto o il mutuo della casa, rischiano di precipitare nel baratro. Questi «due terzi degli americani» sono costretti a camminare sull’acqua, squassati da venti di tempesta non meno impetuosi di quelli che agitavano il Mar di Galilea, descritti nel Vangelo di Matteo. Nelle parole dell’evangelista, camminare sulle acque era una questione di fede: ma oggi la «classe ansiosa» di Reich non sa più in che cosa riporre la sua fiducia. «Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro, impedendo che le aziende delocalizzino in Asia oppure che i posti di lavoro vengano presi da immigrati clandestini disposti a lavorare per meno».

«Trucchi da impostore»
Tuttavia, osserva Reich, affidarsi all’onnipotenza dell’uomo forte rappresenta un «sogno impossibile», e se Trump è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’elettorato, lo ha fatto ricorrendo a «trucchi da impostore». Eppure, la chiamata a raccolta della «classe ansiosa» per stringersi attorno al mago, che li inganna facendo balenare ai loro occhi quel sogno impossibile, non rappresenta necessariamente una reazione scontata e inevitabile. La risposta alla domanda posta di recente da Joseph M. Schwartz, professore di Scienze politiche alla Temple University — «La classe media e i lavoratori bianchi, oggi in difficoltà economiche, sono pronti a seguire la politica razzista e nazionalistica di Trump e del Tea Party (convinti che il gioco sia tutto predisposto a favore delle fasce più povere della popolazione di colore), oppure si uniranno per dare battaglia contro le élite imprenditoriali, che hanno sancito l’annientamento della classe operaia?» —, non è per nulla ovvia. Come suggerisce Schwartz, un sondaggio effettuato da New York Times/Cbc News «appena prima del discorso del senatore Bernie Sanders alla Georgetown University sul socialismo democratico il 19 novembre 2015» rivela che il 56% degli elettori storici del partito democratico erano favorevoli al socialismo, contro il 29% dei contrari, e questo ci consente di ipotizzare che «la maggior parte degli intervistati associ il capitalismo con la disuguaglianza, l’eccessivo indebitamento per gli studi universitari e un mercato del lavoro stagnante. Costoro vedono invece nel socialismo una società più giusta e ugualitaria». Dalle attuali difficoltà in cui si dibatte la «classe ansiosa» (oppure i ranghi sempre più affollati del «precariato»), scaturiscono molteplici scelte politiche. Una di queste fa appello a un uomo forte; l’altra, a un popolo forte.

La paura cosmica
Nelle parole del grande filosofo russo, Mikhail Bakhtin, tutte le potenze terrestri si alimentano e prosperano sulla diffusione di «timori cosmici», i quali possono essere innati o endemici per gli esseri umani: ciò vuol dire il timore davanti a tutto ciò che è sconfinato e potente; davanti al cielo stellato, la mole materiale delle montagne, il mare, la paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali istillata da antiche mitologie, credenze, immaginazioni, persino la paura delle lingue e dei modi di pensare a loro connaturati... questo terrore cosmico, in senso stretto anziché mistico (trattandosi di timore di tutto ciò che è materialmente grande e rappresenta una potenza difficile da definire) viene sfruttato da tutte le grandi religioni per reprimere la persona e la sua coscienza, trasformandola in una variante artificiale e volutamente «ufficiale».
Nel suo studio delle complesse relazioni tra i gestori terrestri della «paura ufficiale» e i soggetti nei quali si inducono questi timori, ricorrendo all’aiuto de «Il processo» e de «Il castello», i due celebri romanzi di Franz Kafka, Roberto Calasso dimostra che l’azione della «paura ufficiale» è tutt’altro che semplice e immediata. «Se i cittadini avessero sentito gli esegeti de “Il castello” dilungarsi su Dio e divinità e su come questi interferiscono nella loro vita, avrebbero reagito con sdegno», suggerisce Calasso. Si sarebbero risentiti dei tentativi colti di paragonare gli occupanti del Castello a Dio o ad altre divinità a loro ben note per gli insegnamenti religiosi ricevuti. «Come sarebbe facile trattare con gli abitanti del Castello se, come nel caso di Dio, bastasse studiare un po’ di teologia e affidarsi alla devozione — potrebbero pensare. Ma i funzionari del Castello sono assai più complessi. Non esiste scienza né disciplina che possa aiutarci a trattare con loro».
Difatti i sistemi religiosi — che secondo Bakhtin rappresentano i primi tentativi per riciclare il timore «cosmico» in un timore «ufficiale» (in altre parole, fabbricare la «paura ufficiale» sullo stampo di quella «cosmica», e capitalizzando allo stesso tempo sulle fondamenta già predisposte dalle fonti primordiali e originali della paura) — tendevano ad assicurare la sottomissione e l’obbedienza dei soggetti con la promessa (spesso disattesa per quantità e qualità in confronto a quanto stipulato) di ricette infallibili per attirare la grazia e i favori divini, o per placare la Sua collera qualora ogni sforzo per rispettare i Suoi dettami alla lettera si fosse dimostrato, all’atto pratico, troppo difficile e oneroso. Senza perdere nulla della sua temibilità, a Dio si poteva parlare — a differenza delle fonti mute e ottuse della paura cosmica. Dio poteva essere pregato, implorato, scongiurato, tramite parole e azioni, per impetrare il perdono dei peccati e la ricompensa delle virtù. E a differenza della Natura sorda e cieca, Dio magari poteva ascoltare, ed esaudire i voti dei peccatori contriti. Le chiese, plenipotenziari terreni dell’autorità divina, spiegavano meticolosamente, fin nel minimo dettaglio, il codice di condotta indispensabile per indurre Dio, con un gioco simultaneo di benedizioni e tribolazioni, ad esaudire il credente. Doloranti sotto i colpi del destino, le vittime dell’ira divina sapevano esattamente che cosa fare per meritarsi la redenzione. Quando la redenzione tardava ad arrivare, si convincevano di aver mancato di zelo, e pertanto si ritenevano colpevoli di una manchevolezza facile da correggere.

Potere e «delega» alla società
Ma questo è esattamente il dispositivo che la paura ufficiale, nella sua veste moderna, arruolata e dispiegata nuovamente in campo dai poteri politici laici, respinge nella pratica — anche se ben di rado si sottrae alla tentazione ipocrita di esaltare a parole i suoi precetti. In un’aperta violazione dell’intenzione e promessa moderna di sostituire i ciechi giochi del fato (cioè quel divario irritante e confuso tra le azioni umane e le loro conseguenze sia per coloro che le compiono che per coloro che le subiscono) tramite un ordine di cose coerente e relativamente inequivocabile, guidato dai principi morali di giustizia e responsabilità — pertanto assicurando una stretta corrispondenza tra la situazione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani e le loro scelte di comportamento — gli uomini di oggi si ritrovano esposti a una società traboccante di rischi e al contempo vuota di certezze e di garanzie.
Due nuove circostanze ci invitano a ripensare e, se non a correggere, perlomeno a integrare il modello di Bakhtin. La prima è l’«individualizzazione» su vasta scala — un nome in codice che vede nel potere costituito un’immagine complessiva della «società» che mira a «delegare» il compito di affrontare i problemi innescati dall’incertezza esistenziale sui singoli individui e sulle loro risorse del tutto inadeguate. Nelle parole dello scomparso Ulrich Beck, oggi si addossa agli individui la responsabilità irrealizzabile di trovare, da soli, le soluzioni ai problemi generati dalla società.
Lo spettro che si aggira in una società di attori-per-decreto incarna l’orrore che si prova nel trovarsi inetti e inefficaci; come pure il terrore dei suoi effetti immediati, la perdita di autostima e le sue probabili conseguenze: l’emarginazione e l’esclusione. Come generatori di paura ufficiale, i detentori del potere si affannano a ingigantire le incertezze esistenziali che hanno dato forma allo spettro e perennemente lo ricreano; i detentori del potere puntano a fare qualsiasi cosa per rendere quello spettro il più tangibile e credibile — il più «realistico» — possibile. Dopo tutto, la paura ufficiale dei loro soggetti è ciò che, in ultima analisi, li mantiene al potere. Tuttavia, in una società disgregata e ridotta a un ammasso di attori individuali (costretti a fingere la loro autosufficienza), i detentori del potere potrebbero anche essere tentati di appoggiarsi sempre di più su di noi, i loro stagisti insicuri, precari, non retribuiti e non tutelati, che vivono la loro vita frammentata in una società la cui frammentazione è da loro voluta, alimentata e giornalmente riprodotta.
Avendo attraversato le incarnazioni religiose e politiche della «paura ufficiale» della «società disciplinata», la paura cosmica che emana dalla dolorosa fragilità e finitudine delle capacità cognitive e pragmatiche si è calata nella «società di attori» nell’arena della «politica della vita» (definizione di Anthony Giddens) ed è atterrata sulle spalle dei praticanti individuali di quella vita. Stretti tra l’infinità di opzioni e tentazioni presumibilmente accessibili, come pure le sconfinate richieste rivolte all’individuo che si presuppone «autonomo, capace e risoluto» , stimolati a «sforzarsi incessantemente a migliorarsi» da un lato — e dall’altro la scarsità di risorse a disposizione, messa tristemente a nudo dalla grandiosità pura e semplice di quella sfida — agli attori-per-decreto, tormentati dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, non resta altra scelta che quella di invocare la salvezza dall’imminente depressione rivolgendosi «alle loro divinità». Nelle parole memorabili di Ulrich Beck, «alle divinità da loro scelte». Ma questo scambio di appartenenza ha fatto ben poco per mitigare sia l’assillante ansietà generata dalla precarietà ovvia del loro stato esistenziale, sia il dolore dell’autocensura e dell’autocondanna per non essere riusciti nemmeno a fermare — figuriamoci invertire — il suo progressivo aggravarsi.

Immigrazione e razzismo
La seconda circostanza nuova è l’erosione della sovranità territoriale delle attuali unità politiche, provocata dal processo oggi in corso della globalizzazione del potere (ovvero la capacità di realizzare certe cose) cui non è seguita la globalizzazione della politica (ovvero la capacità di decidere quali cose debbano essere realizzate), ottenendo come risultato una discrepanza irritante tra gli obiettivi e i mezzi a disposizione per un’azione efficace. Il risultato è la scomparsa delle cause della «paura ufficiale» dal modello tratteggiato da Bakhtin: invisibili e irraggiungibili a tutti gli effetti, esse sono — proprio come le fonti della «paura cosmica» — mute e ottuse. A grande distanza dai richiedenti, esse restano sorde alle loro istanze generiche, per non parlare delle loro specifiche richieste. La maggior parte dei loro soggetti sono tagliati fuori dalle comunicazioni — e sempre in maggior numero hanno perso, o stanno perdendo rapidamente, ogni speranza di dialogo sensato con le istituzioni.
Eric Hobsbawm, uno degli storici più acuti dell’era moderna, intuiva già, un quarto di secolo addietro (ben prima dell’attuale «crisi dell’immigrazione», e ancor prima che si diffondesse l’odierna consapevolezza della nuova «globalità» della condizione umana) che «l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché si fondano su movimenti massicci e variegati, migrazioni e spostamenti di popolazioni, erodono il concetto nazionalistico di base per cui un territorio è abitato essenzialmente da una popolazione omogenea per etnicità, lingua e cultura. Xenofobia e razzismo rappresentano il sintomo, non la cura. Le comunità e i gruppi etnici nelle società moderne sono destinati a coesistere, qualunque sia la retorica che fa balenare il sogno del ritorno a una nazione pura». «Ogni volta — prosegue Hobsbawm — i movimenti di identità etnica sembrano scaturire da reazioni di debolezza e di paura, tentativi per innalzare barricate atte a tenere a bada le forze del mondo moderno... Ciò che alimenta queste reazioni di difesa, contro minacce reali o immaginarie, sono gli spostamenti di popolazioni internazionali che si accompagnano a drammatiche trasformazioni socio-economiche, senza precedenti e ultraveloci», trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti ai nostri giorni. «Dovunque viviamo, in una società urbanizzata, incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati dai loro Paesi, che ci richiamano alla mente la fragilità e il decadimento delle nostre stesse radici familiari». «Loro, gli stranieri — ci ricorda Hobsbawm dall’aldilà —, saranno accusati di tutte le nefandezze, incertezze, disorientamento e confusione che molti di noi provano, dopo quarant’anni di sconvolgimenti così rapidi e profondi da risultare senza precedenti nella storia umana». Come dicevano i nostri antenati, «la storia è maestra di vita», un insegnamento, questo, che stiamo dimenticando a nostro rischio e pericolo. Per assicurare la nostra sopravvivenza, ascoltiamo quella maestra; leggiamo e rileggiamo l’opera cardine di Hobsbawm, «Nazioni e nazionalismi dal 1780», in cui ci insegna che le società in declino puntano tutte le loro speranze su un salvatore, su un uomo (o una donna) della provvidenza, e sono alla ricerca di un nazionalista risoluto, militante e battagliero: qualcuno che promette di spegnere l’interruttore del pianeta globalizzato, di sbarrare quelle porte che già da tanto tempo hanno perso — o a cui sono stati rotti — i cardini, rendendole inutilizzabili.
La verità è che le scorciatoie suggerite dagli uomini e dalle donne forti che aspirano al governo restano assai seducenti, per quanto fuorvianti. Tratteggiano una visione di ripristino e riappropriazione di tutto ciò di cui un numero crescente dei nostri contemporanei avverte la mancanza nella politica odierna, contraddistinta da una carenza progressiva di potere, incapace pertanto di impedire i danni arrecati da elementi che si sottraggono al suo controllo, pronta a ignorare, o a distruggere sul nascere, ogni tentativo messo in atto dai politici liberal-democratici per riconquistare la loro sempre più debole autorità. Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte, che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da dimostrare.

- Zygmunt Bauman  - Pubblicato sul Corriere del 27/5/2016 (Traduzione di Rita Baldassarre) -

venerdì 27 maggio 2016

La vendetta della scrittura

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Dalla parte sbagliata
- di Simonetta Fiori -

La versione dell’ebreo Shylock, del selvaggio Venerdì, del Gatto e della Volpe… Ecco come cambiano le storie se le raccontano i comprimari.
Che cosa succede nel palcoscenico della letteratura? Sembra che un regista giustiziere abbia deciso di mettere mano alle storie, spingendo sul proscenio le comparse — quelle abituate alle panchine del backstage — oppure proiettando una luce diversa sulle figure malefiche, finalmente liberate da un ruolo ingrato. La confusione regna sovrana, come quando si cambia un copione vecchio di secoli. Shylock ha gettato via i panni gretti dell’usuraio per diventare un intellettuale ebreo del XXI secolo, capolavoro di humour contro l’antisemitismo dilagante. E quel ragazzo che entra in scena si chiama Moussa, un tipo inquieto cresciuto nei quartieri poveri di Algeri: e dire che Camus se l’era dimenticato morto ammazzato su una spiaggia, senza dargli un nome e soprattutto senza dargli un’anima. L’Arabo, e basta. Là vicino c’è Venerdì, abituato da trecento anni a fare il buon selvaggio. Finalmente ci mostra la sua lingua mozzata, come a dire: guardate che se finora ve l’hanno raccontata in quel modo è perché io non avevo la possibilità di parlare. Muto. Senza voce.
E forse da qui bisogna partire. Da chi nel canone occidentale non ha avuto diritto di parola. O dai personaggi maltrattati, sia perché rimossi in una caligine indistinta che tutto opacizza sia perché bersagli del pregiudizio deformante, prigionieri per sempre nella gabbia del male. Tutti comunque vittime di uno sguardo che è proiezione culturale, destinata a cambiare a seconda della latitudine e del tempo storico. E nel mondo globale di oggi che sposta i confini della geografia e della storia anche i caratteri universali dei classici sono soggetti a imprevisti smottamenti.
Se dunque la letteratura è per sua natura continua riscrittura, appare oggi crescente il fenomeno del “retelling” riequilibrante, la reinvenzione delle storie da parte degli esclusi e degli incompresi. Fenomeno certo favorito dalla perdita di carisma dell’autore, deposto dal trono di artista e sempre più ridotto a ispiratore di trame. Tecnicamente si chiama “spin off”: è il derivato narrativo, il testo sviluppato da un’opera che precede. Il romanzo appartiene a chi lo legge, ha sentenziato Pennac. E il lettore può farne ciò che vuole, specie se a favore dei perdenti.
La rivoluzione può consistere in un riscatto morale, come è capitato allo Shylock ridisegnato da Howard Jacobson, un commediografo britannico che vanta antica dimestichezza con il Bardo. Forse è anche per questo che nel suo Shylock Is My Name, uscito ora da Penguin e annunciato giugno da Rizzoli, si è permesso di riambientare allegramente la dark comedy shakespeariana nel triangolo d’oro di Ceshire, tra divette del reality (Porzia), importatori malinconici di fermacarte (Antonio trasformato in D’Anton) e giocatori di calcio che fanno il saluto nazista in campo (Graziano). Un’umanità perduta e profondamente antisemita osservata con lo sguardo acuto di Shylock, che qui gioca il ruolo di coscienza critica. E se Il Mercante di Venezia fu usato dissennatamente dal nazismo — al di là delle intenzioni dell’autore — la reinvenzione di Jacobson punta a denunciare fermenti e stereotipi antisemiti, nascosti nel ventre della società britannica, e non solo.
La riscrittura ha quasi sempre un tratto revanchista, come accade anche nella storiografia. Però a differenza delle storie dei vinti, la letteratura non conosce il sapore acidulo del piagnisteo, riscattato dalla potenza del mezzo letterario. Per questa ragione Kamel Daoud, il prosecutore algerino di Camus, rifiuta l’idea di un regolamento di conti. In questa chiave potrebbe essere letto Il Caso Meursault(Bompiani), la riscrittura dello Straniero dalla parte dell’Arabo, ossia del personaggio «creato solo perché si prendesse un proiettile in corpo e se ne tornasse nella polvere ». Un’ombra privata del nome, di un’identità, e anche della sua stessa morte, sovrastata dal destino dannato di Meursault. Per cinquant’anni non ci siamo chiesti chi fosse quel cadavere crivellato di colpi. Finché Daoud non ha dato voce al fratello di Moussa, l’arabo dimenticato. Ma ha potuto farlo solo dopo aver imparato la lingua di Camus, ovvero l’arte della poesia, «una lingua nitida, cesellata dal chiarore del mattino, precisa e pulita, delineata a suon di profumi e di orizzonti». Solo la letteratura può ridare fiato alla giustizia, «non quella dei tribunali ma la giustizia degli equilibri», come scrive Daoud. E la poesia non ammette rancore, solo salvezza.
Quella del narrare è un’arte mistificatoria, «ma necessaria per dare un senso alla vita, altrimenti condannata a muta insignificanza ». È lo stesso messaggio lanciato dal Nobel J. M. Coetzee, il pioniere della riscrittura anticoloniale. È stato lui a restituire una dignità severa al povero Venerdì, che nell’originale è un puro accidente né più né meno dell’arabo trovato sulla spiaggia. Nel suo Foe lo schiavo negro ritrova la sua identità di sudafricano, piccolo e gracile, lontano dalla prestanza caraibica del predecessore. E soprattutto è un servo muto, silenzioso come un pesce, anzi come uno a cui è stata tagliata la lingua, non sappiamo se dai mercanti schiavisti o dallo stesso Crusoe. Un’afasia insopportabile per le orecchie sensibili di Susan Barton, la naufraga inventata da Coetzee, che implora lo scrittore Foe divenuto personaggio perché racconti la loro storia, soprattutto la storia di chi ha perso le parole. Ma alla fine vince il silenzio di Venerdì, la sua unica arma contro la prepotenza dei dominatori.
Nell’isola rivisitata da Coetzee non c’è riscatto soltanto per lo schiavo negro. Per la prima volta vi compare una figura femminile, la progressista Susan, impensabile nel capolavoro di Defoe. Altro grande escluso dal canone patriarcale sono le donne, talvolta costrette a ruoli marginali. In questa “sfida di genere” una maestra è Margaret Atwood che nel suo Canto di Penelope orienta un fascio di luce sulla sposa di Ulisse: che cosa ha portato all’impiccagione delle ancelle (le dodici amanti dei pretendenti di Penelope)? E cosa c’era davvero nella mente della nostra eroina? Tra raggiri e fughe, l’insigne marito non ne esce un granché.
Se poi apriamo la porta dell’immaginario per ragazzi, soprattutto quello cinematografico, possiamo vedere di tutto: Malefica con la bella faccia di Angelina Jolie e il lupo di Cappuccetto Rosso ridotto a povera bestia vessata da una ragazzina viziata. Ma qui siamo lontani dal politicamente corretto o dal revanscismo anticoloniale, piuttosto nel carnevale del rovesciamento che tutto sovverte e dunque diverte. E chissà cosa verrà fuori dal Pinocchio che Camilleri sta riscrivendo per Giunti. Le voci narranti sono quelle del Gatto e della Volpe, che finalmente potranno vuotare il sacco. E appendere quel moccioso di Pinocchio al chiodo del backstage: per una volta la scena è soltanto loro. E nessuno potrà portargliela via, neppure i carabinieri a cavallo.

- Simonetta Fiori - Pubblicato su Repubblica del 6 marzo 2016 -

mercoledì 25 maggio 2016

Reato di nazione

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Tutti crediamo di sapere cos’è una nazione, in realtà non esistono caratteristiche uniche in grado di identificarne la specificità. Il concetto è antico, ma anche scivoloso. Quanti di noi sanno che ci sono decine di territori privi di un riconoscimento diplomatico? Nick Middleton ci guida con pazienza alla scoperta di 50 di questi paesi, dove possiamo andare, che occupano un spazio sulle mappe geografiche, ma che non ritroveremo in una cartina politica, perché nati e vissuti in un giorno, occupati da leader visionari o ignorati dalle diplomazie mondiali. Non un esercizio di stile, ma una riflessione necessaria sull’ambiguo concetto di nazione.

(dal risvolto di copertina di: Nick Middleton: Atlante dei Paesi che non esistono. Alla scoperta di 50 nazioni che non hanno confini, Rizzoli, pp. 234, euro 24,90)

middleton libro

Come esplorare 50 nazioni prive di confini
di Miska Ruggeri

Ha un nome (Moskitia), un territorio rivendicato (59.600 km quadrati), una popolazione (150mila abitanti), una capitale (Puerto Cabezas), una bandiera. Eppure, questa regione costiera caraibica - la più povera e meno sviluppata del Centroamerica - che vorrebbe recuperare l’autonomia dal Nicaragua persa nel 1894, tanto da aver dichiarato l’indipendenza il 18 aprile 2009 per bocca del consiglio degli anziani e del Giudice Supremo Hector Williams, non esiste. Non ha riconoscimento diplomatico né seggio all’Onu. Come tutti gli altri luoghi descritti da Nick Middleton, professore di geografia a Oxford e autore del bestseller Going to Extremes diventato anche una serie tv su Channel 4, nel suo Atlante dei Paesi che non esistono. Alla scoperta di 50 nazioni che non hanno confini. 
Il mondo, infatti, anche per quanto riguarda la cartina politica, è quanto mai mutevole. I Paesi muoiono (l’Urss, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia...) e nascono (Montenegro, Timor Est, Sud Sudan...) di continuo, i confini crollano (la Germania unita) e si fanno largo comunità sovranazionali (l’Unione europea, per esempio). Ma gli aspiranti stati-nazione restano parecchi. Middleton, piuttosto sensibile ai desideri indipendentisti, al punto da aver valutato la possibilità di includere l’ISIS (ma non la Padania; per l’Italia c’è Seborga), ne ha scelti alcuni, tra stati de facto come Taiwan e Somaliland, regioni parzialmente autonome di stati più grandi (Tibet, Cabinda, Groenlandia...), schegge dell’ex Unione Sovietica oggi sostenute dalla Russia (Transnistria o Abcasia), micronazioni come Pontinha (accanto al porto di Funchal a Madeira), isole che preferiscono restare colonie (Mayotte).
Tralasciando i casi più noti, dalla Catalogna all’esperimento anarchico-hippy di Christiania nel cuore di Copenaghen e alle lotte del popolo Sahrawi contro il Marocco, concentriamoci su quelli più curiosi. Nel 1992 morì in esilio, in un paesino turco, l’88enne Tevik Esenç, l’ultimo uomo a parlare la lingua ubykh, dotata di 82 consonanti e appena tre vocali. Gli ubykh, come varie altre tribù, abitavano la Circassia, sulle rive del Mar Nero a nord di Sochi, ma furono sterminati o espulsi nel 1864. Molto più felice la storia dell’Isola di Man, dipendenza autonoma della Corona britannica che non fa parte né del Regno Unito né dell’Ue. Qui il parlamento locale, il Tynwald, «campo delle assemblee» in norreno, governa l’isola dalla fine dell’VIII secolo e un felice sistema fiscale sostiene una fiorente industria di servizi finanziari globali. Inoltre, dal 1881 le donne (se dotate di proprietà) possono votare e dal 2006 anche i sedicenni.
In Africa c’è il Barotseland, regno mobile lungo il fiume Zambesi all’interno dello Zambia, finché nel 2011 la casa reale non si è stufata delle promesse non mantenute da Lusaka, proclamando una scissione pacifica considerata come un tradimento.
All’interno di Israele, lungo l’autostrada costiera n.4 che porta in Libano, troviamo Akhzivland, stato composto da alcune capanne abusive e da un solo uomo, Eli Avivi, incriminato nel 1971 per aver «fondato una nazione senza autorizzazione». Simile la storia delle Isole Cocos, arcipelago dell’Oceano Indiano governato dai discendenti del capitano scozzese John Clunies-Ross dal 1886 al 6 aprile 1984, quando gli isolani malesi, che fino ad allora potevano guadagnarsi da vivere solo lavorando le noci di cocco per la famiglia Clunies-Ross e se se ne andavano non potevano più tornare, parteciparono a un referendum per chiedere la completa annessione all’Australia. 
Qui gli aborigeni di Murrawarri diedero quattro settimane di tempo alla regina Elisabetta II, in mancanza di un trattato o di una guerra vinta, per mostrare i titoli in base ai quali li governava. Passata la scadenza senza aver ricevuto risposte, il 30 marzo 2013 si dichiararono nazione indipendente.

- Miska Ruggeri - Pubblicato su LiberoPensiero il 26 novembre 2015 -

martedì 24 maggio 2016

Le metafore del presente

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«All’origine della guerra – o del seguito di guerre – che insanguinò il mondo greco per quasi trent’anni, e che la Storia chiama guerra del Peloponneso, vi fu un turbinio davvero notevole di passioni, tanto più violente perché a lungo frenate: mille forme diverse di gelosia, d’invidia e d’odio, ma tra tutte e che tutte superava in virulenza, gli odi partigiani, in ciascuna città il partito preso – senza pietà – pro o contro la democrazia. Il duello tra Sparta e Atene aveva al più alto grado questo senso passionale, giacché Sparta era, nella sua rudezza, l’incarnazione perfetta dell’ideale oligarchico, Atene dell’ideale democratico, al quale il suo splendore accordava un fascino senza pari».

Jules Isaac (1877-1963), storico e autore di storie universali per le scuole, scrisse nel 1942 questo «inno alla divina libertà perduta» mentre viveva alla macchia, durante l’occupazione nazista della Francia. «Originalissimo esperimento di storia parziale» lo definisce Luciano Canfora, nell’Introduzione al volume in cui passa in rassegna la adozione, da parte di storici novecenteschi, dell’Atene classica «come viva metafora del presente». L’autore, ebreo francese, antifascista, racconta, seguendo Tucidide e Senofonte, la eversione oligarchica che gettò Atene nella guerra civile alla fine del V secolo a.C., e traccia un parallelo con il tradimento antipatriottico dei collaborazionisti di Vichy. Più che mai il presente come storia e la storia come presente.

(dal risvolto di copertina di Jules Isaac: "Gli Oligarchi. Saggio di storia parziale", pagg. 392 14 euro)

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Atene come metafora
- di Luciano Canfora -

1. Parliamo di un libro di storia, scritto “alla macchia”, durante l’occupazione tedesca della Francia, da un professore ebreo mentre le donne della sua famiglia venivano annientate ad Auschwitz. Parliamo di un libro che parla di Atene ma intende parlare della caduta della Francia, di un libro che apparentemente non fa che raccontare con passione di parte quello che soprattutto Tucidide e Senofonte ci hanno lasciato scritto intorno all’oligarchia ateniese al potere.
Prima diremo molto brevemente della forza di Tucidide come ispiratore – nel turbine novecentesco – di storici che hanno parlato del loro presente. È la “grande guerra” innanzi tutto che sospinge i grandi studiosi, e non solo loro, verso Tucidide. Per Wilamowitz, che perde l’unico figlio subito all’inizio della guerra, sul fronte russo, è dapprima l’Iliade, il libro di guerra per eccellenza, l’oggetto di una rinnovata riflessione; ma poi daccapo Tucidide. Curiosa combinazione: egli studia i capitoli complicati e in parte oscuri sulla tregua annuale intervenuta tra Sparta e Atene (423), proprio nell’anno in cui, rettore a Berlino, sarà incaricato di una missione segreta per una pace di compromesso, che fallirà. Eduard Schwartz, che perde entrambi i figli l’uno all’inizio, l’altro alla fine della guerra, scrive in quegli anni, e pubblica nel ’19 uno dei libri capitali su Tucidide (Das Geschichtswerk des Thukydides). E Hans Delbrück nella sua Weltgeschichte paragonerà alla spedizione ateniese contro Siracusa la scelta incauta di Tirpitz e dell’Alto comando di dare avvio alla guerra sottomarina per interrompere l’aiuto USA all’Inghilterra (causa perciò dell’intervento, alla fine risolutivo, degli USA in guerra): anche l’attacco a Siracusa aveva provocato l’entrata in guerra contro Atene di un’altra grande potenza e, in ultima analisi, il collasso ateniese.
E potremmo ricordare ancora il libro di pochi anni successivo (1922), La campagne avec Thucydide, di Albert Thibaudet, l’autore della République des professeurs (1927), ma anche di studi su Maurras (1920) e Barrès (1921), nonché assiduo collaboratore della «Nouvelle Revue Française» di André Gide e Jean Schlumberger.
È dunque del tutto comprensibile che la nuova guerra divampata nel ’39 – che non a torto parve a molti un riaccendersi della precedente – abbia riportato ancora verso Tucidide, teorizzatore al tempo suo dell’appartenenza ad un unico conflitto, ora aperto ora latente, dei conflitti che occuparono quasi per intero l’ultimo trentennio del V secolo a.C. Ma questa volta è il Tucidide studioso dell’intreccio tra guerra esterna e guerra civile che sembra focalizzare l’attenzione. E può essere usato in modi opposti. Jules Isaac (1877-1963), di cui diremo più oltre, lo rilegge per mettere in luce il criminale anti-patriottismo degli oligarchi (aprire le porte al nemico per abbattere finalmente il regime democratico). Georges Méautis (1890-1970) adopera le stesse pagine del libro VIII per attaccare – sulla stampa svizzera – la Resistenza francese (il «maquis») come «terrorismo pre-rivoluzionario» mirante ad annientare un’intera classe sociale (Le terrorisme prérévolutionnaire, «Le Journal de Genève», lunedì 3 gennaio 1944, p. 1). Scriveva sulla stampa di Ginevra ed era, allora, grecista a Neuchâtel, rettore nel 1939-41. Non s’era accorto che la Svizzera stava allontanandosi dalla sudditanza all’Asse.

2. Atene è una vitale metafora del presente.
Nel 1909 Pierre Lasserre (1867-1930), aderente all’Action française e docente di filosofia all’École des Hautes Études, pubblicò un pamphlet contro Alfred Croiset historien de la démocratie athénienne, corredato da una violenta prefazione di Charles Maurras (1868-1952). In stile Action française, il libro vuol essere un attacco ai “valori repubblicani”, ma la materia del contendere è, all’apparenza, Atene. Il clima circostante era quello, a cavallo tra Otto e Novecento, del degrado, e conseguente discredito, del parlamentarismo; della corruzione politica; del diffondersi della critica “elitistica”; del disprezzo verso la carente qualificazione politica delle masse: disprezzo il cui libro simbolo diverrà, ben oltre i confini della Francia, il fortunato pamphlet di Gustave Le Bon, La psycologie des foules (1895). È la rivincita della Francia che non aveva mai accettato la Rivoluzione, assurta intanto, dopo un secolo (1891), a disciplina sorboniana con l’istituzione di una cattedra di Storia della Rivoluzione francese. Contro François Aulard, primo titolare di tale cattedra, voluta dalla municipalità di Parigi sin dal 1885, si scatena il pamphlet di un altro simpatizzante “maurrassien” quale René Benjamin (1885-1948): La Farce de la Sorbonne (Fayard, Paris 1921), autore, tra l’altro, nel ’24 di Valentine ou la folie démocratique e di un Soliloque de Barrès.
Per Lasserre, allora “maurrassien”, l’Atene da apprezzare e amare è quella dei grandi Eupatridi, lontani e non di rado bersaglio della «canaille» tendente alla infatuazione demagogica e alla tirannide.
Nella sua prefazione in forma epistolare, Maurras commenta le pagine di Pierre Lasserre cavandone anche il succo politico. Il punto di partenza è che la scoperta e pubblicazione (1891) della Costituzione degli Ateniesi di Aristotele ha confermato le intuizioni di Fustel de Coulanges (Cité antique) e ha “sgominato” la visione filodemocratica, in particolare di Maurice Croiset, delle democrazie antiche. Aristotele confermerebbe con la sua autorità il giudizio sprezzante che Lasserre e Maurras condividono sulla deriva democratica moderna. L’«aristocratie athénienne» resse a lungo e «prit la succession de Codrus», cioè subentrò alla monarchia (forma politica ideale per Maurras). Perché dunque non è accaduto lo stesso a noi «à la chute des rois»? E invece è subentrata al potere, usurpandolo, una casta di «métèques, juifs, barbares et demi-barbares» come «i tre Reinach [Joseph, Salomon, Théodore], i Monod [“dinastia protestante”], i Croiset: “nos étrangers de l’intérieur”».

3. Atene è entrata in gioco anche nello scontro tra fascismo e antifascismo durante l’agonia della Terza Repubblica francese.
Consideriamo due libri apparsi a non molta distanza l’uno dall’altro: Athènes, une démocratie de sa naissance à sa mort (Fayard, Paris 1937) di Robert Cohen (1889-1939) per un verso, e per l’altro il libro che qui presentiamo: Les oligarques. Essai d’histoire partiale (Les Éditions de Minuit, Paris 1946) di Jules Isaac. Il primo, dovuto ad uno studioso che, con Gustave Glotz, ha redatto l’Histoire grecque (1925) dell’Histoire générale delle P.U.F., traccia un profilo della storia di Atene dall’epoca regia fino al dominio romano (la gran parte del racconto va da Pisistrato [metà VI secolo a.C.] a Demostene [322 a.C.]). Il secondo si concentra sugli anni 415-401 a.C., cioè sul quindicennio in cui l’attacco oligarchico alla democrazia ateniese si fece più forte, divenne operativo e due volte riuscì a prevalere anche a costo di gettare la città nella guerra civile. Isaac dichiara già nel titolo la sua “parzialità”, cioè la propria scelta di campo ma soprattutto la volontà di parlare del presente – la caduta della Francia nel giugno 1940 e la nascita dello «Stato nazionale» di Vichy – attraverso il racconto della sconfitta di Atene nel 404 a.C. e la conseguente nascita di una repubblica oligarchica nella città sconfitta dal nemico di sempre.
Cohen non lo dichiara nel titolo, ma compie una operazione analoga. Il suo obiettivo è di mostrare, attraverso la parabola di Atene, l’inevitabile fallimento di ogni regime “popolare”. La prefazione è datata «novembre 1936». Fu scritta cioè nel momento in cui già cominciava a scricchiolare il governo di Léon Blum, formatosi nel giugno 1936 dopo la vittoria elettorale del Fronte Popolare (3 maggio ’36). L’allusività del libro di Cohen viene prontamente esaltata dal «Gringoire» del 19 marzo 1937, periodico di area Action française.
Cohen militava allora nella Fédération Républicaine, partito di destra guidato da Louis Marin, ostile al Fronte e, a suo tempo, addirittura schierato contro la revisione del processo a Dreyfus. [*1] (Della militanza di Cohen nella Fédération parla, con paternalistico sussiego, Jérôme Carcopino in un documento pubblicato da Claude Singer nel 1992 e risalente agli anni in cui Carcopino si rendeva strumento della persecuzione antiebraica del regime di di Vichy).[*2] Il volume di Cohen su Atene esce all’inizio del ’37 e viene ristampato ancora nel ’38 (quando ormai l’esperienza del Fronte è andata in pezzi) e ancora – dopo la morte dell’autore – nel gennaio ’41, sempre presso Fayard, quando ormai la Francia è per metà occupata dai tedeschi e per metà governata da Pétain e Laval.
Scriveva dunque Cohen nel novembre ’36, fornendo in prefazione una chiave di lettura del suo libro su Atene: «Nei tempi tumultuosi che stiamo vivendo, ho ritenuto che non sarebbe stato privo d’interesse, per tutti coloro i quali pensano che le lezioni del passato illuminano talvolta, e sia pure di flebile luce, gli avvenimenti del presente, trovare, raccontata nella forma più semplice possibile, la storia della prima [la più antica] repubblica della storia. Così è nato questo libro, scritto in purezza di cuore (qui est de bonne foi). Mi si rimprovererà ch’io mescoli troppo spesso, parlando di Atene, biasimi ed elogi. Il fatto è che io ho voluto essere innanzi tutto sincero. Noi abbiamo difetti che rassomigliano ben singolarmente ai difetti degli antichi Greci. Esattamente come loro, noi ci appaghiamo di parole; volentieri scambiamo per fatti concreti ciò che è solo parola o agitazione; non ci dispiace nascondere il nulla di una decisione dietro una formula roboante» (pp. 9-10). Nonostante la promessa di «bonne foi», il linguaggio che Cohen adopera nel raccontare la storia ateniese è spiccatamente allusivo. Clistene viene definito «illustre représentant de la plus ancienne dynastie républicaine du monde» (p. 55). Il VII capitolo s’intitola: «Périclès et les origines du socialisme d’état». L’VIII si apre con un rimbrotto a George Grote e agli storici inglesi che non hanno mai smesso di «témoigner d’une sympathie parfois excessive pour Athènes».
La fase apertamente oligarchica della politica ateniese – il governo dei Quattrocento – viene presentata come il risultato della «sconfitta della democrazia» sotto le mura di Siracusa (p. 189: «Il est indéniable que, cette fois, c’était bien la démocratie, avec sa fringale de conquêtes, qui avait été battue à Syracuse»). E la storia della democrazia ateniese successiva alla «restaurazione democratica» del 403 viene definita (cap. XII) «La victoire de la démagogie». Che dunque Cohen sia stato – come è ormai noto – anche l’autore occulto («le nègre») del Demosthène di Clemenceau3– «le Tigre», tutt’altro che a suo agio nel regime parlamentare – non stupisce affatto (fermo restando il suo giacobinismo retroattivo di stampo nazionalistico).

4. La vita di Robert Cohen fu breve e segnata anche da una pesante menomazione dovuta a una grave ferita subita al fronte nel maggio del ’18. (Della “grande guerra” egli si fece anche storico con una brillante «brochure de divulgation»). Morì in tempo (8 gennaio ’39) per non vedere né «drôle de guerre» né capitolazione né persecuzione vichysta degli ebrei francesi.
La vita di Jules Isaac fu molto più lunga. Era nato dodici anni prima di Cohen e poté vedere tanta parte del dopoguerra (1963). Aveva perso moglie e figlie ad Auschwitz, cadute in una retata della polizia francese al servizio dei nazisti. Visse alla macchia fino alla liberazione di Parigi (agosto ’44). Nel ’46 pubblicò, col curioso pseudonimo di Junius già adoperato da Rosa Luxemburg nel 1916, Les oligarques. Essai d’histoire partiale. Dai primi anni Venti era stato autore e coautore di fortunati e più volte aggiornati e ristampati manuali di storia per ogni ordine di scuola e per tutte le classi d’insegnamento, che dimostravano consumata familiarità con lo studio totale della storia (ormai in via di smarrimento grazie alla cosiddetta specializzazione), dalla protostoria all’età contemporanea. Nel dopoguerra, e fino alla fine, Isaac si dedicò alla causa del riavvicinamento tra ebrei e cattolici, agevolato in tal proposito, alla fine, dall’iniziativa di Giovanni XXIII di indire il Secondo Concilio Vaticano, nel cui ambito – e non senza il significativo apporto di Isaac – cominciò a sgretolarsi l’accusa antiebraica di “deicidio”. Parliamo ora più nel merito di quest’opera.

a) Nel capitolo introduttivo (Présentation des oligarques), Jules Isaac traccia un profilo ammirativo-simpatetico (un po’ oleografico) della «democrazia ateniese». Nel descriverne il funzionamento dà giusto rilievo all’istituzione e agli effetti dell’e?sf??? (p. 30). E non resiste, ovviamente – come molti – alla tentazione di interpretare Tucidide, II, 37 come “manifesto” della democrazia. Il ritratto di Cleone è quasi in stile Rettung. È da chiedersi quanto egli fosse consapevole dei due importanti antecedenti pro-cleoniani (Droysen, nella prefazione ai Cavalieri,4e Grote, History of Greece).5 Va anche rilevato che Droysen “salva” – nello sforzo di comprensione storica di Cleone – anche il “modello” Robespierre: archetipo negativo per Isaac, che infatti lo adopera per delineare il dottrinarismo fanatico di Antifonte.

b) Un aspetto del libro in cui Isaac si mostra succubo delle visioni tradizionali è l’aspro e sommario giudizio sulla sofistica. In questo, egli mostra di non tener conto (o di ignorare) la proposta storiografica espressa in un classico quale i Griechische Denker di Theodor Gomperz, il quale pone la sofistica sullo stesso piano, come ricchezza di intuizioni e efficacia liberatrice, del “movimento dei lumi” nel XVIII secolo. Per Isaac – che legge i sofisti attraverso il prisma platonico pur considerando anche Platone come un nemico della democrazia – i sofisti ebbero un solo orientamento: furono soltanto, alla Callicle, predicatori di violenza e teorizzatori della “forza” che deve avere la meglio sulla “legge”. Ma anche Socrate lo imbarazza perché critico della democrazia non meno dei sofisti.

c) L’operazione che Isaac compie è a prima vista sconcertante: polemizza non solo con Tucidide per i giudizi troppo positivi sui capi dell’oligarchia, ma polemizza contro i personaggi stessi (per esempio con Antifonte). Antifonte è “robespierrista” ma senza l’onestà di Robespierre: se infatti persegue con coerenza il suo obiettivo, imbarca però traditori e voltagabbana «touchés de la grâce oligarchique» (p. 62). Calzante è, senza dubbio, il itratto di Teramene, assunto come leader dall’«aristocratie loyaliste» (p. 62): concetto interessante e ben espresso. Teramene: un Nicia malfido. Una definizione che è indizio di approfondita riflessione sulle fonti. Dal celebre?a?ep?? ??? ?? etc. (Tucidide, VIII, 68, 4) Isaac deduce che Tucidide intende dire: gli ultras non ce l’avrebbero potuta fare con le loro sole forze se non si fosse unito loro Teramene, il quale si portava dietro «l’aristocratie loyaliste». Tucidide non lo dice. Ma che così stessero le cose, che quello fosse l’equilibrio delle forze, lo si può arguire dal fatto che, quando Teramene ha cambiato atteggiamento, il governo dei Quattrocento è crollato.

d) Grande merito della trattazione di Isaac è di aver scelto, come avvio della vicenda, gli scandali sacrali del 415. Si giova molto chiaramente – pur senza citarlo – dell’articolo di Henri Weil sugli ermocopidi (1900).6 Weil difendeva con argomenti decisivi l’interpretazione – corrente sin da subito in Atene – di quella vicenda come complotto oligarchico. Isaac adopera lo stesso luogo tucidideo del III libro messo a frutto da Weil a proposito della “necessità” per i congiurati di macchiarsi dello stesso crimine per rimanere solidali e evitare defezioni o tradimenti. Già Hatzfeld nel suo Alcibiade (1940) aveva fatto propria la diagnosi suggerita da Weil e gliene aveva riconosciuto il merito. Isaac scrive nel 1942 e l’Alcibiade di Hatzfeld è, allora, una freschissima novità. Isaac, nel suo rigorismo tradizional-democratico, si colloca tra i disistimatori di Alcibiade (p. 28: «jeune seigneur impudent et cynique»). Reagisce così con fastidio al ritratto non condannistico abbozzato da Hatzfeld (e forse pensa anche a Houssaye). E ad Alcibiade rimprovera (p. 24, nota 2) l’uscita brutale contro la democrazia che Tucidide gli attribuisce (VI, 89: «una follia universalmente riconosciuta come tale»). Ma rispetto alla giusta diagnosi di Weil, Isaac – anche in ragione del suo argomento – formula un’osservazione molto opportuna: dal racconto di Andocide si ricava chiaramente che la sola eteria di Eufileto aveva organizzato l’operazione «ermocopidi», mentre alla vigilia della presa del potere nel 411 tutte le eterie si coalizzano (p. 43, nota 1).

e) Non può ovviamente ignorare la commedia politica di quegli anni (Eupoli e Aristofane innanzi tutto), ma non riesce ad attribuirle un obiettivo. «Les deux rivaux de gloire, Eupolis, Aristophane, s’en donnaient à cœur joie, plus soucieux de divertir que de réformer, d’être plaisants que d’être justes; mais, s’ils faisaient ainsi le jeu des oligarques, eux-mêmes se gardaient bien d’entrer dans le jeu, et de prendre parti» (p. 31). I casi andrebbero studiati singolarmente. Sommerstein sulla sortita filo-oligarchica delle Rane è indiscutibile, e i Cavalieri non possono essere sterilizzati giacché costituiscono un intervento direttamente politico e volto a obiettivi concreti e immediati.

f) Nel tracciare un profilo del tipo umano dell’oligarca, Isaac approda, com’è ovvio, al cosiddetto “vecchio oligarca”, opera che giustamente colloca nella cornice dei conversari segreti di un’eteria (pp. 32-39). È talmente persuaso dell’importanza, anzi centralità, di quello scritto, da comporne (paradossalmente) una sorta di continuazione di suo conio (pp. 36-39): un esperimento non privo di intelligenza, che vuol fare emergere ciò che in quel pamphlet è implicito. È anche questo un “riempire i silenzi del testo”.
Diamo inoltre atto ad Isaac di aver colto l’importanza del "vecchio oligarca", II, 20: l’attacco ai “signori” che si schierano col popolo. Isaac pensa che il bersaglio sia Pericle. «Eupatride passé guide de la démocratie» (p. 33 e nota 2). Secondo Ory,7 Isaac suggerisce – qui e altrove – un’implicita analogia tra Pericle e Léon Blum.

g) Isaac “parteggia” scopertamente anche rispetto ai fatti che narra. Lo si nota quando racconta l’agguato di Eleusi e assume senz’altro per buona la tesi secondo cui a Eleusi arruolavano mercenari, e precisa che verso “gli altri” (al di là dei capi fatti fuori nell’agguato) ci fu «clémence» (pp. 190-191). Ed è notevole come proprio l’agguato di Eleusi gli offra lo spunto per l’unica esplicita allusione alle vicende presenti: allusione minacciosa culminante nella promessa che non saremo, nella Francia di 2344 anni dopo, altrettanto «clementi» (p. 191). Ma lui non dice “noi”, dice «les méchants» perché pensa ai vilipesip??????dello pseudo-Senofonte.

5. Funziona l’analogia che sta alla base del libro di Isaac?
Il perno dell’analogia sta nel crollo del fronte interno. Ma, ovviamente, nell’analogia è implicita una diagnosi: una diagnosi sul crollo di Atene nel 404 e della Francia nel 1940. E la diagnosi è, per quel che riguarda Atene, quella tucididea, espressa dal grande storico e protagonista di quelle vicende, in una pagina che fu definita (con qualche ragione) l’ultima da lui scritta. Si tratta di quella in cui Tucidide prende spunto dalla finale vicenda umana e politica di Pericle per dire la sua conclusiva opinione su tutta la vicenda della guerra e sulle cause «vere» della sconfitta di Atene (II, 65). Tucidide non fa nessun nome, neanche quello, più ovvio, di Alcibiade: addebita la sconfitta alla conflittualità esplosa all’interno in assenza, ormai irrimediabile, di una figura dominante quale era stato Pericle. Ma, in questi termini, il parallelo con la caduta della Francia, erosa dall’interno dal cancro filofascista che di fatto spiana la strada all’ingresso trionfale delle armate naziste fino all’Arco di Trionfo, è ancora zoppo.
Neanche il racconto che si legge nelle Elleniche di Senofonte parla apertamente di tradimento e di intesa col nemico, anche se chiarisce bene il ruolo svolto da Teramene per costringere Atene alla resa. È la requisitoria di Lisia contro Eratostene (uno dei Trenta) che pone in primo piano l’opera di erosione dall’interno compiuta dalle eterie oligarchiche (Contro Eratostene, 43-44).
Ma Isaac non fa cenno a quel passaggio oscuro ma significativo della vicenda, segue Senofonte e Plutarco (e rifiuta Diodoro). La sua attenzione è rivolta alla vicenda vivente della Francia che non combatte e dal cui interno si manifesta una forte corrente politica desiderosa di accogliere il “nuovo ordine” hitleriano quantunque sotto la maschera dell’iper-nazionalismo alla Charles Maurras. E non è certo casuale che Maurras (Si le coup de force est possible, 1920), evochi il «détraquement» (il caos che subentra a una sconfitta militare: Waterloo o Sedan) come «prétexte» per l’azione. (Non evoca un testo sommamente istruttivo in questo senso quale la Costituzione di Atene attribuibile a Crizia che teorizza la necessità di aprire le porte al nemico per abbattere l’odiata democrazia).
Ma c’è un punto di forza in questa grande analogia diagnostica che, nel baratro della Francia e del regime di Vichy, porta Isaac a rileggere analogicamente il 411 e poi la caduta di Atene e il regime dei Trenta: il ruolo dei capi popolari passati all’estrema “destra”, allora come ora. Allora Pisandro, l’elemento più prezioso, per gli oligarchi operanti nell’ombra, al fine di indurre l’assemblea popolare al suicidio politico (Tucidide, VIII, 53-54; 65; 68, 1); ora Jacques Doriot (1898-1945).
Nel racconto tucidideo della presa del potere da parte oligarchica, il ruolo di Pisandro appare fondamentale. È lui che caldeggia, affrontando più e più volte l’assemblea, la proposta di ridurre la cittadinanza a soli cinquemila pleno iure; è lui che si spinge a promettere «tanto una volta ottenuto l’aiuto persiano possiamo sempre tornare indietro» (53, 3); è lui che abbatte il regime popolare in varie città alleate (65, 1); è lui che propone di nominare i «nomoteti» cui affidare la riforma costituzionale (67, 1); è lui che fa passare la proposta di affidare tutto il potere ai Quattrocento (67, 3). Tucidide sa anche – e lo rivela – che il vero ideatore retroscenico della trama era stato Antifonte (68, 1), ma riconosce a Pisandro il protagonistico ruolo di artefice palese del sovvertimento costituzionale. I demagoghi rinnegati sono preziosi: conoscono meglio di chiunque altro la psicologia delle masse.
Non meno rilevante fu, nell’affermarsi del regime vichysta, il ruolo di Jacques Doriot, operaio e figlio di operai, militante socialista sin dall’adolescenza e poi comunista sin dalla scissione di Tours (1920), grande agitatore e buon parlatore, inviato a Mosca per due anni alla scuola di partito, al ritorno (1923) capo della gioventù comunista e deputato del PCF dal 1924, per quasi dieci anni rivale di Maurice Thorez, espulso nel giugno ’34, fondatore nel ’36 del Parti Populaire Français (PPF), e come tale animatore del collaborazionismo coi nazionalsocialisti (1941) e, dopo un periodo come combattente volontario contro l’URSS, rifugiato in Germania con i capi di Vichy in fuga. La presa di Doriot sulla base popolare che continuò a eleggerlo sindaco di Saint-Denis in opposizione al candidato ufficiale del PCF fu grande. E l’apporto suo – come del resto anche di socialisti alla Angelo Tasca – al consolidamento della cosiddetta “rivoluzione nazionale” di Vichy non fu fenomeno secondario.
Si può ben dire che il ritratto che Isaac traccia di Pisandro è pensato anche per Doriot: «Un démagogue de sa trempe se doit de passer d’un extrême à l’autre; celui-là, s’il flétrit les tares de la démocratie, on peut lui faire confiance: il est expert» (p. 68); «agitateur et agité, meneur et mené, il se pousse au premier plan; derrière lui, dans l’ombre, on aperçoit, toujours plus fort que lui, aujourd’hui Alcibiade, demain Antiphon. Il est ardent, brutal, décidé, et de vues courtes. Vieux routier de la Pnyx, il excelle à manier le peuple assemblé, il brisera donc le seul instrument dont il joue bien» (p. 68). In questo ritratto ogni parola è al suo posto.
Ovviamente il gioco delle analogie non si esaurisce qui. Non ha torto Ory quando intravede Maurras dietro il ritratto tucidideo di Antifonte (VIII, 68, 1) «doctrinaire ranci» e Léon Blum dietro il ritratto di Pericle «Eupatride passé guide de la démocratie»; o anche quando suggerisce un parallelo tra le formule (Révolution nationale per un verso e Patrios politeia per l’altro). Ma un punto non va perso di vista quando si considera questo originalissimo esperimento di «histoire partiale». Isaac non è un garrulo idolatra del parlamentarismo in quanto tale. In un passo rilevantissimo dello scritto sul Paradosso sulla scienza omicida (1923), scrive con lucidità diagnostica pari alla forza di una previsione che ha trovato nel tempo nostro definitiva conferma: «Probabilmente all’interno degli Stati, sotto la spinta delle masse operaie sempre crescenti, il regime rappresentativo si è democratizzato: trasformazione illusoria perché, nello stesso momento, il capitalismo, giunto all’egemonia sociale, ha privato le istituzioni democratiche del loro contenuto».

***

In conclusione, questo libretto è un brillante tentativo di storia allusiva. L’autore dice «storia parziale», ma intende, con tale termine, soprattutto lo sforzo di provare a parlare del presente attraverso un grande e assai remoto antecedente storico. Ory si perde in tentativi poco chiarificatori della definizione, voluta da Isaac, «storia parziale», e si arrovella intorno al concetto di “parzialità” (ma non “faziosità”) in campo storiografico. In realtà si tratta di un esperimento volto a tradurre in racconto storiografico la visione (o presupposto filosofico) della «contemporaneità» della storia, di qualunque storia.
Si tratta certo della continuità dei meccanismi e del linguaggio della politica. Ma il concetto crociano di «contemporaneità» di ogni storia è sterile se si contiene dentro la formulazione, vera ma inerte, dell’efficacia determinante delle categorie mentali dei “moderni” che, di epoca in epoca, pensano il passato. In tanto ciò accade in quanto continuità sostanziali sussistono realmente. E non v’è dubbio che lo stesso Croce pensa essenzialmente alla storia politica quando parla di storia.

L. C.

1 Cfr. Frank Wende (hrsg. von), Lexikon der Geschichte der Partein in Europa, Kröner Verlag, Stuttgart 1981, p. 190.
2 C. Singer, Vichy, l’Université et les juifs, Les Belles Lettres, Paris 1992, p. 252. Ironia della storia: in quel documento, Carcopino avallava la condanna della sorella di Robert Cohen, nonostante i meriti patriottici dell’ormai defunto fratello.
3 Cfr. su ciò B. Hemmerdinger, Le «Démosthène» de Clemenceau (et Robert Cohen), «Quaderni di storia» 36, 1992, pp. 146-152.
4 J.-G. Droysen, Des Aristophanes Werke, I, Veit, Leipzig 18692 [1837], pp. 79-96.
5 G. Grote, History of Greece, Murray, London 18622 [1846-1856], cap. XLVI, pp. 356-358; 434-435, e 538.
6 Les hermocopides et le peuple d’Athènes, in Études sur l’antiquité grecque, Hachette, Paris 1900, pp. 282-288.
7 J. Isaac, Les oligarques. Essai d’histoire partiale, Préface de Pascal Ory, Calmann-Lévy, Paris 1989, p. X.

lunedì 23 maggio 2016

Passaggi

storia kurz

Dalla Teoria Critica alla Teoria Critica del Valore-Lavoro

Il nostro intervento parte dall'impiego di un insieme di concetti del Capitale, le "categorie di base" (merce, lavoro, valore, denaro) secondo una vasta serie di autori, il cui uso procede da un tentativo di superare o affrontare, da un lato, lo stato di prostrazione della teoria marxista classica, e, dall'altro, le insufficienze di una comprensione tradizionale del pensiero marxista, presente in tanto movimenti auto-denominatisi socialisti, ivi incluse le politiche dei cosiddetti "paesi del socialismo reale". In questa occasione vogliamo offrire esclusivamente una breve introduzione al pensiero ed alla conoscenza di quella che chiamiamo Teoria Critica del Valore-Lavoro, la quale, come indica il suo nome, non pretende di essere altro che una variante di quello che Marx definisce Critica dell'Economia Politica, con cui sottotitola la sua opera principale, Il Capitale.
Cominceremo col tornare agli anni sessanta del secolo passato, quando nella Repubblica Federale Tedesca appare quella che oggi conosciamo come "La nuova lettura di Marx", in cui possiamo includere autori come Hans-Georg Backhaus, nato nel 1929, e Helmut Reichelt, del 1939, allievo questi di Theodor W. Adorno, stimolato da Sohn-Rethel, entrambi inoltre allievi anche di Horkheimer e che continuano il lavoro fatto in precedenza in Russia da autori come Evgeny Bronislavovich Pashukanis e Isaak Illich Rubin. A tale linea vanno aggiunte negli anni 1970 le opere di Roman Rosdolsky e, soprattutto, negli anni 1990, quelle di Michael Heinrich. Questi autori, nell'ambito della contestazione creata dai movimenti studenteschi degli anni sessanta, della crisi sociale del fordismo e dell'opposizione diffusa alla guerra del Vietnam, affrontano la possibilità di un nuovo marxismo al di là dello stalinismo e della socialdemocrazia, hanno un bagaglio teorico importante fondato sia negli autori sunnominati che nell'attiva Scuola di Francoforte. Tale bagaglio, presupposto ad una "nuova lettura di Marx", comprende una reinterpretazione della critica di Marx al capitalismo, ma da una prospettiva metodologica e teorico-sociale differente, una reinterpretazione che si interroga in primo luogo sull'obiettivo originale del Capitale di Marx e allo stesso tempo sulla singolarità dell'esposizione scientifica marxiana. Questo, per qualcuno degli autori, come nel caso di Michael Heinrich, significherà ripensare anche la relazione fra i tre libri del Capitale. Sebbene il lavoro che deriva da questa nuova lettura di Marx sia ampio e molto complesso, possiamo provare ad evidenziare alcune caratteristiche presenti in qualche modo in questi autori. Ci riferiamo a:

- il rifiuto del "sostanzialismo" nella teoria del valore, cioè, la considerazione che il valore è portatore della sostanza lavoro immessa da ciascun lavoratore nella produzione di ciascuna merce individuale.
- il rifiuto delle concezioni strumentali dello Stato; e in ultimo
- il rifiuto delle interpretazioni "operaiste" della lotta di classe, a partire fondamentalmente da ciò che alcuni autori denominarono come "ontologia del lavoro" che funge da base necessaria per la rivoluzione.

Negli anni 1970, questa lettura si evolve nel senso di un approfondimento nella comprensione dell'opera di Marx, per cui si tratta di spogliarsi da certe letture che si ritiene siano state confuse da Engels. Inoltre, e nello stesso momento in cui lo fa Althusser, si promuove una nuova comprensione meta-teorica, nella quale si interroga la stessa auto-comprensione da parte di Marx della sua propria opera. In tal senso, si capisce che a prescindere dallo sviluppo delle distinte opere di Marx si assiste ad un movimento di progresso e di regresso da parte dello stesso Marx, nel quale movimento si mescolano le considerazioni politiche e le conoscenze economiche che Marx trae dalla teoria economica classica per mezzo di una coscienza radicale, dello stesso Marx, della condizione storica a partire dalle categorie di valore, lavoro, denaro e merce, che non ammettono nessun uso trascendente o trans-storico delle stesse.
Abbiamo, da parte dello stesso Marx, uno sviluppo rigoroso della teoria del valore, dai Grundrisse alla seconda edizione del Capitale.
D'altra parte, la tesi che sta alla base dell'interpretazione di Heinrich è quella per cui nella critica marxiana dell'economia politica si incrociano due discorsi distinti, cosa che genera tutta una serie di ambivalenze fondamentali nei suoi sviluppi teorici; secondo Heinrich, "a causa dell'enorme complessità della rottura marxiana, il discorso degli economisti classici continua ad occupare un posto centrale in molti momenti della sua esposizione, cosicché Marx torna a situarsi nel campo teorico che ha appena superato". Backhaus trasferisce su Marx una distinzione che era stata applicata ad Adam Smith, secondo la quale Marx si sdoppierebbe in un autore con una parte "logica, esoterica", ed un'altra parte "storicista, essoterica" (1997; analogamente, Kurz, 2000).
La seconda parte, quella essoterica, appare essere correlata al Marx compromesso con il movimento operaio, e sarebbe il cosiddetto "marxismo del movimento operaio". In ogni caso, nelle parole di Wolfgang Fritz Haug, dopo il crollo in Europa del socialismo di Stato di provenienza sovietica, questi approcci sono stati associati, con aggressività crescente, con il rifiuto di ogni tipo di marxismo.
In tale contesto, nel corso degli anni 80 (1986) viene fondata a Norimberga la rivista Krisis: Contributo alla critica della società della merce, con la partecipazione di Robert Kurz, Roswitha Scholz, Ernst Lohoff, Christian Rehm, Norbert Trenkle e Claus-Peter Ortlieb. Questo gruppo, il gruppo Krisis, pubblica anche per qualche tempo la rivista Critica Marxista, nel mentre che organizza seminari e dibattiti, e pubblica diversi articoli su riviste europee e sudamericane. Con la rivista Krisis, che esiste tuttora, si persegue una critica della società capitalista contemporanea basata su una reinterpretazione dei concetti categoriali di Marx nel Capitale a proposito della merce, del valore, del lavoro astratto e del denaro.
Nel 1989, con il suo Manifesto contro il Lavoro, il gruppo diventa noto in tutto il mondo, ma gli avvenimenti che si verificano in quell'anno in tutto il mondo, con la caduta del muro di Berlino e la successiva decomposizione dell'URSS, eclissano la sua importanza a fronte della furibonda "fine della storia" con cui il capitalismo che si sente trionfante risponde alla fine delle ideologie.
Ciò nonostante, nel 1991 viene pubblicato il libro di Robert Kurz, "Il collasso della modernizzazione", nella prestigiosa collana "L'altra biblioteca", curata dal poeta e saggista Hans Magnus Enzensberger. Il libro è frutto di una lunga elaborazione teorica e militanza politica, e nasce sotto la diretta influenza della caduta del muro di Berlino, che viene analizzata in dettaglio da Kurz nel capitolo "La vendetta di Honecker".
Il Collasso della Modernizzazione , con il carattere audace di Kurz, è un'analisi originare della caduta dei paesi socialisti, e interpreta questa fase finale come parre della crisi del capitalismo stesso. Come dice il suo maestro di cerimonie brasiliano, ed ammiratore entusiasta di Kurz, Roberto Schwarz, il libro presenta le economie cosiddette socialiste come "parte del sistema mondiale di produzione di merci, di modo che il fallimento di quelle spiega le tendenze e la strada senza uscita di queste". Kurz suggerisce che con i cambiamenti avvenuti sullo scenario internazionale - con in primo luogo il fallimento, avvenuto negli anni 1970, dei cosiddetti "Stati del benessere", cioè, le proposte socialdemocratiche, e poi all'inizio degli anni 1990, quello degli Stati del cosiddetto "socialismo reale" o "capitalismo di Stato" - il capitalismo è raggiunto un punto senza ritorno della sua propria crisi.

Secondo questa visione, "nel suo essere reale (la crisi intrinseca al capitale), l'aspetto impraticabile assunto dallo sviluppo delle forze produttive, che ha portato il capitalismo in un vicolo senza uscita, conferma quella che è la previsione centrale di Marx". D'altra parte - aggiunge il brasiliano - "a differenza dell'epopea di Marx, che salutava l'apertura di un ciclo, quella di Kurz è stata ispirata dalla presunta chiusura di tale ciclo. Se in Marx assistiamo all'approfondirsi della lotta di classe, dove le successive sconfitte del giovane proletariato sono altrettanti annunci della sua rinascita più cosciente e più potente, in Kurz, 150 anni dopo, l'antagonismo di classe ha perso la virtualità della soluzione, e insieme ad essa la sostanza eroica.
La dinamica è l'unità sono dettate dalla merce feticizzata - anti-eroe assoluto - il cui infernale processo sfugge alla comprensione della borghesia e del proletariato, che in quanto tali non affrontano questo processo. Il gruppo Krisis promuoverà, a partire dalla sua posizione marginale, e attraverso la sua rivista, dei seminari e dei dibattiti, lo sviluppo della "Critica del Valore", in primo luogo con la critica alla società feticista del valore-lavoro e alla conseguente centralità del lavoro astratto,  con l'analisi della crisi strutturale che porta alla drammatica riduzione della quantità di lavoro necessaria alla riproduzione sociale, a partire dalla cosiddetta terza rivoluzione industriale, o rivoluzione microinformatica, e che ha come conseguenza che una percentuale crescente della popolazione diventi superflua per il sistema e venga esclusa e resa comunque sacrificabile.
Tutto questo, nell'ambito di una società obnubilata dal feticismo della merce, che fa sì che si rivolga a quello che è totalmente presente che le viene presentato nelle forme fenomeniche del prezzo, del salario, del reddito, dell'interesse, ecc., senza la possibilità di osservare o scoprire quella che lo stesso Marx chiamava "la legge economica che regola il movimento della società".
Purtroppo, nel 2004, una controversia fra i membri del collettivo portava all'esclusione di Robert Kurz e di Roswitha Scholz dalla redazione della rivista, a causa, fra le altre cose, di un rifiuto, o negazione, dell'esistenza della condizione scissa del valore - come sostenevano sia Kurz che Scholz - che suppone che la parte dell'uomo non sfruttabile attraverso il lavoro salariato, ossia, tutta la parte sensuale ed emotiva, viene separata da questi e viene relazionata al femminile, che viene assegnata alla donna, mentre il modello del soggetto del valore rimane maschile, bianco e occidentale.
In questo Scholz spiega la marginalizzazione delle persone che non soddisfano ad una di queste condizioni nella società basata sul lavoro.

Entrambi, insieme ad altri membri della redazione e con l'appoggio entusiasta di diversi gruppi di altri paesi, fondano la rivista Exit!, che sviluppa, com'è logico, il teorema della scissione del valore. Appare anche importante - afferma Kurz - il rifiuto da parte di alcuni membri rispetto alla critica costante dell'Illuminismo, sviluppato dalla rivista simultaneamente alla critica del capitalismo.
Robert Kurz, probabilmente la figura più centrale di entrambi i gruppi e le riviste, muore nella sua città natale, Norimberga, nel 2012, a 69 anni, nel corso di un'operazione, ma la sua opera e il suo pensiero continua ad essere sviluppato in maniera sempre più ampia in diversi luoghi del mondo.
Nel 1998, Robert Kurz aveva scritto un articolo dal titolo "Il doppio Marx", in cui espone un dettagliato sviluppo di quel che possiamo chiamare i due Marx: esposizione di grande interesse al fine di differenziare la teoria critica del valore-lavoro del "marxismo tradizionale" - come ama definirlo Moishe Postone, un altro importante autore di cui dobbiamo parlare.
Nello stesso senso in cui era stata utilizzata da Marx, per caratterizzare l'opera di Adam Smith, Kurz fa uso della distinzione di due livelli nell'opera di Marx, un livello essoterico ed un altro esoterico. Kurz si pone il problema dell'attualità - inquietante fino a cinquant'anni fa ed attualmente sparita - de "Il Manifesto Comunista" e si interroga sulle cause di questo sviluppo. Distingue poi, un primo Marx, il Marx essoterico, discendente e dissidente del liberalismo politico della sua epoca, politico socialista e mentore del movimento operaio, che promuove, anche nel Manifesto, la rivendicazione di diritti civili e di "un giusto salario per una giusta giornata di lavoro". Questo Marx, quello della "lotta di classe", adotta una "prospettiva ontologica" del lavoro, che cerca in ogni caso di sostituire la proprietà privata dei mezzi di produzione con la proprietà statale, ma non cerca di abolire il lavoro [astratto, o sotto il capitalismo].
Sebbene i suoi protagonisti siano coscienti della presenza delle cosiddette "condizioni materiali", ciò che muove e definisce la storia che cerca la rivoluzione è la soggettività integra della volontà cosciente degli interessi sociali antagonistici, una classe (quella operai e proletaria) contro un'altra classe (quella capitalista). Si ascoltano ancora ingenuamente le pretese illuministe di ridurre la società ad atti di volontà cosciente. Il suo obiettivo è quello di invertire le relazioni di dominio, di modo che il il proletariato "possa spogliare gradualmente la borghesia di tutto il suo capitale".
Ovviamente, con questo capitale ci si riferisce alla ricchezza materiale, e non al "soggetto automatico" - il capitale- che dà forma e direzione a questa forma sociale. Denaro e Stato - riflette Kurz - in questo racconto appaiono come oggetti neutri, in maniera tale che possono semplicemente essere appropriati da un'altra classe, nel nostro caso dal proletariato.

Il secondo Marx, quello finora oscuro e ancora poco noto, il Marx del feticismo della merce, il Marx esoterico - secondo questa peculiare denominazione - e negativo, critico radicale del "lavoro astratto" e dell'etica repressiva che caratterizzano il sistema moderno della merce, orienta la sua analisi sulla "forma sociale del valore" stessa, così come sul carattere storico del sistema stesso e delle categorie che appaiono in tale analisi: i concetti di merce, di valore, di lavoro e di capitale, tutti contestuali e non trans-storici e neppure trascendenti. Il suo obiettivo non è più il "plusvalore non pagato" o lo sfruttamento, senza negarne né sottovalutarne l'esistenza, e non è neppure il feticcio giuridico della proprietà privata, ma è "la forma sociale" del capitale e del valore, comune a tutte le classi, "soggetto automatico" della nostra società e causa prima di tutti gli antagonismi. Il suo carattere feticista è essenziale in questa struttura sociale senza soggetti, costituita alle spalle di coloro che si trovano in essa, quelli che vivono sottomessi al fine assurdo della trasformazione continua dell'energia umana in denaro. Una società che ha come unico motore la "autovalorizzazione del valore", in una forma oggettiva senza fine e senza limiti, eccetto la distruzione "impersonale" di tutto quello di cui il capitale può appropriarsi sotto la forma della merce.
Nella lettura di questo secondo Marx, alcune affermazioni del Manifesto non hanno senso: il capitale non è una cosa che si puó togliere al capitalista, non si tratta di prolungare la "lotta di classe" fino alla vittoria finale. Il capitale non è altro che una relazione sociale totale di denaro totalizzato, indipendente in un movimento "fantasmatico" di riproduzione di sé stesso, "soggetto automatico" della sua autovalorizzazione.
È necessaria, quindi, « una rottura cosciente con questa "forma" per passare dal movimento assurdo del valore e dei suoi elementi categoriali (merce, lavoro, denaro, mercato, Stato) ad una "amministrazione delle cose" fra tutti, emancipatrice, che usi le forze produttive secondo i criteri della "ragione sensibile" invece di abbandonarle al processo cieco di una macchina feticista ».

Se ci interroghiamo nuovamente sull'attualità del Manifesto, dobbiamo rispondere che il suo testo è diventato irreale in quanto "la lotta di classe è giunta al suo termine, e pertanto il suo linguaggio stimolante si è pietrificato in reperto storico", ora sono la crisi del capitale ed il lavoro astratto ad impregnare le nostre esistenze, e seppure questo appaia come un problema "invisibile", ne soffriamo quotidianamente le conseguenze, e adesso è arrivata l'ora del secondo Marx.
Forse è l'ora di un altro Manifesto, magari quella del "Manifesto contro il lavoro".

- Capital Y Crisis - 12 Maggio 2016 -

fonte: Capital Y Crisis - Teoria critica del valor-trabajo

domenica 22 maggio 2016

Traducendo

traduzione

La storia della cultura comporta sempre un ereditare e trasmettere, una trascrizione e riscrittura di significati precedenti, un trasferire miti e simboli, modelli e valori da uno ad altro contesto geografico e linguistico. In questa prospettiva la traduzione costituisce un veicolo essenziale: il presente volume mette in evidenza l’importanza della translatio (trasferimento, traduzione, interpretazione) di testi scritti nella storia della cultura mediterranea ed europea, segnandone spesso crisi, mutamenti, rinascite.

La storia delle culture e delle idee può essere considerata una continua riscrittura e traduzione di precedenti esperienze: interpretazione, metamorfosi, trasposizione di testi e modelli da uno ad altro contesto geografico e linguistico. In  questa  prospettiva,  il presente saggio mette in evidenza il valore delle traduzioni di testi scritti che ne assicurano la continuità e influenza nel tempo; la storia della civiltà mediterranea ed europea può essere studiata sotto il profilo di una successione di traduzioni che ne segnano nuovi orientamenti di pensiero e profonde trasformazioni. Al di là del rapporto mitico e storico della Grecia con l’Oriente e al debito della cultura latina verso modelli e linguaggi della grecità classica, non a caso alle traduzioni latine di testi greci ed arabi  - soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento – è spesso legato il tema del rinnovamento e della rinascita, all’interno di una continua translatio studii. Sino all’affermarsi delle lingue volgari nella scrittura di opere teologiche, filosofiche, scientifiche: anche questa volta la via è aperta dalle traduzioni di testi e linguaggi, destinate a un nuovo pubblico, fuori e contro la cultura tradizionale legata al latino. Ancora in tempi più vicini il volume ricorda come alcune fondamentali esperienze e prospettive della cultura contemporanea siano strettamente connesse a una assidua opera di traduzione.

dal risvolto di copertina di: Tullio Gregory, Translatio linguarum . Traduzioni e storia della cultura,

Leo O. Olschki Editrice, Firenze, pagg. 76, € 14

traduzio

Tradurre per capire
- di Remo Bodei -

«Tutto è destinato a perire, castelli e città, re e papi, solo i libri hanno il privilegium perennitatis: Saturno divora i propri figli, le civiltà sarebbero perdute, se Dio non avesse dato agli uomini i librorum remedia». Così sosteneva Riccardo di Bury, cancelliere di Edoardo III d’Inghilterra negli anni Trenta e Quaranta del Trecento. E John Florio, autore del primo dizionario Italiano-Inglese e traduttore dei Saggi di Montaigne, ricorda di aver sentito dire da Giordano Bruno che ogni scienza ha origine dalle traduzioni.
Di questi episodi e di sobrie riflessioni è costellato il breve e affascinante libro di Tullio Gregory, che, con la consueta competenza (esercitata anche nei decenni in cui è stato direttore del Lessico intellettuale europeo) mostra come la translatio linguarum, il vertere, il transferre e l’interpretari siano alla base di ogni civiltà e, specificamente della nostra, quella mediterranea, «fatta di innesti continui, di matrimoni esogamici, di un assiduo intrecciarsi e scambio di esperienze, modelli e valori fra civiltà diverse, ove ogni cultura nasce sull’eredità di altre culture, fatte proprie, trascritte, tradotte, interpretate in nuovi contesti e linguaggi». Da questo punto di vista, fenomeni epocali, quali il sorgere o il diffondersi dell’ebraismo o del cristianesimo sarebbero impensabili senza la traduzione in greco della Bibbia da parte dei Settanta nell’Alessandria del III secolo a.C. e le stesse parole di Gesù, pronunciate in aramaico, non si sarebbero diffuse nel mondo se non fossero state rese in greco e in latino: «È la traduzione che prolunga nel tempo e nello spazio la vitalità di un testo, assicura e rinnova una tradizione». Ed è la traduzione che sostanzia la translatio studiorum, per cui ogni versione di un’opera dall’originale a un’altra lingua contribuisce al «passaggio di civiltà e cultura da uno ad altro contesto politico, geografico e linguistico, per salvare eredità che si sarebbero altrimenti perdute».
Conosciamo tutti, per sommi capi, la trafila degli eventi che dalle rive del Nilo e dalle coste della Fenicia porta alla migrazione della scrittura, delle scienze, della sapienza e delle tecniche dapprima in Grecia e a Roma. Allo stesso modo ci è noto come il salvataggio della cultura antica passi attraverso gli scriptoria medioevali, dove gli amanuensi ricopiavano i libri. Sono state anche ricostruite le complesse vicende che hanno portato le opere filosofiche, matematiche, mediche e fisiche dal mondo greco a quello arabo.
Fu l’imperatore Giustiniano, istigato dai cristiani e dalla moglie Teodora, a decretare nel 529 la chiusura delle scuole di Atene, costringendo un consistente gruppo di filosofi a trasferirsi nell’Impero persiano presso il re Cosroè III. Quando, poi, la Persia venne conquistata dagli arabi, i discepoli dei filosofi che erano fuggiti assieme ai loro volumi iniziarono – dall’815 stabilmente nella «Casa della sapienza» di Baghdad – a tradurre in arabo dal greco e dal siriaco queste opere, che fecondarono il pensiero di Al-Kindî, Al F r bî, Averroè e Avicenna per poi, attraverso un’altra grande operazione di traduzione collettiva a Toledo e altrove, dare luogo alle ritraduzioni latine (si pensi che di Platone si conosceva in precedenza solo un brano del Timeo e di Aristotele, sostanzialmente, solo le Categorie e il De interpretatione).
La filosofia moderna si fonda linguisticamente sulla continua translatio dei termini forgiati in questo periodo e sulla ripresa e innovazione dei loro significati. Di tutte queste metamorfosi il volume di Gregory offre il necessario inquadramento.Spesso dimentichiamo che il destino dei libri che giungono fino a noi – oltre che di chi li pubblicava, li distribuiva e li leggeva – è soggetto a una selezione dovuta al caso, all’intenzione o ai ritrovamenti insperati (quale il codice del De rerum natura di Lucrezio che Poggio Bracciolini rinvenne nel 1417 in un monastero tedesco).
È, tuttavia, la volontà censoria a incidere maggiormente sulla loro conservazione e trasmissione, decretandone la sorte di «sommersi e salvati». Il fanatismo, l’Index librorum prohibitorum (formalmente abolito dalla Chiesa cattolica solo nel 1966), e i roghi, anche di intere biblioteche, hanno segnato la storia umana e non solo quella dell’Occidente: si comincia, a quanto ci consta, da quelli avvenuti nella Cina di Qin Shi Huan, il 212 a.C., fino alla Bücherverbrennung nazista del maggio del 1933 a Berlino. Per fortuna, i libri sfuggono talvolta a questa sorte, come accadde con «l’avventuroso trasferimento della biblioteca dell’Istituto Warburg da Amburgo a Londra con due battelli che approdarono nel dicembre 1933 sulle rive del Tamigi».
Se dunque la translatio linguarum ha nell’ambito delle civiltà della specie il ruolo dominante qui descritto, allora la risposta di Gregory al mito della Torre di Babele non può essere che un’orgogliosa rivendicazione della nostra condotta: «Se la condanna alla pluralità delle lingue è una conseguenza del tentativo degli uomini, dopo il diluvio, di costruire una loro città con una torre che raggiungesse il cielo, la traduzione - ove manchi il miracolo della Pentecoste - è la risposta umana alla condanna di Yahvè».

- Remo Bodei - Pubblicato su Il Sole dell'8 maggio 2016 -