lunedì 30 novembre 2015

Gramsci e il Partito della Nazione

gramsci

La miracolosa rinascita di Antonio Gramsci
- di Robert Bösch -

"La verità è che le possibilità di successo di una rivoluzione socialista non hanno altra misura che il successo stesso"
- Antonio Gramsci (1891-1937), riferendosi alla Rivoluzione d'Ottobre -

Al più tardi, con la sparizione dell'URSS dalla scena politica mondiale, anche quello che si soleva chiamare "teoria marxista" ha perso ogni e qualsiasi rilevanza sociale. Anche le varianti più illuminate del marxismo si riferivano all'Unione Sovietica, se non come socialista, quanto meno come formazione sociale "post" o "non-capitalista". La sua caduta catastrofica ha sigillato anche il verdetto sulla sinistra fino ad allora esistente, e sul suo concetto di teoria.
In questo contesto, non si può non considerare, o nutrire grande interesse per Antonio Gramsci. Non è facile comprendere perché un pensatore che ha visto come proprio compito quello di "tradurre in italiano" le esperienze della Rivoluzione d'Ottobre (Zamis, 1980), e per il quale Lenin era il "maggior teorico moderno" del marxismo (Perspektiven, 1988), non venga trattato come un cane morto. Di fatto, la rinascita di questo rivoluzionario fallito dei tempi della III Internazionale suscita sorpresa, se si considera che non solo la sinistra, ma anche la destra teorica, ha riscoperto per sé questo "marxista classico". Se Gramsci era già popolare a partire dal decennio 1970, in un determinato spettro della sinistra accademica, che in Germania Occidentale era riunito intorno alla rivista Argument, nel 1977 il teorico della nuova destra francese, Alain de Benoist, ha scritto un libro in cui adattava a suo modo il pensiero di Gramsci. E così, mentre l'editore di Argument, all'inizio del decennio 1990, cominciava a pubblicare la prima traduzione completa, in lingua tedesca, dei suoi Quaderni dal carcere, scritti durante la prigionia nelle carceri fasciste, l'adattamento di Gramsci fatto da Benoist lo integrava al pensiero della "nuova destra" tedesca. Nel 1985, veniva pubblicata la traduzione tedesca del libro di Benoist, dal titolo "Rivoluzione culturale di destra: Gramsci e la Nuova Destra", e la rivista mensile Junge Freiheit (Giovane Libertà), che oggi ha una tiratura di 35.000 copie, chiedeva, riferendosi direttamente a Gramsci, che la destra recuperasse la "egemonia sociale" che perso a favore della sinistra.
Come si può spiegare l'appropriazione, apparentemente così contraddittoria, di un teorico, rispetto al quale la rivista socialista Perspektiven aveva asserito, nel 1988, essere "pericoloso" per l'ordine dominante nella stessa misura in cui lo era per gli "stupidi di destra"; e che il marxista inglese Stuart Hall, nel 1989, aveva descritto come l'espressione del "rinnovamento del marxismo""? Forse che la rivendicazione di Gramsci, fatta tanto dalla sinistra quanto dalla destra, era un segnale del fatto che il suo principio teorico era diventato obsoleto?
In questo testo, non può essere data una risposta completa ad una simile domanda. Tuttavia, mi piacerebbe tentare - attraverso uno sguardo più minuzioso ai teoremi centrali di Gramsci ed al contesto storico in cui vennero formulati - di indicare in che misura ci sia una logica comune nelle interpretazioni apparentemente contraddittorie di questi teoremi.

1. Lo schema Base-Sovrastruttura: Fondamento del pensiero di Gramsci
Il punto di partenza del pensiero teorico di Gramsci è senza dubbio la Rivoluzione d'Ottobre. E' facile capire che la caduta del regime zarista, nel bel mezzo della carneficina della prima guerra mondiale, sia stata sentita da lui come la rivelazione "di una nuova coscienza morale", come "l'inizio di un ordine nuovo". La particolarità della Rivoluzione d'Ottobre, per Gramsci, consiste nel fatto che essa è stata una "rivoluzione contro Il Capitale" di Karl Marx, dal momento che i bolscevichi avevano dimostrato che "è possibile realizzare il socialismo in qualsiasi momento". Queste "affermazioni peculiari", come le ha definite Guido Zamis, editore di Gramsci, non erano dovute al fatto che Gramsci si fosse imbarcato in una "corruzione interpretativa del marxismo", ma, al contrario, esse sviluppavano in maniera esemplare il punto centrale di una comprensione del marxismo, la quale giudica la realtà esclusivamente a partire da dentro l'orizzonte del concetto di lotta di classe: "Gli avvenimenti... dipendono dalla volontà dei molti, la quale si esprime nel fare o nel non fare determinate cose, e nelle posture mentali corrispondenti, ed essi dipendono dalla coscienza di questa volontà, che soltanto una minoranza detiene, e del modo in cui questa minoranza dirige tale volontà verso un fine comune, di modo che questa volontà di molti venga unificata nel campo dell'autorità statale". Il marxismo è perciò una "teoria dell'azione", che deve culminare nella "fondazione di un nuovo Stato".
Quest'atteggiamento volontarista, inizialmente sembra differenziare Gramsci dall'ortodossia marxista, come constata Annegret Kramer: "contro il 'finalismo fatalista' di una teoria della storia che fa del proletariato un'appendice, o nel migliore dei casi un'ipotesi, un organo esecutivo della 'razionalità della storia', Gramsci sottolinea invece il significato dell'iniziativa politica nel processo di sviluppo storico". Tuttavia, una concordanza con Lenin, espressa nella polemica contro i "rinnegati" della II Internazionale, indica come Gramsci non si sia liberato in alcun modo dal sistema di categorie del marxismo contemporaneo [*1] Egli enfatizza solamente l'elemento volontarista, che è vincolato alla contrapposizione esteriore e dicotomica fra la "base oggettiva" ("le relazioni di produzione") ed il "fattore soggettivo" ("la classe operaia"), contrapposizione che è stata da sempre il fondamento segreto per la divisione della sinistra in correnti "oggettiviste" e "soggettiviste".
Gramsci ha interpretato "l'economicismo" come un'espressione effettiva del "finalismo fatalista", ritenendo necessario che esso debba essere combattuto "non solo nella teoria storiografica, ma anche soprattutto nella teoria e nella prassi politiche". In un'annotazione dei Quaderni del Carcere, a proposito della relazione "base-sovrastruttura", si legge che: "l'affermazione per cui qualsiasi movimento nella politica e nell'ideologia dev'essere rappresentato e spiegato come espressione immediata della base, dev'essere combattuta... come infantilismo primitivo...".
A sostegno, egli cita la lettera di Engels a Joseph Bloch del 21/9/1890, nella quale Engels scrive: "secondo la concezione materialista della storia, il fattore determinante in ultima analisi della storia è la produzione o la riproduzione della vita reale (...) La situazione economica è la base, ma i differenti momenti della sovrastruttura... anch'essi esercitano la loro influenza sul corso storico delle lotte...". Per Gramsci, ne consegue la "unità dialettica fra la base e la sovrastruttura" in un processo di interazione. Tuttavia, proprio questo concetto di "interazione" chiarisce come in questa formulazione della relazione fra "la base e la sovrastruttura", la struttura dicotomica della conoscenza della filosofia occidentale non è stata superata in alcun modo. Come lo ha espresso Hegel: "l'insufficienza che attiene all'applicazione della relazione di interazione, vista più da vicino, consiste nel fatto che questa relazione, anziché poter essere considerata come equivalente del concetto, vuole essere concettualizzata essa stessa, e questo avviene per il fatto che entrambe le parti non si lasciano riconoscere come qualcosa di immediatamente dato, ma, al contrario... come momenti di una terza parte, più elevata, la quale è allora il concetto".
A quest'assenza di un concetto generale di relazionamento sociale, si trova vincolato il fatto per cui l'enfasi dell'analisi teorica può essere posta solamente su una "base" (cioè, sul "fattore oggettivo") o su una "sovrastruttura" (cioè, sul "fattore soggettivo"), ragion per cui anche a livello soltanto teorico varia secondo la situazione storica. Dietro le accuse reciproche di oggettivismo (chiamato anche "economicismo") e di soggettivismo (o "volontarismo"), generalmente scompare il fatto che si tratta soltanto di un'identità negativa.
La "sovrastruttura" politico-culturale viene vista da Gramsci come costituita in maniera differente dalla "base", intesa come "movimento economico", e perciò si deve lasciare "agire" i due campi uno sopra l'altro in maniera meccanica (ed è questo che egli intende per "dialettica"). "Dialettica", in Gramsci (come anche in Engels, almeno in quello tardivo) non è unità che processa momenti contraddittori, ma è soltanto un nesso bipolare dinamizzato. La forma soggiacente della relazione borghese è un presupposto inconscio di questa teoria, le sfere della "politica", "economia", ecc., costituite da tale forma, vengono presentate come in relazione le une alle altre soltanto esteriormente.
Con questo schema base-struttura, come sfondo, Gramsci può interpretare la Rivoluzione d'Ottobre nel senso che "le condizioni politiche di una trasformazione guidata da marxisti non hanno necessariamente bisogno di corrispondere ai presupposti di un sistema capitalista decrepito". Di conseguenza, affermava di riconoscere nell'URSS il paradosso di una "sovrastruttura politica" comunista, la cui "base economica" era ancora capitalista. Il concetto di interazione emerge come soluzione del problema delle "relazioni fra la base e la sovrastruttura", in quanto esso permette a Gramsci di dare alla "sovrastruttura" "una realtà effettiva ed oggettiva", vale a dire, definire le relazioni sociali di produzione, ridotte a "condizioni economiche", come determinanti in ultima istanza; e inoltre, tale concetto permette a Gramsci, in quanto "filosofo pratico", di intervenire nella politica, interpretata come lotta immediata degli interessi di classe: "1. L'economia è in ultima analisi determinante; 2. La politica non può tralasciare di avere il primato sull'economia: essa è 'al posto di comando' ". Oppure, nelle parole di Lenin: "la politica non può non avere il primato sull'economia. Pensarla diversamente significa dimenticare l'ABC del marxismo": Per comprendere tutte le implicazioni di una simile visione, bisogna analizzare più da vicino il concetto di ideologia di Gramsci.

2. Lo Stato integrale e la lotta per l'egemonia
Anche il concetto gramsciano di ideologia è determinato dal "primato della lotta di classe": la frase, nella prefazione alla critica dell'economia politica, secondo la quale gli esseri umani acquistano coscienza dei conflitti strutturali, nella sfera dell'ideologia, dev'essere vista come un'osservazione che ha valore cognitivo, e non valore puramente psicologico e morale". Nell'introduzione a quel testo, Marx scriveva che "ad un determinato punto di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con le relazioni di produzione esistenti". Per Gramsci, tuttavia, tale contraddizione non è l'antagonismo fra il contenuto materiale e la forma di relazionamento sociale, il valore, ma la contraddizione, classicamente marxista fra lavoro salariato e capitale. Dal momento che non considera il proletariato come una maschera della merce-lavoro, come una categoria immanente al capitalismo e da esso costituita, la manifestazione superficiale dell'opposizione degli interessi di classe gli si presenta necessariamente come un punto di riferimento che trascende il capitalismo.
Gramsci non pone la contraddizione fra capitale e lavoro soltanto nella sfera della produzione, ma, inoltre, riferendosi a Marx, definisce la politica, intesa in quanto "sovrastruttura politico-culturale", come sfera della lotta di classe per mezzo di "forme ideologiche, nelle quali l'uomo diventa cosciente di questo conflitto e realizza la lotta". Concetti come "democrazia" o "nazione", gli si presentano come senza un "significato del tutto fisso", e per mezzo dei quali, in funzione di ciò, è possibile sviluppare una "lotta strategica".[*2] La "democrazia" non viene concettualizzata come forma politica adeguata al capitalismo sviluppato, né la "nazione" come punto di riferimento identitario dell'individuo borghese, ma, coerentemente con le illusioni più belle della volontà libera ed astratta, tali concetti vengono considerati "neutri", strutturalmente e conseguentemente strumentalizzabili a fini emancipatori (ed anche a fini reazionari): "si tratta di rimuovere un significato del concetto ("democrazia") dal campo della coscienza pubblica ed impiantare questo significato nella logica di un discorso politico differente". In questo modo, si rende già "possibile dare al concetto di nazione un significato ed una connotazione progressista".
Secondo questo punto di vista, è decisivo che si abbia il potere di definizione nella società, al fine di definire "il significato e la connotazione" di determinati concetti e categorie della "sovrastruttura". Per Gramsci, le ideologie sono "visioni del mondo", la cui coerenza dipende da come esse possono "modificare e trasformare la coscienza quotidiana". La coscienza quotidiana, o il senso comune, è il "terreno" sul quale sorgono concetti e categorie, sul quale si forma concretamente la coscienza pratica delle masse". In funzione di ciò, tale "terreno" diventa un campo strategico della lotta di classe"; le ideologie sono "costruzioni pratiche, strumenti di direzione politica (...) Per la filosofia della prassi, le ideologie sono tutto meno che arbitrarie, sono fatti storicamente reali, i quali, in funzione della loro natura, devono essere combattuti ed additati come strumenti di dominio, e questo non per motivi morali bensì per motivi pratici: per rendere i governati intellettualmente indipendenti dai governanti, per distruggere un'egemonia e costruirne un'altra, come momento necessario della rivoluzione della pratica".
Questa nozione d'egemonia ideologica ci porta al concetto di "blocco storico", centrale per Gramsci, per mezzo del quale cerca di comprendere la società in quanto "totalità concreta" (Kramer) e di collocare le relazioni di classe in un contesto globale. "Posto che lo Stato sia un modo di costituzione e di organizzazione di una classe, (...) l'unificazione dei diversi strati sociali si realizza in un blocco storico intorno ad una classe dominante e ad uno Stato". La condizione per cui una classe diventa dirigente, ossia, egemonica, è il "ruolo decisivo che ha questa classe nella produzione materiale". "Se l'egemonia è etica e politica, essa dev'essere anche economica ed avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nella zona centrale dell'attività economica". In questo modo, si costituisce un nuovo blocco "storico" attraverso la conquista dell'egemonia economica, politica e culturale da parte di una classe, e "con l'andare al governo della classe in espansione, la sua funzione egemonica diventa" finalmente "anche quella di uno Stato".
Quando una classe conquista la completa egemonia, Gramsci parla di uno "Stato integrale", definito come "società politica e società borghese, vale a dire, egemonia, protetta per mezzo della coercizione", o "dittatura più egemonia". Cosa si intende con questo? "A rigor di termini, lo Stato è identico al governo, l'apparato della dittatura di classe, nella misura in cui esso esercita funzioni economiche e coercitive. Il dominio di classe viene esercitato in senso classico attraverso l'apparato statale (esercito, polizia, amministrazione, burocrazia)". Questa è la concezione classica dello Stato "come strumento di dominio di classe", come "macchina di repressione della classe oppressa e sfruttata" (Engels).
Gramsci espande questo concetto di Stato come apparato di coercizione ("società politica") al concetto di "società civile" in quanto società borghese/civile. Tale concetto si riferisce da un lato "alle 'società capitaliste', ossia, alle condizioni materiali di vita, al sistema privato di produzione. Dall'altro, implica un apparato ideologico-culturale di egemonia, nell'aspetto educativo dello Stato". Quest'ultimo si manifesta nello "insieme di tutti gli organismi comunemente denominati 'privato'", per i quali si deve intendere "istituzioni come scuole, università, chiesa, associazioni, sindacati e mezzi di comunicazione di massa".
"Società civile" e "società politica" possono essere concettualizzate come "piani effettivi", che formano - come viene formulato da Schreiber - "un'unità che abbraccia tutte le sfere statali e sociali". Lo Stato si presenta allora, insieme al suo ruolo di apparato di coercizione, e attraverso gli strumenti dell'egemonia, intesi come culturali, politici ed economici, come "organizzatore dell'approvazione", che costruisce un "consenso dei governati" e assicura in tal modo alla "classe dominante" l'egemonia sulla società. Secondo Kramer, "la rilevanza del dominio egemonico
diventa chiara per il fatto che Gramsci parla di 'egemonia e consenso' come 'forma necessaria' di un blocco storico, ossia, soltanto attraverso una relazione di egemonia si forma un'unità reale e duratura fra base e sovrastruttura, sorge uno 'Stato integrale'".
Quindi, "dominante" è quella classe il cui dominio non è basato solamente su una pura coazione, ma quella classe che è dirigente anche in funzione della sua "egemonia". "Essa non ha solo il potere o la competenza per dirigere, ma possiede anche il mezzo per socializzare il suo programma: lo Stato" (Schreiber), "ciò significa l'organizzazione materiale che sostiene, difende e sviluppa il fronte 'teorico ed ideologico'". Questa "struttura ideologica di una classe dominante" si esprime negli "apparati di egemonia", i quali "formano in maniera coerente la coscienza del quotidiano da parte delle grandi masse umane", vale a dire, le "sottomettono all'ideologia dominante". "Lo sviluppo di modelli di pensiero e di comportamento conforme al sistema, avviene in maniera pianificata per mezzo delle suddette istituzioni 'private' della società borghese", ed il proletariato è, a causa di questo, "subalterni, in quanto sottomesso all'apparato egemonico della classe dominante".
Con il concetto di Stato integrale, gli "apparati dell'egemonia" arrivano ad avere conseguentemente un posto centrale nella "lotta di classe". Se sarà possibile spezzare l'egemonia della "classe dominante", il suo dominio sociale verrà messo in discussione, dal momento che lo Stato non è un semplice strumento nelle mani di una classe che lo 'manipola'", non è una "cosa", bensì "il condensato di un rapporto di forza" fra le classi, una relazione che si può venire a trovare in un "equilibrio instabile", "cosa che si caratterizza per mezzo di un'alternativa semplice: o la rivoluzione o la reazione". A partire da questo, dipende "dalla relazione fra le forze presenti" se la classe dominante si troverà o no nelle condizioni di "cementare un blocco di forze sociali omogenee". [*3]

3. La sociologia rivoluzionaria di Gramsci
Il concetti gramsciano di "Stato integrale", o quello di "blocco storico", viene frequentemente interpretato come il substrato veramente originale del suo pensiero, nel rappresentare il tentativo di comprendere la società come totalità. E di fatto, il suo principio teorico rappresenta, in termini storici, un progresso rispetto a quelle interpretazioni marxiste che erano soltanto capaci di vedere nello Stato uno strumento di oppressione della "classe dominante". Tuttavia, tale progresso si mostra ambivalente, in quanto è accompagnato da una riformulazione dell'idea di lotta di classe, nel momento in cui diventa sempre più obsoleta. Un minimo di riflessione mostra come lo Stato moderno non può più essere interpretato come semplice strumento di dominio della "borghesia". Lo Stato borghese, nella sua fase iniziale, recava momenti fortemente privatisti. Ma il suo sviluppo in direzione di un'istanza di socializzazione cosificata, che fornisce l'infrastruttura alla valorizzazione del valore, non poteva lasciare intatto il pensiero teorico della sinistra. Ammesso che si possa concepire Gramsci come un sociologo, si tratta però di un sociologo che cerca di dare una svolta rivoluzionaria alla sua teoria. Come avviene per il pensiero sociologico comune (per inciso, insieme a tutto il marxismo), egli opera dentro categorie superficiali della società borghese, così come con entità positive, che vengono giocate le une contro le altre ma che non possono essere abolite in quanto tali. Gramsci presuppone che le sfere in stato di disintegrazione dell'ordine borghese sono dissociate le une dall'altre e riesce ad immaginare la totalità sociale soltanto come un'interazione esterna di queste sfere, come una risultante del parallelogramma di forze dei gruppi sociali che agiscono dentro di essa. Resta cieco davanti alla forma borghese di socializzazione soggiacente ai conflitti di interesse tra le maschere del capitale. [*4] Mentre Marx ed Engels, ne L'Ideologia Tedesca, dicono che "lo Stato è la forma. dentro la quale gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e tutta la società borghese di un'epoca si riassume", Gramsci comprende la "borghesia", la quale dà a sé stessa "una forma generale" nello Stato, come un "gruppo sociale" di individui che hanno la caratteristica di essere proprietari di mezzi di produzione. [*5]
Tuttavia, la proprietà privata non  è una "caratteristica" di determinate persone o di gruppi di persone. Essa è una forma di socializzazione social-feticista, la quale si costituisce nella misura in cui gli individui si relazionano gli uni con gli altri in quanto proprietari di beni e devono perciò riconoscersi reciprocamente come proprietari. La relazione di valore pone gli individui come soggetti di diritti e così costituisce allo stesso tempo la forma sociale generale, dentro la quale tali individui sono relazionati gli uni con gli altri: il diritto. L'espressione di questa generalità astratta delle monadi monetarie e giuridiche borghesi è lo Stato. Ma così come la forma valore "riflette sulle persone il carattere sociale del loro stesso lavoro in quanto carattere cosificato dei prodotti del lavoro, in quanto carattere naturale sociale delle cose" (Marx), anche la forma-diritto trasforma la proprietà di una forma di socializzazione in una "caratteristica" personale degli esseri umani.
Così come la socializzazione attraverso il valore costituisce un tutto, anche lo Stato ed il diritto devono essere intesi come categorie processuali reali, che solo dopo vari impulsi di sviluppo riescono a trasformarsi in concetti. Lo Stato moderno, così come il diritto moderno, è nato da una "razionalizzazione materiale" (Max Weber) del dominio. Le necessità prodotte dal progresso della valorizzazione capitalista non potevano più essere amministrate per mezzo del diritto arbitrario dei poteri intermediari particolari, ed avevano bisogno della centralizzazione di tutto il potere nello Stato sovrano, il quale, così come la produzione in sviluppo, cominciava a schiacciare le persone in condizioni di "continuità, uniformità, regolarità, ordine".
La Rivoluzione francese rappresenta evidentemente un enorme passo in direzione della formazione dello Stato moderno. Se lo Stato assolutista era ancora soprattutto un apparato di coercizione ai fini della raccolta dei tributi, ed in tal senso era ancora legato agli interessi ed ai privilegi della nobiltà dominante (ossia, ancora in uno stato di "limitazione concreta", se vogliamo seguire Hegel), la borghesia, con la proclamazione dei diritti umani inalienabili e la giuridicizzazione dello Stato attraverso la divisione dei poteri (che aveva la pretesa di mettere al posto della forma-feticcio del principe la sovranità generale ed astratta del diritto), diede impulso ad un processo che, secondo Marx, fece sì che lo Stato diventasse uno Stato di verità, ossia, una cosa pubblica. Tuttavia, ci fu bisogno di più di 150 anni, e di enormi conflitti sociali, perché questa condizione venisse finalizzata nella forma della moderna democrazia pluralista.
Il pensiero di Gramsci va compreso avendo come sfondo il processo di affermazione della moderna democrazia di massa. Si può dire che il suo concetto di "Stato integrale" tenta di descrivere un tale processo. Però, la sua descrizione non è quella di un processo nel quale lo Stato si spoglia dei suoi momenti privatistici, ma, al contrario, è la descrizione di un processo in cui una determinata classe diviene dominante. Quindi, per Gramsci questo sviluppo si presenta come invertito, di modo che la borghesia, che egli descrive come "gruppo dirigente nella sfera economica del capitalismo", diventa allo stesso tempo la classe universale di questa formazione sociale, in quanto il suo comportamento determina lo sviluppo sociale. La sua ascesa a "classe dirigente", alla condizione della "classe che diventa Stato", descrive, secondo Gramsci, "il passaggio dal momento meramente economico (o egoista-passionale) al momento etico-politico, ossia, la base diventa sovrastruttura,e questo si realizza nella coscienza delle persone". Questa formulazione, secondo Detlev Albers, è il "punto centrale di tutto il marxismo di Gramsci", che gli avrebbe poi permesso di "elaborare concetti universali, armi ideologiche raffinate e decisive", concetti "senza i quali un'affermazione dell' egemonia 'ad Est', così come la sua conquista 'in Occidente', apparivano impossibili".
Infatti, quando Gramsci descrive la "trasformazione di una classe di base in sovrastruttura" in tre fasi, quella "economico-corporativa", quella "etico-politica" e quella "statale", egli intende ciò come un modello generale di pensiero di una classe "che raggiunge sé stessa" (Schreiber), cosa che dovrebbe valere anche per la strategia rivoluzionaria del proletariato nella situazione di "guerra delle posizioni". [*6] Pertanto, secondo Gramsci, anche il proletariato deve superare la su fase "economico-corporativa", "che è la prima e più elementare fase delle forme di coscienza, forme di organizzazione e di pratica politica di una classe", nella quale "la solidarietà di interessi fra tutti gli individui di una classe sociale... avviene ancora in una sfera meramente economica", e la "questione dello Stato" si pone soltanto nella misura in cui "l'uguaglianza politico-giuridica con la classe dominante dev'essere raggiunta". La così conquistata "uguaglianza politico-giuridica" diventa il "terreno" per svilupparsi oltre la fase economico-corporativa ed ascendere ad una fase di egemonia etico-politica dentro la società borghese, e dominante lo Stato".
Questa fase, prosegue Gramsci, sarebbe legata allo "spegnimento della visione del mondo della classe subalterna alla visione del mondo della classe dominante, alla riforma intellettuale e morale ed alla formazione della volontà collettiva"; un movimento che, per Gramsci, può essere illustrato dalla Rivoluzione francese, che rappresenterebbe "un tipo concluso di sviluppo armonioso di tutte le energie nazionali", in quanto la borghesia aveva lì superato la sua "tendenza corporativista" ed era "andata incontro agli interessi delle classi subalterne". Dal momento che, per Gramsci, ciò che è decisivo è che "non la classe in sé, ma lo sviluppo di tutta la nazione... deve avere il primato nell'interesse di una classe che si sviluppa verso l'egemonia". [*7]
Basta questo riferimento affermativo alla nazione per caratterizzare Gramsci come teorico borghese della modernizzazione, cosa che è comprensibile solo a partire dalla ritardata e precaria formazione dello Stato nazionale italiano. La nazione, come territorio politicamente unificato e definito dalla sovranità giuridica, lo spazio dentro cui i proprietari delle merci si relazionano fra di loro, non era stato realizzato da molto tempo, ed in tal senso anche il nazionalismo come ideologia generalizzante non era ancora stato pensionato. Così la libertà e l'uguaglianza dei proprietari di merci dentro la sfera della circolazione della Rivoluzione francese appariva come "un vero e proprio Eden dei diritti umani innati" (Marx), la "fraternità" diventava il lemma ideologico per il nazionalismo delle masse, ed il nazionalismo l'ideologia adeguata per imporre la giuridicizzazione e la democraticizzazione generale.
Gramsci posiziona completamente la sua "filosofia della prassi" nella tradizione della rivoluzione borghese. La descrive espressamente come un "nesso della riforma protestante con la rivoluzione borghese", i due impulsi storici più importanti dell'imposizione generale della monade monetaria e giuridica, rispettivamente nel suo riflesso religioso e nella sua versione secolarizzata del nazionalismo. Nella rivoluzione del 1789 si trattava, secondo Gramsci, di "una grande riforma intellettuale e morale del popolo francese", che avrebbe tentato di sostituire la religione con un'ideologia totalmente laica, nazionale e patriottica". Niente è più lontano da lui di una critica di tutto questo, poiché "non si può staccare l'uomo del popolo dalla sua religione senza dargli qualcosa in cambio che soddisfi le necessità in funzione delle quali la religione sorge, ed ancora vive.

4. Partito comunista e processo capitalista di modernizzazione
Il "modello generale" gramsciano dell'ascesa di una classe alla condizione di egemonia sociale, trova la sua sequenza di sviluppo nella sua teoria del partito comunista. In Gramsci, il partito comunista è "la forma di organizzazione più elevata del soggetto rivoluzionario, l'intellettuale collettivo", che è spinto a "diventare Stato egli stesso" e a "modellarlo a sua immagine e somiglianza". Deve riunire in sé "tutte le esigenze della lotta generale". E' sintomatico per il suo politicismo che egli illustri tale idea sulla base del Principe di Machiavelli: "in tutto il suo piccolo libro, Machiavelli tratta delle caratteristiche necessarie al principe per poter condurre il popolo alla fondazione di uno Stato". Secondo Machiavelli, un principe arriva al potere "attraverso un'astuzia fortunata e l'apprezzamento del popolo". Tuttavia, secondo Gramsci, "nell'epoca moderna della rivoluzione proletaria" un simile "principe del popolo" non può più essere una "persona carismatica" (Caponi de Hernandez, 1989), "non può essere più un individuo concreto... ma soltanto un organismi, un elemento sociale complesso, nel quale... una volontà collettiva comincia a concretizzarsi. Questo organismo è già presente in funzione dello sviluppo storico e consiste nel partito politico".
Il concetto di partito in Gramsci è quello della grande organizzazione dell'epoca delle masse, o meglio, è quello dell'inclusione nella politica delle masse separate dalle loro radici di classe. Per Gramsci, il partito dev'essere un "intellettuale collettivo", "l'istanza totalizzante di classe, intellettualmente e moralmente unificante". In questo concorda con Lenin sul fatto "che la necessità di una forte leadership, di unità e disciplina esiste nel partito stesso". Tuttavia, rifiuta un partito di quadri di "rivoluzionari di professione". Quest'ultima osservazione è legata al fatto che Gramsci riconosce in maniera assai chiara le differenze fra la situazione sociale russa e quella italiana. Proprio in funzione del fatto per cui la Russia rappresenta un grande ritardo in termini di modernizzazione, in rapporto ai paesi dell'Europa centrale ed occidentale, dal movimento che la "società civile" praticamente non si è sviluppata, il partito comunista (come cosiddetta "avanguardia rivoluzionaria del proletariato") può arrivare al potere per mezzo di una "guerra di movimenti". "In Oriente, lo Stato era tutto, la società borghese si trovava ai primordi, ed i contorni erano fluidi. In Occidente regnava un rapporto equilibrato fra Stato e società borghese, e se lo Stato veniva aggredito si evidenziava rapidamente la solida struttura di tale società borghese. Lo Stato era solamente una trincea avanzata, dietro cui c'era tutta una serie di robuste fortificazioni e casematte" (Gramsci). Di conseguenza, bisogna fare affidamento su una "lotta prolungata ... della classe operaia" per la "egemonia in tutte le sfere della vita sociale, già prima della rivoluzione".
Astraendo dal fatto che quello che occorreva in Russia, non era in alcun modo una "rivoluzione socialista", bensì una rivoluzione borghese, con la quale venisse dato inizio ad una particolare variante della modernizzazione capitalista in ritardo, e che anche in Italia la socializzazione attraverso il valore, storicamente, era ancora da venire, questa valutazione riflette le differenze reali,  a livello della socializzazione, fra i due paesi.Ciò spiega il carattere più moderno del concetto gramsciano di partito (così come la plausibilità relativa del suo concetto di società civile).
Il "principale compito del partito" nella fase della "guerra di posizione", secondo Gramsci, dev'essere "la riforma intellettuale e morale" delle masse. La sua realizzazione deve permettere al partito di "espandersi enormemente, per poter costruire un'egemonia... per l'unificazione di tutte le fasce di popolazione", rispetto alle quali il partito "è l'elemento intermediario che trasforma l'embrione della volontà collettiva dell'inizio del processo rivoluzionario in espressione della società come un tutto. Attraverso il partito e la sua funzione educativa, le masse si trasformano gradualmente in agenti coscienti del processo rivoluzionario". Il problema che pone Gramsci, essenzialmente non è diverso da quello formulato da Lenin: il livello di sviluppo delle relazioni sociali è troppo basso perché esista la possibilità di un ampio sviluppo degli individui, per cui non può essere abolita la separazione fra "dirigenti" e "diretti", la divisione fra lavoratori del braccio e della mente. Tuttavia, questo si presenta a Gramsci come una caratteristica strutturale fondamentale della socialità moderna, che non può essere abolita. Egli riconosce con molta chiarezza che la progressiva divisione sociale del lavoro della società industriale è legata ad una separazione delle possibilità e delle capacità degli individui e che queste sono sempre più incluse nel processo sociale, ma ciò non porta ad una dissoluzione delle gerarchie sociali; solamente alla loro differenziazione dentro un cosificazione simultanea.
Gramsci considera inevitabile un simile sviluppo, ma pensa di poter dare ad esso una forma "democratica", sotto un "governo socialista". Per lui, l'idea desiderabile consiste nello "allenare in termini critici l'attività intellettuale che ad un qualche grado esiste in qualsiasi persona, e dare alla sua relazione con lo sforzo muscolare un equilibrio nuovo ed ottenere che lo sforzo muscolare stesso... divenga la base di una nuova ed integrale visione del mondo. Il lavoro astratto, pertanto, non dev'essere abolito, ma solamente arricchito moralmente. Gramsci accusa i fascisti di voler fissare le gerarchie in termini giuridici e classisti e di guidare la modernizzazione in modo di 'dare ad alcuni più capaci la possibilità di migliorare le loro capacità, ma solidificando allo stesso tempo le differenze sociali".
In opposizione a questo, pretende "che qualsiasi 'cittadino' possa diventare un 'governante' e che la società lo metta, seppur astrattamente, in condizioni di farlo... per cui dev'essere garantita a qualsiasi governato l'acquisizione gratuita di capacità e formazione tecnica generale necessaria a quest'obiettivo". Difficilmente sarebbe possibile definire in maniera più esatta il compito statale dell'educazione nei termini della moderna socializzazione attraverso il valore. Laddove Gramsci pensa di dare una "risposta socialista" alla da lui supposta "crisi di lungo periodo del capitalismo", egli in realtà formula un programma che, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, venne messo all'ordine del giorno sotto l'etichetta molto più prosaica di "pari opportunità". Quando si spoglia la sua nozione di "Stato operaio" da tutte le bardature ideologiche, si può constatare che corrisponde in maniera relativamente esatta a quella che negli ultimi quarant'anni è stata la realtà sociale nelle democrazie di massa occidentali (ma che, nel frattempo, sono entrate in crisi).
Il fatto che il suo concetto di partito non sia altro che una "variante light" dell'esempio leninista, è in contraddizione soltanto apparente con la sua nozione di democrazia. Il partito comunista, il "principe moderno", deve figurare come "collettivo individuale" e in tal modo sostituire il "centralismo burocratico" in cui la relazione fra partito e classe lavoratrice è "puramente gerarchica, di tipo militare, per un "centralismo democratico". In esso, "la relazione classe-partito dev'essere... organica e non burocratica", i leader della classe operaia devono personificare "i suoi interessi e desideri più fondamentali e vitali", devono essere "una parte della classe operaia", e non solo "un'appendice, un semplice innesto violento". Buci-Glucksmann vede in questo "un ripudio di qualsiasi relazione burocratica-militare con le masse", come "aveva praticato la politica stalinista". Questo ripudio, tuttavia, rimane arida teoria, e si esaurisce nel lucidare un concetto, la cui struttura di base ("l'indipendenza relativa dei leader rispetto alla base sociale", come  Werner Hofmann definisce eufemisticamente lo stalinismo) consiste nella stessa forma organizzativa del partito politico, che necessariamente deve entrare in contraddizione con gli interessi particolari (costitutivi del valore) dei suoi membri, rispetto ai quali questa forma organizzativa si pone nella posizione di interesse generale astratto.
La riformulazione, intrapresa da Gramsci, del concetto di "centralismo democratico" creato da Lenin, avrebbe dovuto corrispondere al livello di coscienza più elevato delle masse italiane, così come alle esigenze di disciplina e subordinazione all'interno del partito; come lo formula Schreiber, avrebbe dovuto rendere possibile "la dialettica di intellettuali e massa, di spontaneità e leadership". Tale supposta "unità fra intellettuali e massa del popolo, fra governanti e governati" si basava sulla "struttura a tre livelli" del partito; il suo primo elemento sono "le normali persone comuni, la cui partecipazione consiste di disciplina e lealtà". Esse formano la "base sociale del partito". Il secondo elemento "è l'elemento principale della coesione... dotato di una forza altamente coesiva, centralizzatrice e creativa; si tratta della direzione del partito, di cui Gramsci diceva che sarebbe stato più facile che essa formasse un partito, piuttosto che il primo elemento". Il terzo elemento, infine, esercita una funzione di intermediazione, nella quale serve da legame fra il primo ed il secondo elemento; "si tratta dei cosiddetti "intellettuali organici al proletariato", il cui lavoro "deve permettere l'interazione e l'integrazione politica, morale ed intellettuale fra le masse e la direzione". [*8]
Ad una tale "divisione in differenti livelli di partito", Gramsci dà la legittimazione di una necessità della "divisione del lavoro; egli, pertanto, la comprende come una divisione "previamente tecnica". Perciò, la subordinazione in essa contenuta avrebbe un "carattere democratico", in quanto, se "l'origine del potere, che determina la subordinazione" è "democratica", se, quindi, l'autorità è una funzione tecnica specifica, e non una "arbitrarietà", allora "la disciplina è un elemento necessario dell'ordine e della libertà democratica", che "non abolisce né la libertà né la personalità" - ma che, avrebbe potuto aggiungere, svuota questi concetti e li trasforma in quelle frasi che sono compatibili con qualsiasi programma elettorale. Il concetto gramsciano di partito riflette la struttura cosificata, ma non meno gerarchica, del moderno apparato di produzione industriale, e la sua postura del tutto apologetica, in relazione alla quale ricorda fatalmente quel motto hegeliano secondo cui la libertà è la coscienza della necessità.
Non più l'appartenenza ad una classe capitalista, intesa in termini personalistici, ma la competenza tecnica, deve legittimare la pretesa di leadership, ed in funzione di questo l'abolizione del "dominio della borghesia" viene vista come abolizione del capitalismo. Da questo punto di vista, quello che nel capitalismo è storicamente nuovo, rimane nascosto: la trasformazione del dominio personale in dominio formale o cosificato, la subordinazione di tutte le sfere della vita alla razionalità della relazione di valore. Elementi come "arbitrarietà" ostacolano solamente la soddisfazione di necessità oggettive, che non si lasciano ridurre a volontà e ad azione cosciente dei soggetti di classe. La forma-valore dentro le relazioni si materializza anche nei macchinari capitalisti e nelle condizione tecniche, che si presentano alle persone sotto forma di necessità oggettive, per cui la questione della "appartenenza ad una classe" di un tecnico che dà un ordine ad un lavoratore è secondaria e si inserisce sociologicamente alla superficie della relazione capitalista.
A causa del fatto di essere prigioniere all'interno dell'orizzonte della socializzazione attraverso il valore, le sue aporie si riproducono anche dentro il partito comunista. Così come non è possibile, nelle condizioni della modernizzazione capitalista, che venga abolita la separazione fra "dirigenti" e "diretti", la situazione dei "diretti" non può essere sostanzialmente modificata. Rimane soltanto il tentativo di "umanizzare" i principi borghesi di disciplina e subordinazione, cosa che suona più o meno come il concetto "di cittadino uniformato emancipato" o come i nuovi metodi di gestione aziendale: "disciplina ed unità non devono essere imposte, ma germogliare dalle discussioni e dai dibattiti generali"; "i membri non devono seguire meccanicamente ordini provenienti dall'alto, ma devono... seguire strategie e tattiche che hanno completamente capito e perfino aiutato a formulare"  (Caponi de Hernandez, 1989). Non è una novità che questo concetto non abbia molto a che vedere con la realtà storica del partito comunista, quanto meno. Lo stesso Gramsci disse la verità, quando scrisse, a proposito del partito comunista italiano, che i membri individuali "tendono a pensare che esista realmente al di sopra degli individui, un essere fantasmagorico... una sorta di divinità autonoma". Chi non è in grado di riconoscere in queste parole il carattere feticista della forma-valore della relazione dei "diretti" con i propri "dirigenti"? Carattere che, a quanto pare, si impone perfino contro la volontà di questi ultimi?

5. L'imposizione della società del lavoro e l'identità segreta tra fordismo, socialismo e fascismo
La contraddizione fondamentale fra gli interessi degli individui e l'interesse generale astratto, prodotta dalla forma-valore e che costituisce la politica come sfera isolata della vita sociale e che, inoltre, si riproduce nel "centralismo burocratico" dei partiti comunisti, non sparisce nemmeno se il partito, per usare le parole di Gramsci, "raggiunge la sua pienezza", ossia, se esso diventa Stato. Lo Stato socialista è da un lato soltanto "uno Stato borghese senza borghesia" (Gramsci), ma deve tendenzialmente trasformarsi in uno "Stato di nuovo tipo", che abbia come obiettivo "il superamento della differenziazione borghese fra economia e politica", così come lo formula Franco De Felice. Quello che suona come l'abolizione della divisione in sfere, esaminato più da vicino si smaschera come riformulazione dello schema base-sovrastruttura: Gramsci "suddivide... il concetto di Stato, in apparato di potere statale ed in sistema di interscambio e produzione" e, mentre lo Stato può essere "preservato e sviluppato come principio di organizzazione economica industriale di un paese", esso, in quanto "principio di esercizio di potere", perirà tanto più rapidamente quanto più i lavoratori saranno disciplinati ed inclusi nella produzione" (Gramsci).
Fino ad allora, lo "Stato operaio" dovrà essere visto ancora come lo Stato nel senso moderno, in qunto, secondo Gramsci, esiste ancora "la società divisa in classi", e quindi anche lo Stato, "la forma caratteristica di ogni società divisa in classi", per molto tempo non potrà sparire. Tuttavia, "lo Stato che fosse nelle mani degli operai e dei contadini", sarebbe usato per "garantire la loro libertà di sviluppo, per estinguere del tutto la borghesia dalla storia e per consolidare le condizioni materiali, nelle quali nessua oppressione di classe possa mai più formarsi" (Gramsci). Quando questa vaga promessa si realizzerà, però, resta del tutto indeterminato (ed anche in questo Gramsci è ortodossamente marxista).
Subito dopo la rivoluzione socialista, all'ordine del giorno ci sarà qualcosa di totalmente diverso: "la concorrenza e le classi continueranno a sussistere", tuttavia i concetti di "concorrenza e di lotta di classe" verranno "dislocati" sul piano internazionale. "La dittatura del proletariato è ancora uno Stato nazionale ed uno Stato di classe", che deve risolvere gli stessi problemi dello Stato borghese: difesa interna ed esterna", poiché il periodo dopo la rivoluzione sarà "l'epoca della concorrenza impietosa fra economie nazionali comuniste e capitaliste".
Quello che formula Gramsci in un simile contesto, è evidentemente un programma di modernizzazione delle economie nazionali, cosa comprensibile a fronte della situazione storica dell'Itali dopo la Prima Guerra Mondiale. La guerra aveva accelerato ulteriormente la formazione del mercato mondiale capitalista, ed aveva così causato una generalizzazione ed un'intensificazione della concorrenza mondiale, il che non rendeva facile per un paese arretrato in termini europei e fortemente dipendente dal mercato mondiale, com'era l'Italia, mantenere il passo con un simile sviluppo. Quel che per l'Italia degli anni venti era oggettivamente (in relazione alla socializzazione attraverso il mercato mondiale) all'ordine del giorno era un'industrializzazione accelerata, ed una socializzazione del paese, combinata ad un mobilitazione di massa ai fini di tale obiettivo [*9]. E questo, a sua volta, implicava che la monade del lavoro ed il cittadino astratto ad essa logicamente legato diventassero la forma di esistenza generale della società.
In questo senso, non sorprende affatto che Gramsci, negli anni venti, essenzialmente affermasse il "fordismo" incipiente. Esso è per Gramsci uno sviluppo razionale e perciò generalizzato, il quale, come egli sottolinea, nasce a partire dalla necessità immediata di organizzazione di un'economia pianificata". Per cui gli imperativi del fordismo devono essere imposti anche contro la resistenza degli strati tradizionali e si collegano alla "composizione demografica razionale della popolazione", nella quale non si possono più avere "classi senza una funzione essenzialmente produttiva, cioè, classi assolutamente parassitarie", vale a dire, strati della popolazione non inclusi nel processo di creazione del valore.
Nella sua ansia di elevare la monade del lavoro alla condizione di forma di esistenza generale della società, Gramsci perde la distanza critica dalla violenza strutturale dell'apparato di sfruttamento sotto la forma del valore. Egli riconosce con chiarezza che il fordismo implica la creazione di un nuovo tipo di operaio di fabbrica, che sia all'altezza delle condizioni produttive della "razionalizzazione taylorista". Questo, a sua volta, esige "una formazione generale, un processo di adattamento psicofisico a determinate condizioni di lavoro, di alimentazione, di alloggio e di abitudini, cosa che non è per niente "naturalmente" innata, ma che dev'essere acquisita". La razionalizzazione psicofisica degli individui potrebbe, pertanto, non essere limitata alla sfera della fabbrica, ma inglobare tutta la vita, soprattutto nella sfera della riproduzione, ossia, ambiti come la sessualità e l'alimentazione, l'uso moderato dell'alcol, l'igiene corporale o la ripartizione economica del salario. "I nuovi metodi esigono una rigida disciplina degli istinti sessuali..., vuol dire, un rafforzamento della 'famiglia' in senso ampio.. così come la regolamentazione e la stabilità dei rapporti sessuali". In sintesi: gli individui devono creare una rigida "autodisciplina", interiorizzare le necessità oggettive del sistema del lavoro astratto. [*10]
Un vero e proprio "sviluppo organico" del fordismo, secondo Gramsci, sarebbe avvenuto soltanto negli Stati Uniti. Lì, il fordismo "non significa solamente innovazioni tecnologiche ed efficienza del lavoro dentro la fabbrica... ma, inoltre, la partecipazione dei lavoratori alla crescente ricchezza del sistema capitalista, sulla base di salari elevati e prezzi dei prodotti di massa relativamente bassi" (Priester, 1989). Questo deve consentire "niente meno che il superamento della lotta di classe per mezzo di una nuova immagine delle relazioni di classe fra di loro", una volta che "entrambe le parti... guadagnano con l'aumento della disciplina del lavoro e con la ristrutturazione delle fabbriche". Nel fordismo americano, "La coazione... sarebbe combinata con la convinzione ed il consenso"; la "partecipazione al consumo di massa" mediata dall'occupazione, significherebbe la possibilità di "inclusione" della masse nella "concertazione sociale".
Come contropartita, nei paesi dell'Europa questo sviluppo è stato imposto dalla "furia implacabile" dell'economia nordamericana, la quale ha obbligato soprattutto l'Italia "a rivoltare la sua economia e la sua base sociale eccessivamente antiquata". Nei paesi arretrati, pertanto, il fordismo acquista per Gramsci il suo significato di strumento di una modernizzazione che "necessita di un impulso esterno". Come istanza che "guida dall'esterno lo sviluppo necessario dell'apparato produttivo", essa viene presa in considerazione solo dallo Stato, ed esso acquisisce in Italia una forma corporativista o fascista.
Bisogna dire che il punto centrale non è l'intervento statale in sé, che si verifica anche negli Stati Uniti del New Deal, ma assai più la forma specifica della statalizzazione, forzata dal livello relativamente basso di sviluppo della socializzazione attraverso il valore, che nelle (come ci piacerebbe chiamarle) "varianti totalitarie" del fordismo, ossia, il fascismo italiano, il nazionalsocialismo tedesco ed il bolscevismo russo assumono un carattere di violenza incomparabilmente maggiore. Manca in queste varianti la formula magica della sintesi fra produzione e consumo di massa, che permetti di sviare i conflitti della lotta di classe verso l'ambito degli ordinari conflitti di distribuzione. Le promesse consumistiche sono lì fantascienza: se un'Italia autonoma fosse abbastanza forte da slegarsi dal mercato mondiale..., se la Germania dopo la "vittoria finale" dominasse lo "spazio economico europeo"... se l'industria pesante sovietica fosse più avanzata di quanto lo è oggi, sarebbe possibile lo sviluppo dell'industria dei beni di consumo... Fino ad allora, come si potrebbe dire con le parole di Gramsci, il fordismo è in primo luogo "una lotta prolungata contro l'elemento 'animalesco' nell'uomo, un... processo che è spesso doloroso e sanguinoso, la soggiogazione degli istinti...norme ed abitudini sempre nuove, sempre più complesse e rigide in termini di ordine, di giustizia, di precisione, che rendono possibili forme di vita collettiva sempre più complesse, che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell'industrialismo".
Il carattere "oggettivista" di questa citazione tratta dai "Quaderni dal carcere", nella quale Gramsci sottolinea l'inevitabilità della generalizzazione della monade del lavoro astratto, si trova in evidente contraddizione con la diffusa valutazione di Gramsci visto come un rappresentante di un "marxismo soggettivista-idealista". La scomparsa della prospettiva rivoluzionaria e la forzata astinenza da passi degli anni di prigione fecero sì che il lato "volontarista" del periodo precedente finisse in secondo piano, uno sviluppo teorico la cui apparente contraddizione serve a rivelare l'identità segreta fra i due punti di vista. Di fatto, il Gramsci del periodo di Ordine Nuovo degli anni venti e la sua domanda di "uno stato sociale del lavoro" che  contrapponesse alla "libertà liberale... dell'individuo borghese astratto... un'altra libertà, quella del produttore" si avvicinava già alla posizione del Gramsci dell'epoca della prigione, relativamente al fordismo.
L'adozione quasi completa del fordismo, da parte di Gramsci, è stata interpretata da Sergio Bologna, uno dei suoi attuali seguaci, nel senso che "il suo interesse... per i programmi di rieducazione del fordismo", così come il suo "concetto di potere", sono stati "una posizione correttamente 'illuminata' e... che ha poco a che vedere con l'esercizio della violenza", ma attiene alla "cultura' e all'educazione" (Bologna, 1989). Ma purtroppo, le relazioni fra illuminismo ed educazione, ed esercizio della violenza, nella pratica non si lasciano risolvere così facilmente come avviene nell'ideologia, grazie alla virgolettatura. Nelle varianti "totalitarie" dell'imposizione del fordismo, la sua violenza strutturale si è rivelata sotto forme diverse. Qui, l'individuo non viene definito in quanto borghese consumatore con diritto di scelta (anche di scelta politica), ma come l'atomo produttivo all'interno di un collettivo, la cui relazione con la politica resta limitata alla pura acclamazione. La mobilitazione delle masse si accompagna alla loro militarizzazione, all'organizzazione statale del loro tempo libero, alla razionalizzazione delle loro abitudini, alla coazione, all'efficienza e alla disciplina politica; tutto ciò è basato sulla distruzione delle forme di organizzazione indipendenti e delle condizioni di vita devianti, sull'omogeneizzazione della struttura della popolazione attraverso l'esclusione, o l'inclusione, forzata nella società dominata dall'incipiente dittatura della valorizzazione del valore [*11]. Tale ingegneria sociale viene accompagnata ed appoggiata da quelle ideologie che affermano la superiorità di una razza, o la missione storica di una classe, e che così riconducono le masse in movimento alla condizione di paralisi politica [*12].
Non è certo per caso che, come scrive Angelika Ebbinghaus, “Stalin, Hitler e Roosvelt ... in fin dei conti, erano tutti entusiasti adepti del fordismo", così come lo erano Mussolini ed i socialdemocratici tedeschi ed austriaci [*13]. Questo è un riflesso dell'impulso modernizzante, il quale si impone indipendentemente dalla volontà di chi vi è coinvolto, ma che però assume diversi rivestimenti ideologici. Perciò, si può affermare che quello cui il fascismo italiano diede inizio (e che la società fordista del lavoro proseguì dopo la guerra) è strutturalmente in accordo con quello che Gramsci aveva disegnato anni prima, sotto un altro segno ideologico. Sulla base della teoria leninista dell'imperialismo, già negli anni 20, Gramsci aveva più volte sottolineato che la classe borghese consisteva allora solamente di parassiti che vivevano di rendita, "il capitalismo... è diventato plutocratico" e lo Stato italiano era degenerato in un "monopolio in mani straniere". Gramsci vedeva l'Italia come trasportata verso "un'epoca della lotta per l'unità nazionale", ed era fortemente convinto che "soltanto lo Stato proletario" avrebbe potuto "fermare la dissoluzione dell'unità nazionale", una volta che la classe operaia fosse diventata "l'unica classe nazionale".
Gramsci vedeva la legittimità di quest'affermazione nella "posizione economica chiave" del proletariato e nella sua capacità esclusiva di "continuare a sviluppare le capacità produttive": "col fatto che... gli operai... aumentano il rendimento dell'apparato produttivo... essi dimostrano che il governo della nazione può basarsi sulla loro organizzazione di classe". Quello che avrebbe dovuto valere allora era "il primato del lavoro, del produttore", perciò diventava possibile "pensare uno Stato di nuovo tipo", uno "Stato del lavoro (Togliatti), Stato di produttori (Gramsci)" che "deve avere come esempio l'organizzazione economica; i suoi membri non sono più cittadini, ma produttori"; i suoi principi saranno "coerenza, disciplina, unità, organizzazione, omogeneità".
Anche Mussolini aveva preteso che "tutt'Italia" diventasse "un cantiere, una fabbrica" e dichiarava: "in 10 anni non sarà più possibile riconoscere l'Italia". Per la realizzazione di un tale programma, il fascismo, nella sfera della produzione, fece uso degli stessi metodi del bolscevismo: in Unione Sovietica, secondo Trotsky, i sindacati dovevano diventare "organi della militarizzazione del lavoro", che dovevano "difendere, non gli interessi del lavoro, ma quelli dello Stato", e che servivano per "organizzare la classe operaia a fini produttivi, per educare, disciplinare, ripartire, raggruppare, assegnare i lavoratori individuali ai loro posti di lavoro per un periodo determinato - ossia, insieme allo Stato, ed in maniera imperativa, adeguare i lavoratori al piano economico unificato". E' stato sotto questa forma che, sotto il fascismo, le organizzazioni indipendenti della classe operaia sono state schiacciate e sostituite dalle corporazioni professionali controllate dallo Stato. Il loro compito era quello di controllare il mercato del lavoro: "la libera scelta del posto di lavoro venne meno e l'intermediazione di un'occupazione era legata all'obbligo di una residenza fissa".
Allo stesso modo in cui Gramsci parla della necessità di un potere che "sia capace di creare per la classe operaia quelle condizioni di sostentamento e prosperità che permettano un certo sviluppo ed aumento della produzione", Mussolini attua il programma di fertilizzazione delle terre improduttive, di miglioramento delle infrastrutture nelle regioni arretrate e di industrializzazione dell'agricoltura. Proprio come Gramsci esige la formazione di un "esercito socialista" che corrisponda al "carattere militare accentuato" dello Stato operaio, e che sia formato dai "battaglioni di azione del proletariato cosciente e disciplinato", il fascismo esige una "nazione militarista". E, infine, alla stessa maniera in cui il compito principale dopo la rivoluzione socialista vittoriosa sarà "l'organizzazione di uno Stato socialista unito molto solidamente", "che il più rapidamente possibile riduca la dissoluzione e la mancanza di disciplina , e che conferisca all'insieme sociale una forma concreta", il fascismo risponde a tale necessità alla sua maniera, con la creazione di uno "Stato corporativo".
Le accuse che Gramsci rivolge al fascismo, nel loro nucleo si riducono al fatto che il fascismo non toccava le strutture di sfruttamento capitalista (pensate in termini sociologistici) e quindi non poteva realizzare in maniera conseguente il suo programma di omogeneizzazione della società e di distruzione dei residui feudali e tradizionali. Questo, secondo Gramsci, poteva essere attuato soltanto dalla classe operaia, o meglio, dal partito comunista nel ruolo di soggetto trascendentale, il quale "deve riprendere l'educazione del proletariato, abituarlo all'idea che per un'abolizione dello Stato... è necessario un tipo di Stato che sia adeguato a perseguire tale obiettivo, e che per l'abolizione del militarismo può essere necessario un nuovo tipo di esercito. Ciò significa, consentire al proletariato l'esercizio della dittatura, dell'autogoverno".
Queste formulazioni ci riportano alla definizione che dà Werner Hofmann dello stalinismo come una "dittatura interna", o "dittatura pedagogica", il cui difetto, tuttavia, consisterebbe nel fatto che in essa "il potere statale si presenta ai suoi reali detentori in forma alienata ". Pertanto, non sarebbe più lo Stato in sé a rappresentare l'alienazione, ma sarebbe solo la mancanza di identificazione da parte dei "compagni del popolo" con lo "Stato del popolo", a causa di un "opportunismo del potere". La costruzione di quest'identificazione, "l'autogoverno del proletariato", diventa così il lemma di un modello di socializzazione in cui la statalizzazione del proletariato viene presentata come abolizione dello Stato. Già la denominazione di "Stato degli operai e contadini" o di "Stato dei produttori" rendeva chiaro che le categorie sociali nella forma del valore non erano abolite, ma, al contrario, affermate espressamente. L'esistenza del produttore immediato in quanto monade del sacrificio del lavoro astratto doveva essere generalizzata, e questo è necessariamente legato alla sua sottomissione all'interesse generale astratto della valorizzazione del capitale, il cui rappresentante politico è lo Stato. Dentro questi parametri, non è possibile pensare all'abolizione della sua forma, come ha cercato di spiegare Marx ne "La questione ebraica": "Solo quando l'uomo reale individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale, nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali, è divenuto membro della specie umana ... e, in funzione di questo, non separa più da sé la forza sociale nella figura del potere politico, solo allora l'emancipazione umana sarà compiuta".
Il socialismo, a causa del dilemma provocato dal non trovare i prerequisiti per l'abolizione dello Stato, ha tentato di seguire il cammino inverso e di dissolvere l'essere umano individuale nel cittadino astratto, di dissolvere il popolo nello Stato; in questo modo, è stato l'espressione più conseguente della democrazia, nella misura in cui "era disposto a far diventare realtà l'ultima credenza che era nata dentro il sistema europeo dei partiti" (Nolte, 1966).

Necrologio
Per quel che riguarda il populismo del dopoguerra, che era per lui una "risorsa comune alla destra nella gestione della crisi", e la cui "struttura di base" era "vestire la politica di destra con abiti di sinistra" (Kebir, 1989), Gramsci ha tracciato la seguente ottimistica sintesi: "si può vedere in questo qualcosa di quello che Vico chiama "astuzia della natura", ossia, un impulso sociale che realizza esattamente il contrario del suo obiettivo". Il populismo viene inteso come "un episodio di 'educazione popolare' indiretta, nel quadro di un'educazione in direzione del socialismo [*14].
Questa "astuzia della natura" di cui parla Giambattista Vico, che Hegel chiamava "astuzia della ragione" e che in fin dei conti non è nient'altro che la logica della "seconda natura" feticista e nella forma del valore, che è riuscita ad utilizzare per i suoi fini anche il socialismo, come ho cercato di dimostrare; uno sviluppo che una contemporanea di Gramsci, la teorica francese Simone Weil, ha compreso con chiarezza: "la storia del movimento operaio si mostra sotto una luce crudele e particolarmente forte. E' possibile riassumerla completamente con la formula secondo la quale il movimento operaio ha dimostrato la sua forza maggiore quando si è servito di qualcosa di diverso da una rivoluzione proletaria. Il movimento operaio può creare l'illusione di potere in quanto contribuisce ad estinguere i resti del feudalesimo e ad istituire l'ordine capitalista, sia sotto la forma del capitalismo privato che sotto quella del capitalismo di Stato in Russia" (Weil, 1934).
Un simile verdetto, che, in senso ampio, comprende anche Gramsci, ancora oggi appare essere inintellegibile per molti dei suoi adepti. Esso relativizza in larga misura il proprio significato teorico riguardo l'attuale epoca di crisi del sistema mondiale produttore di merci. Poiché, se comprendiamo Gramsci come teorico della modernizzazione della società borghese, allora questo significa che egli non ha niente da dire su un'epoca nella quale la modernizzazione capitalista è entrata nello stadio della sua dissoluzione. E' vero che possiamo adottare astrattamente la sua idea secondo la quale tutto il movimento di opposizione che aspira in qualche modo ad una trasformazione fondamentale della società deve conquistare la "egemonia sociale". Tuttavia, se si libera tale idea dalle implicazioni marxiste e dalle teorie della modernizzazione, che aveva ancora per Gramsci (caduta del dominio di classe, creazione dell'unità nazionale, imposizione di uno "Stato del lavoro", ecc.), allora non resta molto più di qualche banalità. Sotto quest'aspetto, possiamo concedere a Gramsci il merito che le sue riflessioni sono state all'altezza del suo tempo. Ma, nella misura in cui ci sono oggi autori e politici di sinistra o di destra che si riferiscono alla sua teoria (o a parte di essa) in maniera positiva, dimostrano solamente che un'epoca di decadenza non si libera automaticamente dei pesi morti del suo passato, e che lo sforzo critico rimane necessario.

- Robert Bösch - Pubblicato su Krisis n°13 - 13/2/2015-


NOTE:
[*1]
- E' importante sottolineare che il marxismo viene qui inteso in quanto ideologia della legittimazione del movimento operaio, e non viene identificato con la teoria marxiana, la quale presenta dei punti di appoggio per l'apparato sociologista della lotta di classe, ma che non si riassume in alcun modo in questo.

[*2] - A partire da questo, si dà la condizione per cui Gramsci viene adottato dalla destra.

[*3] - Lo "strutturalista marxista Louis Althusser, il cui concetto di "apparato ideologico di Stato" è compatibile con gli "apparati di egemonia", cinquant'anni dopo non ha fatto nessun passo avanti: "gli apparati ideologici di Stato sono necessariamente il luogo ed il compito della lotta di classe, che prosegue, negli apparati dell'ideologia dominante, la lotta di classe in generale che domina la formazione sociale" (Althusser, 1977).

[*4] - E' un tal pensiero superficiale e sociologistico che rende Gramsci strumentalizzabile ai fini dei contenuti più disparati. In questo senso, non sorprende che l'idea gramsciana della "lotta ideologica" per i concetti possa essere "deturpata" dal socialdemocratico Peter Glotz ai fini di una modernizzazione del capitalismo, e dai nuovo nazisti riuniti intorno ad Alain de Benoist addirittura nel senso di uno "Stato etnico". Se la conformità strutturale con il valore, di concetti quali "Stato", "nazione" o "popolo" rimane incompresa, e la sinistra ritiene che tali concetti possano essere "determinati egemonicamente", allora questa sinistra, con una simile miseria teorica, non può fare altro che confermare di essere superflua essa stessa.

[*5] - Tuttavia, questa visione sociologista si trova perfino in Marx ed Engels, ed è difesa soprattutto da quest'ultimo in alcuni testi.

[*6] - Gramsci utilizza qui il concetto di "guerra di posizioni" in opposizione a quello di "guerra di movimenti", come egli denomina il processo rivoluzionario in Russia.

[*7] - Quello che hanno fatto i giacobini nella Rivoluzione francese, creare "l'unità compatta della nazione... moderna" (Gramsci), Gramsci lo vede nel caso italiano come funzione del proletariato. La debolezza della borghesia italiana, la sua dipendenza economica dallo Stato, e la conseguente assenza di un "partito giacobino" fece sì che il Risorgimento diventasse "una rivoluzione senza rivoluzione", in cui la borghesia si accontentò di essere "dominante ma non dirigente". La conseguenza sarebbe stata che il nuovo Stato italiano "praticamente non era autonomo, in quanto al suo interno era corrotto dal papato e dalla passività delle masse".

[*8] - La categoria di "intellettuale organico" gioca un ruolo importante nella teoria di Gramsci. Per lui, il significato degli intellettuali consiste del fatto che sono i "trasmettitori del dominio", nella misura in cui garantiscono "la coesione ideologica e politica della società" e realizzano in tal modo "l'unità organica, che Gramsci denomina "blocco storico". Scrive lo stesso Gramsci: "ogni classe sociale, che si forma in quanto svolge un ruolo essenziale dentro il mondo della produzione economica, crea allo stesso tempo organicamente... strati di intellettuali, che le danno omogeneità e coscienza delle proprie funzioni non solo nell'ambito economico ma anche in quello politico e sociale". Secondo Gramsci, gli intellettuali hanno pertanto "la funzione di organizzare l'egemonia sociale di un gruppo e il suo dominio statale", per cui c'è da porre la differenza fra "gli intellettuali organici di un determinato gruppo, il gruppo dominante e gli intellettuali tradizionali". Negli ultimi devono essere compresi "gli intellettuali organici alla classe in declino", ed è "una delle caratteristiche più evidenti di qualsiasi gruppo sia sulla strada di diventare il gruppo dominante" il fatto che esso dia inizio alla "lotta per l'assimilazione 'ideologica' e per la conquista degli intellettuali tradizionali".

[*9] - I fascisti si resero conto di questo sviluppo e definirono l'Italia come "nazione proletaria" e in tal modo trasferirono il concetto di sfruttamento - per utilizzare la parole di Ernst Nolte - dalla lotta di classe all'ambito della lotta fra nazioni: "il concetto di Marx (deve) essere applicato alla lotta dell'Italia contro gli altri Stati capitalisti... non alla lotta del proletariato italiano contro il capitalismo italiano" (Kebir, 1989), era questa la posizione dei fascisti quando erano ancora dentro il Partito Socialista. L'espulsione di Mussolini dal PSI avvenne nel 1914, a causa della sua critica alla posizione di "neutralità assoluta" del partito relativamente alla guerra; una posizione che, ironicamente, venne difesa da Gramsci.

[*10] - Per Gramsci, "il moderno produttore dev'essere in primo luogo 'educato'" (Kebir, 1989); un'educazione, che si lascia descrivere secondo i concetti di Max Weber di "etica protestante del lavoro e di modo di vita razionale", e che, "nei paesi protestanti, al contrario di quelli cattolici ed ortodossi, si è data una forma che Gramsci avrebbe chiamato "organica", mentre in Italia resta ancora da realizzare una riforma come quella protestante. Tale riforma, Gramsci la lega al fordismo.

[*11] - Qui sarebbe il caso di domandarsi, se non ci sia una qualche ragione nelle tesi sostenute da Ernst Nolte nella "Controversia degli storici" di una comparabilità dello "sterminio della razza" da parte dei nazisti con lo "sterminio della classe" da parte dei bolscevichi. Tuttavia, questa ragione non viene data in funzione dell'evidente tendenza a relativizzare i crimini nazisti, al fine di promuovere l'identità nazionale per mezzo di idee come quella che vedono l'arcipelago Gulag come un "predecessore logico e fattuale" di Auschwitz, o come un "crimine asiatico" (Nolte, 1986), ma in funzione dell'analogia fra l'arcipelago Gulag e lo sterminio dei kulaki e quello degli ebrei, come momenti barbari del processo di totalizzazione della socializzazione sotto la forma del valore. Il nazismo come il bolscevismo, si presentano agli agenti coinvolti come espressione del superamento rivoluzionario del capitalismo, ma questo non cambia niente nel fatto che le loro azioni e le loro costruzioni ideologiche possono essere decifrate come riflessi affermativi della crisi della modernizzazione capitalista, la quale - in condizioni diverse - ha dato vita a forme di superamento pseudo-rivoluzionarie. Il potenziale rivoluzionario, con cui si presentavano le masse in movimento, aveva bisogno di una valvola di sfogo, e tale funzione è stata svolta dai concetti di "razza" e di "classe". Questi concetti rendevano possibile definire quel "nemico oggettivo", che per Hannah Arendt è un concetto centrale della forma di dominio totalitaria. I "razzialmente inferiori" sono "nemici oggettivi" della società razziale, così come le "classi moribonde" ed i loro rappresentanti.. sono nemici oggettivi della società senza classi ed obiettivi coadiuvanti la borghesia" (Arendt, 1966). Così come la famosa dichiarazione di Karl Lueger, un esempio per Hitler - "sono io che determino chi è ebreo" - faceva prevedere che, dietro l'apparente concretezza dei concetti di "razza" e di "classe", in ultima analisi si trovava soltanto l'arbitrarietà astratta della forma-valore. Indifferente a qualsiasi contenuto, rende possibile una relazione essenzialista di identità, come quella che sta alla base di concetti come "razza" e "classe", soltanto attraverso l'annichilimento dell'eterogeneo. Negli "ebrei", negli "zingari", nei "kulaki" o nella "borghesia", una simile astrazione sembrava essere diventata palpabile, e necessariamente insopportabile per la coscienza quotidiana, con la sua esigenza di un "colpevole" immediato, la quale coscienza, tuttavia, era obbligata a riprodurre quest'esigenza nel processo di annichilimento, il quale si esprimeva nel fatto per cui i nazisti, come i bolscevichi, disumanizzavano le loro vittime in quegli stereotipi il cui annichilimento era soltanto una conseguenza logica. La logica astratta del valore è la logica dell'annichilimento, la quale riunisce in sé fenomeni apparentemente contraddittori e, in questa maniera, permette la singolarità di Auschwitz in quanto realizzazione delle sue possibilità più generali. Le tracce "asiatiche" che Nolte crede di aver scoperto in Auschwitz, si mostrano assai di più nell'arcipelago Gulag, che è molto più arretrato rispetto alla modernità delle fabbriche di morte naziste, e che deve apparire al razionalismo occidentale come un irrazionalismo inspiegabile (la questione riguardante fino a che punto l'annichilimento dei kulaki, legata alla collettivizzazione forzata, rechi tracce della politica demografica nazista - come è stato recentemente analizzato da Aly/Heim - dovrà essere trattato separatamente.

[*12] - Una paralisi che si riflette nel paternalismo della relazione fra "leader"(“Führer”) e massa; nonostante che i "leader" alla Hitler, Stalin e Mussolini si presentino come gli ultimi individui in una società collettivista, essi sono solamente proiezioni disindividualizzate delle necessità infantilizzate delle masse; il che spiega anche il grottesco culto della personalità che nasce loro intorno.

[*13] - Karl Lewin scrive nel 1921 che "il taylorismo è anche la moderna psicologia industriale... (potrebbe) servire ad un sistema socialista in quanto concede alla persone la loro rispettiva funzione non a partire dalla loro educazione, dipendente dalla classe, ma a partire dalle loro capacità"; e Otto Bauer, da un lato, vede nascere in Unione Sovietica "un nuovo e terribile dispotismo... che soggioga gli individui, in tutte le relazioni della loro vita, e non lascia all'individuo nessuna sfera di azione fuori dallo Stato", ma, dall'altro lato, crede di riconoscere in questo "dispotismo di una minoranza progressista, una necessità transitoria, uno strumento temporaneamente imprescindibile del progresso storico". Il governo di Mussolini, da parte sua, aveva "dato molto valore" al fatto che Roma "fosse stata scelta come sede del terzo congresso mondiale dei tayloristi" (Bologna, 1989).

[*14] - Quanto poco critico sia Gramsci in relazione al populismo, è dimostrato dal fatto che "il concetto di populismo, dotato di un punto interrogativo positivo,... viene poi invertito a negativo, quando è relazionato al fascismo". In epigoni quale  Wieland Elfferding manca perfino il dubbioso punto interrogativo: qui si invoca in forma spudorata e stupida il "populismo di sinistra", il quale deve fare "proposte di sinistra" riguardo concetti quali "nazione", "popolo" o "patria".


fonte: Krisis

sabato 28 novembre 2015

Pannoloni per tutti!

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Il tempo è assassinio
- di Robert Kurz -

Che il tempo sia denaro e nient'altro, il capitalismo lo sapeva già da prima di Karl Marx. Il tempo lineare astratto dell'economia imprenditoriale corrisponde al "lavoro astratto", al dispendio di "nervi, muscoli e cervello" che dev'essere ottimizzato per il fine in sé della valorizzazione del capitale monetario - indifferente al contenuto e alla salute dei lavoratori. La macchina sociale capitalista rende anche l'essere umano una macchina. Già ai tempi del miracolo economico, è stato osservato come il ritmo del tempo di lavoro si appropria anche del "tempo libero". La generale corsa contro il tempo è diventata la cifra vera e propria della società postmoderna dell'accelerazione. Il filosofo Paul Virilio ha parlato di "pausa frenetica". In Giappone, il "Karoshi" - la morte improvvisa durante il servizio nel sacro luogo del lavoro - ha dato di che parlare.

La crisi mondiale della terza rivoluzione industriale ha portato fino al parossismo la follia del lavoro. Quanto più si diffonde la disoccupazione e la sottoccupazione, tanto più sfacciatamente si spremono fino al midollo gli orgogliosi occupanti di un posto di lavoro. Sia nelle fabbriche dei conglomerati industriali che fra il personale delle imprese dei servizi, sia nelle poste e nelle ferrovie privatizzate che, perfino, nei templi del capitale finanziario: dappertutto è una persona sola che ora deve svolgere i compiti per cui prima occorrevano tre o quattro persone. Negli Stati Uniti ed in Argentina è stato reso pubblico il fatto che i supermercati distribuiscono pannoloni alle cassiere, affinché non "rubino tempo" all'economia d'impresa con le loro necessità fisiologiche. L'occupazione totale va di pari passo con l'umiliazione, nel nome delle necessità della redditività.

Ma l'attività frenetica del lavoro non riguarda affatto solamente i ranghi inferiori delle catene globali della creazione del valore. Dal momento che la macchina che brucia gli esseri umani non viene alimentata soltanto con i "muscoli", ma anche con "nervi e cervello", non vengono risparmiati nemmeno gli "ufficiali e sottufficiali" della società della conoscenza così tanto decantata. Quando, all'inizio del 2007, un giovane avvocato finanziario del rinomato studio di avvocati "Freshfields Bruckhaus" si è lanciato giù dal settimo piano del Tate Modern di Londra, si udì il lamento: "La City divora i suoi figli". Nonostante la prospettiva di arrivare in breve tempo ad uno stipendio annuo da un milione di sterline, l'ambizioso elemento dell'élite non sopportava più di lavorare 16 ore al giorno, per sette giorni la settimana, cui l'imperativo "up or aut" lo costringeva. In quello stesso periodo, si è venuti a conoscenza di una serie di suicidi avvenuti nel centro tecnologico della Renault. Un direttore informatico si era ucciso gettandosi dall'alto, un ingegnere altamente qualificato si era annegato in un lago vicino, un altro si era impiccato nella sua casa. Sullo sfondo di tutto questo, c'era il programma di risanamento "Renault Contrat 2009", che seminava lo psicoterrore fra i dipendenti al vertice, cui venivano rivolte critiche negative in presenza dei colleghi.

Tali avvenimenti, menzionati a livello mediatico in maniera del tutto impotente, sono solamente la punta dell'iceberg. Il tempo è denaro, ossia, assassinio. Probabilmente si vedranno ancora imprenditori modelli che la mattina indossano pannoloni, per non sperperare, con inutili visite alla toilette, il prezioso tempo del loro cervello. Pannoloni usa e getta per tutti e "Karoshi" per tutti, forse allora si riuscirà a raschiare il fondo dei rendimenti e perfino a far sì che la "ripresa" possa continuare. Bisogna accettare il fatto che tuttavia i crolli e le catastrofi si accumulano, in quanto, in ogni caso, quel che conta nel capitalismo virtuale non è la qualità del contenuto. Ad una cultura di combustione universale si impone anche l'obbligo di una coraggiosa autocombustione.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland, il 05.04.2007 -

fonte: EXIT!

venerdì 27 novembre 2015

Stasis

guerracivile

La “stasis” greca rappresenta la tensione irrisolta tra due appartenenze: alla famiglia e alla città.
Per Platone “chi combattendo uccide un fratello va giudicato puro come chi ammazza un nemico”

Che una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi. Roman Schnur, che già negli anni Ottanta formulava questa diagnosi, aggiungeva tuttavia che la disattenzione nei confronti della guerra civile andava di pari passo al progredire della guerra civile mondiale. A trent’anni di distanza, l’osservazione non ha perso nulla della sua attualità: mentre sembra oggi venuta meno la stessa possibilità di distinguere guerra fra Stati e guerra intestina, gli studiosi competenti continuano a evitare con cura ogni accenno a una teoria della guerra civile.
È vero che negli ultimi anni, di fronte alla recrudescenza di guerre che non si potevano definire internazionali, si sono moltiplicate, soprattutto negli Stati Uniti, le pubblicazioni concernenti le cosiddette internal wars; ma, anche in questi casi, l’analisi non era orientata all’interpretazione del fenomeno, ma, secondo una prassi sempre più diffusa, alle condizioni che rendevano possibile un intervento internazionale. Il paradigma del consenso, che domina oggi tanto la prassi che la teoria politica, non sembra compatibile con la seria indagine di un fenomeno che è almeno altrettanto antico quanto la democrazia occidentale.
Un’analisi del problema della guerra civile — o stasis — nella Grecia classica non può non esordire con gli studi di Nicole Loraux, che ha dedicato alla stasis una serie di articoli e saggi, raccolti nel 1997 nel volume La Cité divisée. La novità nell’approccio di Loraux è che essa situa immediatamente il problema nel suo locus specifico, cioè nella relazione fra l’oikos, la “famiglia” o “casa”, e la polis, la “città”. All’inizio della Politica, Aristotele distingue così con cura l’oikonomos, il “capo di un’impresa”, e il despotes, il “capofamiglia”, che si occupano della riproduzione e della conservazione della vita, dal politico, e critica aspramente coloro che ritengono che la differenza che li divide sia di quantità e non, piuttosto, di qualità.
Dove “sta” la stasis, qual è il suo luogo proprio? Innanzitutto una citazione dalle Leggi di Platone: «Il fratello [adelphos, il fratello consanguineo] che, in una guerra civile, uccide in combattimento il fratello, sarà considerato puro [catharos], come se avesse ucciso un nemico [polemios]; lo stesso avverrà per il cittadino che, nelle stesse condizioni, uccide un altro cittadino e per lo straniero che uccide uno straniero ». Ma ciò che risulta dal testo della legge proposta dall’Ateniese nel dialogo platonico non è tanto la connessione fra stasis e oikos, quanto il fatto che la guerra civile assimila e rende indecidibili il fratello e il nemico, il dentro e il fuori, la casa e la città. Nella stasis, l’uccisione di ciò che è più intimo non si distingue da quella di ciò che è più estraneo. Ciò significa, però, che la stasis non ha il suo luogo all’interno della casa, ma costituisce piuttosto una soglia di indifferenza fra oikos e polis, fra parentela di sangue e cittadinanza. La stasis — questa è la nostra ipotesi — non ha luogo né nell’oikos né nella polis, né nella famiglia né nella città: essa costituisce una zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città. Trasgredendo questa soglia, l’oikos si politicizza e, inversamente, la polis si “economizza”, cioè si riduce a oikos. Ciò significa che, nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città e la città si depoliticizza in famiglia.
Esiste, nella tradizione del diritto greco, un documento singolare, che sembra confermare al di là di ogni dubbio la situazione della guerra civile come soglia di politicizzazione/depoliticizzazione che abbiamo appena proposto. Si tratta della legge di Solone, che puniva con l’atimia (cioè con la perdita dei diritti civili) il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti. Non prendere parte alla guerra civile equivale a essere espulso dalla polis e confinato nell’oikos, a uscire dalla cittadinanza per essere ridotto alla condizione impolitica del privato. Questo nesso essenziale fra stasis e politica è confermato da un’altra istituzione greca: l’amnistia. Nel 403, dopo la guerra civile in Atene che si concluse con la sconfitta dell’oligarchia dei Trenta, i democratici vittoriosi, guidati da Archino, si impegnarono solennemente a «non ricordare in nessun caso gli eventi passati» cioè a non punire in giudizio i delitti commessi durante la guerra civile. Commentando questa decisione — che coincide con l’invenzione dell’amnistia — Aristotele scrive che in questo modo i democratici «agirono nel modo più politico rispetto alle sciagure passate ». L’amnistia rispetto alla guerra civile è, cioè, il comportamento più conforme alla politica.
Dal punto di vista del diritto, la stasis sembra così definita da due interdetti, perfettamente coerenti fra loro: da una parte, non prendervi parte è politicamente colpevole, dall’altra, dimenticarla una volta finita è un dovere politico. In quanto costituisce un paradigma politico coessenziale alla città, che segna il diventar politico dell’impolitico (dell’oikos) e il diventar impolitico del politico (della polis), la stasis non è qualcosa che possa mai essere dimenticato o rimosso: essa è l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti. Proprio il contrario, cioè, di ciò che la guerra civile sembra essere per i moderni: cioè qualcosa che si deve cercare di rendere a tutti i costi impossibile e che deve sempre essere ricordato attraverso processi e persecuzioni legali.
Quando prevale la tensione verso l’oikos e la città sembra volersi risolvere in una famiglia (sia pure di un tipo speciale), la guerra civile funziona allora come la soglia in cui i rapporti familiari si ripoliticizzano; quando a prevalere è invece la tensione verso la polis e il vincolo familiare sembra allentarsi, allora la stasis interviene a ricodificare in termini politici i rapporti familiari. La Grecia classica è forse il luogo in cui questa tensione ha trovato per un momento un incerto, precario equilibrio. Nel corso della storia politica successiva dell’Occidente, la tendenza a depoliticizzare la città trasformandola in una casa o in una famiglia, retta da rapporti di sangue e da operazioni meramente economiche, si alternerà invece a fasi simmetricamente opposte, in cui tutto l’impolitico deve essere mobilitato e politicizzato. Secondo il prevalere dell’una o dell’altra tendenza, muterà anche la funzione, la dislocazione e la forma della guerra civile; ma è probabile che finché le parole “famiglia” e “città”, “privato” e “pubblico”, “economia” e “politica” avranno un sia pur labile senso, essa non potrà essere cancellata dalla scena politica dell’Occidente.
La forma che la guerra civile ha assunto oggi nella storia mondiale è il terrorismo. Se la diagnosi foucaultiana della politica moderna come biopolitica è corretta e se corretta è anche la genealogia che la riconduce a un paradigma teologico-oikonomico, allora il terrorismo mondiale è la forma che la guerra civile assume quando la vita come tale diventa la posta in gioco della politica. Proprio quando la polis si presenta nella figura rassicurante di un oikos — la “casa Europa”, o il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale — allora la stasis, che non può più situarsi nella soglia fra oikos e polis, diventa il paradigma di ogni conflitto ed entra nella figura del terrore. Il terrorismo è la “guerra civile mondiale” che investe di volta in volta questa o quella zona dello spazio planetario. Non è un caso che il “terrore” abbia coinciso col momento in cui la vita come tale — la nazione, cioè la nascita — diventava il principio della sovranità. La sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata è l’incondizionata esposizione alla morte, cioè la nuda vita.

- Giorgio Agamben - dal primo capitolo di "STASIS - La guerra civile come paradigma politico", Bollati Boringhieri" -

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- Stasis è il nome della guerra civile nella Grecia antica. Un concetto così     inquietante o impresentabile per la filosofia politica posteriore da non essere fatto  oggetto sinora di una dottrina adeguata, neppure da parte dei teorici della rivoluzione. Eppure, sostiene Giorgio Agamben fornendo qui i primi elementi di una necessaria «stasiologia», la guerra civile costituisce la fondamentale soglia di politicizzazione dell’Occidente, un dispositivo che nel corso della storia ha permesso alternativamente di depoliticizzare la cittadinanza e mobilitare l’impolitico, e che vediamo oggi precipitare nella figura del terrore su scala planetaria. Al suo paradigma concorrono insieme due poli antitetici dei quali Agamben mette allo scoperto la segreta solidarietà, quello classico secondo cui la guerra civile è coessenziale alla polis, al punto che chi non vi prende parte è privato dei diritti politici, e quello moderno rappresentato dal Leviathan di Hobbes, che ne decreta l’interdizione, ma introduce una scissione – e con questa la possibilità della guerra civile – all’interno stesso del concetto di popolo. -

giovedì 26 novembre 2015

Bestiari

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Bestiario: Per evitare di parlare del terrorismo islamico, la rivista "marxista" online Période pubblica una riflessione "morale" sui crimini di guerra di ... (indovinate chi?)

I "marxisti" vengono ritenuti delle persone che riflettono più degli altri (secondo la norma: essi posseggono gli strumenti della "scienza marxista e del materialismo dialettico, vera e propria scienza delle scienze secondo Stalin e Sant'Althusser) e che hanno una risposta per tutto.
Siccome i "marxisti" della rivista francese "Période" non avevano niente da dire (almeno pubblicamente) sul terrorismo islamico e sugli ultimi massacri commessi a Parigi il 13 novembre 2015, il 16 novembre, ossia solamente tre giorni dopo , hanno tradotto e pubblicato un articolo che4 pretende di porre le basi per una riflessione "etica" su (indovinate che?)... i crimini di guerra dello Stato israeliano.
Il titolo dell'articolo è "Scagliare la prima pietra: Chi può e chi non può condannare i terroristi?"
Non solo l'autore del testo, G.A. Cohen, non nomina una sola volta il terrorismo Jihadista (e a ragion veduta, visto che non era questo il soggetto del suo articolo che è stato scritto prima degli attentati ed è entrato su Israele e sulla Palestina) ma i "marxisti" della rivista Période fanno precedere tale articolo da un cappello ipocrita che riproduciamo qui per esteso. Questo cappello lascia intendere, senza dirlo apertamente ma suggerendolo, che ci potrebbe essere un legame fra la riflessione sui crimini di guerra dello Stato israeliano e quelli dello Stato islamico.

Non si possono accusare di averlo veramente scritto dal momento che non l'hanno fatto...Si accontentano di un sotto-testo... e pretendono di volersi interrogare su delle questioni di "filosofia morale" "a prescindere da ogni presa di posizione sulla legittimità/illeggitimità dell'uso del terrorismo come risposta ad un torto subito"... Si può ammirare il concetto di "legittimità/illeggitimità"...
Immaginiamo che un filosofo "marxista" si interroghi in un articolo sulla legittimità/illegittimità dello stupro, del sessismo, dell'antisemitismo o del razzismo. La rivista "marxista" Période lo pubblicherebbe?
Così tanto cinismo ed incapacità (o, più esattamente, rifiuto totale) di criticare l'Islam politico, in tutte le sue componenti, ivi compresi i jihadisti, lasciano costernati...
Che per di più questi individui si avvalgano del prestigio intellettuale del "marxismo" per contrabbandare la loro ideologia, spingerà chiunque a fuggire come la peste una simile etichetta... così come a rifuggire da Marx.

- Y.C., "Ni patrie ni frontières, 26/11/2015" -

(p.s.: chi vuole può leggere (in francese) una delle numerose analisi marxiste sull’Islam politico, scritta da degli anglofoni e pubblicata dalla defunta rivista Carré Rouge. )

CAPPELLO all’articolo della rivista "marxista" Période:

Chi può condannare chi? E' a tale domanda, in gran parte inespolorata nella filosofia morale contemporanea, che Gerald Allan Cohe, figura emblematica del marxismo analitico, cerca di rispondere in quest'articolo al fine di rinnovare il lessico del dibattito sul terrorismo. Partendo da una dichiarazione dell'ambasciatore di Israele in Gran Bretagna, Cohen esplora le diverse ragioni per cui, in certe situazioni ed indipendentemente da ogni presa di posizione sulla legittimità/illegittimità dell'uso del terrorismo come risposta ad un torto subito, il "diritto a condannare" da parte di alcuni attori può e deve essere rimesso in discussione.

fonte: mondialisme.org

mercoledì 25 novembre 2015

Discordia

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Da venerdì, i leader francesi sono passati dalla retorica della sicurezza e della prevenzione a quella della guerra.
L'antiterrorismo non è più il dispositivo che pretende di impedire gli attentati e scongiurare la guerra, ma è l'assunzione stessa della guerra. Le conseguenze di un simile cambiamento di paradigma sono immense. Si tratta di non lasciarsi paralizzare dallo stupore e cercare di comprendere quali saranno le conseguenze derivanti dagli attentati del 13 novembre.
Poco prima dell'11 settembre 2001, la rivista Tiqqun aveva pubblicato un articolo circa il concetto stesso di guerra civile. Lo stile è denso ed i riferimenti filosofici sono complessi, cionondimeno rimane un testo fondamentale per la filosofia politica del 21° secolo:

Non si tratta di una società che è in crisi, è una civiltà che è arrivata alla sua fine, e forse perfino oltre. Il modo in cui tutto diventa così problematico, in quest'epoca, ci racconta soltanto fino a che punto le ovvietà su cui si reggeva si siano volatilizzate. La politica è stata una di tali ovvietà, un'invenzione greca che si sintetizza in una equazione: avere una posizione, significa schierarsi, e schierarsi, prendere partito, significa innescare la guerra civile. Guerra civile, posizione, partito, in greco era una sola parola, stasis. E la politica, era l'arte di evitare la stasis.
Frugando fra le macerie della civiltà, abbiamo scoperto questo: non è la guerra civile che ci minaccia, che si è messa in marcia, ciò di cui si ode il rumore lontano che si avvicina. La guerra civile è quello che sta lì, sotto i nostri occhi, da tutta l'eternità. Non c'è affatto l'ordine e il disordine. C'è da sempre una pluralità di ordini, in un lotta più o meno regolata. E c'è, soprattutto, uno schermo di concetti nati morti che servono al solo scopo di mascherare questa lotta.
(dalla quarta di copertina di "Introduzione alla Guerra Civile" di Tiqqun)


fonte: lundimatin