martedì 29 settembre 2015

Bagliori profetici

portbou

A Portbou, ed al suo destino, c'era arrivato da Banyuls, insieme ad altri otto fuggiaschi, dopo una camminata di quattro ore, con le scarpe da città ed il cappotto sfilacciato. L'ultimo "contrattempo" capitatogli, che avrebbe gelato il sorriso sul volto di Kafka, finì, con ogni probabilità, di spezzare il suo spirito: sui suoi documenti si poteva leggere che aveva il permesso per entrare in Spagna, ma non quello per lasciare la Francia. Un paradosso amministrativo, temporaneo, una parentesi burocratica, una trappola in cui era rimasto impigliato.
Era il 26 settembre del 1940, e quella stessa sera, verso le dieci, dopo aver cenato, Walter Benjamin si tolse la vita.

La fattura dell'Hotel de Francia certifica che la cena, l'ultima, gli costò 12 pesetas, mentre occupare la stanza - vivo o morto - facevano 5 pesetas al giorno. Prima di morire fece 5 telefonate, delle quali non si conoscono i destinatari, e ordinò 5 gazzose con limone, al prezzo di 1 peseta a bottiglia. Poi, da morto, prosegue la fattura, addizionando implacabilmente, c'è la vestizione del defunto, c'è da disinfettare la stanza, da lavare il materasso e candeggiare lenzuola e cuscino. Il tutto per un totale di 75 pesetas.

Il funerale si sarebbe svolto quattro giorni dopo, quei quattro giorni trascorsi a Portbou - uno come persona e tre come cadavere - in cui appare registrato alla stanza n°4 dell'Hotel de Francia. Qualcuno, al momento di seppellirlo nella zona cattolica del cimitero di Girona, decise che il nome sulla sua lapide dovesse essere "Benjamín Walter"; scritto così, invertendo il nome ed il cognome, e con il nome virato al castigliano, con l'accento sulla "i".
Una sorta di scherzo, da umorismo nero, che tuttavia non inficiava il fatto che anche la sua morte fosse avvenuta "con quell'autorità che anche il più povero disgraziato possiede, per i vivi che lo circondano".
Le aveva scritte lui stesso, queste parole, come aveva scritto, prima e altrove, nel 1924, per un programma radiofonico, una satira dell'università tedesca, dove inventava seminari di studio quali la "Introduzione alla Teoria della Deportazione", o gli "Studi Pratici di Sterminio".
Bagliori profetici.
Così come, meno profetico ma più consapevole, aveva scritto che "è più difficile onorare la memoria degli esseri umani anonimi, rispetto a quella delle persone celebri"; parole che si possono leggere incise sul brutto monumento commemorativo che gli è stato eretto ai piedi di quel cimitero dove, dal 1940 al 1945, per cinque anni, i suoi resti rimasero, sotto la lapide col nome invertito, per poi, causa mancato pagamento, essere gettati in una fossa comune.

lunedì 28 settembre 2015

Fantasmi narcisisti di onnipotenza

barricate

Le sottigliezze metafisiche della lotta di classe
- Sulle premesse tacite di uno strano discorso nostalgico -
di Norbert Trenkle

La lotta di classe sta per tornare sul palco della storia? Per chi presta orecchio al discorso della sinistra, a quanto pare non c'è alcun dubbio. La prefazione all'edizione 4/2003 della rivista tedesca Fantômas, facendo riferimento al proletariato e alla lotta di classe, afferma che "questo cane così preso a calci è ancora vivo". E continua: "affinché i rapporti di forza siano messi in discussione dal basso... è tempo che la sinistra torni alla questione delle classi". Commenti simili a questo, stanno comparendo in diverse altre riviste di sinistra. Nel momento in cui la crisi del capitalismo globalizzato fa crescere la polarizzazione sociale, e cominciano ad apparire diversi tipi di resistenza, la tradizionale visione marxista del mondo sembra apparentemente riguadagnare proporzionalmente un certo grado di rispettabilità.
Tralasciando per un attimo i dinosauri marxisti che insistono a venerare il pugno calloso del proletariato, bisogna constatare che, relativamente alla retorica tradizionale sulla lotta di classe, c'è stato un notevole cambiamento. E' da tempo che la vecchia fissazione sulla classe operaia bianca, maschile e metropolitana, in quanto soggetto fantasmatico della rivoluzione, sembra essere chiaramente obsoleta. Ciò non è dovuto soltanto alla rivoluzione microelettronica della produttività, che ha trasformato quel segmento sociale in una piccola minoranza, la quale è sotto molti aspetti privilegiata, se comparata alla grande massa precarizzata di venditori di forza lavoro, e che si difende dalla retrocessione sociale con sufficiente aggressività. Infatti, il discorso degli anni 80 e 90 criticava giustamente la gerarchizzazione e l'esclusione derivante da questa aberrazione che consiste nell'assumere una sezione particolare del conflitto fra lavoro e capitale come "contraddizione principale" del capitalismo, e metteva in evidenza una critica delle diverse e labirintiche forme di dominio. Tuttavia, un simile discorso raramente è andato oltre una mera metodologia additiva: la categoria di classe veniva estesa, differenziata ed integrata con altre categoria, in particolare il genere e la "razza", vale a dire l'etnia. In tal modo, non è stata sviluppata una concezione critica sistemica delle relazioni capitalistiche, e la prospettiva del loro superamento.
A tale rispetto, il nuovo discorso della lotta di classe appare essere un prodotto altamente ibrido: da un lato, dimostra un tentativo di rielaborare un concetto centralizzato che riduca tutte le lotte in corso ad un denominatore comune; dall'altro lato, cerca di non riprodurre le restrizioni e le esclusioni del marxismo ortodosso. Il risultato è una concezione di lotta di classe che dimostra di essere completamente confuso e,  anche se questo va contro le sue rivendicazioni, rimane inseparabile da un certo numero di premesse metafisiche che non sono mai state messe in discussione. Visto sotto questa prospettiva, il discorso attuale non presenta il minimo miglioramento in rapporto al suo venerabile antenato; alla fine non fa altro che riprodurlo in una forma che, pur riflettendo le condizioni sociali, si rende solo superficialmente conto del fatto che queste sono cambiate.

Essenza occulta
Il mito del "punto di vista di classe" è stato uno degli articoli di base del catalogo marxista, ma la sua continua riproduzione non riesce ad attrarre l'attenzione. Naturalmente, c'è sempre stata una contraddizione in termini nel pretendere che una certa categoria sociale, che è stata creata dal capitalismo, avrebbe dovuto incarnare anche un punto di vista intrinseco al suo superamento; e non è affatto sorprendente che quest'aporia teorica abbia dato luogo ad argomentazioni altamente contorte che, nel loro carattere metafisico, ricordavano, sotto molti aspetti, gli intricati discorsi teologici costruiti intorno alla Santissima Trinità e all'Immacolata Concezione. Non c'è dubbio che questa teologia di classe abbia trovato la sua formulazione più elaborata e la sua più grande coerenza teorica in "Storia e coscienza di classe", nella quale György Lukács ha raccolto i suoi saggi degli anni 1919-1932. Conseguentemente, questo libro è quindi il punto di partenza per tracciare gli assi di queste premesse e di questi corollari metafisici di cui, a quanto pare, si nutre ancora implicitamente il discorso attuale sulla lotta di classe. Il tour de force teorico del giovane Lukács - ciò che fa del suo pensiero un oggetto singolare per quel che attiene a pressoché tutto il marxismo ortodosso ed è, ancora oggi, un punto di riferimento per la frazione più riflessiva della sinistra - consiste nel suo sforzo di pensare insieme il "punto di vista della classe" e la reificazione risultante dalla forma merce. Non va dimenticato che questa sua iniziativa, all'epoca, è stato un modo fi tentare di digerire intellettualmente la sconfitta delle rivoluzioni occidentali. Fondamentalmente, Lukács si interessa alle ragioni per cui il proletariato, nonostante divenga sempre più numeroso, non riesce ad avere successo nel superamento del capitalismo, e perché la sua sua coscienza empirica rimanga, di fatto, impigliata nelle categorie capitalistiche. La risposta non si trova in una grossolana teoria della manipolazione e della corruzione, come quella raccontata da Lenin, che imputava il fallimento delle rivoluzioni nei centri capitalisti soprattutto all'interessamento del proletariato metropolitano ("l'aristocrazia operaia") per i profitti dei monopoli e per lo sfruttamento coloniale. Agli occhi di Lukács, il problema proveniva piuttosto dal fatto che, nella società produttrice di merci, le relazioni sociali rivestono un carattere di relazioni fra cose, di modo che il processo sociale diviene indipendente dagli uomini, in quanto non obbedisce più ad alcuna volontà cosciente ed offre l'apparenza di leggi naturali atemporali e che vengono reputate ineluttabili. Per quanto si possa, all'inizio e ad un livello di base, concordare con Lukács, tuttavia la sua descrizione della reificazione vista come una struttura che nasconde la sua "vera natura" compie rapidamente una virata metafisica. In effetti, non è più questione di un travestimento superficiale di natura ideologica, nel senso in cui, ad esempio, "dietro le quinte" di un auto-movimento sociale di pura apparenza, ci sarebbero a tirare le fila alcuni fattori politici o alcune potenze straniere - come afferma la maggior parte dei marxisti ortodossi quando cascano sui concetti di reificazione o di feticismo della merce ed improvvisano un'interpretazione di fortuna. Lukács discerne chiaramente il vero contenuto sociale della reificazione: esso si materializza nelle strutture sociali, modella radicalmente le nostre forme di percezione e, così facendo, ci nasconde il fatto che le relazioni reificate sono in realtà delle relazioni umane prodotte e mediate dal lavoro. E' per questo che Lukács, forte di quest'analisi, può, in tutta coerenza teorica, porre il punto di vista del lavoro come quello della totalità sociale, ed elevare il proletariato, che rappresenta questo punto di vista, al rango di soggetto storico destinato a spazzare via la reificazione e ad abolire il capitalismo.
Nel frattempo, ammette Lukács, il proletariato si trova sottomesso alla reificazione, in particolare attraverso l'obbligo che lo costringe ogni giorno a vendere la sua forza lavoro, e quindi a trasformarsi in merce, ad oggettivarsi esso stesso. Ma ecco che è proprio questo a metterlo nella posizione di poter vedere attraverso le strutture della merce per discernere qual è la sua vera natura, la sua essenza, il suo "essere", che fino a quel momento non è esistito che "in sé". E' il primo passo del divenire-per-sé che segnerà la liberazione, non solo del proletariato ma, insieme a lui, del genere umano tutt'intero: "Il riconoscimento del fatto che gli oggetti sociali non sono affatto delle cose ma delle relazioni fra uomini quindi conduce alla loro completa dissoluzione in processo [...] La coscienza del proletariato si eleva allora fino ad essere la coscienza di sé della società nella sua evoluzione storica. In quanto coscienza del puro rapporto di merce, il proletariato non può prendere coscienza di sé stesso se non come oggetto del processo economico. Poiché la merce viene prodotta, e l'operaio in quanto merce, in quanto produttore immediato, è, nel migliore dei casi, un ingranaggio meccanico in questo meccanismo. Ma se la cosità del capitale si dissolve nel processo ininterrotto della sua produzione  e della sua riproduzione, il fatto che il proletariato sia il vero soggetto di questo processo - benché sia un soggetto incantenato ed inizialmente incosciente - può allora, da questo punto di vista, divenire cosciente" (Lukács - "La reificazione e la coscienza del proletariato", 1923, in "Storia e coscienza di classe").
Questa celebrazione del proletariato, in quanto "vero soggetto" del capitalismo e salvatore dell'umanità, è inseparabile dalla concezione lukacciana del lavoro come principio trans-storico costitutivo della socialità. Come per tutto il resto del pensiero marxista-ortodosso, questa concezione si basa sull'idea per cui, in tutte le epoche, i rapporti sociali sono stati fondati sul lavoro. Cosicché il lavoro non è altro che il principio che fa di una società, una società, e di un essere umano, un essere umano. Nella società capitalista, tuttavia, questa mediazione del lavoro avviene in forma reificata ed indiretta per mezzo della produzione di merci (che comprende anche lo sfruttamento della forza lavoro), e diviene in tal modo invisibile. Quando Lukács scrive che la relazione reificata, "per il suo sistema di leggi proprie, rigorose, completamente chiuse e in apparenza razionali, nasconde ogni traccia della sua essenza ultima; la relazione fra uomini", egli evoca proprio questo escamotage, questa dissimulazione della funzione mediatrice del lavoro. Soltanto il proletariato, prendendo coscienza di sé stesso, può arrivare a sollevare il velo ed a portare alla luce il nucleo misterioso delle relazioni sociali. Abolire la reificazione equivale, in quest'ottica, a liberare il lavoro dalle pressioni di una struttura di mercato che, in ultima analisi, gli è esterna. Quanto alla società comunista, essa sarà quella in cui la mediazione del lavoro avviene consciamente.
Certo, Lukács ha del tutto ragione a definire "l'essenza ultima" della "struttura del mercato" come una relazione fra persone mediata dal lavoro. Dove si sbaglia, è quando dice che si tratta di un attributo trans-storico della socialità, in quanto si tratta, al contrario, di una caratteristica storicamente specifica (e, del resto, non nascosta) della società capitalista, una caratteristica che la distingue da tutte le altre forme sociali conosciute. Sebbene, innegabilmente, si dovevano produrre delle cose in ogni società, in un modo o nell'altro, per contro è la società capitalista la sola nella storia a ricorrere, per costituire e mediare i suoi legami sociali, ad una forma omogenea ed omogeneizzante di attività: la quantità astratta di energia umana spesa. In queste condizioni, si rivela impossibile per il lavoro potersi liberare dalla reificazione, in quanto è esso stesso una forma reificata di attività e, in quanto tale, sottende la produzione moderna di merci. La "presa di coscienza", da parte del lavoro, del suo ruolo di principio di mediazione sociale, così non sarebbe altro che una contraddizione, in quanto significherebbe la "presa di coscienza" della produzione delle merci e della sottomissione "cosciente" ai suoi imperativi ed alle sue leggi. Invece, se un giorno gli esseri umani si relazioneranno coscientemente e direttamente, cioè a dire senza la mediazione del denaro e delle merci, per organizzare i loro rapporti sociali, questo non porterà semplicemente alla liberazione di una "natura", finora mascherata in quanto reificata, ma piuttosto all'abolizione del principio di socializzazione omogeneo e repressivo - il lavoro - e alla sua sostituzione con una pluralità di forme di mediazione sociale e di attività. Può darsi che i metodi ed i potenziali di una simile evoluzione si trovino in germe dentro la società produttrice di merci - o quanto meno nell'opposizione sempre viva contro i suoi perpetui assalti totalizzanti - ma questo non costituisce altro che un in-sé che deve ancora diventare un per-sé.
I partigiani di Lukács in certi casi sostengono che, propriamente parlando, non glorificano il punto di vista del lavoto, ma che insistono sul necessario auto-superamento del proletariato, e di conseguenza del lavoro. Ma dimenticano che questo auto-superamento si accompagna ad un'auto-affermazione, la quale rimanderebbe, né più né meno, ad universalizzare la condizione proletaria. Allora non avremmo altro che una società totale delle merci, con il suo carattere coercitivo oggettivo. Lukács lo ammette implicitamente quando descrive la sua società socialista proletaria come retta da delle "leggi economiche oggettive" che "rimarranno in vigore anche dopo la vittoria del proletariato e si estingueranno - come farà lo Stato - solo con la nascita della società senza classi, interamente sotto il controllo umano. Quello che c'è di nuovo nella situazione attuale, è semplicemente - semplicemente! - che [...] il proletariato ha ora la possibilità, approfittando coscientemente delle tendenze esistenti dell'evoluzione, di dare all'evoluzione stessa un'altra direzione. Quest'altra direzione, è la regolamentazione cosciente delle forze produttive della società. Volere ciò coscientemente, significa volere il "regno della libertà"; significa fare il primo passo cosciente nella direzione della sua realizzazione".  Lukács ammette qui che la pretesa abolizione della reificazione attraverso la "presa di coscienza" della funzione mediatrice del lavoro nella società è solo pura finzione. Non di meno, egli rimane sufficientemente conseguente nella sua riflessione al fine di assegnare, allo stesso titolo che al lavoro, un carattere trans-storico all'auto-movimento feticista del capitalismo, limitando il potere del regime proletario allo "approfittare" abilmente delle "leggi economiche oggettive" per trarne il meglio possibile. Né più né meno che quello che hanno fatto il "socialismo realmente esistente" e lo Stato regolatore fordista.

Coscienza di classe assegnata
Proprio nella misura in cui Lukács trasfigura la categoria borghese fondamentale che è il lavoro in punto di vista dell'emancipazione, ed il proletariato in salvatore dell'umanità, i suoi sforzi volti a demistificare la reificazione producono il risultato opposto. Né il carattere real-metafisico dell'universo sociale delle merci, né le sue forme trascendentali vengono decifrate, ma vengono invece inconsciamente affermate ed investite di una potenza quasi religiosa. Anziché superare la metafisica hegeliana della storia, Lukács si accontenta di darle un aspetto "materialista": la ragione viene sostituita dal lavoro, e lo Spirito, soggetto della storia, dal proletariato. Non c'è da stupirsi che quest'ultimo assuma tutti gli attributi della forma-soggetto borghese, ed in particolare la sua struttura antinomica fatta sia di senso di onnipotenza che di impotenza effettiva (cosa che Lukács esprime concettualmente, in maniera un po' più coerente, quando qualifica il proletariato di soggetto-oggetto della storia). Dal momento che il proletariato non ha niente del soggetto nel senso dovrebbe poter decidere liberamente delle questioni sociali; esso viene al contrario del tutto assoggettato, nel suo livello di coscienza e nei suoi margini di manovra, ad una logica di sviluppo che Lukács presume essere trans-storica e che identifica nello "sviluppo delle forze produttive". Come abbiamo visto, queste leggi di ferro rimangono in vigore anche dopo la rivoluzione e finiranno di perdere la loro validità solo con l'avvento, lontano ed incerto, della società senza classi sognata da Lukács (che si inscrive qui nella linea del marxismo ortodosso). L'assenza di autonomia del soggetto borghese in seno all'auto-movimento oggettivo della società delle merci permette così di spiegare in termini di destino ontologico, la folle dinamica di espansione che caratterizza questa società. La "libertà" del soggetto si riassume nella famosa intellezione della necessità [N.d.T.: Qui Trenkle cita Engels: "Hegel è stato il primo a rappresentare esattamente il rapporto della libertà con la necessità. Per lui, la libertà è l'intellezione della necessità" - Engels, "Anti-Dühring"]. Del resto, Lukács ha del tutto ragione nel fare del soggetto, un oggetto, un essere sottomesso; ma in tal modo egli non descrive altro che le relazioni costitutive della società delle merci, che legano gli uomini con il loro legame-sociale-feticcio; non riuscendo a vedere oltre questa forma di rapporto con il mondo.
La sottomissione della forma-soggetto al legame-sociale-feticcio come la intende Lukács, non si traduce solo nelle considerazioni su una società sedicente post-capitalista. Anche in quanto soggetto della rivoluzione, il proletariato si trova del tutto privo di autonomia. La definizione lukacciana di "coscienza di classe" non lascia dubbi su questo punto. Lungi dall'essere intesa come ciò che i membri della classe operaia realmente pensano, essa è ciò che, in virtù della sua sedicente vera natura, essi devono pensare. Alle prese con un proletariato che deve incarnare il punto di vista anticapitalista "in sé", ma che manifestamente nella sua maggioranza non si mostra per niente attirato dall'opzione rivoluzionaria, Lukács risolve questa contraddizione nell'abituale maniera metafisica. La coscienza di classe deve, secondo lui, "essere assegnata ad una situazione tipica determinata nel processo di produzione" e non può quindi essere determinata altro che "scientificamente". Si rimane, di conseguenza, per lo più nel dominio del virtuale: "Rapportando la coscienza alla totalità della società, si scoprono il pensiero ed i sentimenti che gli uomini avrebbero auto, in una situazione vitale determinata, se fossero stati capaci di afferrare perfettamente tale situazione e gli interessi che ne derivano, sia in rapporto all'azione immediata che in rapporto alla struttura, conformemente a questi interessi, di tutta la società; si scoprono così i pensieri, ecc., che sono conformi alla loro situazione oggettiva" (Lukács, "La coscienza di classe", 1920, in "Storia e coscienza di classe").
Eccolo quindi il famoso "soggetto-oggetto della storia" da subito incapace e messo sotto tutela. Dal momento che non sembra essere in grado di arrivare dal solo alla "vera coscienza", gli deve venire insegnata da quelli che sono delle autorità in materia: il teorico ed il partito, due istanze che, unite, sanno quale sia questa missione storica della classe operaia di cui essa stessa ignora tutto, e che lavorano duramente per aiutarla ad evolversi dal "in sé" al "per sé": "L'autonomia organizzativa del partito comunista è necessaria affinché il proletariato possa percepire immediatamente la propria coscienza di classe come figura storica; [...] affinché tutta la classe innalzi fino alla coscienza la sua esistenza in quanto classe". Le implicazioni tiranniche di una simile concezione saltano agli occhi: il partito è designato come istanza educatrice, e la sua autorità si rafforza ancora di più per il fatto che l'esercita per il bene dei suoi allievi. Di modo che non ci sia più niente di cui discutere. Il proletariato è semplicemente invitato a sottomettersi ai delegati i quali, in suo nome, si sono assegnati la coscienza di classe: "Volere coscientemente il regno della libertà, non può essere quindi altro che compiere coscientemente il passaggio che porta effettivamente a questo [...] Ciò implica una subordinazione cosciente a questa volontà d'insieme che ha come vocazione quella di chiamare realmente in vita questa libertà reale [...] Questa volontà cosciente d'insieme, è il partito comunista"
Lukács quindi non solo si rivela essere un leninista duro e puro, ma si inscrive anche in tutta coscienza nella linea della filosofia dei Lumi. Gli echi della "volontà generale" di Rousseau e del "Imperativo categorico" di Kant, qui non hanno niente di fortuito. Lukács, come Kant e Rousseau, fonda la comunità sociale su dei principi astratti e trascendenti, i quali preesistono ad ogni empiria, prevalgono su di essa e persino la degradano al rango di materia del tutto insufficiente. Solo che, nella pratica, questa concezione non riflette nient'altro che la sottomissione degli uomini alla forma real-metafisica del valore ed al suo dominio astratto, che non funziona senza conflitto ma necessita, al contrario, di una mediazione costante. Si agisce qui, contrariamente agli interessi particolari dei proletari, nel nome di un "interesse generale" che dovrebbe emanare dal loro punto di vista di classe, il partito gioca un ruolo di mediatore in tutto e per tutto identi a quello giocato dallo Stato borghese nella costituzione e nel mantenimento della comunità sociale produttrice di merci. Involontariamente, Lukács legittima quindi il partito nel suo ruolo di istanza disciplinare che partecipa al processo di totalizzazione capitalista.

Fantasmi narcisisti di onnipotenza
La critica del carattere metafisico della teoria lukacciana delle classi e delle sue implicazioni autoritarie, potrebbe apparire come una battaglia di retroguardia. Il postmodernismo non ha forse demolito da tempo la metafisica? Inoltre, la critica postmoderna della metafisica non fa essa stessa ormai parte dei temi favoriti dagli intellettuali marxisti?
Secondo la sua propria auto-definizione, il nuovo discorso sulla lotta di classe va molto al di là della filosofia della storia di un Lukacs. Nell'editoriale del numero già citato della rivista Fantômas, si può leggere anche: "Il ritiro - o meglio, la fuga - di molte persone di sinistra dallo scenario della politica socialista, social-rivoluzionaria e comunista è, per lo più, una conseguenza dell'inadeguatezza dei loro concetti di lotta di classe rispetto alla realtà delle classi, inadeguatezza essa stessa dovuta essenzialmente ad un duplice errore nella determinazione della soggettività delle lotte sociali. In primo luogo, il 'proletariato' è stato fatto oggetto di una riduzione sociologica (e sociologistica) ai soli lavoratori bianchi, maschi, qualificati, delle fabbriche fordiste [...] In tal modo amputata, la figura del proletario si è allora vista - in parte a causa di questa riduzione sociologica, in parte per la cosa opposta - amplificata sulla scala della filosofia della storia e trasfigurata in un Weltgeist dalla statura impressionante" (Fantômas 4/2003, p. 4).
Questa bella analisi, tuttavia omette un dettaglio: essendo inseparabile la carica metafisica del concetto di classe, dalla trasfigurazione in soggetto rivoluzionario di una categoria sociale immanente al capitalismo, ci si può accontentare, per eliminarla, di far rientrare, stupidamente, la quasi totalità del genere umano nella definizione di "proletariato", o di "classe operaia mondiale". Dal momento che si metterebbe così certamente fine ad una riduzione sociologica giustamente criticabile, ma per poi, inversamente, allungare grottescamente il soggetto fino alle dimensioni di un collettivo anticapitalista che non è nemmeno consapevole di sé stesso. Questo sarebbe veramente spingere, in maniera implicita, il concetto di classe fino ai limiti dell'assurdo. Solo che, invece di prendere atto e di sbarazzarsi del concetto, ci si limiterebbe a conferirgli una nuova consacrazione quasi religiosa.
Giocano qui un ruolo preponderante, alcune teorie soggettivistiche della classe, ed in particolare quelle rese popolari da Hardt/Negri e da John Holloway. Del marxismo ortodosso, questi autori rigettano solamente, in fondo, l'analisi positiva delle "tendenze oggettive"; quanto ai topos marxisti che considerano la classe operaia come il vero soggetto del capitalismo e la lotta di classe come il suo motore, li ipostatizzano in maniera magniloquente. Abbiamo già visto che per Lukács, il soggetto non gode di alcuna autonomia; il suo margine di manovra dipende dalle "leggi economiche oggettive" e dalla loro evoluzione storica (cioè a dire dallo sviluppo delle forze produttive); e a queste leggi, Lukács, attribuisce una validità trans-storica. Quello che costituisce la superiorità storica del proletariato sulla borghesia, è il fatto che può riconoscere l'esistenza di queste leggi e metterle in opera "coscientemente", nella misura in cui il suo punto di vista di classe riunisce, potenzialmente, quello di tutto l'insieme della società, contrariamente a quel che avviene col punto di vista particolare e ristretto della borghesia. Ma, mentre Lukács cerca di comprendere come, sotto il capitalismo, il soggetto sia condizionato dal suo legame sociale oggettivo - benché si sbagliasse nell'assumere questo legame come trans-storico - Hardt/Negri, quanto a loro, scelgono di ignorare completamente questo aspetto delle cose. Il loro soggetto trova in sé stesso la sua giustificazione e, come risultato, si vede assegnato un potere ancora più fantastico. Tutto, assolutamente tutto, procede da lui, ivi comprese le condizioni della sua propria sottomissione al capitalismo. L'essenza di questa classe operaia ribattezzata "moltitudine" risiede nella sua "autonomia" ed in una creatività colossale, esuberante, che non appartiene altri che ad essa. Hardt/Negri propongono in questo modo un concetto di lavoro straordinariamente enfatico, rivestito degli attributi dell'atto creativo divino/artistico (il suo riferimento mitico sarebbe Dioniso), ma che allo stesso viene definito in maniera talmente universale da poter includere tutta l'umanità nel suo concetto di classe.
Trasfigurate ed ontologizzate, le forze produttive sono proprietà esclusiva del soggetto collettivo designato con il termine di "moltitudine", mentre che il capitale, ossia "l'Impero", appare non essere altro che una potenza puramente estranea che si nutre dello sfruttamento di questa "forza vitale": "La moltitudine è la forza produttiva reale del nostro mondo sociale, mentre l'Impero è un mero apparato di imprigionamento che vive solo della vitalità della moltitudine [...] succhiando il sangue dei viventi" (Hardt/Negri 2001, p. 75).
In contrasto con Hardt/Negri, Holloway presenta il capitale come il lato oggettivato del feticcio-merce, ed in aprticolare analizza la categoria del lavoro in quanto forma reificata di attività. Tuttavia, la vera sostanza di questo lavoro, la sua essenza, per lui risiede in un'attività vivente che chiama il "fare" e che mostra ancora tutte le caratteristiche della forza creativa dionisiaca. Essa è descritta in termini di flusso vivente di creatività umana che il capitale interrompe ed oggettivizza; di conseguenza, la lotta emancipatrice deve impegnarsi a "recuperare, o meglio ancora a creare la solidarietà cosciente e fiduciosa del flusso sociale del fare". Assai vicino a Lukács, Holloway si concentra così, a sua volta, sulla questione della presa di coscienza riflessiva da parte di un'ipotetica essenza, salvo il fatto che vede la sua "forza creativa", alla maniera di Hardt/Negri, come un attributo ontologico del soggetto, che il capitale plasma e forma soltanto in maniera superficiale: "In questo senso, in ogni istante si produce uno shock fra lo sviluppo delle forze produttive (il nostro poter-fare) ed il suo sviluppo capitalista".
Una simile metafisica dell'essere rischierebbe di smentire il fatto che il capitale sia una relazione sociale in cui "noi tutti" interveniamo, come Holloway sottolinea a più riprese. Per cui ritorna sulla dritta strada del suo ragionamento quando parla alla fine di una "relazione antagonistica [...] fra l'umanità ed il capitale". Così, invece di decifrare la relazione contraddittoria fra soggettività ed oggettività come elemento costitutivo di una struttura sociale assolutamente specifica storicamente - da un teorico ci si aspetterebbe quanto meno uno stile vicino a quello di Marx - risolve la situazione sul lato del soggetto, sul quale fa piovere la consacrazione di una "dignità" trascendente. Proprio come Hardt/Negri, i quali concludono il loro libro con un'invocazione a san Francesco d'Assisi, Holloway, per mezzo del suo linguaggio formicolante di metafore religiose, lascia chiaramente trasparire questa carica metafisica: "Non esistono affatto "contraddizioni oggettive": noi, e noi soli, siamo la contraddizione del capitalismo [...] Non c'è alcun di dio di qualsiasi sorta, né denaro, né capitale, né forze produttive, né storia: siamo noi le sole creature, gli unici possibili salvatori, i soli colpevoli".

Inversione metafisica dei poli
C'è una spiegazione storica del tutto plausibile per questo cambiamento di prospettiva in direzione di una fondamentazione metafisica. All'inizio del XX secolo, Lukács ha dovuto affrontare una situazione in cui la classe operaia doveva di fatto ancora lottare per il suo riconoscimento come soggetto sociale. Ciò significa che tale carattere non poteva semplicemente essere dato per scontato, ma doveva essere visto come uno sviluppo futuro, insieme al momento oggettivato del processo sociale. Perciò, Lukács sostiene l'idea erronea per cui passare al "per sé" del lavoro significa il superamento del capitalismo, e non la sua totalizzazione.
I nuovi rappresentanti del punto di vista di classe si trovano davanti ad una situazione in cui l'esistenza in quanto venditori di forza lavoro, così come la soggettività moderna, con la sua illusione di completa indipendenza da qualsiasi condizionamento sociale, sono diventati universali. Così, non è una coincidenza che soprattutto il libro di Hardt/Negri, in molti momenti, sia quasi come un sub-testo di orientamento esistenziale narcisista. Fantasie di onnipotenza si alternano ad attacchi di impotenza; la megalomania si trasforma improvvisamente in depressione. Da un lato, celebrano il soggetto "moltitudine" come Creatore del tutto; dall'altro lato, esso viene costantemente ridotto dal potere incomprensibile del capitale o dell'Impero, che trasforma tutti i suoi attacchi in sconfitte.
La ragione del fallimento di questo soggetto autonomo, che si origina interamente dentro sé stesso, per liberare interamente sé stesso da questo potere, che dipende da esso, non può essere stabilito coerentemente dentro la struttura del discorso di Hardt/Negri; esso può essere decifrato soltanto a partire da una critica dell'ideologia. Gli autori non sono capaci di analizzare l'unità contraddittoria fra soggetto moderno ed oggettivazione come marchi della società capitalista e, così, vanno avanti e indietro fra i due poli della soggettività in cui questa contraddizione si rispecchia. E' evidente la somiglianza con l'illusione nietzschiana della lotta eterna fra "forze attive" e "reattive", la quale può essere decodificata come apparenza mistificata delle relazioni di concorrenza capitalisti. In questo senso, Hardt/Negri ed Holloway, così come il postmodernismo in generale, non superano in alcun modo la metafisica, ma effettuano una qualche inversione di poli nel campo del pensiero metafisico. La filosofia hegeliana della storia, con la sua affermazione di "leggi oggettive", è stata sostituita dalla metafisica diffusa, e non meno affermativa, della "volontà" e della "vita".
Mentre Lukàcs vede una "coscienza di classe" oggettivamente definibile, al di là della dimostrazione empirica, che si origina nell'idea per cui il punto di vista del lavoro e del proletariato (potenzialmente) rappresenta la totalità sociale, Hardt/Negri ed Holloway vedono un'0energia esistenziale ed ontologica che identificano con la natura della lotta di classe: il flusso vitale di creatività ed il suo proprio impulso alla liberazione ed all'appropriazione universale del mondo. Tale flusso è il motore universale che porterà ad una connessione inconscia fra tutte le diverse lotte, ancor prima di ogni riflessione o convergenza organizzativa. Così, ogni conflitto sociale potrà essere definito a priori come lotta di classe. L'equazione tautologica è la seguente: ogni conflitto è una lotta di classe; pertanto, la lotta di classe è universale. La questione del superamento della tendenza empirica del conflitto verso interessi particolari, in cui si dibatteva Lukàcs, è stata semplicemente annullata. Questi autori la considerano risolta. La natura anticapitalista comune delle lotte si manifesta direttamente nella sua spontaneità, che è stata sempre inconsciamente-consciamente presente.
Se questa inversione della polarità metafisica permette effettivamente di mettere da parte il concetto tirannico di partito onnisciente, incarnante la "coscienza oggettiva" e, quindi, il diritto ad indicare al proletariato la giusta linea, questo avviene solo per poste sostituirgli un pensiero basato su fantasmi e su pii desideri, che mascherano la realtà sociale almeno quanto prima avveniva con la glorificazione del soggetto-oggetto storico. Non solo si esalta il minimo movimento di resistenza o di contestazione, per quanto ridicolo possa essere, facendone la componente di una sedicente ribellione anticapitalista mondiale senza arrivare a specificare concretamente come essi si articolino; ma il carattere di astrazione totalmente vuoto di una tale metafisica della volontà permette inoltre d'interpretare a piacimento ogni fenomeno sociale come se fosse la prova dell'onnipresente lotta di classe. Così, le migrazioni, per esempio, diventano per Hardt/Negri "delle potenti forme di lotta di classe contro la postmodernità imperiale" - un'interpretazione puramente ideologica che, sotto il nome di "autonomia della migrazione", è oramai un leitmotiv del discorso post-operaista. Ecco quindi che i milioni di persone costrette a fuggire i cataclismi e le devastazioni della crisi capitalista si trovano ad essere strumentalizzate e sfruttate, questa volta sul piano discorsivo, per soddisfare le proiezioni fantasmatiche degli intellettuali e degli attivisti delle metropoli.
Infine, quest'approccio ha come effetto anche quello di relativizzare e di occultare con la peggiore incoerenza le manifestazioni distruttive e perverse della forma soggetto borghese che emergono nel contesto del processo di crisi capitalista. Infatti, una volta che si definisce la lotta unicamente come espressione di una sete di liberazione, cos'è che vieta, in linea di principio, di includere anche la concorrenza social-darwinista, i movimenti fondamentalisti reazionari, o qualsiasi esplosione di violenza puramente gratuita? Ovviamente, Hardt/Negri ed Holloway si guardano bene dal qualificare come emancipatrici tali manifestazioni di "lotta"; ma, che lo vogliano o no, alla luce delle loro teorie, esse appaiono come espressione - anche se un po' barbarizzante - della presunta essenzialità anticapitalista: "A volte il No è violento o barbaro (il vandalismo, l'hooliganismo, il terrorismo): le distruzioni del capitalismo sono talmente importanti che provocano un urlo-contro, un No che è pressoché del tutto deprivato di potenziale di emancipazione, un No talmente nudo che riproduce quasi tutto quello contro cui grida. [...] Non è che il punto di partenza [...] Il punto di partenza è il grido, il No pericoloso e spesso barbaro" (Holloway, 2002). Si avverte per mezzo di queste righe il malessere provato da Holloway di fronte alle sue proprie conclusioni, le quali derivano logicamente dal suo ragionamento o da quello di Hardt/Negri. Dal momento in cui ci si accontenta della pura e semplice negazione astratta del concetto di "coscienza di classe oggettiva" e della sua universalità positiva, senza affrontare allo stesso tempo il quadro concettuale del pensiero metafisico, siamo inevitabilmente portati verso il mito dell'immediatezza capitalista e contribuiamo parimenti, pur sia involontariamente, alla sua legittimazione.
Se non vogliamo che l'accento posto (giustamente) sulla pluralità e sulla eterogeneità di un eventuale movimento di emancipazione mondiale porti a relativizzare e ad occultare la concorrenza atomizzata per l'affermazione di sé, è indispensabile che si adotti un punto di vista di negazione determinata, trovando la sua universalità non in dei principi positivi, o in un'ipotetica "essenza", bensì nella critica della totalità capitalista. E la critica della forma-soggetto moderno ne costituisce uno degli elementi centrali. L'irrazionalità e la distruttività che guadagnano terreno, non sono in nessun caso delle figure perdute, e neanche pervertite, del desiderio di liberazione. Al contrario, per mezzo di esse si mostra, allo stato puro, la forma soggetto borghese che è necessario abolire, e non realizzare. Fermare lo sguardo su tale tendenza è imperdonabile; bisogna invece decifrarla come indice del passaggio attraverso una nuova fase della crisi del sistema feticista delle merci. Questo implica - condicio sine qua non - di tagliare definitivamente i ponte con ogni spazio della metafisica del soggetto.

Addio alla metafisica dell'essere
L'argomento per cui la lotta di classe è, grosso modo, un conflitto di interessi puramente immanenti, ed un movimento di modernizzazione che partecipa al processo d'instaurazione e di universalizzazione della società delle merci - come è stato più volte esposto sulle pagine della rivista Krisis - è stato costantemente criticato come oggettivante. Una cosa è sicura: le lotte portate avanti dal movimento operaio non si sono mai dissolte in questa funzione oggettiva, nel quadro della logica dello sviluppo storicamente specifico del capitalismo. Pertanto, non si possono negare gli ideali rivoluzionari legati a queste lotte, né si possono tacciare di illusioni senza conseguenze o di puri raggiri. Numerosi militanti hanno preso molto sul serio le proprie aspirazioni; essi avrebbero voluto essere i becchini del capitalismo, e non le sue levatrici. Non ci si può accontentare di ricusare queste aspirazioni come il risultato di un inganno funzionale, di una sorta di "astuzia della storia".
Tuttavia, si potrebbe facilmente dimostrare che questa volontà stessa, non appena le veniva dato un contenuto concreto, rimaneva in gran parte prigioniera delle categorie del sistema di produzione di merci. Ciò appare assai chiaramente nella relazione positiva con lo Stato, in quanto istanza sedicente non-economica della coscienza ("primato della politica"), oppure nell'affermazione, ripetuta, del lavoro come categoria centrale della società. A ben vedere, le "prospettive socialiste" finiscono quasi invariabilmente per rivelarsi delle forme cripto-idealizzate della realtà borghese, anche se rimane quasi sempre un residuo che non si inscrive in tale immanenza. Soprattutto, quel ci rimane nella memoria sono quelle fasi (in genere, brevi e transitorie) dei movimenti sociali e dei processi rivoluzionari nel corso dei quali sono state inventate delle forme di cooperazione e di organizzazione sociale (i consigli, i soviet, i kibbutz, ecc.), e che rimangono ancora oggi dei punti di riferimento per ogni ambizione emancipatrice.
Tali eccessi emancipatori possono verificarsi, in linea di principio, in qualsiasi movimento di resistenza solidale contro il dominio e l'oppressione, e soprattutto nella maggior parte degli attuali movimenti sociali che lottano contro le condizioni di vita e di lavoro sempre più insopportabili nella misura in cui la crisi del capitalismo mondializzato si aggrava. E' chiaro che qui non si esprime alcuna "essenza" preesistente che lotta per liberarsi, ma che si tratta, niente di più e niente di meno, del punto di partenza di una possibile organizzazione sociale che non può più essere integrata nelle forme di capitalismo.
Nessun criterio fisso, nessuna posizione sociale privilegiata ci dirà dove e quando emergeranno simili iniziative e come si possono aiutare a dispiegarsi. I movimenti sociali non nascono dalla comprensione astratta della necessità di un cambiamento, ma si attivano sempre a partire da avvenimenti concreti ed in situazioni particolari legate a delle preoccupazioni collettive. La polarizzazione e l'esclusione sociale crescenti ne fanno assolutamente parte. L'analisi dettagliata di tutte queste linee di conflitto è di importanza capitale: essa fornisce dei materiali concreti alla critica sociale radicale, la cui missione consiste nello smascherare le forme-feticcio della società delle merci - non solo nei processi oggettivi ma anche nel soggetto stesso - al fine di aprire una prospettiva sul suo superamento.

- Norbert Trenkle - Pubblicato originariamente su Krisis 29 del 2005 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

domenica 27 settembre 2015

il mercato e la fede

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La resurrezione economicistica della religione
- di Robert Kurz -

Dio è morto, aveva detto Nietzsche. Nietzsche è morto, dice Dio. E, nella realtà, lo dice per bocca dei suoi nuovissimi profeti, curiosamente tutti economisti e teorici della gestione. Fin dall'inizio della nuova crisi capitalista mondiale, e della svolta neoliberista ad essa associata, le comunità religiose hanno cominciato ad economicizzarsi completamente, con forza diabolica. Le grandi chiese si considerano sempre più come fornitrici di servizi per quel che attiene le questioni vitali, vendono consolazione e moralità, allo stesso modo in cui McDonald vende hamburger o Beate Ushe vende biancheria intima provocante. E le tenebrose sette evangeliche, che dagli Stati Uniti missionano il Terzo Mondo, si organizzano come conglomerati transnazionali, assomigliando in questo all'organizzazione terroristica di Al Qaeda. Dappertutto, le congregazioni sono oggetto di razionalizzazione, come la Volkswagen, ed esplorano i mercati della fede, allo stesso modo in cui si esplorano i mercati delle tavolette di cioccolato o quelli delle mine anti-uomo. Il marketing è tutto il mondo in cui Dio stesso arriva ad essere trasformato in una merce, ed in tal modo viene resuscitato dalla tomba come un cadavere ambulante.

Dopo che la religione è stata in questo modo amabilmente economizzata ed ha chinato la testa allo spirito del tempo, ora gli economisti si apprestano a convertire con la stessa delicatezza il dominio della loro specialità in una religione. Viene ricordato con riconoscenza lo studio di Max Weber, pubblicato nel 1905, sulla connessione interna fra capitalismo e protestantesimo, mentre viene pietosamente incluso nella benevolenza dell'economia nazionale anche il cattolicesimo e la religiosità in generale. Solamente dell'Islam si continua a dire che sosterrebbe di non amare troppo la proprietà privata e la concorrenza. D'altra parte, tuttavia, non è soltanto l'avidità ad essere attraente, ma anche la fede. Come sempre avviene nell'economia politica, tutto accade in maniera strettamente scientifica. Così, come riferisce il giornale Handelsblatt, il teorico della crescita di Harvard, Robert Barro, insieme a Rachel McCleary, ha studiato, in rapporto a 59 paesi, se la "dimensione della religiosità" di un paese presenti "significative correlazioni con le variabili macroeconomiche quali il reddito pro-capite". E andiamo a vedere: dappertutto, dov'è più intensa "la fede nel cielo e nell'inferno", si ha sempre anche una più fantastica "performance dell'economia nazionale". Chiunque consideri tutto questo una satira della realtà, può andare all'inferno!

QUesto destino dopo la morte, sicuramente non minaccia Stefan Baron, redattore capo del settimanale Wirtschaftswoche. "La fede porta più successo?", titola il suo periodico, opportunamente prima di Natale, illustrato con la riproduzione delle "Mani in preghiera" di Dürer - per poi subito rispondere affermativamente, nella rubrica "Politica, Gestione, Carriere e Denaro". "Alla fine, la fede è un comandamento della ragione", osserva il redattore capo, che, insieme al filosofo, non del tutto fresco, Jürgen Habermas, vede avvicinarsi una "società post-secolare".

Forse per gli economisti, per quanto riguarda le questioni della religiosità, si tratta non tanto del successo, quanto, al contrario, dell'amministrazione della crisi. Già il canzonatore della religione, Voltaire, aveva detto che la fede era buona per i mocciosi e per le donne, per poter mantenere meglio sotto la sferza questa parte dell'umanità. Dal momento che la fede, come ci rivela Robert Barro, il più delle volte dà luogo a virtù come la morale del lavoro e, non da ultimo, la pazienza. La religione come "condizione vitale per un sostegno morale" (Stefan Baron) forse permette addirittura di aumentare l'accettazione dell'Hartz IV e delle altre mostruosità sociali. Così, il governo di Schröder non avrà più bisogno di fare sciogliere psicofarmaci nell'acqua potabile, per migliorare l'umore, come sospettano alcuni teorici della cospirazione, in quanto basteranno le chiese piene. E' ovvio che, se tutto questo è una stupidaggine, può darsi che la copertina del Witschaftswoche contenga involontariamente un altro genere di messaggio sulla crisi, ossia, un messaggio senza speranza per cui soltanto la preghiera può servire ad aiutare il mondo capitalista.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland, Berlin, 23.12.2004 -

fonte: EXIT!

sabato 26 settembre 2015

La crisi del lavoro

trenkle

Cos'è il valore?
- di Norbert Trenkle -

La gamma di questioni che vorrei dibattere è molto ampia. E va dal livello più fondamentale della teoria del valore, o meglio della critica del valore - cioè, il livello delle categorie fondamentali della società produttrice di merci: lavoro, valore, merci, denaro - fino al livello in cui queste categorie fondamentali appaiono reificate e feticizzate, apparentemente come fatti "naturali" e "coercizioni oggettive". A questo livello - quello del prezzo, del profitto, del salario, della circolazione ecc. - vengono alla luce, allo stesso tempo, apertamente, le contraddizioni interne alla moderna società della merce; qui, si dimostra la sua fondamentale insostenibilità storica: vale a dire, sotto la forma della crisi. E' ovvio che qui, nella brevità che mi è concessa, non posso fornire altro che uno schizzo, ma spero di riuscire a rendere comprensibili le correlazioni essenziali.
Per stabilire un punto di partenza, vorrei cominciare con una categoria che viene comunemente accettata come una condizione del tutto ovvia dell'esistenza umana; il "lavoro". Questa categoria rimane in gran parte non problematizzata nemmeno nel Capitale di Marx, e viene introdotta come caratteristica antropologica che vale per qualsiasi società in ogni luogo e in ogni tempo. "Come creatore di valore d'uso", scrive Marx, "come lavoro utile, il lavoro è una condizione dell'esistenza umana, indipendente da ogni forma di società, eterna necessità naturale per la mediazione del metabolismo fra l'uomo e la natura, e, pertanto, della vita umana".
Tuttavia, per Marx la categoria "lavoro" non è del tutto senza problemi come appare in questa citazione. Altrove, soprattutto nelle opere definite di gioventù, egli adotta toni ben più critici. In una manoscritto che è stato pubblicato soltanto nel 1972, una critica all'economista tedesco Friedrich List, parla espressamente del superamento del lavoro visto come presupposto per l'emancipazione. Scrive: "Il 'lavoro' per la sua stessa natura è attività non-libera, disumana, asociale, determinata dalla proprietà privata e che crea proprietà privata. Quindi l'abolizione della proprietà privata diverrà una realtà solo quando essa verrà concepita come abolizione del 'lavoro'". Anche nello stesso Capitale vi sono certi passaggi che ci ricordano ancora questa comprensione originaria. Tuttavia, non voglio entrare qui nelle ambivalenze di Marx in relazione al "lavoro" (su questo, ad esempio, vedi Robert Kurz, 1995), ma vorrei andare direttamente alla questione di cosa si tratti in questa categoria. Il "lavoro" è di fatto una costante antropologica? Possiamo fare di esso un punto di partenza non-problematico ai fini di un'analisi della società della merce come tale? La mia risposta è un inequivocabile no.

Marx distingue fra lavoro astratto e concreto e designa, in questo modo, il duplice carattere specifico del lavoro nella società produttrice di merce. Con questo suggerisce (e lo dichiara anche esplicitamente) che soltanto al livello di questa duplicità, o scissione, si realizza un processo di astrazione. Il lavoro astratto è astratto in quanto non tiene conto della proprietà materiali concrete e peculiari di ciascuna delle sue attività specifiche - che si tratti di attività di sarto, di falegname o di macellaio - riducendole ad un terzo termine comune. Qui, però, Marx trascura (ed il marxismo comunque non ha sviluppato una qualsivoglia coscienza che problematizzi su questo piano) che il lavoro, in quanto tale, è già un'astrazione. Non, ovviamente, una semplice astrazione del pensiero,quali sono albero, animale o pianta, ma una potente astrazione reale, imposta storicamente, che coapta le persone con il suo potere violento. Astrarre, letteralmente significa sottrarre o sottrarre da qualcosa. In questo senso il lavoro è un'astrazione, quindi, è una sottrazione/separazione di che cosa? Ciò che è sociale e storicamente specifico nel lavoro, evidentemente non è il fatto che le cose in generale siano prodotte e realizzate attraverso attività sociali abbastanza diverse. Questo, di fatto, deve farlo ogni società. La cosa peculiare è la forma in cui questo avviene nella società capitalista. Per questa forma sociale, è essenziale che il lavoro sia già in partenza una sfera separata, staccata dal resto del contesto sociale. Chi lavora lavora soltanto e non fa niente di diverso da questo. Rilassarsi, divertirsi, seguire i propri interessi, incontrarsi ecc., tutto questo deve avvenire fuori dal lavoro, o quanto meno non può avere un effetto perturbatore sui processi funzionali pienamente razionalizzati. E' naturale che questo non possa mai riuscire del tutto, in quanto l'uomo, nonostante l'addestramento secolare, semplicemente non può essere totalmente convertito in una macchina. Ma qui si parla solo di un principio strutturale che empiricamente non avviene mai in tutta la sua purezza - sebbene il processo empirico del lavoro corrisponda già, in forma molto ampia, almeno nell'Europa Centrale, a questo terribile ideale. Per tale ragione, quindi, sulla base dell'esclusione di ogni momento di non-lavoro dalla sfera del lavoro, l'imposizione storica del lavoro cammina insieme alla formazione esterna di sfere sociali sempre più separate, nelle quali questi momenti intermedi sono banditi; sfere che acquisiscono, esse stesse, un carattere esclusivo (laddove viene enfatizzato il senso della parola esclusione, in espulsione): tempo libero, privacy, cultura, politica, religione, ecc.

La condizione strutturale essenziale per questa scissione del contesto sociale, è la moderna relazione di genere, con i suoi attributi dicotomizzati e gerarchizzati fra mascolinità e femminilità. La sfera del lavoro cade inequivocabilmente nel regno del "maschile", cui i requisiti soggettivi rimandano, e che in questo regno si trovano collocati: razionalità funzionale astratta, oggettività, pensiero formale, orientamento alla concorrenza, ecc.; requisiti che ovviamente anche le donne fanno loro se desiderano "essere qualcuno" nella professione. Però, questo regno del maschile può esistere strutturalmente soltanto sul fondale del regno scisso del femminile, collocato in posizione inferiore. In questo regno, l'uomo lavoratore può rigenerarsi, poiché qui la sposa-donna di casa fedele e disponibile si prende cura del suo benessere fisico ed emotivo. Questo contesto strutturale, che l'ideologia borghese fin da sempre ha idealizzato e romanticizzato (in innumerevoli glorificazioni pompose della sposa e madre amorevole e disposta al sacrificio), è stato analizzato più che a sufficienza nell'approccio femminista degli ultimi 30 anni. In questo senso, si può senza dubbio sostenere la tesi per cui il lavoro e la moderna e gerarchica relazione di genere sono inseparabilmente intrecciati. Entrambi sono principi strutturali di base dell'ordine sociale borghese della merce.

Non posso continuare questa discussione in riferimento a tale contesto, in quanto il tema del mio discorso riguarda, in realtà, le mediazioni specifiche e le contraddizioni inerenti al regno del lavoro, della merce e del valore, strutturale e storicamente occupato dal maschile. Vorrei tornare sul tema. Prima, avevo considerato come il lavoro, in quanto forma specifica dell'attività nella società della merce, è già di per sé astratto in quanto costituisce una sfera separata/astratta del contesto sociale residuo. E, come tale, esiste soltanto in generale laddove la produzione di merci è già diventata la forma dominante di socializzazione; cioè, nel capitalismo, dove l'attività umana sotto forma di lavoro non serve ad alcuna altra finalità che non sia la valorizzazione del valore.

Tuttavia, le persone non entrano in questa sfera del lavoro per loro libera volontà. Lo fanno perché sono state separate dai mezzi di produzione e di esistenza più elementari, in un processo storico lungo e sanguinoso, ed ora possono sopravvivere solamente se si vendono per un certo tempo, o più esattamente, se vendono la loro propria energia di vita per un fine esterno ed indifferente, come forza lavoro. Ciò significa, quindi, che il lavoro in principio è una sottrazione elementare di energia di vita ed è, quindi anche, in tal senso, un'astrazione altamente reale. Proprio così, del resto, si dà l'equazione: lavoro=sofferenza, che ci riporta al significato originale del verbo lavorare.

Alla fine, però, l'astrazione predomina nella sfera del lavoro anche sotto la forma di un regime temporale molto specifico, ossia, lineare-astratto ed omogeneo. Quello che conta, l'oggettivamente misurabile, quindi è il tempo separato dalla percezione, dal sentire e dal vivere soggettivo degli individui che lavorano. Il capitale li affitta per un periodo di tempo ben definito, ed in questo periodo di tempo essi devono produrre un output massimo di merci o di servizi. Ciascun minuto che essi non spendono per questo, è, dal punto di vista dell'acquirente della merce forza lavoro, uno spreco. Ciascun minuto individuale è prezioso e conta, in questo senso, in maniera uguale in quanto esso rappresenta letteralmente valore potenziale.

Storicamente, l'imposizione del regime di tempo lineare-astratto ed omogeneo rappresenta una delle fratture più gravi in relazione a tutti gli ordini sociali pre-capitalisti. Com'è noto, c'è stato bisogno di molti secoli di aperta coercizione e di utilizzo della violenza affinché la massa di persone interiorizzasse una simile forma referenziale del tempo senza metterla più in discussione; e cominciassero la giornata in maniera puntuale, ad un determinato orario, in fabbrica o in ufficio, lasciassero la vita fuori dal cancello e si sottomettessero per una parte ben delimitata del loro tempo al ritmo regolare di processi funzionali di produzione predeterminati. Questo fatto ben noto di per sé dimostra da solo quanto poco ovvia sia la forma di attività sociale imposta sotto il nome di lavoro.

Se il lavoro in quanto tale, quindi, non è una costante antropologica, ma è esso stesso un'astrazione (per quanto sia una suprema e potente astrazione sociale), questo che cosa ha a che vedere con il duplice carattere del lavoro che è rappresentato nelle merci, così come Marx lo analizza, e che forma la base della sua teoria del valore? Com'è noto, Marx afferma che il lavoro produttore di merci ha due aspetti: uno concreto, ed uno astratto.

Come lavoro concreto, esso è quello che forma i valori d'uso, cioè, è il produttore di determinate cose utili. Come lavoro astratto, al contrario, esso è dispendio di lavoro in generale, quindi di lavoro al di là di qualsiasi determinazione qualitativa. Esso forma, in quanto tale, il valore rappresentato nelle merci. Cosa rimane, però, al di là di ogni determinazione qualitativa? L'unica qualità che tutti i diversi tipi di lavoro hanno in comune, se si astrae dal loro aspetto materiale-concreto, è il fatto di essere specie differenti di dispendio di tempo di lavoro astratto. Il lavoro astratto è, allora, la riduzione di tutti i lavori produttori di merce ad una tale denominazione comune. La riduzione li rende comparabili e quindi mutuamente interscambiabili, riducendoli a quantità puramente astratta reificata di tempo passato. Come tale, il lavoro costituisce la sostanza del valore.

Quasi tutti i teorici marxisti hanno inteso questa determinazione concettuale, per niente ovvia, come definizione contorta di un dato antropologico, quasi una legge naturale, ruminandola come tale in maniera irriflessiva. Non hanno mai capito che Marx abbia fatto un così grande sforzo nel primo capitolo de Il Capitale - il quale è stato riscritto molte volte - e perché abbia "oscurato", attraverso un linguaggio hegeliano, senza alcun bisogno un assunto apparentemente così plausibile. Era talmente ovvio il lavoro, per il marxismo, appariva loro talmente auto-evidente che esso produceva valore in un senso assolutamente letterale, così come il fornaio cuoce il pane, ed il tempo di lavoro passato, come qualcosa di morto, si conserva nel valore.

Anche in Marx stesso non è chiaro, però, che lo stesso lavoro astratto presuppone, logicamente e storicamente, il lavoro come forma specifica di attività sociale; che questo è quindi l'astrazione di un'astrazione; o detto in altro modo, che la riduzione di un'attività in unità di tempo omogenee presuppone l'esistenza di una misura astratta del tempo che domini la sfera del lavoro in quanto tale. Non sarebbe mai entrato nella testa di un contadino medievale, ad esempio, l'idea di portare a termine il raccolto, nei suoi campi, misurando le ore ed i minuti, e non perché egli non possedeva un orologio, ma perché quell'attività si scioglieva e si integrava nel suo contesto di vita, e la sua astrattizzazione temporale non aveva alcun senso.

Nonostante Marx non chiarisca a sufficienza la relazione del lavoro in sé con il lavoro astratto, non lascia tuttavia alcun dubbio sulla completa follia di una società in cui l'attività umana, ossia un processo vivo, si coagula sotto forma di cosa e si erige, come tale, a potere sociale dominante. Marx ironizza sull'idea comune per cui questo sarebbe un fatto naturale. Quando, per esempio, si oppone alla teoria del valore positivista dell'economia classica, nota che: "Finora, nessun chimico ha scoperto valore nelle perle o nei diamanti". Se Marx, in questo modo, mostra che il lavoro astratto costituisce la sostanza del valore e che quindi si determina la grandezza del valore attraverso la media del tempo speso, allora esso non ricade, in nessuna maniera, nella visione fisiologica e naturalistica dell'economia classica, come dimostra nel suo libro "La Scienza del Valore", il mio collega Michael Heinrich. Come la parte migliore del pensiero borghese a partire dall'Illuminismo in generale, l'economia classica comprende in una certa qual misura le relazioni borghesi, ma solo per dichiararle in seguito, tuttavia, come "ordine naturale". Marx critica tale ideologizzazione delle relazioni dominanti in quanto le decifra come riflesso feticista di una realtà feticista. Egli mostra che il valore ed il lavoro astratto non sono mera immaginazione, che devono solo essere tolti dalla testa delle persone. Ma, nelle condizioni del sistema del lavoro e della moderna produzione di merci - sempre presupposte e che costituiscono il loro pensare ed il loro agire - i loro prodotti appaiono ad essi come espressioni reificate del tempo di lavoro astratto, come se fossero una forza naturale. Le loro stesse relazioni sociali diventano, per gli uomini borghesi, una "seconda natura", come appropriatamente Marx formula. In questo consiste il carattere di feticcio del valore, della merce e del lavoro.

Per questa forma impazzita di astrazione, Alfred Sohn-Rethel ha coniato il concetto di astrazione reale. Con questo concetto, egli intendeva denominare un processo di astrazione che non viene eseguito attraverso la coscienza delle persone come atto del pensiero, ma che viene presupposto nel pensare e nell'agire come struttura apriori della sintesi sociale, la quale essa determina. Per Sohn-Rethel. l'astrazione reale era, però, identica all'atto di scambio; essa domina pertanto laddove le merci si confrontano nella connessione funzionale del mercato. Solo qui, secondo il suo argomento, il disuguale diventa uguale, cose qualitativamente diverse vengono ridotte ad un terzo termine comune: al valore o al valore di scambio. Quindi, in cosa consiste questo terzo comune? Se merci differenti vengono condotte ad un denominatore comune, al valore o al valore di scambio, come espressioni di grandezze differenti di quantità astratta, si deve essere anche in grado di dichiarare qual è il contenuto di questo valore inquietante e qual è la sua misura. A questo Sohn-Rethel non risponde. Ciò deriva, in ultimo ma non per questo meno importante, dal suo concetto ridotto, si può quasi dire meccanicistico, del contesto della società della merce.

Così, la sfera del lavoro appare come uno spazio pre-sociale in cui i produttori privati fabbricano ancora i loro prodotti completamente non influenzati da una qualche forma socialmente determinata. Solo a posteriori essi lanciano i loro prodotti come merci nella sfera della circolazione, dove, poi, nello scambio, si astraggono dalle loro particolarità materiali (e quindi, indirettamente, dal lavoro concreto che in esse è stato speso), dove così esse si trasformano in portatrici di valore. Questo punto di vista, che separa la sfera della produzione dalla circolazione, opponendole eternamente, non arriva al nesso interno del moderno sistema produttore di merci. Qui Sohn-Rethel confonde sistematicamente due livelli di riflessione: in primo luogo, la sequenza cronologica necessaria della produzione e della vendita di una merce singolare. Ed in secondo luogo, in questo processo singolare viene sempre già presupposta l'unità logica e sociale reale del processo di valorizzazione.

Mi piacerebbe qui ampliare l'argomento in maniera un po' più dettagliata, poiché questo modo di vedere non è assolutamente una particolarità di Sohn-Rethel, ma, al contrario, è diffuso in diverse varianti. Anche nel libro citato di Michael Heinrich, si trova questo ad ogni passo. Heinrich afferma (solo per selezionare una citazione fra le tante) che "i corpi delle merci ricevono la loro oggettività di valore che appare soltanto dentro lo scambio", e continua poi: "Isolatamente, osservato di per sé, il corpo della merce non è merce, ma mero prodotto". E' chiaro che Heinrich, a partire da questa o da altre affermazioni simili, non arriva alle stesse conclusioni teoriche di Sohn-Rethel, ma esse sono nella logica della medesima argomentazione. Ma, riesce a tirarsene fuori soltanto per mezzo di costrutti teorici di appoggio, poco convincenti (fondamentalmente: attraverso la separazione tra forma-valore e sostanza del valore).

E' evidente che i prodotti non vengono fabbricati nel processo di produzione capitalista come cose utili innocenti che raggiungono il mercato a posteriori, ma ogni processo di produzione è diretto in anticipo alla valorizzazione del capitale, ed organizzato in corrispondenza a ciò. Vale a dire, i prodotti sono fabbricati già in forma feticistica di cosa-valore; essi devono servire solo ad uno scopo: rappresentare sotto forma di valore il tempo di lavoro astratto speso per la loro produzione. La sfera della circolazione, il mercato, non serve quindi semplicemente allo scambio di merci; al contrario, è il luogo in cui il valore rappresentato nei prodotti viene realizzato, o quanto meno dovrebbe essere realizzato. Affinché questo possa avvenire (condizione necessaria ma non sufficiente), le merci devono essere, com'è noto, anche cose utili; ma cose utili solo per il potenziale acquirente. Il lato materiale-concreto della merce, quindi, il valore d'uso, non è il significato e la finalità della produzione, ma è semplicemente un certo effetto collaterale inevitabile. Dal punto di vista della valorizzazione si potrebbe benissimo fare a meno di questo (e, in un certo senso, questo avviene anche nella misura in cui si producono magicamente cose del tutto assurde o che vengono consumate in brevissimo tempo), ma il valore non si realizza senza un supporto materiale. Poiché nessuno compra "tempo di lavoro morto" in quanto tale, ma solo se questo tempo si rappresenta in un oggetto, il cui acquirente, in qualche modo, attribuisce un qualche beneficio.

Anche per questo, il lato concreto del lavoro non rimane in nessun modo intatto rispetto alla forma presupposta di socializzazione. Se il lavoro astratto è l'astrazione di un'astrazione, allora, il lavoro concreto rappresenta soltanto il paradosso di essere il lato concreto di un'astrazione (cioè, della forma-astrazione "lavoro"). "Concreto", solo nel senso abbastanza ristretto e limitato, per cui merci differenti necessitano di processi di produzione materialmente differenti: un'automobile viene prodotta in maniera differente da un'aspirina o da un temperalapis. Tuttavia, anche questi processi di produzione si comportano tecnicamente ed organizzativamente rispetto alla finalità implicita della valorizzazione, in maniera niente affatto neutra. Probabilmente, non serve spiegare con dettagli come il processo di produzione capitalista avviene, in questo senso: esso è unicamente ed esclusivamente organizzato secondo la massima: il maggior numero di prodotti possibili nel minor tempo possibile. Questo assume il nome, quindi, di efficienza dell'economia di impresa. Il lato concreto-materiale del lavoro è, perciò, nient'altro che la forma palpabile, nella quale la dittatura del tempo di lavoro astratto affronta l'attività dei lavoratori e la costringe al suo ritmo.

A tal proposito, è anche assolutamente corretto affermare che le merci prodotte nel sistema di lavoro astratto rappresentano già valore anche se, tuttavia, ancora non sono entrate nella sfera della circolazione. Che la realizzazione del valore possa fallire, che le merci diventino invendibili o che possono essere vendute al di sotto del loro valore, fa parte della logica delle cose, che però comporta un livello totalmente diverso del problema. In quanto, alla fine, per entrare nel processo di circolazione, un prodotto deve già trovarsi nella forma feticizzata della cosa-valore; e, dal momento che essa, come tale, non è niente più della rappresentazione del lavoro astratto passato (il che significa che è anche sempre tempo passato di lavoro astratto), possiede già necessariamente anche una determinata grandezza di valore. Poiché come pura forma senza sostanza (cioè, senza il lavoro astratto), il valore non può esistere senza entrare in crisi e, alla fine, crollare.

Ora, la grandezza del valore di una merce non è determinato, come si sa, dal tempo di lavoro immediatamente speso nella sua fabbricazione individuale, ma dalla media del tempo di lavoro socialmente necessaria. Questa media non è, d'altra parte, una grandezza fissa, ma cambia in rapporto al livello della produttività vigente in ciascun momento (il che significa, nella tendenza secolare, la diminuzione del tempo di lavoro necessario per ogni merce e, in questo modo, anche della quantità di valore rappresentata). In quanto misura del valore, essa è, tuttavia, sempre già presupposta in ciascun processo di produzione individuale, e regna come sovrana inesorabile. Un prodotto rappresenta, quindi, una determinata quantità di tempo di lavoro astratto solo finché può resistere di fronte al tribunale del modello di produttività sociale. Se in un'impresa si lavora in maniera sotto-produttiva, i suoi prodotti non rappresentano ovviamente più valore di quello che rappresentano quei prodotti che sono stati fabbricati in condizioni sociali medie. Quindi, quest'impresa dovrà aumentare, in un dato periodo, la sua produttività, o dovrà sparire dal mercato.

In questo contesto, un po' di confusione deriva dal fatto che l'oggettività del valore e la grandezza del valore non appaiono nel prodotto individuale, ma appaiono solo nello scambio delle merci; pertanto, solo se esse entrano in relazione diretta con altri prodotti del lavoro astratto. Il  valore di una merce appare, quindi, in un'altra merce. Così, per esempio, il valore di 10 uova può essere espresso in 2 chili di farina. Con la produzione sviluppata di merci (ed è di essa che qui sempre parliamo), il luogo di quest'altra merce è occupato da un equivalente generale: il denaro, nel quale si esprime il valore di tutte le merci e che funziona come misura del valore sociale. Dire che il valore nella forma del valore di scambio appare soltanto a livello di circolazione, qui presuppone già la comprensione che esso non sorge a questo livello, come considerano Sohn-Rethel ed altri teorici dello scambio, così come anche tutti i rappresentanti della dottrina soggettiva del valore; la comprensione, quindi, che esiste una differenza fra l'essenza del valore e le sue forme di manifestazione.

La dottrina soggettiva del valore, che con il suo empirismo superficiale si basa sull'apparenza della circolazione, ha sempre deriso la teoria del valore-lavoro come metafisica, un'accusa che è salita di nuovo in cattedra nelle vesti postmoderne. Senza volerlo, essa rivela qualcosa a proposito del carattere feticista della società produttrice di merci. Quando le relazioni sociali feticiste reificate si avventano, in quanto potere cieco, sulle persone: cos'è questo se non metafisica incarnata? La dottrina soggettiva del valore, ma anche il positivismo marxista, si rafforzano nel fatto per cui il valore non può essere percepito, in nessun modo, come cosa empirica. Perché, di fatto, né la sostanza del lavoro può essere filtrata dalle merci, né in generale possono essere calcolati, in forma consistente, i valori delle merci a partire dal livello di apparenza empirica (cioè, a partire dal livello dei prezzi). "Dove si trova allora il minaccioso valore?" - domandano i nostri positivisti, solo per scartare, subito dopo, questa domanda. In quanto qualcosa che non è empiricamente palpabile e misurabile non esiste nella loro visione del mondo.

Tuttavia, questa critica rappresenta una variante grezza della teoria del valore-lavoro, essa stessa positivista, che è sicuramente tipica della maggior parte del marxismo. In quanto il marxismo ha adottato sempre positivamente la categoria del valore, in un doppio senso: in primo luogo, come già accennato, ha considerato il valore realmente come un fatto naturale o antropologico. Appariva, così, come qualcosa di completamente ovvio che il lavoro passato, o il tempo di lavoro, potesse essere letteralmente conservato nei prodotti come cosa. Tuttavia, bisognava almeno che potesse essere fatta la prova aritmetica di come dal valore di una merce risultasse un prezzo divergente. E, in secondo luogo, solo così era conseguente il tentare di dirigere la produzione sociale per mezzo di questa categoria intesa positivamente. Anche per questo, la principale obiezione al capitalismo era che nel mercato i "valori reali" dei prodotti sarebbero velati e non validi. Nel socialismo, al contrario, secondo una celebre frase di Engels, verrebbe calcolato facilmente quante ore di lavoro "sarebbero collocate" dentro una tonnellata di frumento o di ferro.

Questo è stato il punto centrale del programma di tutto il socialismo reale condannato al fallimento - e, in forma diluita, anche quello della socialdemocrazia - pre-pensato da legioni intere di cosiddetti economisti politici, ivi inclusi quelli costruttivamente critici. Tutto questo era destinato al fallimento perché il valore non è una categoria empirica che, in base alla sua essenza, possa essere trasformata in una cosa comprensibile, ma essa si impone in maniera feticista dietro alle spalle degli uomini che agiscono, dominandolo con leggi cieche. Perciò, è una contraddizione in sé voler dirigere coscientemente una relazione incosciente. Per un tale tentativo, in questo modo, non poteva non esserci una punizione storica.

Se però, finora ho detto che il valore è una categoria non-empirica, questo significa anche che esso non possiede alcuna rilevanza per lo sviluppo economico reale? Ovviamente no. Questo significa solo che il valore non può diventare una cosa materiale, ma deve passare attraverso diversi livelli di mediazione prima di apparire sotto forme metamorfizzate nella superficie economica. Quello che Marx riesce a fare nel Capitale, è dimostrare il nesso logico e strutturale di quelli livelli di mediazione. Egli mostra come le categorie della superficie economica quali prezzo, profitto, salario, interessi ecc. possono essere derivate dalla categoria del valore e dalla sua dinamica interna di movimento, e possono anche essere perseguite analiticamente. In nessun modo, tuttavia, egli si è perso nell'illusione per cui queste mediazioni potrebbero essere calcolate empiricamente nel caso particolare, così come esigeva la dottrina degli economisti nazionali ed il marxismo positivisticamente disarmato (ma senza che essi stessi abbiano mai potuto realizzare questa pretesa). Tuttavia, questo non ha a che fare con una qualche deficienza della teoria del valore, ma si riferisce solamente all'incoscienza di queste mediazioni. Marx non ha mai avuto la pretesa di formulare una teoria positiva che potesse anche servire come strumento politico-economico. La sua preoccupazione era innanzitutto quella di provare la follia, la contraddittorietà interna, e  così, finalmente, l'insostenibilità della società basata sul valore. In questo senso, la sua teoria del valore è, nel suo nucleo centrale, una critica del valore (non a caso, la sua opera principale reca come sottotitolo "critica dell'economia politica") e, allo stesso tempo, è essenzialmente una teoria della crisi.

La fondamentazione empirica della critica del valore in generale e della teoria della crisi, in particolare, non può essere svolta, conformemente alla logica interna della cosa, sotto forma di una matematizzazione esatta, quasi-scientifica, naturale. Dove questo modello metodico viene applicato apriori, come nel famigerato dibattito sulla trasformazione dei valori in prezzi, svolto dal marxismo accademico, il concetto di valore ed il suo contesto totale, da esso costituito, è già fondamentalmente non compreso. E' vero che la critica del valore e la teoria della crisi posso essere fondate empiricamente, solo che il metodo deve recuperare le mediazioni e le contraddizioni interne del suo oggetto. Ciò che questo concretamente significa, qui posso solo insinuarlo. Prendiamo, ad esempio, il risultato fondamentale della teoria della crisi per cui il capitale, a partire dagli anni settanta, attraverso l'espulsione mondiale assoluta della sua forza lavoro viva dal processo di valorizzazione, ha raggiunto i limiti storici della sua stessa forza di espansione e con questo anche della sua stessa capacità di esistenza. Detto in altre parole: la moderna produzione di merci è entrata in un processo di crisi fondamentale che può sfociare solamente nella sua decadenza.

Questo dato non si basa, è chiaro, su una derivazione puramente logico-concettuale, ma risulta dal recupero teorico ed empirico delle rotture strutturali nel sistema mondiale produttore di merci, a partire dalla fine del fordismo. A questo appartiene anche, come fatto fondamentale, quella fusione della sostanza-lavoro (quindi, del tempo di lavoro astratto speso speso al livello alto della forza produttiva dominante) nei settori produttivi centrali della produzione per il mercato mondiale; inoltre, la progressiva ritirata del capitale dalle grande regioni mondiali che in gran parte vengono disaccoppiate dai flussi commerciali e dagli investimenti, e vengono lasciate per loro proprio conto. Infine, agisce in questo contesto anche il vigoroso e sfrenato gonfiaggio dei mercati del credito e della speculazione; che lì si accumuli capitale fittizio in una misura storica mai esistita prima, spiega, da una parte, perché l'esplosione della crisi nelle regioni centrali dei mercati mondiali si sia realizzata in maniera relativamente soffice fino ad ora; ma permette anche di presumere, dall'altro lato, la forza enorme dei processi di svalorizzazione che per ora sono ancora imminenti.

Certamente, una teoria della crisi criticamente fondata sulla critica del valore può arrivare a delle diagnosi errate, e può non prevedere qualche forma del percorso del processo di crisi, sebbene possa essere adatta nelle analisi del dettaglio. Ad ogni modo, però, può provare teoricamente ed empiricamente che non ci sarà nessun nuovo impulso di accumulazione secolare, ma che piuttosto il capitalismo è entrato, irreversibilmente, in un'era di declino e di disintegrazione barbariche. Questa prova coincide necessariamente con la critica implacabile del lavoro, della merce, del valore e del denaro, e non persegue alcun altra meta se non quella del superamento di queste astrazioni reali feticistiche; e in questo modo verrà anche superato il suo stesso ambito di validità: l'auto-superamento della teoria del valore.

- Norbert Trenkle - Testo riscritto a partire da un seminario realizzato il 24 giugno 1988 nell'Università di Vienna -

fonte: Ensaios e textos libertários

giovedì 24 settembre 2015

10 pezzi facili

denaro

Denaro. Dalla critica sociale alla critica categoriale
- di Boaventura Antunes -

Negli ultimi decenni, la contraddizione fra i miliardi che circolano nel settore finanziario e la miseria dei salari di chi ha ancora un lavoro non ha mai smesso di aggravarsi. La maggioranza dei sette miliardi di esseri umani del pianeta, rimane in un'economia del centesimo; i residenti dei quartieri di lamiera delle megalopoli di tutto il mondo intravvedono a malapena il colore dei soldi e, in seguito al collasso dell'economia locale, rimangono impigliati nella rete barbara della dipendenza personale postmoderna. Negli ultimi anni, le classi medie dei paesi centrali hanno sperimentato la valorizzazione fittizia degli attivi finanziari e degli  immobili, rispetto al lavoro (il cui rendimento continua a cadere), con le banche costrette a svolgere solo dei servizi minimi per non lasciar fuori quella parte della popolazione ancora solvibile.
L'abolizione volontaristica del denaro in una società di produzione di merci può dare luogo solamente ad una burocrazia totalitaria, quale è stato il regime di Pol Pot negli ultimi dieci anni dello scorso secolo. E l'emissione arbitraria di moneta dà luogo ad un'iperinflazione, come quella della repubblica di Weimar negli anni 1920, o nei vari paesi latinoamericani negli anni 1980, o più recentemente nello Zimbabwe, che ha finito per adottare il dollaro americano, dopo un'immensa catastrofe sociale provocata dalla svalorizzazione che ha portato alla scomparsa della moneta locale.
Secondo il Rapporto di Ginevra, pubblicato dal Centro Internazionale per gli studi monetati e bancari, nel settembre del 2014 il debito globale (escludendo il settore finanziario) nel 2001 è aumentato del 160% del PIL mondiale, del 200% nel 2009, e del 215% nel 2013. Dopo il 2008, il mondo non ha cominciato a sdebitarsi, ma il rapporto fra debiti e PIL continua ad aumentare, infrangendo ogni record.
A partire dagli anni ottanta del 20° secolo, si è andata approfondendo una critica sociale che cerca di andare oltre la critica politica e morale della gestione del denaro, per riflettere sui limiti e sulle incongruenze della cosa in sé. In sostanza, si constata che questa società basata sul lavoro e sul denaro è vittima del suo stesso successo, e lascia fuori sempre più essere umani, resi superflui dalla produzione di beni vendibili. In un tale contesto, gioca un ruolo particolare la "rivoluzione microelettronica", la quale, per la prima volta nella storia del capitalismo, sopprime più posti di lavoro di quanti sia possibile crearne a partire dall'espansione intensiva ed estensiva dei mercati.
Nei dieci punti che seguono, mi viene in aiuto soprattutto l'ultimo libro di Robert Kurz, Denaro senza Valore, del 2012, la cui introduzione conclude in maniera lapidaria che "il denaro è la manifestazione fondamentale dell'essenza; esso è categoria e, allo stesso tempo, fenomeno palpabile, crocevia della storia e oggetto visibile di abolizione. Per cui è in questo oggetto che la determinazione categoriale negativa può distruggere con maggiore chiarezza l'esaltazione positivista dei fatti e la grettezza fenomenologica."

1. Le società premoderne non avevano mercato, ma religione
A differenza della socializzazione, forte e negativa, della modernità, nella quale le relazioni fra persone sono generali ed astratte sulla base del denaro e della politica, le società premoderne avevano una costituzione sociale su base religiosa. Situate fra il mondo superiore divino e la natura, gli esseri umani cercavano di ottenere i favori celesti offrendo sacrifici agli dei ed obbedendo ai loro rappresentanti sulla terra. Era una socializzazione assai più debole, in cui le relazioni meno strette venivano personalizzate dentro una rete complessa e differenziata, esaltata gerarchicamente nella relazione sacrificale con il divino. Non esisteva l'obbligo moderno, generale ed astratto, ma degli obblighi personali e reciproci, suddivisi in maniera complessa. Non si produceva per il mercato, che non esisteva, ma ciascuna cosa e ciascun prodotto (così come ogni attività, che non era "lavoro") venivano consegnati a determinate persone o gruppi. Non c'era un'economia (questa parola, che esiste a partire dalla Grecia antica, designava qualcosa di diverso, il governo della casa).

2. Il denaro premoderno era sacrale, e non era un equivalente universale
Il denaro nasce, nel contesto dei templi, nel VII secolo prima dell'era cristiana. L'etimologia stessa ricorda ancora la sua origine religiosa. Se la parola denaro proviene dalla moneta più comune durante l'Impero Romano (Asses), l'Asse all'inizio recava l'effige degli dei Giano e Mercurio (successivamente, sostituita dall'effige dell'imperatore). Moeda, money, moneda, moneta, monnaie, e tutti i suoi derivati provengono da Giunone Moneta, la dea nel cui tempio, nei pressi del Campidoglio, si coniava il denaro/moneta e che deve il suo nome alla fama che le proveniva dall'avvertire i romani dei pericoli che minacciavano la città (monere, avvertire, avvisare). Anche le prime monete delle città greche antiche venivano coniate nei templi. A sua volta, il Geld (denaro) germanico ha la stessa radice del verbo gelten (assolvere ad un obbligo, pagare un debito, validare).
Studi storici empirici, svolti nel corso del 20° secolo (Le Goff, Laum, Polany...), indicano chiaramente il carattere sacrale del denaro antico, che compare, in società costituite religiosamente, come oggetto di sostituzione rispetto alla vittima sacrificata agli dei (all'inizio, umana, poi animale e/o primizie dei raccolti). Il denaro coniato passa quindi ad equivalere alla prestazione di tali sacrifici agli dei e si estende (limitatamente) alla sfera pubblica al fine di sanare conflitti fra gruppi. Non esisteva alcun concetto di equivalenza fra la moneta coniata ed il suo valore, dal momento che non esisteva alcun concetto di valore o di equivalente universale. Laum riferisce il fatto interessante per cui la relazione di "validità" tra una moneta d'argento e una moneta d'oro era la stessa relazione che intercorreva fra il tempo di rivoluzione della luna e quello del sole.

3. Lo "scoppio della modernità" avviene con la "economia politica delle armi da fuoco"
Gli studi di Geoffrey Parker, Werner Sombart e Karl Georg Zinn mostrano che l'inizio della modernità, nel XV secolo, ha luogo con l'invenzione delle armi da fuoco e con la conseguente corsa agli armamenti (nuove armi, nuove mura), che creano i primi salariati (soldati, al soldo) - come già notava Marx - e che, al fine di tale corsa, obbligano alla centralizzazione delle risorse tecniche e materiali. Il denaro sacrale premoderno, che era già entrato in diverse relazioni sociali (ma che non era in alcun modo un equivalente universale), qui viene a costituire una scoperta storica: i principi obbligano i sudditi a pagare in moneta i loro contributi al fine di ottenere risorse per la corsa agli armamenti, fenomeno che si potenzia con l'arrivo di oro e di argento dall'Africa e dalle Americhe.

4. Il denaro "ha circolato" solamente nel processo di costituzione iniziale, dopo passa ad essere accumulato, tautologicamente.
In realtà, solo in questa fase di costituzione della modernità, nella quale tutti i possessori di risorse erano obbligati a monetizzarle, ma in cui la produzione di beni non avveniva ancora in regime di lavoro salariato e di denaro, è solo in questa fase che c'è stata una vera "circolazione". Quando il sistema comincia a funzionare sulle sue proprie basi, dopo cha la maggioranza della popolazione è stata espropriata delle risorse ed è stata costretta al lavoro salariato, nel sistema così come lo conosciamo, il denaro non circola, si accumula solamente, come possiamo vedere: qualsiasi impresa cerca di ottenere guadagni per pagare l'investimento ed un'eccedenza per un investimento addizionale (in considerazione dell'essere sopraffatta dalla concorrenza). Qualsiasi merce prodotta percorre la strada a senso unico, più o meno lunga, che porta al consumo (o alla spazzatura). L'idea per cui i produttori scambiano fra di loro i propri prodotti non ha alcun fondamento reale, è pura ideologia.

5. Il denaro attuale è capitale, ed il capitale è "relazione sociale totale"
Contrariamente al denaro antico, il denaro attuale esiste in un contesto di produzione delle merci per il mercato e dev'essere investito in tale processo per valorizzarsi, mediante l'applicazione della forza lavoro alla produzione. Ha valore soltanto nella misura in cui rappresenta lavoro passato, prestato a livello dello sviluppo della società. In questo senso il capitale è una relazione sociale, in quanto socializza la maggioranza della società, bene o male.
Il denaro diventa la "pura unità" (Eske Bockelmann), il puro relazionare fra di loro tutte le merci, le quali a loro volta diventano "puramente relazionate", indifferenti al contenuto, meramente quantitative (prezzo). Nel loro trattare con i soldi, tutti i membri della società apprendono questa straordinaria astrazione, un pensare senza contenuto, che si realizza come semplice riflesso, rimanendo per i soggetti nella sua forma inconscia. Si stabilisce così una "nuova episteme" (Foucault).
Il carattere tautologico del fare del denaro più denaro. è già stato definito "feticismo della merce" da Marx, il quale identificava il capitale come il vero "soggetto automatico" di questa società, essendo gli operai ed i capitalisti solo delle "maschere di carattere" di questo auto-movimento alienato.

6. La faccia occulta della socializzazione del valore: la "dissociazione sessuale" delle attività dimenticate ma imprescindibili dell'amare, curare e proteggere, separate dalla sfera pubblica e delegate alle donne, smentisce la pretesa della totalità
Al di là di Marx (storicizzato come "duplice Marx": il Marx del potere dei lavoratori, che si è esaurito con il socialismo reale, ed il Marx critico del feticismo, più attuale che mai) si deve individuare il crimine che ha fondato la società del denaro e del lavoro nella "caccia alle streghe" che segna il suo inizio. La "dissociazione sessuale" (Roswitha Scholz) non è una relazione derivata del valore (valorizzazione), ma è essenziale e costitutiva della relazione sociale totale. Entrambi i momenti essenziali centrali della medesima relazione sociale, in sé contraddittoria e frammentaria, devono essere compresi allo stesso alto livello di astrazione. Quello che non può essere compreso nel valore, che è quindi dissociato da esso, smentisce la pretesa di totalità della forma valore.
La dissociazione valore come principio formale storico-dinamico segna tutta la storia del capitalismo; non è una struttura rigida, ma una logica processuale. Non da ultimo, lo sviluppo delle forze produttive e la creazione di plusvalore per mezzo dell'applicazione di conoscenza scientifica ha le sue basi, anche su un piano culturale-simbolico, nella dissociazione del femminile.

7. Il denaro come equivalente universale è una merce a parte dotata di valore materiale
Nella dinamica sociale della valorizzazione inconsciamente svincolata dagli esseri umani, e che si è sparsa per tutto il pianeta, il valore risultante dal lavoro prestato in termini socialmente validi è rappresentato nell'insieme delle merci ed in quell'equivalente universale che è il denaro. Il denaro deve contenere un valore materiale, che fino alla prima guerra mondiale era l'oro. Già allora questo era difficile, ed oggi non esiste sul pianeta abbastanza oro per rappresentare in termini pratici l'enorme quantità di beni e di servizi prodotti. Le due guerre mondiali del 20° secolo non hanno risolto il problema, ma hanno solo stabilito un patto, a Bretton Woods: dollaro convertibile in oro e monete legate al dollaro. A partire dal 1973, con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro, viviamo in un sistema post-monetario, nel quale il dollaro svolge più o meno la funzione di moneta mondiale (non in virtù dell'oro in stock, ma grazie alla forza militare dell'ultima potenza, vista come porto sicuro per qualsiasi investimento). Si sono creati così i famosi deficit gemelli degli Stati Uniti, i quali importano da tutto il mondo pagando con titoli di credito: il qual deficit, ironicamente, ha apparentemente mantenuto in funzione il sistema mondiale su questa base insostenibile.
Il corso prolungato del credito, disegnato su un futuro lontano - per prima cosa il credito statale delle economie di guerra, poi il credito generale ed universale per gli investimenti, la produzione ed il consumo, entrambi ottenuti nel corso di un ballo in maschera transnazionale di derivati del denaro sempre più incredibili - corso prolungato che ha dato origine ad un positivismo dei fatti, che pretende di mettere in ridicolo la teoria del valore basato sul lavoro, sostenendo che il denaro (o qualsiasi altra cosa) vale secondo quello che il mercato offre per esso. Cosa che non smette di essere empiricamente vera. Ma il peggio è che tale verità è altrettanto instabile del valore di mercato e rapidamente spariscono nel cielo finanziario miliardi, che di fatto erano fittizi, rendendo difficile giustificare il disastro della manipolazione portata a termine da banchieri ed altri speculatori (si veda la situazione ridicola della burocrazia cinese in cerca di colpevoli per l'ultimo crollo della borsa).

8. La sostanza materiale del capitale è il lavoro astratto
Ora, la sostanza del capitale può essere soltanto il lavoro socialmente valido. Se le merci vengono prodotte in processi tendenzialmente automatizzati, a livello globale esse non hanno alcun valore. Se il denaro viene emesso senza che sia in proporzione all'applicazione di lavoro socialmente valido, anch'esso non ha alcun valore. Non si può mettere il carro davanti ai buoi: quando si costruiscono città intere sulla base di crediti provenienti in maniera arbitraria da presunti profitti futuri, anche se si applica manodopera ad un livello socialmente necessario, tali città si rivelano essere soltanto rovine nel paesaggio, dal momento che non c'è chi le possa comprare per abitarvi (come è avvenuto in Cina, e non solo).
Va notato come il valore delle merci e del denaro si determina a livello globale nel processo di concorrenza universale: è qui che i vincitori si appropriano del valore prodotto, i quali vincitori, per ironia, sono proprio quelli che hanno meno contribuito alla produzione del valore globale attraverso l'aggiunta di lavoro socialmente valido. Un processo realmente potenziale ed irrazionale in sé, che non può funzionare. La realtà non ha niente a che vedere con i "pregiudizi popolari" (Marx), secondo i quali il valore si trova incorporato nella merce, e se il giusto valore non viene realizzato sul mercato, questo avviene solo perché gli speculatori non permettono che avvenga (lo stesso Marx appare supporre, qua e là, il valore individuale di ciascuna merce, ma nel terzo volume del Capitale la presenta inequivocabilmente come relazione sociale totale). Un tale preconcetto, che si sviluppa rapidamente in "antisemitismo strutturale", continua a fomentare allegramente molti discorsi politici della sinistra, insinuando o affermando che tutto si risolverà per mezzo di una corretta direzione del mercato da parte dello Stato (anche dopo la fine ingloriosa degli Stati cosiddetti socialisti).

9. Nella dinamica della valorizzazione del lavoro, durante il tempo astratto si produce un tempo concreto irreversibile. Dal "plusvalore relativo" e dalla "caduta tendenziale del saggio di profitto" al limite internio assoluto della valorizzazione
Moishe Postone è stato il primo a studiare attentamente il tempo nel capitalismo. Contrariamente alle società agrarie, con il loro tempo ciclico, qui il tempo è lineare ed astratto; si lavora (cioè, si spende "nervi, muscoli e cervello", secondo l'espressione di Marx) a produrre per il mercato, tendenzialmente tutti i giorni e ad ogni ora. Ma in questo tempo astratto, con lo sviluppo delle forze produttive, e distruttive per imposizione della concorrenza che è inerente alla produzione di merci, si produce un tempo concreto, in cui le precedenti condizioni di produzione diventano successivamente obsolete.
Con il "plusvalore relativo" e nonostante la "caduta tendenziale del saggio di profitto", come studiato da Marx, il sistema può, per qualche tempo, espandersi internamente ed esternamente, perfino con miglioramenti palpabili per i lavoratori, come è avvenuto nel dopoguerra con il cosiddetto fordismo. Quel tempo è finito. Non c'è più dove espandersi. E neppure c'è più dove spendere, in termini economicamente validi, "nervi, muscoli e cervello", se non da parte di una minoranza molto ristretta. Come previsto da Marx, è andata gambe all'aria la base del modo di produzione, fondato sul valore, in quanto sistema sociale.
Nel "Collasso della Modernizzazione" (Robert Kurz) attualmente in corso - dopo il crollo dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, nel loro tentativo di entrare nel mercato mondiale - si è spezzato il secondo anello più debole del sistema mondiale di produzione di merci, rivelando i regimi cosiddetti socialisti come meri tentativi di "modernizzazione ritardata" nel sistema del lavoro e del denaro. Il disastro in corso colpisce tutto il mondo ed arriva perfino nei centri. Un mondo pieno di rifugiati è l'espressione più brutale della fine della capacità immanente di sviluppo capitalista.
Nei confini del sistema, la dissociazione sessuale non è superata, ma è semmai aggravata attraverso un "inselvatichimento del patriarcato". che scarica sulle donne le conseguenze della crisi ("doppia socializzazione", dal momento che si lavora in casa e fuori di casa) e che tenta di coinvolgerle nella gestione della società in rovina ("donne delle macerie"). I limiti interni sono evidenti anche nel fatto per cui le attività tradizionalmente svolte dalle donne, e di connotazione femminile, che esigono una logica di spreco di tempo, devono ora essere svolte professionalmente, secondo una logica di risparmio di tempo.

10. Non esiste né denaro mondiale né potere mondiale. Le donne e gli uomini di tutto il mondo devono liberarsi dai resti falsificati del denaro e del potere e dall'alienazione delle attività dissociate di "curare e proteggere" per socializzare all'altezza dei tempi
Il sistema irrazionale basato sul lavoro e sul denaro, creato inconsapevolmente dagli esseri umano senza che ne abbiano coscienza, si basa sulla concorrenza. Gli operatori che riescono a produrre meglio e a costo più basso, grazie all'innovazione e alla riduzione dei posti di lacoro, sono quelli che hanno successo nell'appropriarsi  di una fetta più grossa del valore globalmente prodotto. Vale a dire, visto dalla prospettiva d'insieme, i vincitori non solo liquidano i concorrenti, ma a lungo termine liquidano il sistema stesso (come previsto da Marx).
L'innovazione imposta dalla concorrenza esige sempre più crediti a causa dei costi di produzione preventivi. Nell'economia globalizzata, è stridente la contraddizione fra il carattere nazionale dello Stato e del denaro, col carattere globale del capitale. I titoli di credito circolano sui mercati finanziari globali mascherati da "derivati finanziari" sotto le forme più incredibili. Con l'espediente del "quantitative easing", le banche centrali (per prima la Federal Reserve degli Stati Uniti, poi la BCE, con 60 miliardi di euro al mese) "comprano", con denaro creato dal nulla, i rifiuti tossici dei titoli di credito impagabili degli Stati e delle grandi imprese, trasformandosi in una pattumiera, ma rimandando solo così il collasso del sistema.
Uno degli aneddoti ricorrenti del discorso politico attuale è che tutti i paesi vogliono aumentare la competitività e le esportazioni. Una contraddizione in sé.
La moneta emessa con effige nazionale è stato un pezzo della concorrenza interna ed internazionale. Contrariamente agli aneliti verso la pace perpetua di Kant, il diritto internazionale si è sempre basato sulla forza. E la guerra, come ha notato Clausewitz, era la continuazione della politica con altri mezzi. Ma ora, così come non c'è produzione di valore socialmente rivelante, non ci sono nemmeno più Stati vincitori per potersi imporre, ma solo bande armate a piede libero nella terra bruciata delle regioni collassate nel mercato mondiale. La primavera araba non è arrivata all'estate.
I regimi fascisti postmoderni pseudoreligiosi, barbaramente misogini e antisemiti, pretendono di nascondere l'insostenibilità di un modo di rapportarsi divenuto obsoleto, per mezzo di rituali assurdi, di mancanza di rispetto dell'individuo, di repressione brutale e, soprattutto, di accresciute esigenze per le donne, rivelandosi così specificamente moderni e capitalisti, nonostante i loro abiti religiosi.
Per uscire dalla "gabbia di ferro" (Max Weber) della valorizzazione del valore, bisogna "pensare contro sé stessi" (Adorno) e tener conto di quella faccia occulta del valore che è la dissociazione sessuale.

"Dalla prospettiva della critica della dissociazione-valore, i diversi piani, il piano materiale, quello culturale-simbolico e - last, but not least - quello psicanalitico, devono essere relazionati fra di loro, in un intreccio dialettico ed in una simultanea separazione nel loro sviluppo processuale. Soltanto così potrà essere soppiantata la totalità negativa, al di là... dell'universalismo androcentrico, che nella realtà caratterizza essenzialmente la decadenza di crisi del patriarcato capitalista" (Exit! 12, del 2014).

- Boaventura Antunes - Presentazione al Club di Filosofia di Abrantes, 21 settembre 2015 -

fonte: EXIT!