venerdì 27 novembre 2015

Stasis

guerracivile

La “stasis” greca rappresenta la tensione irrisolta tra due appartenenze: alla famiglia e alla città.
Per Platone “chi combattendo uccide un fratello va giudicato puro come chi ammazza un nemico”

Che una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi. Roman Schnur, che già negli anni Ottanta formulava questa diagnosi, aggiungeva tuttavia che la disattenzione nei confronti della guerra civile andava di pari passo al progredire della guerra civile mondiale. A trent’anni di distanza, l’osservazione non ha perso nulla della sua attualità: mentre sembra oggi venuta meno la stessa possibilità di distinguere guerra fra Stati e guerra intestina, gli studiosi competenti continuano a evitare con cura ogni accenno a una teoria della guerra civile.
È vero che negli ultimi anni, di fronte alla recrudescenza di guerre che non si potevano definire internazionali, si sono moltiplicate, soprattutto negli Stati Uniti, le pubblicazioni concernenti le cosiddette internal wars; ma, anche in questi casi, l’analisi non era orientata all’interpretazione del fenomeno, ma, secondo una prassi sempre più diffusa, alle condizioni che rendevano possibile un intervento internazionale. Il paradigma del consenso, che domina oggi tanto la prassi che la teoria politica, non sembra compatibile con la seria indagine di un fenomeno che è almeno altrettanto antico quanto la democrazia occidentale.
Un’analisi del problema della guerra civile — o stasis — nella Grecia classica non può non esordire con gli studi di Nicole Loraux, che ha dedicato alla stasis una serie di articoli e saggi, raccolti nel 1997 nel volume La Cité divisée. La novità nell’approccio di Loraux è che essa situa immediatamente il problema nel suo locus specifico, cioè nella relazione fra l’oikos, la “famiglia” o “casa”, e la polis, la “città”. All’inizio della Politica, Aristotele distingue così con cura l’oikonomos, il “capo di un’impresa”, e il despotes, il “capofamiglia”, che si occupano della riproduzione e della conservazione della vita, dal politico, e critica aspramente coloro che ritengono che la differenza che li divide sia di quantità e non, piuttosto, di qualità.
Dove “sta” la stasis, qual è il suo luogo proprio? Innanzitutto una citazione dalle Leggi di Platone: «Il fratello [adelphos, il fratello consanguineo] che, in una guerra civile, uccide in combattimento il fratello, sarà considerato puro [catharos], come se avesse ucciso un nemico [polemios]; lo stesso avverrà per il cittadino che, nelle stesse condizioni, uccide un altro cittadino e per lo straniero che uccide uno straniero ». Ma ciò che risulta dal testo della legge proposta dall’Ateniese nel dialogo platonico non è tanto la connessione fra stasis e oikos, quanto il fatto che la guerra civile assimila e rende indecidibili il fratello e il nemico, il dentro e il fuori, la casa e la città. Nella stasis, l’uccisione di ciò che è più intimo non si distingue da quella di ciò che è più estraneo. Ciò significa, però, che la stasis non ha il suo luogo all’interno della casa, ma costituisce piuttosto una soglia di indifferenza fra oikos e polis, fra parentela di sangue e cittadinanza. La stasis — questa è la nostra ipotesi — non ha luogo né nell’oikos né nella polis, né nella famiglia né nella città: essa costituisce una zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città. Trasgredendo questa soglia, l’oikos si politicizza e, inversamente, la polis si “economizza”, cioè si riduce a oikos. Ciò significa che, nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città e la città si depoliticizza in famiglia.
Esiste, nella tradizione del diritto greco, un documento singolare, che sembra confermare al di là di ogni dubbio la situazione della guerra civile come soglia di politicizzazione/depoliticizzazione che abbiamo appena proposto. Si tratta della legge di Solone, che puniva con l’atimia (cioè con la perdita dei diritti civili) il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti. Non prendere parte alla guerra civile equivale a essere espulso dalla polis e confinato nell’oikos, a uscire dalla cittadinanza per essere ridotto alla condizione impolitica del privato. Questo nesso essenziale fra stasis e politica è confermato da un’altra istituzione greca: l’amnistia. Nel 403, dopo la guerra civile in Atene che si concluse con la sconfitta dell’oligarchia dei Trenta, i democratici vittoriosi, guidati da Archino, si impegnarono solennemente a «non ricordare in nessun caso gli eventi passati» cioè a non punire in giudizio i delitti commessi durante la guerra civile. Commentando questa decisione — che coincide con l’invenzione dell’amnistia — Aristotele scrive che in questo modo i democratici «agirono nel modo più politico rispetto alle sciagure passate ». L’amnistia rispetto alla guerra civile è, cioè, il comportamento più conforme alla politica.
Dal punto di vista del diritto, la stasis sembra così definita da due interdetti, perfettamente coerenti fra loro: da una parte, non prendervi parte è politicamente colpevole, dall’altra, dimenticarla una volta finita è un dovere politico. In quanto costituisce un paradigma politico coessenziale alla città, che segna il diventar politico dell’impolitico (dell’oikos) e il diventar impolitico del politico (della polis), la stasis non è qualcosa che possa mai essere dimenticato o rimosso: essa è l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti. Proprio il contrario, cioè, di ciò che la guerra civile sembra essere per i moderni: cioè qualcosa che si deve cercare di rendere a tutti i costi impossibile e che deve sempre essere ricordato attraverso processi e persecuzioni legali.
Quando prevale la tensione verso l’oikos e la città sembra volersi risolvere in una famiglia (sia pure di un tipo speciale), la guerra civile funziona allora come la soglia in cui i rapporti familiari si ripoliticizzano; quando a prevalere è invece la tensione verso la polis e il vincolo familiare sembra allentarsi, allora la stasis interviene a ricodificare in termini politici i rapporti familiari. La Grecia classica è forse il luogo in cui questa tensione ha trovato per un momento un incerto, precario equilibrio. Nel corso della storia politica successiva dell’Occidente, la tendenza a depoliticizzare la città trasformandola in una casa o in una famiglia, retta da rapporti di sangue e da operazioni meramente economiche, si alternerà invece a fasi simmetricamente opposte, in cui tutto l’impolitico deve essere mobilitato e politicizzato. Secondo il prevalere dell’una o dell’altra tendenza, muterà anche la funzione, la dislocazione e la forma della guerra civile; ma è probabile che finché le parole “famiglia” e “città”, “privato” e “pubblico”, “economia” e “politica” avranno un sia pur labile senso, essa non potrà essere cancellata dalla scena politica dell’Occidente.
La forma che la guerra civile ha assunto oggi nella storia mondiale è il terrorismo. Se la diagnosi foucaultiana della politica moderna come biopolitica è corretta e se corretta è anche la genealogia che la riconduce a un paradigma teologico-oikonomico, allora il terrorismo mondiale è la forma che la guerra civile assume quando la vita come tale diventa la posta in gioco della politica. Proprio quando la polis si presenta nella figura rassicurante di un oikos — la “casa Europa”, o il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale — allora la stasis, che non può più situarsi nella soglia fra oikos e polis, diventa il paradigma di ogni conflitto ed entra nella figura del terrore. Il terrorismo è la “guerra civile mondiale” che investe di volta in volta questa o quella zona dello spazio planetario. Non è un caso che il “terrore” abbia coinciso col momento in cui la vita come tale — la nazione, cioè la nascita — diventava il principio della sovranità. La sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata è l’incondizionata esposizione alla morte, cioè la nuda vita.

- Giorgio Agamben - dal primo capitolo di "STASIS - La guerra civile come paradigma politico", Bollati Boringhieri" -

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- Stasis è il nome della guerra civile nella Grecia antica. Un concetto così     inquietante o impresentabile per la filosofia politica posteriore da non essere fatto  oggetto sinora di una dottrina adeguata, neppure da parte dei teorici della rivoluzione. Eppure, sostiene Giorgio Agamben fornendo qui i primi elementi di una necessaria «stasiologia», la guerra civile costituisce la fondamentale soglia di politicizzazione dell’Occidente, un dispositivo che nel corso della storia ha permesso alternativamente di depoliticizzare la cittadinanza e mobilitare l’impolitico, e che vediamo oggi precipitare nella figura del terrore su scala planetaria. Al suo paradigma concorrono insieme due poli antitetici dei quali Agamben mette allo scoperto la segreta solidarietà, quello classico secondo cui la guerra civile è coessenziale alla polis, al punto che chi non vi prende parte è privato dei diritti politici, e quello moderno rappresentato dal Leviathan di Hobbes, che ne decreta l’interdizione, ma introduce una scissione – e con questa la possibilità della guerra civile – all’interno stesso del concetto di popolo. -

1 commento:

Anonimo ha detto...

Cretini si nasce (e non è una colpa), ignoranti si diventa e si può evitare , l'arroganza è intollerabile ! Io oggi ho imparato il significato della parola STASIS e sono contento di non aver passato un giorno della mia vita invano Ciao Franco e grazie.