martedì 17 maggio 2016

Il dubbio e la necessità

controtempo

"Lo spleen non è nient'altro che la quintessenza dell'esperienza storica". Spesso ripresa da Walter Benjamin, questa formula di Baudelaire ne richiama un'altra - di Pierre Neville stavolta - che postulava, a proposito dei surrealisti, che "una certa disperazione è la condizione delle menti serie". E aggiungeva: "L'organizzazione del pessimismo è davvero una delle 'parole d'ordine' più strane cui possa obbedire un uomo cosciente. Tuttavia è quello che pretendiamo da lui".
Applicato al nostro presente - il presente di un dominio talmente sicuro della propria forza da inventarsi, se necessario, delle opposizioni talmente decostruite che l'idea stessa di una critica della totalità nemmeno più le sfiora - questo pessimismo attivo deve operare come dialettica del dubbio e della necessità.
È questo l'approccio che si trova al cuore di questo testo estratto dall'ultimo numero del bollettino "Négatif", che abbiamo ripreso in quanto ci ha toccato, e in quanto fonda agli occhi dei nostri amici - ci è sembrato - una prospettiva critica che condividiamo e che vuole essere lontano sia dai sogni vuoti del cittadinismo dei bravi ragazzi che dalle povere esaltazioni insurrezionaliste di un dissenso quasi del tutto privo di capacità realmente critiche per poter ammettere che nessuna contestazione parziale può bastare a frenare la "corsa verso l'abisso". E quindi, se "è ormai tardi", non può esserlo troppo per "individuare e rifiutare la logica del capitale nelle sue diverse manifestazioni [...], liberandoci dalle farneticazioni a proposito dell'eterno ritorno dello stesso".

– À contretemps -

Noi non ci siamo mai riconosciuti nel mondo esistente. E allora da dove viene oggi questa sensazione vertiginosa di terreno che ci manca sotto i piedi? Forse abbiamo peccato di eccessiva leggerezza - in questi tempi situati fra ieri ed una volta - nel pensare che in avvenire, nel nostro presente non avremmo dovuto sopportare un'epoca peggiore di quella che avevamo trascorso nella nostra giovinezza. Oggi ci rendiamo conto che, contrariamente a quel che credevamo allora, le tenebre non sono una prerogativa del passato, sono con noi e davanti a noi, tanto più durature in quanto si insinuano piano piano dappertutto, come una malattia dopo un lungo periodo di incubazione.
Alla fine, non sarebbe né molto utile né molto originale fare qui il punto della situazione. Il più delle volte gli uomini hanno preferito cedere alla forza delle cose piuttosto che tentare di opporvisi, dal momento che è più facile, che "non serve a niente sbattere la testa contro il muro"; insomma per pigrizia, e paradossalmente, è proprio a causa di questa pigrizia che si sono ridotti a lavorare, a "vendersi". In ogni epoca il dominio ha saputo contare su questo genere di rinuncia, è questo il segreto essenziale della sua longevità. Quando ne hanno avuto la possibilità, in genere gli uomini si sono adattati ad ogni cambiamento apportato alla loro sopravvivenza. "Ai tempi della schiavitù, i sindacati avrebbero negoziato la lunghezza della catena", abbiamo avuto il piacere di leggere su uno striscione sorretto da dei manifestanti, qualche anno fa. Questo tipo di umorismo sembra ormai essere lontano, ed è lontano anche il fatto che un giorno c'era qualcosa da negoziare. Oggi, ci si adatta, o meno, ma assai più spesso si tace, si accetta, almeno nei fatti, nella quotidianeità della sopravvivenza. Gli esperti hanno "fatto pedagogia".
Frequentemente, la rinuncia trova origine nella constatazione incontestabile della sproporzione fra i mezzi di cui dispone il dominio e quelli di cui dispone la critica; nei danni già provocati nelle coscienze umane e nella natura; nell'avvento prossimo venturo di un'umanità "geneticamente modificata" che aveva fatto sognare i totalitarismi storici del ventesimo secolo e che questa democrazia, portata alla follia dalla razionalizzazione inerente alla logica del mercato, non tarderà a stabilire in quanto norma, come ha già fatto per gli animali.

Tuttavia, in ogni epoca gli uomini si sono ribellati. Nonostante alcuni successi parziali e limitati, hanno fallito. Il mondo del dominio è ancora al suo posto, e ormai è l'idea stessa di umanità, così come il pianeta dov'essa è nata, ad essere in pericolo. Tuttavia, i più coscienti fra questi uomini hanno prodotto una critica della società della loro epoca, ed è questa critica che bisogna continuare a portare avanti. Essa attraversa tutte le manifestazioni più disastrose della demente impresa di distruzione che ha dimostrato di essere il capitale, ma bisogna che vengano tutte riportate alla critica della totalità, aspetto troppo spesso occultato durante le diverse lotte, a volte volontariamente, nel desiderio consensuale di voler piacere a tutti, col rischio di perdere l'essenziale. La lotta diventa critica in azione solo quando coloro che la conducono hanno piena coscienza del rimettere tutto in discussione che essa implica. Diventa allora un via di accesso alla critica della totalità, un modo di afferrarla concretamente.
Ma è già tardi, ed il dominio non perde il suo tempo.
Noi fondiamo le nostre speranze su questa parte irriducibile sempre presente nel fondo degli esseri umani. Non è frutto della nostra immaginazione, si dispiega in certi momenti della storia, ma non ha mai saputo, non ha mai potuto trovare la sua strada. È ben lontana dall'avere illuminato tutte le coscienze. Questi momenti troppo rari di aspirazione alla libertà, ad una vita profondamente diversa, sono stati dei lampi nel cielo della rinuncia, ma hanno permesso di intravvedere dei continenti nascosti, dove sarebbe stato bello dirigersi, nell'abbondanza di una natura lussureggiante, nello scintillio dei colori, nella dolcezza di una sera. Ma sempre le sciabole del potere hanno colpito, i suoi fucili hanno sparato, oppure, più semplicemente, è la paura dell'ignoto, agitato come uno spauracchio che ha svolto il suo ruolo. La paura, che è l'altra faccia del dispositivo di seduzione messo in atto dal dominio, e che la pressione insistente e quotidiana tende ad istituire come modo di essere. La paura, madre di ogni ritorno all'ordine, ai nostri giorni così come nello scorso secolo, madre di tutte le aspirazioni ad un ordine forte. La paura, che conforta la falsa coscienza ed inquadra le masse nell'attesa religiosa del ritorno del Lavoro. Ma il Lavoro non tornerà mai, ed il capitale lascerà lungo il bordo della sua strada tutti coloro che, sempre più numerosi, non possono o non vogliono soddisfare alle esigenze di razionalizzazione e di controllo necessari a mantenere il suo regno.
La parte che oggi pressoché tutti giocano è l'attesa, l'attesa del momento in cui si troveranno espulsi dalla forza centrifuga del capitale; alla fine della corsa, a 65, a 67 anni, e dopo, se si ha beneficiato della fortunata possibilità di essere spremuti fino a quell'età; più spesso, prima, molto prima, in condizioni sempre più precarie. Dunque, l'alternativa è questa: consumarsi fino ad età avanzata nel giocare la commedia mortifera del Lavoro oppure unirsi, costretti a farlo, alla massa di quelli che non sono più utili al capitale. Il dispositivo di seduzione messo in atto da quest'ultimo mira a che questa nera alternativa si dissolva nel consumo o nella speranza di poter di nuovo consumare un giorno. Ma rappresenta anche, e forse soprattutto, la quota sempre più grande della produzione necessaria alla sua sopravvivenza. Più il capitale genera vuoto e miseria, più propone delle merci (smartphone ed altri gadget tecnologici, "viaggi", supervisione del tempo libero, ecc.) il cui acquisto dovrebbe dare a delle esistenze fantasmatiche la sensazione di essere ancora legate al turbo-mondo. Il vuoto, la miseria, la paura, il "senso di insicurezza" (video sorveglianza, tecnologie intrusive diverse, droni, ecc.) sono dei giacimenti da sfruttare; le vite, sono dei territori da colonizzare finché è possibile e da lasciare nell'abbandono quando non lo è più.
La strada del capitale non è la nostra, non più di quanto lo sia il Lavoro. È tanto tempo che l'accettiamo, questa strada, talmente tanto che non riusciamo a tracciarne un'altra. Questa preliminare e necessaria presa di coscienza implica un'azione politica che non sia più sovradeterminata dall'ideologia dominante o da dei fatti che vengono dati come compiuti. L'azione politica dev'essere, nella scelta delle sue modalità, disalienante. Non ci si deve focalizzare solamente sugli ultimi pedoni mossi dall'avversario. Come avviene sempre in simili casi, quest'ultimo cerca di attirarci su un terreno dove ha già disposto le sue forze, secondo una logica che è la sua. Il fatto che noi catturiamo un pedone o due, non cambierà in niente le cose. Coloro che ci incitano ad impegnare le nostre forze su questo terreno - di cui sono specialisti (della cattura di qualche pedone) e che per loro è un hobby come un altro destinato ad arredare la miseria delle loro vite - sono anch'essi nostri avversari. Lo hanno dimostrato a più riprese in numerose occasioni. Lo ribadiranno, non sanno e soprattutto non vogliono fare altrimenti. Sono troppo occupati ed avrebbero troppo da perdere.

Dobbiamo innanzitutto individuare e rifiutare la logica del capitale nelle sue diverse manifestazioni. Ciò non avverrà senza mettere in discussione la vita che vogliamo, la vita profondamente scolpita nel profondo della maggior parte di noi, alla quale a dire il vero non abbiamo mai rinunciato anche se abbiamo dovuto coniugarla con le necessità della sopravvivenza. È nella sensazione del dolore provocato dalla frattura fra la vita sognata e la vita subita, e liberandoci dalle farneticazioni a proposito dell'eterno ritorno dello stesso (il principio di realtà ha buone spalle), che protremo cominciare ad immaginare un'altra vita. Sarà la nostra. È stato istituito come necessario e desiderabile un modo di vita legato all'accelerazione frenetica delle cose ("un mondo che cambia", "un popolo in marcia", ma verso che cosa?). Si pretende di rendere obsoleto tutto quello che non può essere identificato come combustibile destinato ad alimentare la mega-macchina economica. Ma noi, non siamo d'accordo. Oggi, l'unica "urgenza", se si vuole fermare la corsa verso l'abisso, è quella di una pausa. Delle pause. Pause individuali, pause collettive. Dovremo gestirle. Sta a noi definirne le modalità, probabilmente più o meno compatibili, all'inizio, con le necessità di sopravvivenza in un ambiente ostile, e definirne il contenuto, in rottura con il mondo esistente.
È a questa condizione che potremo evitare di essere divorati dalla "rivoluzione barbarica" che oggi è quella del capitale.

- da: Négatif, bulletin irrégulier, avril 2016, n° 21, pp. 1-3 -
- Contact : Négatif c/o Échanges, BP 241, 75866 Cedex 18 -

fonte: A Contretemps

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