lunedì 1 febbraio 2016

4 tesi

4tesi

La mancanza di autonomia dello Stato e i limiti della politica:
4 tesi sulla crisi della regolazione politica
- di Robert Kurz
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1. Mercato e Stato, economia e politica come poli di un medesimo campo storico
Nella storia del mondo moderno si è sempre assistito allo scontro più o meno ostile fra due o più principi: mercato e Stato, economia e politica, comunismo e socialismo. La lotta fra l'homo oeconomicus e l'homo politicus si rinnova costantemente; ad ogni scoppio di modernizzazione, gli "individualisti" ed i "collettivisti", i liberi imprenditori ed i pianificatori dell'economia, i gestori di impresa ed i burocrati statali, i sostenitori del liberismo economico e gli interventisti, gli apostoli del libero scambio ed i protezionisti, si affrontano in battaglia. Negli ultimi decenni, questa costellazione si è presentata, relativamente alla politica economica, anche come opposizione fra monetaristi e keynesiani.
Retrospettivamente, possiamo constatare che entrambe le parti hanno riportato sia successi che fallimenti. Ma come andare avanti, ora? Oggi non ci troviamo solamente alla fine di un secolo e di un millennio, ma forse anche alla fine delle costellazioni e delle opposizioni alle quali siamo stati finora abituati, alla fine della modernità e, possibilmente, perfino alla fine della politica economica. Quanto meno sembra predominare dappertutto la sensazione di non avere a che fare soltanto con le straordinarie effemeridi del calendario, ossia, con la fine di un millennio e con i timori irrazionali legati a questo momento, ma che ci troviamo realmente di fronte ad una profonda "rottura epocale" e ad una crisi secolare della società mondiale.
Succede che, in un primo momento, il collasso del modello sovietico, basato su un'economia statalizzata, ha spinto i teorici e gli analisti a pensare che il vecchio conflitto strutturale venisse ora deciso per sempre. Il paradigma individualista, imprenditoriale ed orientato al mercato, avrebbe ottenuto la vittoria assoluta. Ma la realtà globale parla in termini diversi. Per ora, la trasformazione delle vecchie economie di Stato in economie di mercato, in termini generali ha fallito. Tuttavia, la grande crisi strutturale ha raggiunto anche le metropoli occidentali. E la scomparsa dell'eterna alternativa, rappresentata dall'altro polo ideologico della modernizzazione, non ha portato alla pacificazione sotto il segno di un'individuazione nella forma della merce e nel mercato totale. Il modo di vivere capitalista è troppo unilaterale, il mercato è troppo disintegratore, e l'ideologia occidentale è troppo debole, perché questo sistema possa sopravvivere senza che esista un polo opposto. Perciò, il paradigma occidentale, il paradigma dell'economia di mercato, non è riuscito a colmare il vuoto lasciato dall'economia di Stato e dall'ideologia dello Stato. Inversamente, il fondamentalismo pseudo-religioso ed il fondamentalismo etico hanno invaso lo spazio dell'alternativa perduta, in maniera ben più pericolosa ed imprevedibile rispetto a qualsiasi precedente socialismo di Stato. Il fondamentalismo è il meritato castigo dovuto alla superbia dell'economia di mercato, ed al fallimento del socialismo o del polo della modernizzazione attraverso lo Stato, dell'economia pianificata e del collettivismo.
In termini generali, verifichiamo che retrospettivamente il socialismo e l'economia statalizzata non sono state semplicemente forze contrarie, meramente esterne all'economia di mercato dell'Occidente. Come i due poli di un campo magnetico, o di una batteria elettrica, che non si escludono solamente, ma si condizionano inoltre reciprocamente e sono, di conseguenza, complementari, lo stesso avviene anche con le posizioni modernizzatrici che si trovano agli antipodi. Il mercato e lo Stato, il denaro ed il potere, l'economia e la politica, il capitalismo ed il socialismo non sono, in realtà, alternativi, ma costituiscono i due poli di uno stesso "campo" storico della modernità. Lo stesso vale per il capitale ed il lavoro. Non importa quanto nemici siano i due poli, essi non potrebbero, per loro natura, esistere solamente di per sé, senza il "campo" storico che li costituisce nella loro opposizione. Questo "campo", considerato nella sua totalità, è il moderno sistema produttore di merci, la forma totalizzata della merce, l'incessante trasformazione di lavoro astratto in denaro che avviene nella forma di un processo, la "valorizzazione" o l'economizzazione astratta del mondo.
Si comprende facilmente che, in questo sistema, debbano sempre esistere i due poli: del capitale e del lavoro, del mercato e dello Stato, del capitalismo e del socialismo, ecc., non importa quale sia la veste storica e quale peso diverso abbiano tali poli in ciascun caso. L'economia statale di tipo sovietico ed il liberalismo economico totale (per esempio, nella dottrina di un Friedrich August von Hayek o di un Milton Friedman) costituiscono solo gli estremi di tutto uno spettro di ideologie, di politiche economiche e di forme di riproduzione politico-economiche, che riguardano tutte, ugualmente, il medesimo sistema di riferimento, vale a dire la forma merce totale della società. Questo significa che anche la pianificazione state più estrema può pianificare solamente nelle forme del mercato, ossia, nelle categorie della merce e del denaro, come è notoriamente avvenuto nel caso dell'economia sovietica. Tuttavia, inversamente, anche il radicalismo più estremo a favore del mercato non riesce a prosperare senza il polo statale politico. Anzi, in ogni economia di mercato opera la "legge della quota crescente dello Stato", come è stata formulata per la prima volta nel 1863 dall'economista Adolph Wagner. Da allora, tale teoria è stata confermata, nella sua essenza, dallo sviluppo strutturale reale. Gli ideologhi neoliberali vedono in questo il "peccato originale socialista" nel capitalismo. Questo è un controsenso, nella misura in cui non si tratta di un "peccato originale", bensì di uno sviluppo strutturale condizionato in maniera sistemica. Ma quel che è certo è che c'è sempre stato il socialismo nell'economia di mercato e l'economia di mercato nel socialismo, se intendiamo per socialismo il momento più o meno pronunciato di economia statale (in tal senso, anche il concetto di "socialismo di Stato" è del tutto pertinente per l'economia sovietica, che, nonostante la sua legittimazione ideologica marxista, può essere fondata teoricamente assai più come opera di Lassalle, Rodbertus e Wagner, che come opera di Marx).
A partire dagli anni 1950, le "teorie della convergenza" hanno riflettuto perfettamente su questo problema e ne hanno dedotto un adattamento graduale reciproco da parte dei due blocchi sistemici. E, da quando l'euforia neoliberista si è un po' placata a partire dal 1989, ora si diffondono nuovamente le voci che mettono in guardia rispetto ai rischi di una radicalizzazione unilaterale del mercato. Si afferma che, al contrario, è molto più importante trovare il "giusto mix" di mercato e di Stato. In questo modo, assistiamo ad uno strano spettacolo: nella misura in cui socialisti e keynesiani si trasformano in neoliberisti e monetaristi più o meno dichiarati, neoliberisti e monetaristi, a loro volta, si trasformano gradualmente in keynesiani più o meno presunti. Perfino negli Stati Uniti, ultimamente, + nata una corrente rappresentata dagli economisti Paul Romer (Berkeley) e Richard Freeman (Harvard), che vede nelle eccessive differenze di reddito, causate dal neoliberismo radicale, un pericolo per la crescita, ed esige in qualche misura un intervento compensatore da parte dello Stato. Allo stesso modo, i governi neoliberisti del Cile e del Messico, allarmati, fra l'altro, per la ribellione in Chapas e per la pericolosa disgregazione della società, si vedono costretti ad una correzione di rotta per mezzo di un intervento statale nell'area sociale. Lo stesso vale per i riformisti del mercato nell'Est europeo e nell'ex Unione Sovietica. Anche la Banca Mondiale ha cominciato, sotto l'effetto della crisi, a correggere, almeno cosmeticamente, i suoi programmi radicalmente asserviti all'economia di mercato, per mezzo di "programmi di salvataggio" nell'area sociale ed in quella ecologica, che non sono possibili senza interventi dello Stato.
Forse che, dopo il socialismo unilaterale o il keynesismo e dopo il neoliberismo altrettanto unilaterale, discepolo dell'economia radicale di mercato, siamo finalmente arrivati alla convergenza globale, alla "via di mezzo" fra la teoria e la prassi? Ci chiediamo tuttavia se un simile paradigma, abbastanza debole, sarà sufficiente a poter sconfiggere la grande crisi strutturale del secolo. E' dubbio si possa trovare un "giusto mix" fra mercato e Stato al fine di uno sviluppo ragionevolmente equilibrato del sistema. E' altrettanto possibile che, in realtà, il "campo" storico comune ai due poli, del mercato e dello Stato o dell'economia e della politica, ossia, la forma congiunta di riferimento del moderno sistema produttore di merci abbia raggiunto il suo limite assoluto. Ma, in tal caso, sorgerebbero questioni molto diverse e molto più fondamentali, le quale non possono più essere affrontate con nessuno degli strumenti esistenti finora, ed ancor meno con la miscela eclettica di terapie che finora si sono escluse reciprocamente.

2. Le funzioni economiche dello Stato moderno
Perché l'attività dello Stato si è estesa secolarmente anche nelle economie aperte di mercato dell'Occidente, nonostante le ideologie ufficiali vi si opponessero? Possiamo constatare, fondamentalmente, cinque livelli o settori di attività dello Stato moderno, tutti risultanti dal processo stesso dell'economia di mercato. Detto in altre parole: quanto più l'economia di mercato si è ampliata strutturalmente, fino a comprendere tutta la riproduzione sociale e diventando il modo di vita universale, tanto più l'attività dello Stato aveva bisogno di essere ampliata. Ci troviamo, pertanto, davanti ad una relazione ineludibilmente reciproca.

Il primo livello è quello giuridico, cioè, il processo di "giuridificazione" (Verrechtlichung). Quanto più l'economia di mercato e, con essa, la relazione monetaria astratta si espandono, tanto minore diventa la forza vincolante delle relazioni tradizionali premoderne, e tanto più tutte le azioni e relazioni sociali necessitano di essere poste nella forma astratta del Diritto e, in tal senso, di essere codificate giuridicamente. Tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, ivi inclusi i produttori immediati, devono agire sempre più come soggetti moderni del Diritto, giacché tutte le relazioni si sono trasformate in relazioni contrattuali sotto forma di merce. Pertanto, lo Stato si trasforma in una macchina legislativa permanente, e quanto maggiore è il numero di relazioni di merce e di denaro, tanto maggiore è il numero di leggi o di decreti. In conseguenza di questo, anche l'apparato dello Stato aumenta progressivamente, in quanto la "giuridificazione" ha bisogno di essere controllata e fatta rispettare. Ma qui non si tratta di un processo "extra-economico", dal momento che l'apparato amministrativo, che cresce senza posa, ha bisogno di essere finanziato. Pertanto, la crescente "giuridificazione" comporta semplicemente una domanda finanziaria, la quale a sua volte cresce in maniera permanente. Anche la regolamentazione meramente giuridica non è neutra per quanto riguarda i costi.

Il secondo livello di attività crescente dello Stato sono i problemi sociali ed ecologici, derivanti dall'economia di mercato. La modernizzazione non dissolve solamente i vincoli tradizionali, ma anche i contratti sociali ed i contratti fra generazioni, che questi vincoli comportano. Lo spazio dei sistemi sociali locali, personali, familiari e naturali di educazione dei figli, di cura dei malati e delle persone che necessitano di particolari attenzioni, così come la garanzia di sostegno alle persone in età avanzata, ha bisogno di essere occupato sempre più da sistemi sociali nazionali, impersonali, pubblichi, che hanno forma di merce e di denaro. Non il mercato, ma solo lo Stato poteva assumere un simile compito, poiché l'economia di mercato, in quanto tale, non ha alcuna sensibilità e nessun organismo al di fuori del processo incessante di trasformazione del lavoro in denaro, e per sua propria natura non può coincidere con questo processo. In quanto dipendente dal livello di sviluppo, dalla storia e dalla capacità di sopravvivenza sul mercato mondiale, quest'attività dello Stato è ovviamente molto diversa da un paese a l'altro ed è regolamentata in forma più o meno accentuata, ma la sua espansione secolare come conseguenza dell'espansione delle relazioni di mercato è incontestabile.

La stessa cosa vale anche per i problemi sociali, quali essi risultano dalle trasformazioni e dai cicli dell'economia di mercato, in quanto la modernizzazione non è la transizione da una situazione fissa ad un'altra posizione fissa, ma transizione da una forma statica ad una forma dinamica di società. Pertanto, la modernizzazione è un processo di trasformazione permanente, che torna sempre a scuotere l'intera struttura di riproduzione. Sia il ciclo congiunturale che la "distruzione creativa" di interi settori - come Joseph Schumpeter ha eufemisticamente definito le periodiche rotture strutturali - generano sempre e di nuovo il problema della disoccupazione di massa. Non sono solo le fasi dell'infanzia, della malattia e della vecchiaia che, in un mondo completamente monetarizzato e "giuridificato", devono essere riprodotte integralmente o parzialmente dall'attività dello Stato; vale la stessa cosa anche per il gap fra i processi del mercato e la concorrenza, da un lato, e la capacità umana di adattamento, dall'altro. Il cambiamento della qualifica e del domicilio o la nascita di nuove industrie al posto di quelle vecchie, ecc., sono fattori che si sviluppano più lentamente di quanto avvenga per la "liberazione" di mano d'opera attraverso la razionalizzazione, la recessione e la disattivazione di una fabbrica. Perciò, anche il problema sociale della disoccupazione, in ultima analisi, può essere più o meno regolato solo attraverso degli interventi statali. Così come avviene con il processo di "giuridificazione", i successivi processi sociali di modernizzazione comportano attività statali addizionali e, quindi, una domanda finanziaria crescente da parte dello Stato.

Negli ultimi decenni, come conseguenza della modernizzazione, si sono sommati problemi sociali e problemi ecologici. Anche in questo caso, gli organismi e le misure del mercato sono del tutto insufficienti. Il denaro è per sua propria natura astratto ed indifferente al contenuto sensibile (sinnlichen lnhalt); e la razionalità imprenditoriale della minimizzazione dei costi non "esternalizza" soltanto i costi sociali, ma anche i costi ecologici. Lo fa, soprattutto, in quanto la natura non può, per la sua essenza, essere un soggetto di Diritto; ragion per cui si abusa di essa come luogo per scaricare i rifiuti dei costi sistemici. Anche il posizionamento (Positionierung) nella forma mercato dei substrati naturali generali causa difficoltà. L'aria, l'acqua (falda freatica, fiumi, oceani) ed il clima non possono essere sottomessi alle relazioni economiche di scarsità né essere rappresentati per mezzo dei prezzi di mercato, per essere accessibili solo dalla domanda con potere di acquisto. In ultima analisi, i substrati naturali del mondo sono beni per tutti, o insostenibili per tutti. Inoltre, i processi di distruzione dell'ambiente sono processi a lungo termine e si estendono attraverso diverse generazioni, mentre l'orizzonte temporale del mercato è sempre solo a breve termine. E, infine, l'esternalizzazione gestionale dei costi ecologici può essere internalizzata solamente come difficoltà, attraverso imposte o altri oneri, giacché la concorrenza a livello globale fa sembrare sempre più assurdo la tassazione ristretta alle frontiere dello Stato nazionale. Quindi, è anche lo Stato che deve sopportare i costi ecologici susseguenti, creando a tale scopo delle istituzioni speciali, per cui la sua sfera di competenza, così come la sua domanda finanziaria, si espandono ulteriormente.

Il terzo livello di attività statale in crescita riguarda gli aggregati infrastrutturali: la costruzione di autostrade e di parte del sistema di trasporto, l'approvvigionamento energetico e la comunicazione, la formazione professionale e l'educazione (scuole, università), le istituzioni scientifiche, la canalizzazione delle acque di scarico ed il trattamento dei rifiuti, il sistema di salute pubblica, ecc. Tutte queste aree infrastrutturali si sviluppano con la crescente industrializzazione e scientificizzazione della produzione in quanto necessità pratiche di una produzione totale di merci. Ma gli aggregati non sono una produzione di merci nella forma del mercato bensì, al contrario, presupposti infrastrutturali di una produzione industriale scientificizzata di merci. Si tratta di input generali, relativi alla società come un tutto, che entrano nella produzione a livello di impresa, senza che essi stessi possano essere rappresentati in misura sufficiente dalla razionalità dell'amministrazione imprenditoriale (qui le cose avvengono in una forma simile a quella dei substrati naturali generali). Per cui, non è a caso che gli aggregati infrastrutturali vengano dappertutto gestiti (o sovvenzionati), per la maggior parte, dallo Stato e che, con ciò, si apra un campo gigantesco di riproduzione sociale, che fa gonfiare l'attività statale e le finanze pubbliche.

Il quarto livello dell'attività statale o dell'economia statale attiene all'emergere dello Stato direttamente come imprenditore produttore di merci, cioè, come operatore della produzione per il mercato. Lo Stato come imprenditore, o perfino, nella forma estrema del socialismo di Stato, come "imprenditore universale reale" è, in fondo, un paradosso, giacché, in questa forma, il polo statale-politico cerca di usurpare tutto il "campo" del sistema produttore di merci e nega il suo polo sistemico contrario senza, dall'altro lato, superare (aufheben) il sistema in quanto tale. In ultima analisi, questo paradosso distrugge il sistema, ma non può essere criticato dal "punto di vista ideale" del sistema, poiché ha avuto origine e continua ad avere origine dalle stesse contraddizioni reali del sistema. Lo Stato come imprenditore appare soprattutto nelle società di "modernizzazione tardiva", vale a dire, nei paesi che sono entrati in ritardo nel moderno sistema produttore di merci. Questo non è un caso, in quanto in molti paesi soltanto la macchina statale poteva mettere in atto, attraverso l'accumulazione centralizzata del "lavoro astratto" (Marx), il tentativo di stabilire una connessione con i paesi sviluppati. Ma anche nelle più antiche nazioni della modernità si trovano, a seconda della loro specifica storia, tracce più o meno marcate di Stato, in quanto imprenditore industriale, soprattutto in Francia (ad esempio, Renault) ed in Italia, con i suoi ancora enormi complessi industriali statali.

Nonostante la predominante ed universale ideologia della privatizzazione, le attività imprenditoriali dello Stato diminuiscono ben poco dal 1989. Contrariamente ad ogni progetto di privatizzazione, rimangono nelle mani dello Stato nuclei industriali di fondamentale importanza, anche nei paesi riformisti dell'Europa centrale dell'Est (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca). Questo vale ancora di più per quel che rimane dell'Est europeo, per le regioni dell'ex Unione Sovietica, per la Repubblica Popolare Cinese e per l'India. Anche in America Latina, la privatizzazione delle imprese statali va avanti solo in parte, se esaminiamo la situazione più nel dettaglio. E perfino in Europa occidentale, ci sono problemi e resistenza che suggeriscono quanto sia improbabile la completa privatizzazione delle imprese statali. Nella misura in cui le imprese statali danno profitti, alleviano naturalmente le finanze pubbliche, però, anche così, una parte di tali lucri viene di nuovo divorata dall'amministrazione e dal controllo delle imprese statati (assai spesso gonfiate). Ma, nella maggioranza dei casi, si tratta comunque di imprese non redditizie, che accumulano perdite e che hanno bisogno di essere mantenute per ragioni politiche. Qui vale, come regola, il principio: "socializzazione (statalizzazione) delle perdete, privatizzazione dei profitti". Così, sempre di regola, vengono privatizzate solamente le poche imprese statali che danno profitti, mentre lo Stato assume gli statali non redditizi, i quali si trasformano finanziariamente in un "sacco senza fondo".

Il quinto ed ultimo livello dell'economia statale consiste nella politica dei sussidi e nel protezionismo. Anche quando lo Stato non compare direttamente come imprenditore, può influenzare indirettamente il processo di mercato della produzione di merci per mezzo della regolamentazione meramente giuridica, garantendo formalmente la sopravvivenza delle imprese private attraverso dei sussidi e/o proteggendo le imprese, nel suo territorio, dalla concorrenza straniera attraverso delle misure protezionistiche. In questo senso, anche il socialismo di Stato con la sua politica di sussidi ed il suo monopolio del commercio estero è stato solo il caso speciale ed estremo di una tendenza generale, che ha assunto grandi proporzioni anche nei paesi occidentali-capitalisti del sistema produttore di merci.

Dal blocco continentale di Napoleone Bonaparte fino al famigerato blocco economico (Strafliste, letteralmente "lista di punizione") degli Stati Uniti, troviamo, in tutto l'Occidente, ogni forma immaginabile di questa attività imprenditoriale indiretta dello Stato e di questa "falsificazione del mercato". Tutti i "vecchi" paesi industrializzati dell'Occidente oggi sovvenzionano massicciamente le industrie del carbone e dell'acciaio e l'industria navale. E la gigantesca burocrazia agraria della Comunità Europea, che continua a venire sviluppata fino a rasentare l'assurdo, va, com'è noto, ancora più lontano di quanto facesse lo scomparso socialismo di Stato. Anche se oggi la globalizzazione dei mercati rende praticamente impossibile ogni e qualsiasi autarchia nazionale e perfino ogni e qualsiasi "autarchia dei blocchi" (come, per esempio, a livello della triade Stati Uniti, Unione Europea e Giappone), sappiamo che la "guerra economica mondiale" (Luttwak) sta continuando con maggior vigore dentro il GATT o dentro l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Quanto più i paesi diventano "ostaggi" dell'economia multinazionale, quanto più essi si vedono messi contro il muro dalla "questione della localizzazione", tanto più forte ( e non tanto più debole) diventa la loro propensione ad affermarsi in mezzo a questa contraddizione sistemica di un'economia globalizzata, da un lato, e di una riproduzione dentro il quadro dello Stato nazionale, dall'altro lato, ricorrendo ad ogni trucco che possa camuffare il sovvenzionismo ed il protezionismo. E' evidente che tale guerra globale intorno alla localizzazione è, per lo Stato, un'enorme divoratrice di costi.

Quindi, possiamo affermare, facendo un bilancio generale, che il verificarsi della legge di Adolph Wagner ha da più di cent'anni delle buone ragioni - ragioni che non possono essere ancora eliminate dall'attuale neoliberismo. Si tratta qui della contraddizione interna dello stesso moderno sistema produttore di merci, il quale si riproduce a livelli sempre più elevati: quanto più totale diventa il mercato, tanto più totale sarà lo Stato; quanto maggiore sarà l'economia delle merci e del denaro, tanto maggiori saranno i costi precedenti, i costi secondari ed i costi susseguenti del sistema, e tanto maggiori saranno anche le attività e la domanda finanziaria dello Stato. In tutti i paesi, la quota dello Stato oggi equivale, in media, a circa il 50% del prodotto sociale lordo, e, in tutto il mondo, più di metà della popolazione dipende direttamente o indirettamente dall'economia statale.

3. La strutturale mancanza di autonomia del sottosistema statale-politico e l'illusione del primato della politica
La struttura polare dualistica del sistema sociale moderno, induce sempre a supporre un'uguaglianza gerarchica fra i due poli: quello del mercato e quello dello Stato, o dell'economia e della politica. Ma, mentre i due poli del "campo" non possono esistere soltanto per sé e presuppongono sempre il polo opposto, essi non sono gerarchicamente uguali. Al contrario, c'è un sovrappeso strutturale del polo economico, che, da un lato può sembrare temporaneamente superato (aufgehoben) a beneficio del polo statale-politico, ma che, dall'altro lato, si ristabilisce sempre nuovamente. Quest'accezione di una dominanza strutturale fondamentale del mercato o dell'economia nei confronti dello Stato o della politica, viene frequentemente denunciata come "economicismo" Tuttavia, qui non si tratta di un errore teorico, ma di un predominino socialmente reale del mercato sul polo statale-politico.

La realtà di questo predominio del mercato può essere dimostrata sulla base di un fatto fondamentale: lo Stato non possiede nessun mezzo primario di regolamentazione, ma dipende dal mezzo del mercato, cioè, dal denaro. Tuttavia il mezzo "potere" attribuito allo Stato e, teoricamente, la maggior parte delle volte, identificato col denaro, non possiede nessun grado gerarchico primario, soltanto un grado secondario, in quanto tutte le misure dello Stato necessitano di essere finanziate, e non solo le attività giuridiche, le infrastrutture ecc., ma anche il potere nel senso più immediato del termine, ossia le forze armate. In questo senso, nemmeno i militari sono un effettivo "fattore extra-economico", poiché anche essi sono sottomessi al mezzo del mercato, attraverso il problema del loro finanziamento.

Il denaro è quindi il mezzo universale e totale (e, simultaneamente, il fine in sé della modernità, tanto astratto quanto assurdo), che comprende anche il polo statale-politico. Avviene che lo Stato non possegga alcuna facoltà di creare denaro, ma dipende strutturalmente dal fatto che la società civile guadagni una quantità sufficiente di denaro "sul mercato", in modo che si possano finanziare anche le attività crescenti dello Stato. Solamente nel cieco processo di mercato, che, del resto, si lascia sempre meno restringere all'area di sovranità in questione o alla "economia nazionale" del rispettivo paese (globalizzato), "nasce" il denaro attraverso il lavoro astratto e la sua realizzazione. Ma questo produce non solo il fondamentale predominio strutturale del mercato, ma anche una contraddizione sistemica intera altrettanto fondamentale, in quanto lo Stato entra in contraddizione con sé stesso, nella misura in cui i suoi ordinamenti ed attività, da un lato, non hanno altra finalità se non quella di favorire il sistema di mercato della produzione di merci sul suo territorio e mantenerla funzionante. Dall'altro lato, lo Stato deve "ritirare" (abschopfen) il denaro necessario al finanziamento proprio di queste attività del processo di mercato, limitando così l'economia di mercato ed agendo, di conseguenza, contro la sua stessa finalità, proprio per realizzarla.

Il paradosso di questa struttura si è manifestato storicamente con chiarezza sempre maggiore, nella misura in cui il sistema produttore di merci si è occupato di tutta la riproduzione sociale. L'unico finanziamento "regolare" di Stato è la tassazione dei redditi generati dal processo diretto del mercato (indipendentemente dal fatto che lo faccia nella forma delle imposte dirette o indirette). Ma, se i costi anticipati, gli effetti secondari ed i problemi susseguenti della produzione di merci - e, insieme a questo, le attività necessarie dello Stato - crescono più di quanto facciano i redditi generati dal processo del mercato, allora l'espansione delle finanze pubbliche provenienti dalla strada regolare della tassazione non solo minaccia di restringersi, ma rischia di soffocare il proseguimento del processo del mercato, in quanto se lo Stato può fornire il "foraggio" per la mucca da latte monetario del mercato solamente attraverso l'abbattimento della mucca, allora ecco che diventano visibili i limiti del sistema.

Nel corso della prima guerra mondiale, questo problema fece la sua comparsa per la prima volta su grande scala, quando divenne chiaro che la guerra tecnologica moderna non poteva più essere finanziata facendo ricorso endemico alla tassazione regolare. Da allora, si discute, ad intervalli periodici, "la crisi finanziaria dello Stato tassatore". Rudolf Goldscheid e Joseph Schumpeter formularono questo fondamentale problema della crisi strutturale nel 1917-18 a partire dalla loro discussione sull'economia di guerra durante la prima guerra mondiale. Da lì in poi, le discussioni intorno a tale problema non smisero più per tutto il 20° secolo. Non è a caso che il problema finanziario del "capitalismo di Stato" o della "economia di guerra permanente" si sia trasformato negli Stati Uniti sempre e di nuovo nel grande tema e nell'assunto politico per eccellenza; e non è a caso che questo avvenga sempre in una formulazione quasi identica del problema a quella di Goldsheid e Schumpeter (così anche in James O'Connor, nel 1973).

Se il ricorso alla tassazione regolare non funziona, lo Stato deve passare ad un secondo tipo di soluzione, del cui carattere fondamentalmente avventurista via via ci siamo dimenticati: l'indebitamento nei confronti dei partecipanti al mercato della sua economia nazionale. Lo Stato, pertanto, non si finanzia più solamente per mezzo delle imposte, che incamera grazie alla sua pretesa di sovranità e grazie al suo monopolio della forza, ma prende in prestito denaro dai suoi cittadini, come se fosse un comune partecipante al mercato finanziario. Oggi, questo processo non viene più considerato in linea di principio come un atteggiamento avventurista; si discute soltanto fino a quale percentuale del prodotto nazionale lordo si può indebitare senza poter essere considerato insolvibile.

C'è, tuttavia, un motivo per cui l'indebitamento dello Stato appare, in linea di principio, come qualcosa di precario e generatore di crisi, in quanto il sistema creditizio non ha, nella sua essenza, dimensioni tali da permettere il finanziamento delle attività dello Stato. Al contrario, il risparmio della società è concentrato nel sistema bancario come capitale monetario, per poter essere prestato, con interessi, al capitale produttivo. In una società capitalista, si mobilita anche quel denaro ai fini del processo di valorizzazione e di accumulazione, denaro che non può essere utilizzato dal suo proprietario a tale scopo. Ma, se il denaro prestato viene utilizzato per il consumo invece che per l'utilizzo produttivo e se l'utilizzo produttivo non va a buon fine, allora quel denaro non otterrà il suo scopo, ed il credito prima o poi "andrà a male". Quando questo avviene su larga scale, ci troviamo davanti ad una crisi commerciale creditizia e, alla fine, di fronte ad una crisi del sistema bancario.

Avviene che il credito dello Stato viene consumato, per la sua maggior parte, non al fine di un utilizzo produttivo, ma proprio per le molteplici attività di consumo dello Stato, che non sono un lusso, ma una necessità sistemica (senza che siano produttive nel senso della valorizzazione). Così, il credito di Stato si risolve economicamente nello stesso disastro, che porta, nell'area commerciale, ai crediti "cattivi", in quanto il capitale monetario è stato utilizzato effettivamente per il consumo e non al fine della produttività del capitale. Ma quest'evoluzione ha anche il suo rovescio: quanto maggiore è la quantità di capitale monetario prestato allo Stato, tanto maggiore è la quantità di risparmio sociale che si trasforma da capitale monetario reale in mere esigenze di Stato, cioè, quanto maggiore è la quantità del risparmio, tanto maggiore è il numero di titoli di credito dell'erario pubblico. Tuttavia, questo denaro viene trattato "come se" fosse rendimento di interessi di capitale impiegato in attività produttive, anche se questo denaro sia da tempo sparito per sempre nell'abisso del consumo di Stato. Per questo, Marx ha chiamato, a ragione, le obbligazioni del Tesoro, "capitale fittizio". Quindi, una gran parte della riproduzione sociale, così come della ricchezza sociale, presumibilmente accumulata sotto forma di "patrimonio in oro", consiste attualmente, nel mondo intero, di "capitale fittizio".

In ultima analisi, una simile costellazione del sistema creditizio può solo portare al collasso del sistema finanziario, ossia, ad una "svalorizzazione" del "capitale fittizio", che avviene, ad maggiore o minor grado, sotto la forma di uno shock. A partire dalla prima guerra mondiale, questo è avvenuto effettivamente in molti paesi, e oggi forse ci stiamo avvicinando ad un nuovo grande shock di svalorizzazione su scala mondiale, poiché, negli ultimi decenni, il "capitale fittizio" del credito statale è cresciuto in una misura assai più ampia di quanto abbia mai fatto in qualsiasi epoca precedente (così come, del resto, l'altra forma di "capitale fittizio", la speculazione commerciale nella forma di un "capitalismo da casinò" di derivati). Sebbene a lungo termine il crollo finanziario del credito statale appare ridimensionato, esso è il risultato inevitabile di un processo finito. E seppure lo Stato sia, grazie alla sua pretesa di sovranità, un "debitore infallibile", alla fine di questo processo lo sarà solamente al prezzo dell'esproprio dei suoi cittadini e di un collasso delle finanze nazionali. Ha, tuttavia, anche un problema diretto e a breve termine nell'assunzione permanente di crediti e, conseguentemente, in quanto cliente sui mercati finanziari, entra naturalmente in concorrenza con gli attori commerciali e produttivi del capitale monetario. Per cui, un'assunzione di credito da parte dello Stato eccessivamente elevata, che ripulisca, per così dire, il mercato finanziario, può produrre un effetto ugualmente negativo sulla situazione, sulla crescita e, di conseguenza, su tutta l'economia nazionale, in quanto tassazione eccessivamente elevata dei profitti. Se lo Stato, di conseguenza, ha già prosciugato completamente i risparmi della sua propria società e/o vuole impedire gli effetti negativi retroattivi dell'elevata domanda statale sul proprio sistema creditizio, allora può far ricorso all'indebitamento esterno e servirsi sui mercati finanziari internazionali, una volta che viene presupposta la sua solvibilità. Ma il problema fondamentale, in questo modo, non viene risolto, ma solamente trasportato ad un livello internazionale, con nuovi ed addizionali potenziali di rischio. In questo modo, molti paesi, soprattutto nell'Est europeo, in America Latina ed in Africa, sono già caduti nella "trappola del debito". Nel frattempo anche alcuni grandi paesi industrializzati dell'Occidente si sono resi dipendenti dall'indebitamento esterno, innanzitutto gli Stati Uniti, che attualmente devono onorare il più grande servizio di debito estero del mondo. Il sistema finanziario globale si trova oggi in una situazione estremamente instabile, last but not least, a causa dell'indebitamento internazionalizzato dell'insieme di tutti i paesi.

Se tutti i fili si spezzassero e lo Stato non potesse più finanziarsi, né attraverso le imposte né con assunzioni di credito dentro e fuori del paese, come ultima ratio rimane l'uso della macchina per stampare denaro: lo Stato decreta che la sua Banca Centrale crei "denaro improduttivo" a partire dal niente. Facendolo, si arroga, contro le leggi del sistema di mercato, il potere di creare denaro, cioè nega con la forza, in quanto polo politico, il predominio strutturale del polo economico. Il castigo arriva dopo, come si sa, nella forma dell'iper-inflazione. Dalla fine della prima guerra mondiale, questo fenomeno si è verificato periodicamente come conseguenza della creazione di denaro improduttivo da parte dello Stato, ed oggi è già diventato, in un numero crescente di paesi, una condizione strutturale permanente. Contro ogni illusione sul "primato della politica", si è dimostrato da tempo, nella pratica, che, a causa del denaro, lo Stato è un'istituzione fondamentalmente priva di autonomia nei confronti del mercato e che la politica, da parte sua, di fronte all'economia, costituisce una sfera anch'essa fondamentalmente sprovvista di autonomia.

Sebbene si conoscano tutte le forme e tutti i problemi strutturali di tale dipendenza, sopravvive ostinatamente l'idea per cui il polo statale-politico abbia lo stesso grado gerarchico o addirittura detenga, in quanto "istituzione definitiva", una facoltà regolativa a fronte dell'economia e del denaro. E, sebbene i sistemi finanziari nazionali ed internazionali siano stati pesantemente scossi nel corso del 20° secolo e siano oggi più instabili di quanto lo erano in qualsivoglia epoca precedente, ci si aspetta in larga misura, come avviene per gli appassionati del gioco d'azzardo, che il sistema produttore di merci e la sua portentosa sovrastruttura finanziaria continui a funzionare "in un modo o nell'altro", nonostante le sue contraddizioni logiche interne; e ci si aspetta questo semplicemente perché le cose finora hanno sempre continuato a funzionare "in un modo o nell'altro". Non si crede nella possibilità di una barriera assoluta. Anche i paesi il cui sistema finanziario è già entrato in collasso, stanno producendo sempre nuovi "piani" di politica economica e finanziaria, che dovrebbero superare definitivamente il disastro (recentemente il Plano Real in Brasile). Ma mai una politica economica sarà in grado di modificare un qualsivoglia aspetto della mancanza di autonomia dello Stato nei confronti del denaro.

4. La crisi secolare della regolazione statale-politica
La barriera sistemica strutturale di tutto il "campo" della modernità, che scompare, per così dire, nella politica quotidiana, e come al solito scientifica, dell'industria accademica, per contrasto appare ancora più chiaramente in un'analisi storica del processo di modernizzazione visto nella sua interezza. Contrariamente all'ideologia neoliberista, siamo in grado di dimostrare che, alla fine del 20° secolo, i costi sistemici dell'economia di mercato stanno cominciando a superare, in termini assoluti ed irreversibili, i suoi profitti. Il problema fino ad ora soltanto virtuale o periodico - per cui i costi sistemici che si manifestano nell'attività di Stato divorano la sostanza - diventa il problema reale e strutturale permanente. Ma , in questo modo, si erge definitivamente una barriera storica assoluta del sistema, che si manifesta nella crisi latente della "finanziabilità" dei compiti sistemicamente necessari, i quali aumentano gradualmente.

Non serve a molto piagnucolare, alla maniera di un antiquato "buon padre di famiglia", sulla mania dello Stato di contrarre debiti, come è abitudine dei politici conservatori e populisti. La critica ai "costi eccessivamente elevati dello Stato" parte ciecamente dal punto di vista del denaro ed ignora completamente che i costi dell'attività statale non sono il risultato di una cattiva gestione dello stesso, ma rappresentano il livello di civiltà della modernità. La stessa corruzione politica, così come la si trova oggi in tutti i paesi, non è la causa, bensì una conseguenza della crisi. ci sono certamente alcuni pubblicitari dell'economia di mercato che sono disposti a liquidare il livello civilizzatore per quelle masse umane non più redditizie, a causa della loro mancanza di "finanziabilità", inviandole nella barbarie. Con questa misura, si spera probabilmente di poter continuare ad operare una riproduzione capitalista con l'aiuto di una minoranza globale in "isole di normalità".

Si tratta, tuttavia, di una doppia illusione. In primo luogo, gli effetti retroattivi della barbarie avranno solo l'effetto di riprodurre come "costi di sicurezza" i costi economizzati grazie alla liquidazione dei programmi sociali, delle infrastrutture, ecc. e li spingeranno a livelli astronomici. In secondo luogo, il livello di civiltà delle infrastrutture, della formazione professionale e della scienza, della pubblica sanità, dei mezzi di trasporto pubblico, dell'eliminazione dei rifiuti e dei residui, ecc. non è un lusso, bensì una necessità per mantenere in funzione la stessa accumulazione del capitale. Una produzione scientificizzata con strutture di interconnessione altamente sensibili, a lungo termine non può sussistere in mezzo ad un oceano di analfabetismo, di miseria, di violenza, di spazzatura, di malattie e di abbandono. Se il livello di civiltà non è più finanziabile, allora questo significa soltanto che la contraddizione sistemica interna ha raggiunto la sua maturità storica. E' la stessa economia di mercato dell'Occidente ad aver generato dei potenziali che l'hanno superata e che nelle forme del moderno sistema produttore di merce non si lasciano più bandire.

Il paradosso, per cui i costi sistemici necessari superano i livelli di produttività e di scientificizzazione hanno raggiunto oggi i limiti sopportabili dalla tassazione del processo di valorizzazione, non può essere eliminato anche a causa dell'idea di "privatizzazione", che è il fiore all'occhiello dei neoliberisti. Se le condizioni di contorno del sistema costano più di quanto la finalità stessa del sistema può produrre, allora questa miseria non cambia affatto in forza di un cambiamento della mera forma giuridica, in quanto i problemi sostanziali continuano ad essere gli stessi. Ciò vale anche per quei settori nei quali lo Stato compare, in contrasto con la logica del sistema, come imprenditore nella produzione di merci per il mercato. Se anche in quest'area la privatizzazione avanza in ogni parte del mondo soltanto a passo di tartaruga, questo lo si deve a buone ragioni economiche, che non possono essere accreditate ad una "ideologia socialista sbagliata". E' vero che la produzione può avvenire in maniera effettivamente "più efficiente" in termini di esigenza di redditività, per mezzo di una gestione privata, orientata al mercato. Ma "efficienza" significa anche razionalizzazione, disattivazione di intere unità produttive e licenziamenti di massa. Paesi come la Russia, l'India o la Cina, dovrebbero mettere in mezzo alla strada, in un breve lasso di tempo, più della metà della loro popolazione. Il risultato potrebbe essere solo la guerra civile. Se le imprese statali non sono più finanziabili e se, simultaneamente, la privatizzazione porta più rapidamente al collasso del sistema, ci troviamo di fronte alla classica situazione di stallo.

Ciò vale ancor di più per i settori dell'infrastruttura. Se la gestione (dettata dalla necessità) di imprese di produzione di merci, da parte dello Stato, è contraria alla logica del sistema, lo svolgimento di compiti statali di infrastruttura sotto forma di produzione di merci è ancora più contraria alla logica del sistema. L'essenza dell'infrastruttura è il suo carattere di input di tutta la società, che deve esistere in ogni paese per poter svolgere il suo compito. Se, però, gli aggregati infrastrutturali sono stati sottomessi alla relazione economica della scarsità e vengono gestiti solo per soddisfare la domanda diretta dotata di potere di acquisto, perdono il loro carattere di condizione generale di contorno alla produzione di merci. E' impossibile privatizzare gli input di tutta la società senza pregiudicare gravemente la stessa valorizzazione del capitale. Se questo avviene, gli input diventeranno, in primo luogo, eccessivamente cari, e, in secondo luogo, non saranno più a disposizione, in quantità sufficiente, al momento giusto e nol posto giusto, nemmeno per i clienti con potere d'acquisto.

Le privatizzazioni finora intraprese, di parti di infrastruttura, in ogni parte del mondo, hanno confermato questo problema. In Argentina, le imprese nei centri urbani non trovano più mano d'opera in quantità sufficiente, poiché i mezzi di trasporto pubblico sono stati disattivati oppure sono diventati talmente cari che il viaggio verso il luogo di lavoro non conviene più agli operai delle periferie. Negli Stati Uniti, gli investitori giapponesi si lamentano di non essere in grado di soddisfare le esigenze di partecipazione delle persone del posto alla produzione locale, giacché la mano d'opera locale è troppo impreparata per gestire macchine complicate. In Inghilterra, l'industria si lagna perché la rete telefonica, dopo la privatizzazione, è diventata talmente rarefatta, per motivi di redditività, che tutti i funzionari in missione esterna hanno bisogno di essere equipaggiati con radiotelefoni, con costi molto elevati. In Ungheria, gli investitori tedeschi sono inorriditi per come i bassi salari vengano annullati dalle continue interruzioni nella fornitura di energia elettrica e che quindi, in pratica, devono costruire la propria centrale elettrica. Per tutti gli aggregati infrastrutturali vale quanto segue: quanto più sono privati, tanto più sono scarsi e cari. Nessuna economia nazionale riesce a sopportare tutto questo per molto tempo. Dovunque lo Stato "cucina" l'infrastruttura, ben presto c'è la grande onda.

Ma le forbici della crisi sistemica si aprono anche in direzione dello stesso processo di valorizzazione. Non solo l'attività necessaria dello Stato rincara eccessivamente, ma anche la valorizzazione del capitale regredisce, di ciclo in ciclo, in tutto il mondo. La riproduzione dell'economia di mercato sembra esaurirsi nella sua stessa base. Finora, il carattere di tale evoluzione è stato ignorato anche dalla teorizzazione di sinistra. In generale, predomina l'idea per cui anche l'accumulazione del capitale, prima o poi, verrà di nuovo incentivata grazie all'aumento della produttività. Ma quest'argomentazione si base su un grosso malinteso. Il problema consiste nel fatto che, attraverso l'aumento della produttività e della razionalizzazione, si produce, per ogni prodotto e per l'utilizzo del capitale, un "valore" sempre più piccolo, in quanto il "valore" è un concetto relativo, misurato rispetto al livello di produttività (storicamente, sempre aumentato) del rispettivo sistema capitalista di riferimento. Pertanto, lo stesso processo capitalista si priva, in ultima analisi, delle condizioni del suo funzionamento, nella misura in cui minimizza la sua stessa sostanza (il lavoro astratto).

Se la crisi sistemica insita in questa contraddizione in passato ha potuto essere superata, questo non lo si deve unicamente al meccanismo di compensazione di un'espansione del modo di produzione in quanto tale. Già la razionalizzazione promossa da Henry Ford aveva ridotto enormemente la quantità di lavoro per prodotto. Ma, in questo modo, il prodotto automobile, per citare un esempio, venne così tanto reso a buon mercato, da poter diventare oggetto di consumo di massa, portando ad un'improvvisa espansione del mercato automobilistico. Per cui, c'era bisogno di meno lavoro per ogni automobile, ma di una quantità totale assai maggiore di quella che era richiesta prima a causa di una produzione di automobili che era aumentata in maniera spropositata. Pertanto, la razionalizzazione fordista si alimentò attraverso un'espansione costante dei mercati, del lavoro delle masse, dei redditi delle masse e del consumo delle masse. In fondo, si trattava di un processo in cui i settori di produzione locale non-capitalista di merci e di produzione di sussistenza, nel quadro dell'economia domestica, vennero risucchiati dall'era razionale imprenditoriale.

Ora, questa riserva storica è esaurita, come viene dimostrato in uno studio del sociologo tedesco Burkart Lutz. Ma, allo stesso tempo, la razionalizzazione microelettronica post-fordista e la globalizzazione dei mercati delle merci e del lavoro e dei mercati finanziari hanno fatto sì che enormi quantità di lavoro diventassero non redditizie, e tutto il meccanismo di compensazione storico finora esistente ha cominciato a sgretolarsi. In altre parole: per la prima volta nella Storia, la velocità della "razionalizzazione eliminatrice" (Wegrationalisierung) del lavoro supera l'espansione dei mercati. La produttività aumenta a velocità sempre maggiore, mentre l'espansione del modo di produzione, considerato nella sua totalità, si è conclusa. Pertanto, la speranza di un nuovo scoppio di accumulazione è abbastanza ingenua. A partire da ora, diventa chiaro che l'autocontraddizione fondamentale, secondo cui questa società si basa sulla trasformazione incessante di quantità astratte di lavoro in denaro, ha raggiunto un punto in cui non si può più mobilitare proficuamente una sufficiente quantità di lavoro secondo lo standard dei modelli di produttività, creati dalla società stessa. Ormai non è più un fenomeno ciclico, ma un fenomeno strutturale. Però, quanto più debole diventa l'accumulazione reale, tanto meno il credito statale diventa finanziabile, e, quanto meno lo Stato può essere finanziato, tanto maggiori diventano i suoi compiti a causa della crisi strutturale di accumulazione. E' proprio in questo circolo vizioso che è rimasta imprigionata la modernità produttrice di merci.

In questo contesto, dobbiamo criticare anche la "teoria della regolazione", in quanto fa parte dei "regimi di accumulazione" politicamente regolati e culturalmente configurati. Questa teoria presuppone l'infinita "adattabilità" del capitalismo, che sopravvive, ancora, da un "regime di accumulazione" all'altro. Questo modello teorico ricorda un poco il mito dello "eterno ritorno". Nella misura in cui si ispira al marxismo, si potrebbe parlare, per così dire,  di un "buddismo marxista". Se osserviamo tutta la storia della modernità, questo modello sembrerà abbastanza strano. Certamente la regolazione politica svolge un ruolo crescente nel sistema dell'economia di mercato, in quanto l'attività dello Stato aumenta per necessità sistemica, come aveva già constatato Adolph Wagner. Ma noi siamo eredi di una storia infinita di crisi, di prosperità e di "modelli di accumulazione".

Infatti, a rigore, esiste soltanto un unico "regime di regolazione" ed "accumulazione", che è simultaneamente il primo e l'ultimo, ossia, il modello fordista. Prima, nel 19° secolo, la produzione capitalista non poteva ancora agire pienamente sui propri fondamenti. Anche le crisi venivano mediate per mezzo di crisi agrarie preindustriali anche nei paesi sviluppati, la maggior parte della popolazione non era coperta, o lo era solo in parte, dalla razionalizzazione imprenditoriale. E in quanto al "dopo": come ci potrà essere un "dopo", se con una quantità sempre minore di lavoro sono stati prodotti un potere di acquisto sempre minore ed un quantità sempre maggiore di prodotti? La prosperità globale dell'economia di mercato esisterà solo in futuro se sarà possibile realizzare l'impresa di un capitale accumulato senza il lavoro. La crescita senza occupazione è un'illusione che oggi può essere difficilmente mantenuta con grande difficoltà (fino al crollo finanziario), per mezzo di una creazione monetaria improduttiva di "capitale fittizio" su scala mondiale.

Succede che un "regime di accumulazione" puramente "politico" è ancora molto meno possibile. La "teoria della regolazione" sembra che si stia muovendo da un'argomentazione, fatta nei termini della teoria dell'accumulazione, in direzione di un'illusione politicista. In primo luogo, è necessario un nuovo ciclo di accumulazione, poi, esso potrà essere regolato politicamente; l'inverso non è possibile. Finora, nessuna politica è riuscita a produrre un nuovo scoppio di accumulazione, come un mago che tira fuori il piccione dal cappello. La politica ha accesso regolatore soltanto alle forme in corso, ma non alle ciechi leggi di base della produzione capitalista di merci. Il modello fordista viveva per il fatto che l'accumulazione era possibile a partire da un processo sistemico privo di soggetto, ma il modello di regolazione politica può operare solamente a livello secondario. Se oggi la riproduzione si trova schiacciata fra il mercato e lo Stato, bisogna immaginare qualcosa di diverso dall'aspettare Godot, ossia, dall'aspettare il prossimo "miracolo economico" del sistema produttore di merci, che non ci sarà mai più.

- Robert Kurz - Discorso letto durante il convegno su "Capitale e Stato in America Latina" - Agosto 1994 - e pubblicato sulla rivista Indicatores Econômicos FEE, Porto Alegre, maggio 1995 -

fonte: EXIT!

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