mercoledì 18 novembre 2015

Il lessico dell'antisionismo

gaza

Gli assassini dei bambini di Gaza (14 di 15)
- Un'operazione "piombo fuso" per cuori sensibili -
di Robert Kurz

SINTESI
 Nella sua analisi critica dell'ideologia, "Gli assassini dei bambini di Gaza", Robert Kurz affronta i modelli di percezione della sinistra riguardo al conflitto in Medio Oriente. Dopo che negli ultimi anni, le guerre capitaliste di ordinamento mondiale, e la loro affermazione da parte dell'ideologia "anti-tedesca", sono state fondamentalmente criticate dalla "Critica della dissociazione-valore", adesso è tempo di considerare anche il rovescio di tale interpretazione ideologica, i cui portatori sono inoltre schierati positivamente con la socializzazione globale del valore e dei suoi prodotti in decomposizione. Queste interpretazioni della situazione mondiale sono impregnate di un "anti-israelismo" affettivo, alimentato anche da un "odio inconscio per gli ebrei" (Micha Brumlik), in quanto lo Stato ebraico e la sua azione militare contro Hamas e Hezbollah  vengono di per sé sussunti al capitale mondiale ed al suo imperialismo securitario. Di conseguenza, la barbarie islamica contro Israele non viene vista come l'altra faccia della medesima medaglia dell'imperialismo di crisi, ma come "resistenza", in maniera quasi romantica. In questo contesto, la base del raffronto col vecchio "anti-imperialismo" impallidisce, ed il conflitto in Medio Oriente diventa un conflitto per procura, al servizio di una "critica del capitalismo" della nuova piccola borghesia, che digerisce regressivamente la crisi mondiale del capitalismo.
(Presentazione del testo nell'Editoriale di EXIT! n° 6 dell'agosto del 2009)

SOMMARIO
* Asimmetria morale ed analisi storica * La violenta emozione dell'inconscio collettivo antiebraico * Il duplice carattere dello Stato d'Israele * L'identificazione positiva e negativa di Israele con il capitale mondiale * Le impossibili richieste di un paradosso reale * La ragion di Stato di Israele nelle guerre contro Hamas e Hezbollah * L'opinione pubblica mondiale anti-israelita e la decomposizione ideologica della sinistra * Una "terza posizione" che non è una posizione * Delitto e castigo o critica radicale mediata storicamente? * Un cuore dalla parte del regime della Sharia * Il determinismo della coscienza e il ruolo degli eroi * Il conflitto per procura e la demoralizzazione della critica del capitalismo * Anti-israelismo - la matrice di un nuovo antisemitismo * La sinistra come Dr. Jeckill e Mr. Hyde *

* Anti-israelismo - la matrice di un nuovo antisemitismo *
Si può quindi parlare perfettamente di un nuovo antisemitismo, fino a ben dentro la sinistra, che di fatto mostra anche di essere in accordo con l'ideologia dell'antisemitismo classico del 19° secolo, pur avendo, tuttavia, assunto una nuova qualità. Questa qualità attiene, altresì, al campo di riferimento della globalizzazione, o del capitale mondiale, che distingue chiaramente la formazione delle nazioni avvenuta nel 19° secolo dagli spazi costituitisi come nazioni alla metà del 20° secolo. Gli stereotipi e gli ideologemi antisemiti, ampiamenti diffusi, includono una definizione positiva, a partire dalla quale l'ebreo viene respinto in quanto l'estraneo; definizione questa ormai solo virtualizzata e postmoderna (nazione, etnia, religione), senza alcuna prospettiva di un futuro reale. L'irrealtà del proprio punto di vista immaginativo emerge, però, ancora più violentemente nella commozione antisemita, in quanto per mezzo di questa si apre un'altra dimensione di attribuzione proiettiva della colpa. Se gli ebrei sono stati una volta oggetto di ripulsa nella costruzione reale della nazione, ora diventano il capro espiatorio della sua decadenza.
Anche l'ideologia della crisi economica, caricata antisemiticamente in senso stretto, si è modificata; e non solo perché ha perso il suo campo di riferimento nell'economia nazionale. A livello mondiale, prima della nuova esplosione della crisi, si stava già espandendo il nuovo modello di spiegazione del processo di crisi, il quale, com'è noto, inverte la relazione di causa ed effetto, non facendo derivare le bolle finanziarie dal limite interno della valorizzazione reale ma, al contrario, derivando questo limite dalle bolle finanziarie e riconducendo la responsabilità della miseria - in ultima analisi, in accordo con un "anticapitalismo" dalla linea dura apertamente antisemita - al carattere ebraico del capitale finanziario e, infine, alla minaccia ebraica mondiale. Questo momento costituisce naturalmente il maggior accordo con l'antisemitismo classico; ma la sua riformulazione è nuova, differente, e tuttavia legata ad una sindrome globale, presente nella società mondiale dell'inizio del 21° secolo.
Fuori dai centri capitalisti, la spiegazione antisemita della crisi si costruisce, secondo il suo contenuto astratto, con una coerenza simile a quella dell'Europa e del Nord America nel periodo fra le due guerre. La succitata interpretazione spudoratamente antisemita della grande crisi finanziaria, svolta dal presidente Ahmadinejad, viene assunta senza mezzi termini, non solo nell'arco islamico che va dal Sud-Est asiatico fino al Maghreb, ma anche in America Latina, in Europa Orientale, in Russia e perfino in Africa. Quest'ampia internazionale dell'antisemitismo economico, che non era esistita in questo modo nella precedente crisi economica mondiale, potrebbe essere definita, facendo dell'umorismo nero, come l'ultima onda della "modernizzazione ritardata", che ormai consiste solamente nell'assumere la vecchia spiegazione antisemita della crisi.
E' vero che in Europa e anche in Nord America ci si imbatte di nuovo in questa interpretazione; "l'anticapitalismo" di "sinistra" apertamente antisemita, qui si mescola sempre più con i corrispondenti modelli di digestione, della destra radicale. Simultaneamente, però, un gran parte della sinistra metropolitana adotta lo stesso modello in maniera discontinua e differenziata, per poter continuare a respingere, scandalizzata, la conseguente accusa di antisemitismo. Questa sindrome si manifesta in maniera multidimensionale in riferimento al movimento di critica della globalizzazione. Le spiegazioni apertamente antisemite della crisi, da un lato vengono criticate, però, dall'altro lato, vengono chiaramente tollerate; e proprio in connessione con le reazioni emotive al conflitto per procura che si svolge in Medio Oriente. Qui, entra in gioco una condanna addizionale, nella misura in cui una determinata parte della sinistra denuncia pubblicamente questa tolleranza - ritenendosi così fuori pericolo - facendo però simultaneamente professione di malleabilità riguardo alla "critica tronca del capitalismo" meramente economica, che, come avviene con gran parte di ATTAC, insiste sul capitale finanziario. Questi fatti richiedono un ulteriore chiarimento, più dettagliato.
Quando i rappresentanti di ATTAC, sotto l'impatto della crisi finanziaria globale, hanno cominciato a propagandare la parola d'ordine: "Facciamo chiudere i casinò!", vi si poteva riconoscere, senza difficoltà, quella inversione fra causa ed effetto che è tipica dell'interpretazione corrente attuale, non solo nel movimento di critica della globalizzazione, ma anche nell'economia politica e nei media borghesi. Secondo tale illusione, basterebbe che venissero corretti gli "eccessi" dell'economia delle bolle finanziarie e che i mercati finanziari fossero nuovamente sottomessi ad una regolamentazione rigorosa, per ricomporre l'economia suppostamente reale e per far sì che il flusso finanziario venga di nuovo messo al servizio di "normali" posti di lavoro. Tuttavia, il riconoscimento secondo il quale la causa più profonda della crisi risiede nella mancanza di produzione di plusvalore reale non può essere completamente negato dalla sinistra residuale, nella misura in cui essa adotta ancora in qualche modo elementi di critica dell'economia politica di Marx; sebbene la relativa ricezione sia completamente banalizzata e sebbene venga negato il carattere della crisi come limite storico della valorizzazione. Anche all'interno del consiglio scientifico di ATTAC si possono trovare argomentazioni che qualificano quella spiegazione della crisi come superficiale ed invertita, almeno in una certa misura, in quanto "critica tronca del capitalismo". La questione, però, è come convivere con questo.
Nei dibattiti interni alla sinistra, a partire dagli anni novanta, come già riferito, il concetto di "critica tronca del capitalismo" si è spesso caratterizzato come "antisemitismo strutturale". Non ci interessa qui scegliere la parola giusta; si può forse parlare, ad esempio, di proto-antisemitismo. La legittimazione di quest'attributo risiede nel fatto per cui, nella storia della modernizzazione, una critica piccolo-borghese classica iniziale - ad esempio, quella di Proudhon - al capitale che frutta interessi, oppure al sistema creditizio (al posto della critica del modo di produzione come tale) era generalmente legata alle ideologie antisemite, così come lo è oggi la falsa spiegazione della crisi a partire dalle bolle speculative basate sul sistema di credito. Questa relazione è talmente ovvia che anche un bambino la può capire.
E' su questo punto che entra nuovamente in gioco una peculiare impostura della sinistra, che riconosce e nasconde questa relazione. Da un lato, nonostante la negazione del fatto che sarebbe stato raggiunto un limite storico del capitalismo, si sottolinea il carattere della "critica tronca del capitalismo" e si richiama l'attenzione, in maniera cautelativa, sul "pericolo" del modello di interpretazione antisemita in essa insito. Dall'altro lato, però, si rifiuta il concetto di "antisemitismo strutturale" basandosi sul fatto che non "tutta" questa critica tronca del capitalismo è antisemita in partenza. In questo modo, si gioca con la fluttuazione del concetto, che si muove fra la falsa spiegazione meramente economica della crisi e l'antisemitismo manifesto, per fare sparire così la loro palese relazione interna. In entrambi i casi, la costruzione ideologica è minimizzata.
Ultimamente, si è fatto notare come ci sia in questa minimizzazione un opportunismo politico in relazione alla coscienza delle masse e del movimento. Perfino una sinistra che riflette amerebbe non perdere le buone grazie della sua presunta clientela, al fine di conservare o di guadagnare "influenza". La critica necessaria dell'ideologia rimane, pertanto, superficiale e viene per metà ritirata. Si manifesta qui, tuttavia, il carattere sociale della sinistra in quanto movimento della classe media. La critica tronca del capitalismo - svolta in maniera differente - del vecchio marxismo del movimento operaio, presentava di fatto punti di contatto con l'ideologia antisemita, senza però soccombere a quest'ultima. Il presupposto di tutto questo, era il programma di un capitalismo di Stato "proletario" che avrebbe dovuto ereditare la socializzazione del capitalismo finanziario (così, in Hilferding), anziché spiegare la qualità negativa dello sviluppo a partire dal capitale finanziario, reinterpretando questo in modo antisemita. Dal momento che l'egemonia del discorso della coscienza della classe media ora rappresenta soltanto il rovescio della decadenza del vecchio movimento operaio e dell'accumulazione reale del capitale, si è rotta la barriera che si opponeva alle spiegazioni della crisi che venivano date dalla nuova piccola borghesia e che sbarrava la strada ai concetti di realizzazione corrispondentemente falsi e compatibili con l'antisemitismo. Tuttavia, "dopo Auschwitz" questo può venire espresso solamente in maniera differenziata, inibita e sostenuta ideologicamente.
Troviamo così un ampio spettro di "critica tronca del capitalismo", "antisemitismo strutturale", antisemitismo aperto, ed una sinistra residuale intrappolata in quest'orbita dove respira con difficoltà, che di fatto non vorrebbe comunicare incondizionalmente con tutto questo, ma che allo stesso tempo procede in maniera inarrestabile verso questa direzione, in quanto ormai non riesce a formulare una qualsivoglia opposizione fondamentale ed ha mancato la trasformazione in una critica più profonda delle moderne relazioni di feticcio. Nella differenziazione regionale mondiale, la spiegazione della crisi in forma brutale ed antisemita ha il suo centro di gravità nella periferia del mercato mondiale. Nei centri è (ancora) minoritaria; qui, finora, essa ha incontrato il suo equivalente in quell'antisemitismo strutturale in grado di essere maggioranza nel movimento di critica della globalizzazione, e che è almeno minimizzato, o negato, da parti della sinistra residuale. Quest'approccio si completa per mezzo della minimizzazione dell'antisemitismo islamista e per mezzo di costruzioni ideologiche simili, in altre regioni periferiche, che in parte vengono anche percepite come "suscettibili di alleanza".
Nel nuovo antisemitismo, quindi, è nuovo, in primo luogo, il dislocamento del campo di riferimento verso la globalizzazione del capitalismo di crisi; in secondo luogo, la perdita, a questo associata, e la virtualizzazione del punto di vista della ripulsa, nel quadro del processo di dissoluzione delle identità nazionali ed etniche; in terzo luogo, lo sviluppo, ideologicamente discontinuo, della sinistra globale nella spiegazione erronea della crisi e in grado di subire un'annessione antisemita, legato alle strategie di minimizzazione. Tuttavia, queste sono soltanto le condizioni sociali esterne, economiche e storiche del nuovo antisemitismo. Quel che è essenziale, però, è la conseguenza diversa di tutte queste costruzioni ideologiche. Nuove, rispetto all'antisemitismo classico che alla metà del 20° secolo sono soprattutto lo sfondo storico dell'Olocausto e dell'esistenza dello Stato ebraico armato.
"Dopo Auschwitz", l'insieme della sindrome economico-ideologica nel contesto della falsa spiegazione della crisi non può continuare a sfociare, con la stessa linearità, nel postulato dell'annichilimento degli ebrei. E' vero che l'antisemitismo specificamente islamista - ad esempio quello del negatore dell'Olocausto, Ahmadinejad, così come quello che ha un corrispondente nel proposito di annichilimento fisico della Carta di Hamas - è vicino al potenziale astratto di distruzione, sebbene in un contesto ideologico differente. Ma il proposito dell'annichilimento si concentra assai meno sulla popolazione ebraica del mondo in generale, rispetto a quanto essenzialmente si concentri sullo Stato di Israele. Il punto di vista eliminatorio del nuovo antisemitismo si è spostato sull'esistenza di tale Stato. Qui si manifesta il carattere del conflitto per procura, in tutte le sue conseguenze.
Se questa tendenza continua ad esprimersi attraverso il lessico del "antisionismo" e, almeno in parti della sinistra, respinge l'accusa di antisemitismo, questo è fuorviante. Il cosiddetto sionismo è stato la legittimazione ai fini della formulazione di uno Stato nazionale moderno autonomo degli ebrei, come reazione all'antisemitismo. L'antisionismo, che a sua volta reagiva ideologicamente contro il sionismo, aveva ragioni del tutto diverse. Quindi, esiste un antisionismo ebraico, soprattutto di provenienza ultra-ortodossa, che deriva dalla tradizione contro-illuminista delle corporazioni religiose dell'ebraismo e che condanna lo Stato secolare moderno a partire da una posizione meramente reazionaria. All'interno di Israele, è proprio quest'antisionismo ortodosso che, nella sua trasformazione postmoderna, costituisce un potenziale autonomo di barbarie, in molte delle sue espressioni perfettamente equiparabili all'islamismo postmoderno. Da un'altra parte, vi è un antisionismo del marxismo tradizionale, soprattutto di provenienza trotzkista, appoggiato dalla sinistra ebraica secolare. In questo rientra, per così dire, un onorevole anti-nazionalismo, il quale si nutre dell'idea della "rivoluzione mondiale" proveniente proprio dal trotzkismo e che, nel contesto ebraico, si erge contro il nazionalismo (sionista) "proprio"; tuttavia, come nel marxismo tradizionale in generale, senza che vi sia una sufficiente riflessione sull'ideologia antisemita in quanto condizione costitutiva dello Stato ebraico e del suo carattere duplice.
Tuttavia, ad aver maggior e più significativa importanza storica, è stato l'antisionismo palestinese ed arabo-islamico, il quale si è inquadrato nel vecchio contesto "antimperialista" della modernizzazione in ritardo e, su questa base, è riuscito a legarsi ad elementi del pensiero del marxismo tradizionale. Qui, non è possibile entrare in dettaglio nelle distorsioni e contraddizioni che su questo sono state costruite. Per quel che attiene all'antisionismo specificamente palestinese della vecchia OLP, esso avrebbe dovuto dar vita ad una formazione nazionale alternativa arabo-palestinese. Ora, è evidente che nello stesso territorio non si possono costituire due Stati nazionali opposti; anche da qui, il proposito di "spingere gli ebrei fino in mare". La valutazione di questo conflitto, diventato fattivamente falso, è chiara dal punto di vista della teoria critica radicale. La legittimazione della fondazione dello Stato ebraico, come reazione all'antisemitismo globale, ed il duplice carattere di Israele da questo risultante, non corrisponde in alcun modo, sul lato palestinese, ad una qualche contro-legittimazione adeguata. Il concetto di "nazione palestinese", così come nel caso delle formazioni nazionali arabe in generale, è puramente artificiale, ed in questo speciale caso costituisce soltanto una reazione formale alla fondazione dello Stato ebraico.
Nelle condizioni del capitalismo di crisi globalizzato, la fondazione di uno Stato palestinese è del tutto obsoleta; l'idea viene mantenuta ideologicamente in piedi soltanto sulla base degli interessi dei rispettivi apparati ed élite. L'unica soluzione possibile consiste nel fatto che i palestinesi abbiano autonomia all'interno di Israele, che venga finalmente data la rispettiva nazionalità ai discendenti dei rifugiati nei ghetti nei paesi vicini e che vengano integrati negli Stati arabi vicini quei territori palestinesi fuori da Israele; sempre con uno statuto di autonomia. Che una "nazione" debba essere il massimo dei massimi, e addirittura un obiettivo vitale, è talmente assurdo ed anacronistico per la popolazione palestinese, quanto lo è per i curdi; tanto più per il fatto che le nazioni si stanno dissolvendo e tribalizzando in gran parte del mondo. Lo stesso Stato ebraico è una soluzione di emergenza a partire da un contesto sociale mondiale di cui non esiste alcun equivalente palestinese. Come dimostra la guerra civile fra Hamas e Fatah, a Gaza, lo Stato palestinese si dissolve ancora prima della sua possibile fondazione. Regimi barbari post-statali come quelli di Hamas ed Hezbollah non hanno alcun diritto all'esistenza.
Le posizioni dell'antisionismo qui descritte hanno già superato la data di scadenza; e tutte quante sono state, sin dall'inizio, reazionarie o deficitarie. Se ora la sinistra, "critica di Israele", con la sua solita impostura, considera con pseudo-ingenuità che l'antisionismo non è propriamente la stessa cosa che è l'antisemitismo, questa non è nemmeno una mezza verità. Se ignoriamo l'ideologia antisionista degli ultra-ortodossi in Israele, essa stessa trasformata in maniera postmoderna, il termine non ha veramente alcuna ragione di esistere. Se oggi viene formulata un'ideologia antisionista da parte dei regimi islamici, ma anche nella sfera pubblica borghese dell'Occidente, e non da ultimo nella sinistra globale, questo integra esclusivamente la funzione di conflitto per procura nelle nuove condizioni di crisi, la cui digestione proiettiva, in riferimento al conflitto locale, dovrebbe essere meglio designata come anti-israelismo postmoderno. In realtà, è da tempo che qui non si tratta del vecchio anti-nazionalismo degli ebrei trotzkisti, e neppure della formazione di una nazione palestinese, ma, al contrario si tratta di Israele come area di frizione e punto di ripulsa di un "anticapitalismo" regressivo, che dà la sua forma costante al nuovo antisemitismo "dopo Auschwitz".
Attraverso costruzioni ideologiche apertamente antisemite, della "critica tronca del capitalismo", dello "antisemitismo strutturale" ad essa associato e di tutti gli incentivi della sinistra alla minimizzazione, il potenziale globale del nuovo antisemitismo si focalizza, così, nell'ostilità dichiarata ad Israele. Qui possono cadere le maschere, in quanto si può esprimere la sindrome, del resto più o meno diffusa, come commozione morale contro gli assassini dei bambini di Gaza, e fare così spazio ad uno stato d'animo che diversamente non è chiaramente formulabile. Così come l'antisemitismo classico copre un ampio spettro, dalla ripulsa profonda, dalla discriminazione e dall'espropriazione, passando per il pogrom spontaneo, fino alla politica dello sterminio, anche il nuovo antisemitismo copre il suo rispettivo spettro, dall'asimmetria morale nella valutazione del conflitto e dalla condanna della ragion di Stato militare israeliana, passando per la "critica ad Israele" per principio, fino al proposito dell'annichilimento dello Stato d'Israele. L'anti-israelismo è diventato la matrice adeguata di un antisemitismo ideologicamente avvolgente del 21° secolo, anche se non vuole farsi conoscere come tale proprio a sinistra. In questa matrice può nascondersi la spiegazione piccolo-borghese classica della crisi, scaricando la sua militanza regressiva in un campo di sostituzione. Il riconoscimento di tale contesto nella situazione mondiale modificata costituisce il criterio della critica dell'ideologia, se essa parte dalla negazione fondamentale della forma di feticcio del capitale.

- Robert Kurz – 14 di 15 – (continua…)

fonte: EXIT!

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