venerdì 15 gennaio 2016

L'Eccezione e la Regola

agamben

Dallo Stato di diritto allo Stato di sicurezza
- di Giorgio Agamben -

Non si comprende affatto il vero obiettivo del prolungamento dello stato di emergenza (fino alla fine di febbraio) in Francia, se non inserendolo nel contesto di una trasformazione radicale del modello statale a noi familiare. Innanzitutto bisogna smentire le parole di quelle donne ed uomini politici irresponsabili, secondo cui lo stato di emergenza sarebbe uno scudo per la democrazia.
Gli storici sanno perfettamente che è vero il contrario. Lo stato di emergenza è proprio quel dispositivo per mezzo del quale in Europa si sono installati dei poteri totalitari. In tal modo, nel corso degli anni che hanno preceduto la presa del potere da parte di Hitler, i governi socialdemocratici di Weimar avevano fatto così tanto ricorso allo stato di emergenza (stato di eccezione, come lo chiamano i tedeschi), da poter dire che la Germania, già prima del 1933, avesse smesso di essere una democrazia parlamentare.
Il primo atto di Hitler, subito dopo la sua nomina, fu quello di proclamare uno stato di emergenza, che non venne mai revocato. Allorché ci si sorprende per i crimini che i nazisti hanno potuto commettere impunemente in Germania, ci si dimentica che quegli atti erano perfettamente legali, dal momento che il paese era sottomesso allo stato d'eccezione e che le libertà individuali erano state sospese.
Non si vede perché un simile scenario non potrebbe ripetersi in Francia: possiamo immaginare senza difficoltà un governo di estrema destra che si serve ai suoi fini di uno stato di emergenza a cui i cittadini sono stati abituati grazie ai governi socialisti. In un paese in cui si vive in un continuo stato di emergenza, e nel quale le operazioni di polizia si sostituiscono gradualmente al potere giudiziario, ci si deve aspettare un deterioramento veloce ed irreversibile delle pubbliche istituzioni.

Mantenere la paura
Questo è tanto più vero per il fatto che oggigiorno lo stato di emergenza si inscrive in un processo che è sul punto di far evolvere le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna designare, già da subito, Stato di sicurezza ("Security State", come lo chiamano i politici americani). La parola "sicurezza" è talmente entrata nel discorso politico che si può dire, senza tema di sbagliare, che le "ragioni della sicurezza" hanno preso il posto di quella che un tempo veniva chiamata "ragion di Stato". Tuttavia, manca un'analisi di questa nuova forma di governo. Dal momento che lo Stato di sicurezza non rientra né nello Stato di diritto né in quello che Michel Foucault chiamava "società disciplinare", si rende necessario stabilire alcuni punti fermi, nell'ottica di una possibile definizione.
Nel modello dell'inglese Thomas Hobbes - che ha influenzato profondamente la nostra filosofia politica - il contratto che trasferisce i poteri al sovrano, presuppone la paura reciproca e la guerra di tutti contro tutti: lo Stato è proprio ciò che pone fine alla paura. Nello Stato di sicurezza, questo schema viene rovesciato: lo Stato si fonda in maniera durevole sulla paura e deve mantenerla, ad ogni costo, dal momento che è da essa che trae la sua funzione essenziale e la sua legittimità.
Foucault aveva già mostrato come - allorché la parola "sicurezza" compare per la prima volta in Francia, nel discorso politico, con i governi fisiocratici che precedono la Rivoluzione - non si trattasse di prevenire le catastrofi e le carestie, bensì di lasciare che avvenissero di modo da poter poi governarle ed orientarle in una maniera considerata vantaggiosa .

Mancanza di senso giuridico
Analogamente, la sicurezza di cui si parla oggi non è affatto volta a prevenire gli atti di terrorismo (cosa che è altresì estremamente difficile, se non impossibile, in quanto le misure di sicurezza diventano efficaci solo dopo l'attacco, e dato che il terrorismo è, per definizione, una serie di attacchi a sorpresa) bensì mira a stabilire una nuova relazione con le persone, ossia un controllo generalizzato e illimitato - da qui la particolare insistenza sui dispositivi che permettono il controllo totale sui dati informatici e sulle comunicazioni dei cittadini, ivi compreso il prelievo integrale del contenuto dei computer.
Il primo rischio cui ci troviamo di fronte, è la deriva verso la creazione di un rapporto sistemico fra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per legittimarsi, allora bisogna, al limite, produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che venga prodotto. Si assiste così al fatto che i paesi perseguono una politica estera che alimenta il terrorismo che si vuole combattere all'interno, e si intrattengono delle relazioni cordiali o si vendono perfino armi a degli Stati di cui si sa che finanziano le organizzazioni terroriste.
Un secondo punto, che è importante conoscere, riguarda il cambiamento dello statuto politico dei cittadini e del popolo, che si riteneva fosse il titolare della sovranità. Nella Stato di sicurezza, si assiste al fatto che si produce una tendenza inarrestabile a quella che si potrebbe chiamare a pieno titolo una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali. Questa tendenza si rivela ancora più inquietante se consideriamo che era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento essenzialmente impolitico cui lo Stato deve assicurare protezione e crescita.
Ora, secondo tali giuristi, c'era un solo modo per rendere politico quest'elemento impolitico: per mezzo dell'uguaglianza data dalla nascita e dalla razza, che lo distingueva dallo straniero e dal nemico. Qui, non si tratta di confondere lo Stato nazista con lo Stato di sicurezza contemporaneo: bisogna però capire che se si depoliticizzano i cittadini, essi non possono uscire dalla loro passività se non attraverso la mobilitazione a partire dalla paura di un nemico straniero che non sia per loro solamente esterno (questo sono stati gli ebrei in Germania, questo sono i musulmani nella Francia odierna).

Incertezza e terrore
E' in questo quadro che va considerato il sinistro progetto di cancellazione della nazionalità per i cittadini cha hanno doppia nazionalità, che ricorda la legge fascista del 1926 sulla denazionalizzazione dei "cittadini indegni della cittadinanza italiana" e le leggi naziste sulla denazionalizzazione degli ebrei.
Un terzo punto, di cui non bisogna sottovalutare l'importanza, è la trasformazione radicale dei criteri che stabiliscono la verità e la certezza nella sfera pubblica. Ciò che innanzitutto colpisce un osservatore attento, rispetto alle comunicazioni che riguardano atti di terrorismo, è la piena rinuncia a stabilire una certezza del diritto.
Se in uno Stato di diritto è beninteso che un crimine può essere certificato solo attraverso un'inchiesta giudiziaria, sotto il paradigma della sicurezza ci si deve accontentare di quanto dice la polizia ed i media che ne dipendono - vale a dire, due fonti che sono sempre state considerate poco credibili. Da qui l'ondata incredibile di contraddizioni evidenti nelle ricostruzioni ufficiali dei fatti, che eludono scientemente ogni possibilità di verifica, e di falsificazioni che assomigliano assai più a dei pettegolezzi che a delle inchieste. Ciò significa che lo Stato di sicurezza ha interesse a che i cittadini - ai quali deve assicurare la protezione - rimangano nell'incertezza rispetto a quello che li minaccia, dal momento che l'incertezza ed il terrore vanno a braccetto.
E' quella stessa incertezza che si ritrova nel testo della legge del 20 novembre sullo stato di emergenza, la quale si riferisce ad "ogni persona rispetto cui esistano seri motivi per pensare che il suo comportamento costituisca una minaccia per l'ordine pubblico e per la sicurezza". E' assolutamente evidente che la formula "seri motivi per pensare" non ha alcun senso giuridico e, nella misura in cui rimanda all'arbitrio di quello che "pensa", si può applicare in ogni momento a chiunque. Ora, nello Stato di sicurezza, tali formule indeterminate, che dai giuristi sono sempre state considerate contrarie al principio della certezza del diritto, diventano la norma.

Depoliticizzazione dei cittadini
La medesima imprecisione e gli stessi equivoci riappaiono negli interventi di donne ed uomini politici, secondo le quali dichiarazioni la Francia sarebbe in guerra contro il terrorismo. Una guerra contro il terrorismo è una contraddizione in termini, dal momento che lo stato di guerra si definisce proprio a partire dalla possibilità di identificare in maniera certa il nemico che si deve combattere. Nella prospettiva securitaria, il nemico deve - al contrario - restare nel vago, di modo che chiunque - all'interno, ma anche all'esterno - possa essere identificato come tale.
Mantenimento di uno stato generalizzato di paura, depoliticizzazione dei cittadini, rinuncia ad ogni certezza del diritto: ecco tre caratteristiche dello Stato di sicurezza, che hanno di che turbare la mente: Dal momento che questo significa, da un lato, che lo Stato di sicurezza nel quale stiamo scivolando fa il contrario di quel che promette, in quanto - se sicurezza vuol dire assenza di preoccupazione (sine cura) - mantiene, al contrario, la paura ed il terrore. Dall'altro lato, lo Stato di sicurezza è uno Stato di polizia, dacché, con l'eclissi del potere giudiziario, generalizza il margine discrezionale della polizia che, in uno stato di emergenza divenuto normale, acquista sempre più potere.
Infine, con la depoliticizzazione progressiva del cittadino, diventato in un qualche modo un terrorista in potenza, lo Stato di sicurezza esce dal dominio della politica così come lo conosciamo, per addentrarsi in una zona incerta, dove il pubblico ed il privato si confondono, e dei quali è difficile tracciare i confini.

- Giorgio Agamben - pubblicato il 23 dicembre 2015 su Le Monde -

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