giovedì 1 ottobre 2015

Babelizzazioni

ponti

Ponti e diavoli, ovvero la demonizzazione del sapere tecnico
- Note per una storia delle ombre -
di Andrés Martinez Reche

"La parola, ombra dell'atto" - Democrito di Abdera -

La diffidenza nei confronti del sapere scientifico in generale, e del sapere tecnologico in particolare, è una costante storica che può essere rintracciata nella letteratura e nel folklore. Alcune opere tecniche, come i ponti, hanno prodotto un ricco repertorio di leggende e di significati simbolici. Parliamo dei ponti, e delle leggende, assai spesso diaboliche, costruite intorno ad essi. Con l'espressione "ponti del diavolo", uniamo due termini che, presi singolarmente, godono già di una vastissima presenza in differenti tradizioni, epoche e geografie.
Dacché c'è memoria di un'invenzione umana, ci sono anche storie di rappresaglie divine. L'uomo non inventa impunemente. La conoscenza in grado di trasformare il mondo (nel bene o nel male, a seconda delle capacità), nasce accompagnata da un diffuso senso di colpa: basti ricordare come la scelta dell'albero della conoscenza implichi la rinuncia ai frutti dell'albero della vita.
La diffidenza, il sospetto, anche la paura, della maggioranza delle persone nei confronti di determinate opere tecniche (di architettura, di ingegneria...), così come nei confronti delle conoscenze tecniche e scientifiche che tali opere implicano, è una costante della storia dell'uomo. Tra il sapere degli specialisti ed il suo riflesso e la sua ricezione da parte di una cittadinanza che ha sempre più paura di una scienza che non comprende, si innalzano dei muri che sono sempre più difficili da abbattere. Il risultato può essere, ancora una volta, la riproposizione di quelle quelle paure ancestrali che hanno sempre accompagnato ogni nuova invenzione: oggi, le scienze che "spaventano" sono solo alcune (la biologia, per l'incertezza del suo utilizzo nella genetica umana, nell'alimentazione..., la fisica, per la questione nucleare...); in altri tempi erano altre: la medicina (insieme temuta e riverita), l'architettura, l'ingegneria... Tracciare la storia di questi timori, può essere utile per poterli superare, per gettare ponti fra gli specialisti che generano nuove conoscenze e l'uomo della strada, ovvero tutti noi in quanto non specialisti.
Innumerevoli leggende, tradizioni mitico-religiose, folkloriche, letterarie... ci consegnano la memoria del timore, della tensione conflittuale fra l'impulso faustiano (l'avidità di sapere) ed il timore colpevole degli apprendisti stregoni. Le parole, le storie che persistono come leggende sono l'ombra che fa seguito all'azione faustiana e all'atto che risulta da quest'azione. Seguire le tracce di questi racconti significa, in realtà, fare la storia speculare della scienza e della tecnologia; significa fare la storia del suo specchio oscuro, della sua "babelizzazione", se si accetta il termini che proponiamo per definire la visione ombrosa che spesso suscita ogni sapere specialistico.
Con "babelizzazione", inoltre intendiamo l'incriminazione di un'opera tecnologica complessa in quanto "delitto" sacrilego di sfida alla divinità (quello che i greci chiamavano "Hybris"). Nell'esposizione di questa babelizzazione, utilizzeremo l'esempio dei ponti come filo conduttore, ma senza necessariamente limitarci ad essi.

Ponti e diavoli
Per molto tempo si è ritenuto che il Medioevo si fosse limitato ad utilizzare il patrimonio viario romano; cosicché molti dei ponti di pietra venivano assegnati all'epoca romana. I testi e le prove documentali dimostrano che i ponti, soprattutto quelli costruiti con grosse pietre, erano ancora rari in epoca romanica. Tuttavia, si può essere sicuri che la continuità nella tecnica di costruzione dei ponti, dall'epoca romana fino alla fine del 18° secolo, abbia subito ben poche variazioni. Nicolas Bergier [che nel 1662 pubblicò il primo studio generale ed esaustivo sulle strade romane] era molto sorpreso circa la grande ignoranza sulla questione: "... nonostante il fatto che queste grandi strade romane si trovino sotto i nostri occhi (...), noi ci comportiamo rispetto ad esse come fanno i contadini, i quali le ritengono opere del demonio, di giganti o fate che usarono le loro arti magiche...".
Avviene anche che l'aspetto vetusto, patinato e muschioso che queste opere, esposte alle inclemenze del tempo, hanno acquisito, contribuisca alla difficoltà di datarle, anche se la loro qualità architettonica, la loro utilità sociale ed economica inducano ad attribuirle ad illustri personaggi... o, frequentemente, al diavolo in persona, ingegnere ed architetto prolifico a giudicare dall'abbondanza delle opere che gli vengono attribuite.
Il diavolo è una potente figura del Vecchio Testamento: nel Libro di Giobbe dà del tu a Dio stesso (non per niente è Stana: "l'Avversario"). E nei Vangeli, a Cristo. Per questo non è irragionevole onorarlo con pratiche stregonesche (anche semplicemente accendendo una candela, come raccomanda la cautela contadina). Sono pratiche che si ricollegano ai culti pagani in generale e al culto del dio Pan in particolare.
Tuttavia, conviene sottolineare l'importanza del concetto di patto, di relazione contrattuale che si stabilisce con il demonio cristiano. Esso appare nella tentazione di Cristo: "Ti darò tutto questo, se prostrandoti mi adorerai"; lo ripetono i testi patristici: "I prodigi dei maghi sono frutto della loro alleanza con Satana", afferma San Cipriano di Antiochia. "Hanno la loro origine nel pestifero commercio dell'uomo con il demonio", dice Sant'Agostino. Il gesuita Martin Antonio del Rio, nel suo trattato "Disquisitionum magicarum", riassumeva la questione per mezzo dell'affermazione per cui "... quando un fatto non può essere spiegato né come miracolo, né attraverso le forze della natura, né per mezzo dell'abilità dell'ingegno, ecco che abbiamo il patto con il diavolo". Con questo fantastico ragionamento, si risolveva qualsiasi preoccupazione circa l'origine delle abilità tecniche o scientifiche che non erano comprese dalla maggioranza. La strada che da Cipriano di Antiochia (che prima di arrivare ad essere santo era stato un negromante) arriva fino al Faust di Goethe, è stata molto frequentata. Per il fatto di possedere una conoscenza straordinaria, ed atipica per i loro contemporanei, si videro imputati come maghi, nel migliore dei casi, personalità come Democrito o Arias Montano, del quale si disse "che comprendeva il linguaggio degli uccelli", e, nel peggiore dei casi, si videro accusa di aver patteggiato col demonio persone quali San Basilio Magno, Ruggero Bacone, il papa Silvestro II, o, in Spagna, il marchese di Villena, il signore di Torralba...
Appariva ovvio che per le élite del pensiero, per molti secoli, un patto fra le forze infernali e l'uomo fosse qualcosa di reale e naturale: era una buona risposta al timore ancestrale provocato da ogni nuova conoscenza. A maggior ragione, veniva accettato dalle persone comuni. E' ovvio che la diffidenza nei confronti di un individuo che conosce troppa matematica (Gerberto di Aurillac, poi papa, col nome di Silvestro II) difficilmente produrrà una leggenda comparabile a quella di un'opera tecnica, fisica, tanto concreta e palpabile quanto incompresa o incomprensibile. E poniamo, ad esempio, che si stia parlando di un ponte.
Il diavolo era un essere della cui esistenza non si dubitava. Faceva il suo mestiere: raccoglieva anime per l'inferno. Le sue prede preferite erano i santi, con cui intraprendeva delle lotte furibonde che lasciavano segni su tutta le geografia del cristianesimo: il paesaggio appare pieno delle impronte dei suoi piedi, delle sue ginocchia, delle sue corna... Frequenta zone solitarie e pericolose: Picchi dell'Inferno o del Diavolo, Sedie del Diavolo, Gole del Diavolo...
Però, nelle favole, leggende e proverbi popolari, il demonio non è così terribile come ce lo mostra la Teologia. Il diavolo si presenta in molteplici forme, convertito in un simbolo dell'onnipresenza del male, in venditore al dettaglio del male; un male, una malvagità quotidiana con cui bisogna imparare a convivere. Ma è anche lo stesso demonio che svolge, come avviene spesso nei racconti popolari, il ruolo di "povero diavolo", stupidotto, ingenuo, sempre ingannato dalle sue potenziali vittime, che arriva ad umanizzarsi fino al punto da non potergli negare una punta di simpatia.
A volte, per inganno, o per appropriarsi di un'anima, costruisce edifici meravigliosi, ponti sopra qualsiasi cosa. L'attribuzione al diavolo di un'opera architettonica è qualcosa di comune laddove emerge stupore ed incomprensione per il modo o per la tecnica di costruzione; e questo stupore è rappresentato in un'infinità di esempi: il repertorio di ponti che si vedono "appiccicato" il diavolo alla loro leggenda, è incalcolabile. Ma non sono meno numerosi i ponti che ricevono il loro nome dai santi, e che sono protetti dai pericoli per mezzo di una piccola cappella posta sul ponte stesso. In maniera indiretta, in questi casi assistiamo ad una manifestazione della credenza nel potere diabolico: non sarebbe necessario esorcizzare il ponte per mezzo di immagini di santi, se non si credesse che il rischio diabolico è reale.
(D'altra parte, questa strategia propiziatoria non ha fatto altro se non continuare quella romana, che dotava i ponti di epigrafi e di edicole che reclamavano la protezione degli dei, o avevano incisi sopra simboli di buona fortuna, come gli enormi falli sulle pietre del ponte di Mérida, sul torrente Albarregas, sulla Via Delapidata.)
Ricordiamo alcuni esempi di questa tendenza a spiegare per mezzo dell'intervento diabolico qualsiasi opera complessa: Garcilaso de la Vega, l'Inca (1539-1616), parlando di una fortezza come Sacsayhuamán (a meno di un chilometro da Cuzco), nei suoi "Commentari reali", afferma: "Sembra come se una qualche specie di magia abbia presieduto alla sua costruzione; che sia stato il lavoro di demoni, invece che di esseri umani".
Un caso ancora più esemplare: lo stesso Vitruvio, il pater architecturae occidentale, è stato sul punto di venire assimilato al diavolo; la cosa avviene in un opera teatrale portoghese messa in scena nel 1587, anche se scritta nel 1565, intitolata "Auto da Ave Maria", di Antonio Prestes: Vitruvio viene trasformato in una delle apparizioni del diavolo. L'architetto romano era demonizzato, i suoi attributi erano quello di essere vestito all'italiana, di parlare una lingua con modi di dire castigliani e di proporre un linguaggio architettonico basato sulla Antichità e sulle mode rinascimentali italiane. Al "vitruvianismo" del diavolo, l'autore oppone un Caballero difensore delle virtù cristiane e delle tradizioni architettoniche nazionali portoghesi.

Leggende dei ponti del diavolo
La maggior parte delle leggende presenta uno schema semplice, alcuni elementi fissi intorno ai quali si muovono alcune piccole varianti secondo il seguente schema:

I   -  Qualcuno: Una vecchia / una giovane / un nobile / un santo...
II -  Deve    :
              A) attraversare: un fiume / un burrone
              a) per prendere l'acqua
              b) per sfuggire da qualcuno o a qualcosa...
              B) Portare il rifornimento di acqua
              C) Costruire una qualche costruzione
III - Ed invoca il diavolo, che appare e si offre di fare il ponte, l'acquedotto o la costruzione richiesta.
IV - C'è un prezzo:
              A) L'anima del richiedente "committente"; si va allora al punto V (condizioni che limitano il diavolo).
              B) L'anima della prima creatura che utilizza l'opera del diavolo (il primo che passa, che beve ...).
V   -  E, a volte, delle condizioni che limitano il tempo di costruzione;
              A) prima dell'alba.
              B) prima del canto del gallo.
VI  - Inganno finale:
              A) Il "committente" fa passare un animale come primo utilizzatore dell'opera. L'anima dell'animale è il prezzo.
              B) Si fa cantare prematuramente il gallo. L'opera rimane quindi incompiuta.

Un'opera eccessivamente complessa per essere compresa e, soprattutto, per le diminuite necessità di una popolazione scarsa e con poca mobilità, può benissimo essere percepita come assurda e venire attribuita al demonio. Ma questo non impedisce che il ponte diabolico rimanga decisamente comodo. Come si risolve l'incongruenza di utilizzare con piacere l'opera precedentemente satanizzata? E' l'omogeneità delle leggende a suggerire la risposta: se la malvagità è la caratteristica morale del diavolo, l'assurdo è la sua caratteristica intellettuale. Ebbene, l'inganno fatto al diavolo sarebbe l'esorcismo necessario che permette, dopo averlo sconfitto, di servirsi della sua opera (che oltre tutto, essendo spesso incompiuta, sebbene già utilizzabile, sarebbe "incompletamente diabolica").

"Babelizzazione"
Crediamo che l'esempio di Babele sia talmente chiaro da poter dare il suo nome a questo tipo di miti o leggende; è forse il più antico esempio, in cui il tentativo di unire il cielo alla terra appare relazionato con un'opera di architettura, qualcosa che fino ad allora era concepibile soltanto per mezzo di "ponti" naturali, come l'arcobaleno; vediamone lo sviluppo:

Il precedente biblico
Nella Genesi, cap.4, 17: il primo costruttore di una città è Caino: "Ed egli edificò una città cui diede il nome di Enoc, suo figlio". La successiva menzione della fondazione di una città la troviamo, sempre nella Genesi, cap. 10, 8 e ss.: i fondatori risultano tutti essere discendenti di Cam, il figlio maledetto di Noé. Figlio di Cam fu Cus, e questi du padre di Nemrod; e di Nemrod dice: "Fu l'inizio del suo regno Babilonia, Erec e Acad e Calane nella terra di Sinar". Gli viene poi attribuita la condizione di fondatore di città.
Vale la pena ricordare che altri creatori di strumenti o di tecnologia sono stati ascritti alla stirpe maledetta di Caino: Jubal è l'inventore degli strumenti musicali: l'arpa e la cetra; Tubalcain "...fu maestro nel lavorare di martello ogni cosa di rame e di ferro". E la sorella di questi, Naama, secondo una tradizione raccolta da Scio de San Miguel, fu l'inventrice dell'arte di filare la lana e tessere la tela.
Appare chiara l'avversione suscitata da inventori e costruttori nel redattore del testo biblico. Ma concentriamoci sui costruttori:
Genesi, cap.11, 1 w ss.: Viene rappresentata una sorprendente diffusione di popoli che sembra ripetere inutilmente quella del cap.10 (quella dei popoli che discendono da Noé): "C'era in tutta la terra una sola lingua ed una sola parola. Nella loro marcia verso oriente trovarono una pianura nella terra di Sinar, e si stabilirono lì. Poi dissero gli uni agli altri: Andiamo a fare mattoni e cuociamoli al fuoco. E si servirono di mattoni come se fosse pietra, ed il bitume servì loro da cemento; e dissero: andiamo ad edificare una città ed una torre la cui cima tocchi il cielo e ci renda famosi, per non disperderci su tutta la terra".
Il testo enfatizza in maniera significativa l'arroganza di un popolo che osa voler unire la terra con il cielo, e che lo fa, oltretutto, manipolando e trasformando gli elementi fondamentali della natura (come sono stati registrati dalla filosofia ionica in quella stessa epoca): terra e acqua (che formano l'argilla dei mattoni) e fuoco. E insiste su questo, avvertendo che lo utilizzarono come se si trattasse di pietre. Appare evidente che ci troviamo davanti ad un manifestazione di diffidenza e sospetto timorosi da parte di un popolo di nomadi, i pastori semiti dei bordi del deserto, impressionati davanti allo splendore e alla complessità urbana, per loro incomprensibili, di Babilonia. Non è quindi sorprendente che la pretesa, sacrilega secondo il loro parere, di unire il cielo e la terra attiri il castigo della separazione, della dispersione dei popoli, e della confusione delle lingue (giocando oltretutto con l'etimologia popolare di Babilonia che la relaziona con il verbo ebraico "balal", che significa "mescolare, confondere" (in realtà Babilonia proviene da Bab-ilâni - "porta degli dei", che, a sua volta, traduce il sumero Ka-dingir-ra-ki).
Inoltre, la ciclopica costruzione dello ziggurat veniva chiamata enfaticamente dagli stessi babilonesi "E-temen-an-ki" ("fondamento del cielo e della terra"), cosa che agli occhi dei nomadi israeliti aggiungeva il peccato di superbia al sacrilegio. E se ascoltiamo l'oracolo di Isaia contro Babilonia, troviamo nel cuore della città, già in rovina, presenze visibili di demoni, sotto forma di caproni che vivono fra le rovine e nel deserto: l'elemento diabolico, sempre presente nella costruzione babelica, semplicemente, diviene visibile nel momento della sua rovina.

Grecia
Nel mondo greco troviamo alcuni interessanti esempi di "babelizzazione"; quello ovvio del Labirinto di Creta: l'intricata struttura urbana delle città e palazzi minoici porta i più arretrati greci ad attribuire ad essa una perversità graficamente incarnata nell'esistenza di un mostro, un ibrido di animale ed uomo, nel cuore del labirinto: il Minotauro. L'essere umano, creatura intermedia fra la bestia e dio, quando crede di emulare gli dei (e diventare forse uno di loro) finisce per liberare la bestia che è in lui, ed il suo castigo è quello di essere divorato dalla sua creazione. Lo stesso Dedalo, prototipo mitico del costruttore-ingegnere, creatore del Labirinto, pagherà un prezzo terribile per la sua ardita costruzione: la morte del figlio Icaro, il quale, inebriato dal potere dell'ingegno di suo padre, si dimentica dei limiti "tecnici" delle sue ali, tenute insieme con la cera; si avvicina troppo al sole, la cera si fonde ed il ragazzo precipita in una caduta mortale.
Decisamente, agli dei non piace che i mortali utilizzino il proprio ingegno per modificare ciò che essi hanno fatto: l'opposizione della Pizia, dell'Oracolo fi Delfi, fu determinate per fermare il progetto di canale dei cittadini di Cnido (in Caria, Asia Minore) che voleva separare la loro penisola dal continente. In Luciano di Samosata (Pseudologista,  32), troviamo la frase proverbiale “Mè kineîn Kamarínan” ("Non muovere Camarina"): fu questa la risposta dell'Oracolo agli abitanti di Camarina (Sicilia) che pretendevano di drenare e prosciugare la laguna paludosa dallo stesso nome, vicina alla loro città. La risposta, diventata proverbio (nel senso di non rimuovere le acque fangose), e che si è conservata nella tradizione paremiografica, esprime la tendenza a non ostacolare il corso della natura, e venne utilizzata anche in epoca imperiale per appoggiare "l'opposizione spirituale" alle grandi opere pubbliche.
Più relazionato al tema dei ponti, è il caso, sorprendentemente elaborato, della sfida sacrilega alla divinità lanciata dai persiani Dario e Serse, così come interpretata da Erodoto, e soprattutto da Eschilo nella sua tragedia "I Persiani". In entrambi i casi, l'oggetto materiale su cui si basa la sfida è proprio un ponte.
Come parte dei preparativi della campagna contro gli Sciti, Dario ordina di costruire un ponte sul Bosforo, fra Calcedonia e Bisanzio. Erodoto si sofferma su quel ponte, quasi cupamente, come se la costruzione, superba, eccessiva, fosse un dato chiarificatore per capire il fallimento finale di Dario. Nell VII libro delle Storie, è Serse, dopo la morte di suo padre Dario, che annuncia una spedizione punitiva conto la Grecia, e soprattutto Atene, con queste parole: "Mi propongo, dopo aver gettato un ponte sull'Ellesponto, di condurre l'esercito in Europa, contro la Grecia, per punire gli ateniesi".
Ne I Persiani, opera rappresentata nel 472 a.C., il coro degli anziani persiani esprime la sua ansietà per la sorte della spedizione di Serse del 480 contro la Grecia, e Atossa, madre di Serse, parla di sogni sinistri e di prodigi... il coro invoca lo spirito del defunto re Dario, padre di Serse, il quale vede nella catastrofe il compimento degli oracoli ed il castigo imposto dagli dei a causa della iattanza del figlio. Serse sfida la divinità unendo con un artificio, con un ponte sacrilego, quello che gli dei hanno creato separato. Se a questo aggiungiamo il racconto di Erodoto, dove narra come Serse apra un canale nella penisola di Athos, abbiamo a che fare con un'ulteriore colpa: separare quello che gli dei hanno creato unito. Tutto questo colma la misura con "hybris", provocando l'irrimediabile "ate", la vendetta-castigo da parte della divinità sfidata.

Roma
A Roma vediamo che uno dei collegi sacerdotali più prestigiosi è proprio quello dei pontefici, a proposito del quale dice Varrón: ”... Opino che provenga da ponte. In effetti il ponte Sublicio venne costruito per loro volere". Il ponte Sublicio era il più antico di Roma, e per vari secoli l'unico. La costruzione viene attribuita al re Anco Marzio, e venne proibito in maniera assoluta che per la sua struttura venisse impiegato metallo. Pare che la riparazione o la ricostruzione del ponte esigesse riti sacrificali. Ovidio riferisce che il 14 di maggio, in processione, si trasportavano bambole fatte di canne che imitavano figure di uomini legati mani e piedi, e che procedevano da 27 santuari distribuiti per tutta la città. Queste bambole venivano poi scagliate nel Tevere, dalle vestali, dal ponte Sublicio. Era un'offerta sostitutiva degli antichi sacrifici umani, che venivano offerti al fiume per placarlo e per indurlo a tollerare che il ponte attraversasse e sottomettesse il suo letto. Era stato Ercole, a sostituire le vittime umane con "uomini di paglia". Ma Ovidio racconta anche che "il vecchio indovino" (forse Proteo?) "pronunciò le seguenti parole: Offrite come sacrificio in onore dell'antico portatore di falce [Cronos-Saturno] la vita delle persone della vostra città, che saranno gettate nelle acque del fiume etrusco". Il tempo-Cronos ed il fiume, recettori dell'offerta, vengono così inaspettatamente associati, in una metafora chiamata ad avere ampio successo letterario: il tempo, come l vita, è un fiume.

In conclusione
Fin dal tempo delle nostre civiltà classiche (greca, romana ed ebraica) rileviamo testimonianze della "babelizzazione" delle opere tecnologiche. Questa "babelizzazione" è stata ripresa dal cristianesimo: la demonizzazione di certe opere tecnologiche (ponti, acquedotti...) non sarebbe altro che la sua versione. Alla caduta dell'Impero Romano, il sistema di relazioni a grande distanza sprofonda. Si perde di vista la logica che spiega le grandi reti viarie, e contemplandole in termini preferibilmente locali, determinate opere appaiono come eccessive, superbe, una sfida gratuita alla natura o alla divinità. Se un'ipotetica catastrofe globale della nostra civiltà ci retrocedesse in una sorta di nuovo Medioevo (con comunità rurali, co scarsa mobilità...) i sopravvissuti che contemplassero il viadotto di un'autostrada, e che non conoscono le autostrade, potrebbero pensare razionalmente che, come semplice ponte per attraversare un fiume, è sotto ogni aspetto eccessivo.
Attribuire tale eccesso all'orgoglio sacrilego delle popolazioni antiche, ivi incluso il patto diabolico, dipenderebbe dalla belligeranza dimostrata da una religione che ha la necessità di affermare il proprio potere nei confronti di un modello del passato. Nell'antichità si produsse tale belligeranza: fin dai primi inizi del cristianesimo, troviamo un ambito generale di confronto di modelli di società: quella civile romana e quella teologica cristiana, che si pretende superiore alla prima. In un certo qual modo, l'ingegneria viaria romana (in quanto testimonianza di un sapere tecnologico utile e benefico) è un ostacolo - in quanto lo confuta - al discorso progressivamente elaborato delle cosiddette due città: quella degli uomini (Roma) e quella superiore, quella di Dio (la Chiesa). In ogni caso, seguire dettagliatamente i passi del processo di demonizzazione ed il suo riflesso sulle tradizioni o sulla letteratura popolare, sarà oggetto di altri lavori distinti da questo, e tutti serviranno per cominciare a costruire la storia dello specchio scuro della scienza e della tecnologia che qui abbiamo solo voluto presentare.

- Andrés Martinez Reche -

fonte: Colegio de Ingenieros de Caminos, Canales y Puertos

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