lunedì 28 settembre 2015

Fantasmi narcisisti di onnipotenza

barricate

Le sottigliezze metafisiche della lotta di classe
- Sulle premesse tacite di uno strano discorso nostalgico -
di Norbert Trenkle

La lotta di classe sta per tornare sul palco della storia? Per chi presta orecchio al discorso della sinistra, a quanto pare non c'è alcun dubbio. La prefazione all'edizione 4/2003 della rivista tedesca Fantômas, facendo riferimento al proletariato e alla lotta di classe, afferma che "questo cane così preso a calci è ancora vivo". E continua: "affinché i rapporti di forza siano messi in discussione dal basso... è tempo che la sinistra torni alla questione delle classi". Commenti simili a questo, stanno comparendo in diverse altre riviste di sinistra. Nel momento in cui la crisi del capitalismo globalizzato fa crescere la polarizzazione sociale, e cominciano ad apparire diversi tipi di resistenza, la tradizionale visione marxista del mondo sembra apparentemente riguadagnare proporzionalmente un certo grado di rispettabilità.
Tralasciando per un attimo i dinosauri marxisti che insistono a venerare il pugno calloso del proletariato, bisogna constatare che, relativamente alla retorica tradizionale sulla lotta di classe, c'è stato un notevole cambiamento. E' da tempo che la vecchia fissazione sulla classe operaia bianca, maschile e metropolitana, in quanto soggetto fantasmatico della rivoluzione, sembra essere chiaramente obsoleta. Ciò non è dovuto soltanto alla rivoluzione microelettronica della produttività, che ha trasformato quel segmento sociale in una piccola minoranza, la quale è sotto molti aspetti privilegiata, se comparata alla grande massa precarizzata di venditori di forza lavoro, e che si difende dalla retrocessione sociale con sufficiente aggressività. Infatti, il discorso degli anni 80 e 90 criticava giustamente la gerarchizzazione e l'esclusione derivante da questa aberrazione che consiste nell'assumere una sezione particolare del conflitto fra lavoro e capitale come "contraddizione principale" del capitalismo, e metteva in evidenza una critica delle diverse e labirintiche forme di dominio. Tuttavia, un simile discorso raramente è andato oltre una mera metodologia additiva: la categoria di classe veniva estesa, differenziata ed integrata con altre categoria, in particolare il genere e la "razza", vale a dire l'etnia. In tal modo, non è stata sviluppata una concezione critica sistemica delle relazioni capitalistiche, e la prospettiva del loro superamento.
A tale rispetto, il nuovo discorso della lotta di classe appare essere un prodotto altamente ibrido: da un lato, dimostra un tentativo di rielaborare un concetto centralizzato che riduca tutte le lotte in corso ad un denominatore comune; dall'altro lato, cerca di non riprodurre le restrizioni e le esclusioni del marxismo ortodosso. Il risultato è una concezione di lotta di classe che dimostra di essere completamente confuso e,  anche se questo va contro le sue rivendicazioni, rimane inseparabile da un certo numero di premesse metafisiche che non sono mai state messe in discussione. Visto sotto questa prospettiva, il discorso attuale non presenta il minimo miglioramento in rapporto al suo venerabile antenato; alla fine non fa altro che riprodurlo in una forma che, pur riflettendo le condizioni sociali, si rende solo superficialmente conto del fatto che queste sono cambiate.

Essenza occulta
Il mito del "punto di vista di classe" è stato uno degli articoli di base del catalogo marxista, ma la sua continua riproduzione non riesce ad attrarre l'attenzione. Naturalmente, c'è sempre stata una contraddizione in termini nel pretendere che una certa categoria sociale, che è stata creata dal capitalismo, avrebbe dovuto incarnare anche un punto di vista intrinseco al suo superamento; e non è affatto sorprendente che quest'aporia teorica abbia dato luogo ad argomentazioni altamente contorte che, nel loro carattere metafisico, ricordavano, sotto molti aspetti, gli intricati discorsi teologici costruiti intorno alla Santissima Trinità e all'Immacolata Concezione. Non c'è dubbio che questa teologia di classe abbia trovato la sua formulazione più elaborata e la sua più grande coerenza teorica in "Storia e coscienza di classe", nella quale György Lukács ha raccolto i suoi saggi degli anni 1919-1932. Conseguentemente, questo libro è quindi il punto di partenza per tracciare gli assi di queste premesse e di questi corollari metafisici di cui, a quanto pare, si nutre ancora implicitamente il discorso attuale sulla lotta di classe. Il tour de force teorico del giovane Lukács - ciò che fa del suo pensiero un oggetto singolare per quel che attiene a pressoché tutto il marxismo ortodosso ed è, ancora oggi, un punto di riferimento per la frazione più riflessiva della sinistra - consiste nel suo sforzo di pensare insieme il "punto di vista della classe" e la reificazione risultante dalla forma merce. Non va dimenticato che questa sua iniziativa, all'epoca, è stato un modo fi tentare di digerire intellettualmente la sconfitta delle rivoluzioni occidentali. Fondamentalmente, Lukács si interessa alle ragioni per cui il proletariato, nonostante divenga sempre più numeroso, non riesce ad avere successo nel superamento del capitalismo, e perché la sua sua coscienza empirica rimanga, di fatto, impigliata nelle categorie capitalistiche. La risposta non si trova in una grossolana teoria della manipolazione e della corruzione, come quella raccontata da Lenin, che imputava il fallimento delle rivoluzioni nei centri capitalisti soprattutto all'interessamento del proletariato metropolitano ("l'aristocrazia operaia") per i profitti dei monopoli e per lo sfruttamento coloniale. Agli occhi di Lukács, il problema proveniva piuttosto dal fatto che, nella società produttrice di merci, le relazioni sociali rivestono un carattere di relazioni fra cose, di modo che il processo sociale diviene indipendente dagli uomini, in quanto non obbedisce più ad alcuna volontà cosciente ed offre l'apparenza di leggi naturali atemporali e che vengono reputate ineluttabili. Per quanto si possa, all'inizio e ad un livello di base, concordare con Lukács, tuttavia la sua descrizione della reificazione vista come una struttura che nasconde la sua "vera natura" compie rapidamente una virata metafisica. In effetti, non è più questione di un travestimento superficiale di natura ideologica, nel senso in cui, ad esempio, "dietro le quinte" di un auto-movimento sociale di pura apparenza, ci sarebbero a tirare le fila alcuni fattori politici o alcune potenze straniere - come afferma la maggior parte dei marxisti ortodossi quando cascano sui concetti di reificazione o di feticismo della merce ed improvvisano un'interpretazione di fortuna. Lukács discerne chiaramente il vero contenuto sociale della reificazione: esso si materializza nelle strutture sociali, modella radicalmente le nostre forme di percezione e, così facendo, ci nasconde il fatto che le relazioni reificate sono in realtà delle relazioni umane prodotte e mediate dal lavoro. E' per questo che Lukács, forte di quest'analisi, può, in tutta coerenza teorica, porre il punto di vista del lavoro come quello della totalità sociale, ed elevare il proletariato, che rappresenta questo punto di vista, al rango di soggetto storico destinato a spazzare via la reificazione e ad abolire il capitalismo.
Nel frattempo, ammette Lukács, il proletariato si trova sottomesso alla reificazione, in particolare attraverso l'obbligo che lo costringe ogni giorno a vendere la sua forza lavoro, e quindi a trasformarsi in merce, ad oggettivarsi esso stesso. Ma ecco che è proprio questo a metterlo nella posizione di poter vedere attraverso le strutture della merce per discernere qual è la sua vera natura, la sua essenza, il suo "essere", che fino a quel momento non è esistito che "in sé". E' il primo passo del divenire-per-sé che segnerà la liberazione, non solo del proletariato ma, insieme a lui, del genere umano tutt'intero: "Il riconoscimento del fatto che gli oggetti sociali non sono affatto delle cose ma delle relazioni fra uomini quindi conduce alla loro completa dissoluzione in processo [...] La coscienza del proletariato si eleva allora fino ad essere la coscienza di sé della società nella sua evoluzione storica. In quanto coscienza del puro rapporto di merce, il proletariato non può prendere coscienza di sé stesso se non come oggetto del processo economico. Poiché la merce viene prodotta, e l'operaio in quanto merce, in quanto produttore immediato, è, nel migliore dei casi, un ingranaggio meccanico in questo meccanismo. Ma se la cosità del capitale si dissolve nel processo ininterrotto della sua produzione  e della sua riproduzione, il fatto che il proletariato sia il vero soggetto di questo processo - benché sia un soggetto incantenato ed inizialmente incosciente - può allora, da questo punto di vista, divenire cosciente" (Lukács - "La reificazione e la coscienza del proletariato", 1923, in "Storia e coscienza di classe").
Questa celebrazione del proletariato, in quanto "vero soggetto" del capitalismo e salvatore dell'umanità, è inseparabile dalla concezione lukacciana del lavoro come principio trans-storico costitutivo della socialità. Come per tutto il resto del pensiero marxista-ortodosso, questa concezione si basa sull'idea per cui, in tutte le epoche, i rapporti sociali sono stati fondati sul lavoro. Cosicché il lavoro non è altro che il principio che fa di una società, una società, e di un essere umano, un essere umano. Nella società capitalista, tuttavia, questa mediazione del lavoro avviene in forma reificata ed indiretta per mezzo della produzione di merci (che comprende anche lo sfruttamento della forza lavoro), e diviene in tal modo invisibile. Quando Lukács scrive che la relazione reificata, "per il suo sistema di leggi proprie, rigorose, completamente chiuse e in apparenza razionali, nasconde ogni traccia della sua essenza ultima; la relazione fra uomini", egli evoca proprio questo escamotage, questa dissimulazione della funzione mediatrice del lavoro. Soltanto il proletariato, prendendo coscienza di sé stesso, può arrivare a sollevare il velo ed a portare alla luce il nucleo misterioso delle relazioni sociali. Abolire la reificazione equivale, in quest'ottica, a liberare il lavoro dalle pressioni di una struttura di mercato che, in ultima analisi, gli è esterna. Quanto alla società comunista, essa sarà quella in cui la mediazione del lavoro avviene consciamente.
Certo, Lukács ha del tutto ragione a definire "l'essenza ultima" della "struttura del mercato" come una relazione fra persone mediata dal lavoro. Dove si sbaglia, è quando dice che si tratta di un attributo trans-storico della socialità, in quanto si tratta, al contrario, di una caratteristica storicamente specifica (e, del resto, non nascosta) della società capitalista, una caratteristica che la distingue da tutte le altre forme sociali conosciute. Sebbene, innegabilmente, si dovevano produrre delle cose in ogni società, in un modo o nell'altro, per contro è la società capitalista la sola nella storia a ricorrere, per costituire e mediare i suoi legami sociali, ad una forma omogenea ed omogeneizzante di attività: la quantità astratta di energia umana spesa. In queste condizioni, si rivela impossibile per il lavoro potersi liberare dalla reificazione, in quanto è esso stesso una forma reificata di attività e, in quanto tale, sottende la produzione moderna di merci. La "presa di coscienza", da parte del lavoro, del suo ruolo di principio di mediazione sociale, così non sarebbe altro che una contraddizione, in quanto significherebbe la "presa di coscienza" della produzione delle merci e della sottomissione "cosciente" ai suoi imperativi ed alle sue leggi. Invece, se un giorno gli esseri umani si relazioneranno coscientemente e direttamente, cioè a dire senza la mediazione del denaro e delle merci, per organizzare i loro rapporti sociali, questo non porterà semplicemente alla liberazione di una "natura", finora mascherata in quanto reificata, ma piuttosto all'abolizione del principio di socializzazione omogeneo e repressivo - il lavoro - e alla sua sostituzione con una pluralità di forme di mediazione sociale e di attività. Può darsi che i metodi ed i potenziali di una simile evoluzione si trovino in germe dentro la società produttrice di merci - o quanto meno nell'opposizione sempre viva contro i suoi perpetui assalti totalizzanti - ma questo non costituisce altro che un in-sé che deve ancora diventare un per-sé.
I partigiani di Lukács in certi casi sostengono che, propriamente parlando, non glorificano il punto di vista del lavoto, ma che insistono sul necessario auto-superamento del proletariato, e di conseguenza del lavoro. Ma dimenticano che questo auto-superamento si accompagna ad un'auto-affermazione, la quale rimanderebbe, né più né meno, ad universalizzare la condizione proletaria. Allora non avremmo altro che una società totale delle merci, con il suo carattere coercitivo oggettivo. Lukács lo ammette implicitamente quando descrive la sua società socialista proletaria come retta da delle "leggi economiche oggettive" che "rimarranno in vigore anche dopo la vittoria del proletariato e si estingueranno - come farà lo Stato - solo con la nascita della società senza classi, interamente sotto il controllo umano. Quello che c'è di nuovo nella situazione attuale, è semplicemente - semplicemente! - che [...] il proletariato ha ora la possibilità, approfittando coscientemente delle tendenze esistenti dell'evoluzione, di dare all'evoluzione stessa un'altra direzione. Quest'altra direzione, è la regolamentazione cosciente delle forze produttive della società. Volere ciò coscientemente, significa volere il "regno della libertà"; significa fare il primo passo cosciente nella direzione della sua realizzazione".  Lukács ammette qui che la pretesa abolizione della reificazione attraverso la "presa di coscienza" della funzione mediatrice del lavoro nella società è solo pura finzione. Non di meno, egli rimane sufficientemente conseguente nella sua riflessione al fine di assegnare, allo stesso titolo che al lavoro, un carattere trans-storico all'auto-movimento feticista del capitalismo, limitando il potere del regime proletario allo "approfittare" abilmente delle "leggi economiche oggettive" per trarne il meglio possibile. Né più né meno che quello che hanno fatto il "socialismo realmente esistente" e lo Stato regolatore fordista.

Coscienza di classe assegnata
Proprio nella misura in cui Lukács trasfigura la categoria borghese fondamentale che è il lavoro in punto di vista dell'emancipazione, ed il proletariato in salvatore dell'umanità, i suoi sforzi volti a demistificare la reificazione producono il risultato opposto. Né il carattere real-metafisico dell'universo sociale delle merci, né le sue forme trascendentali vengono decifrate, ma vengono invece inconsciamente affermate ed investite di una potenza quasi religiosa. Anziché superare la metafisica hegeliana della storia, Lukács si accontenta di darle un aspetto "materialista": la ragione viene sostituita dal lavoro, e lo Spirito, soggetto della storia, dal proletariato. Non c'è da stupirsi che quest'ultimo assuma tutti gli attributi della forma-soggetto borghese, ed in particolare la sua struttura antinomica fatta sia di senso di onnipotenza che di impotenza effettiva (cosa che Lukács esprime concettualmente, in maniera un po' più coerente, quando qualifica il proletariato di soggetto-oggetto della storia). Dal momento che il proletariato non ha niente del soggetto nel senso dovrebbe poter decidere liberamente delle questioni sociali; esso viene al contrario del tutto assoggettato, nel suo livello di coscienza e nei suoi margini di manovra, ad una logica di sviluppo che Lukács presume essere trans-storica e che identifica nello "sviluppo delle forze produttive". Come abbiamo visto, queste leggi di ferro rimangono in vigore anche dopo la rivoluzione e finiranno di perdere la loro validità solo con l'avvento, lontano ed incerto, della società senza classi sognata da Lukács (che si inscrive qui nella linea del marxismo ortodosso). L'assenza di autonomia del soggetto borghese in seno all'auto-movimento oggettivo della società delle merci permette così di spiegare in termini di destino ontologico, la folle dinamica di espansione che caratterizza questa società. La "libertà" del soggetto si riassume nella famosa intellezione della necessità [N.d.T.: Qui Trenkle cita Engels: "Hegel è stato il primo a rappresentare esattamente il rapporto della libertà con la necessità. Per lui, la libertà è l'intellezione della necessità" - Engels, "Anti-Dühring"]. Del resto, Lukács ha del tutto ragione nel fare del soggetto, un oggetto, un essere sottomesso; ma in tal modo egli non descrive altro che le relazioni costitutive della società delle merci, che legano gli uomini con il loro legame-sociale-feticcio; non riuscendo a vedere oltre questa forma di rapporto con il mondo.
La sottomissione della forma-soggetto al legame-sociale-feticcio come la intende Lukács, non si traduce solo nelle considerazioni su una società sedicente post-capitalista. Anche in quanto soggetto della rivoluzione, il proletariato si trova del tutto privo di autonomia. La definizione lukacciana di "coscienza di classe" non lascia dubbi su questo punto. Lungi dall'essere intesa come ciò che i membri della classe operaia realmente pensano, essa è ciò che, in virtù della sua sedicente vera natura, essi devono pensare. Alle prese con un proletariato che deve incarnare il punto di vista anticapitalista "in sé", ma che manifestamente nella sua maggioranza non si mostra per niente attirato dall'opzione rivoluzionaria, Lukács risolve questa contraddizione nell'abituale maniera metafisica. La coscienza di classe deve, secondo lui, "essere assegnata ad una situazione tipica determinata nel processo di produzione" e non può quindi essere determinata altro che "scientificamente". Si rimane, di conseguenza, per lo più nel dominio del virtuale: "Rapportando la coscienza alla totalità della società, si scoprono il pensiero ed i sentimenti che gli uomini avrebbero auto, in una situazione vitale determinata, se fossero stati capaci di afferrare perfettamente tale situazione e gli interessi che ne derivano, sia in rapporto all'azione immediata che in rapporto alla struttura, conformemente a questi interessi, di tutta la società; si scoprono così i pensieri, ecc., che sono conformi alla loro situazione oggettiva" (Lukács, "La coscienza di classe", 1920, in "Storia e coscienza di classe").
Eccolo quindi il famoso "soggetto-oggetto della storia" da subito incapace e messo sotto tutela. Dal momento che non sembra essere in grado di arrivare dal solo alla "vera coscienza", gli deve venire insegnata da quelli che sono delle autorità in materia: il teorico ed il partito, due istanze che, unite, sanno quale sia questa missione storica della classe operaia di cui essa stessa ignora tutto, e che lavorano duramente per aiutarla ad evolversi dal "in sé" al "per sé": "L'autonomia organizzativa del partito comunista è necessaria affinché il proletariato possa percepire immediatamente la propria coscienza di classe come figura storica; [...] affinché tutta la classe innalzi fino alla coscienza la sua esistenza in quanto classe". Le implicazioni tiranniche di una simile concezione saltano agli occhi: il partito è designato come istanza educatrice, e la sua autorità si rafforza ancora di più per il fatto che l'esercita per il bene dei suoi allievi. Di modo che non ci sia più niente di cui discutere. Il proletariato è semplicemente invitato a sottomettersi ai delegati i quali, in suo nome, si sono assegnati la coscienza di classe: "Volere coscientemente il regno della libertà, non può essere quindi altro che compiere coscientemente il passaggio che porta effettivamente a questo [...] Ciò implica una subordinazione cosciente a questa volontà d'insieme che ha come vocazione quella di chiamare realmente in vita questa libertà reale [...] Questa volontà cosciente d'insieme, è il partito comunista"
Lukács quindi non solo si rivela essere un leninista duro e puro, ma si inscrive anche in tutta coscienza nella linea della filosofia dei Lumi. Gli echi della "volontà generale" di Rousseau e del "Imperativo categorico" di Kant, qui non hanno niente di fortuito. Lukács, come Kant e Rousseau, fonda la comunità sociale su dei principi astratti e trascendenti, i quali preesistono ad ogni empiria, prevalgono su di essa e persino la degradano al rango di materia del tutto insufficiente. Solo che, nella pratica, questa concezione non riflette nient'altro che la sottomissione degli uomini alla forma real-metafisica del valore ed al suo dominio astratto, che non funziona senza conflitto ma necessita, al contrario, di una mediazione costante. Si agisce qui, contrariamente agli interessi particolari dei proletari, nel nome di un "interesse generale" che dovrebbe emanare dal loro punto di vista di classe, il partito gioca un ruolo di mediatore in tutto e per tutto identi a quello giocato dallo Stato borghese nella costituzione e nel mantenimento della comunità sociale produttrice di merci. Involontariamente, Lukács legittima quindi il partito nel suo ruolo di istanza disciplinare che partecipa al processo di totalizzazione capitalista.

Fantasmi narcisisti di onnipotenza
La critica del carattere metafisico della teoria lukacciana delle classi e delle sue implicazioni autoritarie, potrebbe apparire come una battaglia di retroguardia. Il postmodernismo non ha forse demolito da tempo la metafisica? Inoltre, la critica postmoderna della metafisica non fa essa stessa ormai parte dei temi favoriti dagli intellettuali marxisti?
Secondo la sua propria auto-definizione, il nuovo discorso sulla lotta di classe va molto al di là della filosofia della storia di un Lukacs. Nell'editoriale del numero già citato della rivista Fantômas, si può leggere anche: "Il ritiro - o meglio, la fuga - di molte persone di sinistra dallo scenario della politica socialista, social-rivoluzionaria e comunista è, per lo più, una conseguenza dell'inadeguatezza dei loro concetti di lotta di classe rispetto alla realtà delle classi, inadeguatezza essa stessa dovuta essenzialmente ad un duplice errore nella determinazione della soggettività delle lotte sociali. In primo luogo, il 'proletariato' è stato fatto oggetto di una riduzione sociologica (e sociologistica) ai soli lavoratori bianchi, maschi, qualificati, delle fabbriche fordiste [...] In tal modo amputata, la figura del proletario si è allora vista - in parte a causa di questa riduzione sociologica, in parte per la cosa opposta - amplificata sulla scala della filosofia della storia e trasfigurata in un Weltgeist dalla statura impressionante" (Fantômas 4/2003, p. 4).
Questa bella analisi, tuttavia omette un dettaglio: essendo inseparabile la carica metafisica del concetto di classe, dalla trasfigurazione in soggetto rivoluzionario di una categoria sociale immanente al capitalismo, ci si può accontentare, per eliminarla, di far rientrare, stupidamente, la quasi totalità del genere umano nella definizione di "proletariato", o di "classe operaia mondiale". Dal momento che si metterebbe così certamente fine ad una riduzione sociologica giustamente criticabile, ma per poi, inversamente, allungare grottescamente il soggetto fino alle dimensioni di un collettivo anticapitalista che non è nemmeno consapevole di sé stesso. Questo sarebbe veramente spingere, in maniera implicita, il concetto di classe fino ai limiti dell'assurdo. Solo che, invece di prendere atto e di sbarazzarsi del concetto, ci si limiterebbe a conferirgli una nuova consacrazione quasi religiosa.
Giocano qui un ruolo preponderante, alcune teorie soggettivistiche della classe, ed in particolare quelle rese popolari da Hardt/Negri e da John Holloway. Del marxismo ortodosso, questi autori rigettano solamente, in fondo, l'analisi positiva delle "tendenze oggettive"; quanto ai topos marxisti che considerano la classe operaia come il vero soggetto del capitalismo e la lotta di classe come il suo motore, li ipostatizzano in maniera magniloquente. Abbiamo già visto che per Lukács, il soggetto non gode di alcuna autonomia; il suo margine di manovra dipende dalle "leggi economiche oggettive" e dalla loro evoluzione storica (cioè a dire dallo sviluppo delle forze produttive); e a queste leggi, Lukács, attribuisce una validità trans-storica. Quello che costituisce la superiorità storica del proletariato sulla borghesia, è il fatto che può riconoscere l'esistenza di queste leggi e metterle in opera "coscientemente", nella misura in cui il suo punto di vista di classe riunisce, potenzialmente, quello di tutto l'insieme della società, contrariamente a quel che avviene col punto di vista particolare e ristretto della borghesia. Ma, mentre Lukács cerca di comprendere come, sotto il capitalismo, il soggetto sia condizionato dal suo legame sociale oggettivo - benché si sbagliasse nell'assumere questo legame come trans-storico - Hardt/Negri, quanto a loro, scelgono di ignorare completamente questo aspetto delle cose. Il loro soggetto trova in sé stesso la sua giustificazione e, come risultato, si vede assegnato un potere ancora più fantastico. Tutto, assolutamente tutto, procede da lui, ivi comprese le condizioni della sua propria sottomissione al capitalismo. L'essenza di questa classe operaia ribattezzata "moltitudine" risiede nella sua "autonomia" ed in una creatività colossale, esuberante, che non appartiene altri che ad essa. Hardt/Negri propongono in questo modo un concetto di lavoro straordinariamente enfatico, rivestito degli attributi dell'atto creativo divino/artistico (il suo riferimento mitico sarebbe Dioniso), ma che allo stesso viene definito in maniera talmente universale da poter includere tutta l'umanità nel suo concetto di classe.
Trasfigurate ed ontologizzate, le forze produttive sono proprietà esclusiva del soggetto collettivo designato con il termine di "moltitudine", mentre che il capitale, ossia "l'Impero", appare non essere altro che una potenza puramente estranea che si nutre dello sfruttamento di questa "forza vitale": "La moltitudine è la forza produttiva reale del nostro mondo sociale, mentre l'Impero è un mero apparato di imprigionamento che vive solo della vitalità della moltitudine [...] succhiando il sangue dei viventi" (Hardt/Negri 2001, p. 75).
In contrasto con Hardt/Negri, Holloway presenta il capitale come il lato oggettivato del feticcio-merce, ed in aprticolare analizza la categoria del lavoro in quanto forma reificata di attività. Tuttavia, la vera sostanza di questo lavoro, la sua essenza, per lui risiede in un'attività vivente che chiama il "fare" e che mostra ancora tutte le caratteristiche della forza creativa dionisiaca. Essa è descritta in termini di flusso vivente di creatività umana che il capitale interrompe ed oggettivizza; di conseguenza, la lotta emancipatrice deve impegnarsi a "recuperare, o meglio ancora a creare la solidarietà cosciente e fiduciosa del flusso sociale del fare". Assai vicino a Lukács, Holloway si concentra così, a sua volta, sulla questione della presa di coscienza riflessiva da parte di un'ipotetica essenza, salvo il fatto che vede la sua "forza creativa", alla maniera di Hardt/Negri, come un attributo ontologico del soggetto, che il capitale plasma e forma soltanto in maniera superficiale: "In questo senso, in ogni istante si produce uno shock fra lo sviluppo delle forze produttive (il nostro poter-fare) ed il suo sviluppo capitalista".
Una simile metafisica dell'essere rischierebbe di smentire il fatto che il capitale sia una relazione sociale in cui "noi tutti" interveniamo, come Holloway sottolinea a più riprese. Per cui ritorna sulla dritta strada del suo ragionamento quando parla alla fine di una "relazione antagonistica [...] fra l'umanità ed il capitale". Così, invece di decifrare la relazione contraddittoria fra soggettività ed oggettività come elemento costitutivo di una struttura sociale assolutamente specifica storicamente - da un teorico ci si aspetterebbe quanto meno uno stile vicino a quello di Marx - risolve la situazione sul lato del soggetto, sul quale fa piovere la consacrazione di una "dignità" trascendente. Proprio come Hardt/Negri, i quali concludono il loro libro con un'invocazione a san Francesco d'Assisi, Holloway, per mezzo del suo linguaggio formicolante di metafore religiose, lascia chiaramente trasparire questa carica metafisica: "Non esistono affatto "contraddizioni oggettive": noi, e noi soli, siamo la contraddizione del capitalismo [...] Non c'è alcun di dio di qualsiasi sorta, né denaro, né capitale, né forze produttive, né storia: siamo noi le sole creature, gli unici possibili salvatori, i soli colpevoli".

Inversione metafisica dei poli
C'è una spiegazione storica del tutto plausibile per questo cambiamento di prospettiva in direzione di una fondamentazione metafisica. All'inizio del XX secolo, Lukács ha dovuto affrontare una situazione in cui la classe operaia doveva di fatto ancora lottare per il suo riconoscimento come soggetto sociale. Ciò significa che tale carattere non poteva semplicemente essere dato per scontato, ma doveva essere visto come uno sviluppo futuro, insieme al momento oggettivato del processo sociale. Perciò, Lukács sostiene l'idea erronea per cui passare al "per sé" del lavoro significa il superamento del capitalismo, e non la sua totalizzazione.
I nuovi rappresentanti del punto di vista di classe si trovano davanti ad una situazione in cui l'esistenza in quanto venditori di forza lavoro, così come la soggettività moderna, con la sua illusione di completa indipendenza da qualsiasi condizionamento sociale, sono diventati universali. Così, non è una coincidenza che soprattutto il libro di Hardt/Negri, in molti momenti, sia quasi come un sub-testo di orientamento esistenziale narcisista. Fantasie di onnipotenza si alternano ad attacchi di impotenza; la megalomania si trasforma improvvisamente in depressione. Da un lato, celebrano il soggetto "moltitudine" come Creatore del tutto; dall'altro lato, esso viene costantemente ridotto dal potere incomprensibile del capitale o dell'Impero, che trasforma tutti i suoi attacchi in sconfitte.
La ragione del fallimento di questo soggetto autonomo, che si origina interamente dentro sé stesso, per liberare interamente sé stesso da questo potere, che dipende da esso, non può essere stabilito coerentemente dentro la struttura del discorso di Hardt/Negri; esso può essere decifrato soltanto a partire da una critica dell'ideologia. Gli autori non sono capaci di analizzare l'unità contraddittoria fra soggetto moderno ed oggettivazione come marchi della società capitalista e, così, vanno avanti e indietro fra i due poli della soggettività in cui questa contraddizione si rispecchia. E' evidente la somiglianza con l'illusione nietzschiana della lotta eterna fra "forze attive" e "reattive", la quale può essere decodificata come apparenza mistificata delle relazioni di concorrenza capitalisti. In questo senso, Hardt/Negri ed Holloway, così come il postmodernismo in generale, non superano in alcun modo la metafisica, ma effettuano una qualche inversione di poli nel campo del pensiero metafisico. La filosofia hegeliana della storia, con la sua affermazione di "leggi oggettive", è stata sostituita dalla metafisica diffusa, e non meno affermativa, della "volontà" e della "vita".
Mentre Lukàcs vede una "coscienza di classe" oggettivamente definibile, al di là della dimostrazione empirica, che si origina nell'idea per cui il punto di vista del lavoro e del proletariato (potenzialmente) rappresenta la totalità sociale, Hardt/Negri ed Holloway vedono un'0energia esistenziale ed ontologica che identificano con la natura della lotta di classe: il flusso vitale di creatività ed il suo proprio impulso alla liberazione ed all'appropriazione universale del mondo. Tale flusso è il motore universale che porterà ad una connessione inconscia fra tutte le diverse lotte, ancor prima di ogni riflessione o convergenza organizzativa. Così, ogni conflitto sociale potrà essere definito a priori come lotta di classe. L'equazione tautologica è la seguente: ogni conflitto è una lotta di classe; pertanto, la lotta di classe è universale. La questione del superamento della tendenza empirica del conflitto verso interessi particolari, in cui si dibatteva Lukàcs, è stata semplicemente annullata. Questi autori la considerano risolta. La natura anticapitalista comune delle lotte si manifesta direttamente nella sua spontaneità, che è stata sempre inconsciamente-consciamente presente.
Se questa inversione della polarità metafisica permette effettivamente di mettere da parte il concetto tirannico di partito onnisciente, incarnante la "coscienza oggettiva" e, quindi, il diritto ad indicare al proletariato la giusta linea, questo avviene solo per poste sostituirgli un pensiero basato su fantasmi e su pii desideri, che mascherano la realtà sociale almeno quanto prima avveniva con la glorificazione del soggetto-oggetto storico. Non solo si esalta il minimo movimento di resistenza o di contestazione, per quanto ridicolo possa essere, facendone la componente di una sedicente ribellione anticapitalista mondiale senza arrivare a specificare concretamente come essi si articolino; ma il carattere di astrazione totalmente vuoto di una tale metafisica della volontà permette inoltre d'interpretare a piacimento ogni fenomeno sociale come se fosse la prova dell'onnipresente lotta di classe. Così, le migrazioni, per esempio, diventano per Hardt/Negri "delle potenti forme di lotta di classe contro la postmodernità imperiale" - un'interpretazione puramente ideologica che, sotto il nome di "autonomia della migrazione", è oramai un leitmotiv del discorso post-operaista. Ecco quindi che i milioni di persone costrette a fuggire i cataclismi e le devastazioni della crisi capitalista si trovano ad essere strumentalizzate e sfruttate, questa volta sul piano discorsivo, per soddisfare le proiezioni fantasmatiche degli intellettuali e degli attivisti delle metropoli.
Infine, quest'approccio ha come effetto anche quello di relativizzare e di occultare con la peggiore incoerenza le manifestazioni distruttive e perverse della forma soggetto borghese che emergono nel contesto del processo di crisi capitalista. Infatti, una volta che si definisce la lotta unicamente come espressione di una sete di liberazione, cos'è che vieta, in linea di principio, di includere anche la concorrenza social-darwinista, i movimenti fondamentalisti reazionari, o qualsiasi esplosione di violenza puramente gratuita? Ovviamente, Hardt/Negri ed Holloway si guardano bene dal qualificare come emancipatrici tali manifestazioni di "lotta"; ma, che lo vogliano o no, alla luce delle loro teorie, esse appaiono come espressione - anche se un po' barbarizzante - della presunta essenzialità anticapitalista: "A volte il No è violento o barbaro (il vandalismo, l'hooliganismo, il terrorismo): le distruzioni del capitalismo sono talmente importanti che provocano un urlo-contro, un No che è pressoché del tutto deprivato di potenziale di emancipazione, un No talmente nudo che riproduce quasi tutto quello contro cui grida. [...] Non è che il punto di partenza [...] Il punto di partenza è il grido, il No pericoloso e spesso barbaro" (Holloway, 2002). Si avverte per mezzo di queste righe il malessere provato da Holloway di fronte alle sue proprie conclusioni, le quali derivano logicamente dal suo ragionamento o da quello di Hardt/Negri. Dal momento in cui ci si accontenta della pura e semplice negazione astratta del concetto di "coscienza di classe oggettiva" e della sua universalità positiva, senza affrontare allo stesso tempo il quadro concettuale del pensiero metafisico, siamo inevitabilmente portati verso il mito dell'immediatezza capitalista e contribuiamo parimenti, pur sia involontariamente, alla sua legittimazione.
Se non vogliamo che l'accento posto (giustamente) sulla pluralità e sulla eterogeneità di un eventuale movimento di emancipazione mondiale porti a relativizzare e ad occultare la concorrenza atomizzata per l'affermazione di sé, è indispensabile che si adotti un punto di vista di negazione determinata, trovando la sua universalità non in dei principi positivi, o in un'ipotetica "essenza", bensì nella critica della totalità capitalista. E la critica della forma-soggetto moderno ne costituisce uno degli elementi centrali. L'irrazionalità e la distruttività che guadagnano terreno, non sono in nessun caso delle figure perdute, e neanche pervertite, del desiderio di liberazione. Al contrario, per mezzo di esse si mostra, allo stato puro, la forma soggetto borghese che è necessario abolire, e non realizzare. Fermare lo sguardo su tale tendenza è imperdonabile; bisogna invece decifrarla come indice del passaggio attraverso una nuova fase della crisi del sistema feticista delle merci. Questo implica - condicio sine qua non - di tagliare definitivamente i ponte con ogni spazio della metafisica del soggetto.

Addio alla metafisica dell'essere
L'argomento per cui la lotta di classe è, grosso modo, un conflitto di interessi puramente immanenti, ed un movimento di modernizzazione che partecipa al processo d'instaurazione e di universalizzazione della società delle merci - come è stato più volte esposto sulle pagine della rivista Krisis - è stato costantemente criticato come oggettivante. Una cosa è sicura: le lotte portate avanti dal movimento operaio non si sono mai dissolte in questa funzione oggettiva, nel quadro della logica dello sviluppo storicamente specifico del capitalismo. Pertanto, non si possono negare gli ideali rivoluzionari legati a queste lotte, né si possono tacciare di illusioni senza conseguenze o di puri raggiri. Numerosi militanti hanno preso molto sul serio le proprie aspirazioni; essi avrebbero voluto essere i becchini del capitalismo, e non le sue levatrici. Non ci si può accontentare di ricusare queste aspirazioni come il risultato di un inganno funzionale, di una sorta di "astuzia della storia".
Tuttavia, si potrebbe facilmente dimostrare che questa volontà stessa, non appena le veniva dato un contenuto concreto, rimaneva in gran parte prigioniera delle categorie del sistema di produzione di merci. Ciò appare assai chiaramente nella relazione positiva con lo Stato, in quanto istanza sedicente non-economica della coscienza ("primato della politica"), oppure nell'affermazione, ripetuta, del lavoro come categoria centrale della società. A ben vedere, le "prospettive socialiste" finiscono quasi invariabilmente per rivelarsi delle forme cripto-idealizzate della realtà borghese, anche se rimane quasi sempre un residuo che non si inscrive in tale immanenza. Soprattutto, quel ci rimane nella memoria sono quelle fasi (in genere, brevi e transitorie) dei movimenti sociali e dei processi rivoluzionari nel corso dei quali sono state inventate delle forme di cooperazione e di organizzazione sociale (i consigli, i soviet, i kibbutz, ecc.), e che rimangono ancora oggi dei punti di riferimento per ogni ambizione emancipatrice.
Tali eccessi emancipatori possono verificarsi, in linea di principio, in qualsiasi movimento di resistenza solidale contro il dominio e l'oppressione, e soprattutto nella maggior parte degli attuali movimenti sociali che lottano contro le condizioni di vita e di lavoro sempre più insopportabili nella misura in cui la crisi del capitalismo mondializzato si aggrava. E' chiaro che qui non si esprime alcuna "essenza" preesistente che lotta per liberarsi, ma che si tratta, niente di più e niente di meno, del punto di partenza di una possibile organizzazione sociale che non può più essere integrata nelle forme di capitalismo.
Nessun criterio fisso, nessuna posizione sociale privilegiata ci dirà dove e quando emergeranno simili iniziative e come si possono aiutare a dispiegarsi. I movimenti sociali non nascono dalla comprensione astratta della necessità di un cambiamento, ma si attivano sempre a partire da avvenimenti concreti ed in situazioni particolari legate a delle preoccupazioni collettive. La polarizzazione e l'esclusione sociale crescenti ne fanno assolutamente parte. L'analisi dettagliata di tutte queste linee di conflitto è di importanza capitale: essa fornisce dei materiali concreti alla critica sociale radicale, la cui missione consiste nello smascherare le forme-feticcio della società delle merci - non solo nei processi oggettivi ma anche nel soggetto stesso - al fine di aprire una prospettiva sul suo superamento.

- Norbert Trenkle - Pubblicato originariamente su Krisis 29 del 2005 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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