domenica 31 maggio 2015

Il latte e i bambini




L'industriale, intervistato, spiegò al reporter che la situazione era grave.
Nel paese c'era eccedenza di latte, e il consumo non riusciva ad assorbire la produzione intensiva.

  • Una calamità. Si figuri che il giornale cittadino protesta contro l'inquinamento del fiume, che è coperto  da uno strato biancastro. Non è niente di strano, è latte. Si sta gettando il latte nel fiume perché non si sa più dove buttarlo. Gli scarichi sono ormai intasati. La popolazione, come lei saprà, è insufficiente a bere tutto quel latte o a mangiarlo sotto forma di burro, ricotta, formaggio o cose del genere.
  • Insufficiente? Sembra che la produzione di bambini sia ancora superiore a quella del latte.
  • Numericamente sì, ma sono bambini che non hanno la capacità economica per bere latte. Hanno appena la bocca, capisce? E quindi non servono a nulla. Se ai genitori dei bambini mancano i soldi per acquistare il prodotto, è già tanto che si butti via il latte invece di buttare i bambini.
- Carlos Drummond de Andrade - da "Racconti Plausibili" -

sabato 30 maggio 2015

A che serve la realtà


Organizzate una falsa rapina. Assicuratevi che le vostre armi siano innocue e prendete l'ostaggio più affidabile, in modo da non mettere in pericolo vite umane (altrimenti ci si trasforma in criminali). Chiedete un riscatto e fate in modo che tutta l'operazione provochi il maggior trambusto possibile: in breve, rimanete fedeli alla "verità", per verificare la reazione del sistema di fronte a un perfetto simulacro. Non ci riuscirete: la rete dei segni artificiali si mescolerà inestricabilmente con gli elementi reali (un poliziotto che spara a vista sul serio; un cliente della banca che sviene e muore d'infarto; il finto riscatto che viene consegnato), e in breve vi ritroverete ancora una volta, senza volerlo, nella realtà, la cui principale funzione, tra le altre, è precisamente quella di distruggere ogni tentativo di simulazione, di ridurre tutto al reale...

- JEAN BAUDRILLARD, "Simulacri e impostura" -

venerdì 29 maggio 2015

Il caffè dello Starbucks e la "fragranza finale"


L'antropocene come feticismo di Daniel Cunha

“Una società sempre piú malata, ma sempre piú potente, ha ricreato il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come pianeta malato” 

- Guy Debord - Il pianeta malato -
L'Antropocene è diventato un concetto di moda nelle scienze naturali e sociali. Esso descrive "l'epoca geologica dominata dall'uomo", in quanto in questo periodo della storia naturale è l'Uomo che controlla i cicli bio-geo-chimici del pianeta. Il risultato, tuttavia, è catastrofico: la distruzione del ciclo del carbonio, ad esempio, porta verso il riscaldamento globale che si sta avvicinando a dei punti critici che potrebbero diventare irreversibili. La crescita esponenziale della nostra libertà e del potere, cioè, della nostra capacità di trasformare la natura, si traduce ora in una limitazione alla nostra libertà, inclusa la destabilizzazione della struttura stessa della vita. Il grado più alto è stato raggiunto con il problema del riscaldamento globale. In questo contesto, diventa chiaro come l'Antropocene sia un concetto contraddittorio. Se "l'epoca geologica dominata dall'Uomo" ci sta portando verso una situazione in cui l'esistenza degli umani potrebbe essere a rischio, allora vuol dire che c'è qualcosa di assai problematico con questo tipo di dominio della Natura che si riduce ad un "substrato di dominio" il quale dovrebbe essere investigato. La premessa, banale, è che il dominio umano dovrebbe essere messo in discussione - dopo tutto, ci deve essere qualcosa di disumano o di oggettivato in un dominio il cui esito potrebbe essere l'estinzione della razza umana.

Quello che qui viene sostenuto è che, proprio come per la libertà, l'Antropocene è una promessa non mantenuta. Allo stesso modo in cui la libertà, nel capitalismo, è vincolata dal feticismo e dalle relazioni di classe - le dinamiche capitalistiche sono vincolate alla legge e fuori dal controllo degli individui; i lavoratori sono "liberi" nel senso che non sono "proprietà" come gli schiavi, ma anche nel senso che sono "liberi", separati dai mezzi di produzione, deprivati delle loro condizioni di esistenza; i capitalisti sono "liberi" nella misura in cui seguono le regole oggettivate dell'accumulazione del capitale, diversamente fanno bancarotta - lo è anche il metabolismo sociale con la natura. Pertanto, sostengo che l'Antropocene è la forma feticizzata dello scambio fra Uomo e Natura storicamente specifico al capitalismo, allo stesso modo in cui la "mano invisibile" (del mercato) è la forma feticizzata della "libertà" di scambio fra gli uomini.

Fin dall'accumulazione primitiva, il capitale ha causato una frattura metabolica fra Uomo e Natura. Empiricamente, è stato osservabile, quanto meno a partire dall'impoverimento del suolo causato dalla separazione fra città e campagna nell'Inghilterra del 19° secolo. Nel 21° secolo, tuttavia, questa frattura si è globalizzata, ed ha incluso le interruzioni critiche del ciclo del carbonio (riscaldamento globale), del ciclo dell'azoto, e la crescita del tasso di perdita di biodiversità che implica il fatto che l'umanità è già fuori da uno "spazio operativo sicuro" per quanto riguarda le condizioni ambientali globali. L'Antropocene appare , quindi, come la distruzione globalizzata dei cicli naturali globali - e, cosa ancora più importante, non in quanto (per una qualche ragione) distruzione pianificata, intenzionale e controllata, ma in quanto effetto collaterale non voluto del metabolismo sociale con la natura, che appare sempre più fuori controllo. Tutto questo può essere illustrato tramite esempi. Nel caso del ciclo del carbonio, la combustione di carburanti fossili avviene in quanto fonte di energia per il sistema industriale e per il sistema dei trasporti. L'estrazione massiccia di carbone ha avuto inizio in Inghilterra nel corso della rivoluzione industriale di modo che, con questa nuova forma di energia mobile, le industrie potessero muovere ed allontanarsi dalle dighe per andare verso le città dove il lavoro era più a buon mercato.

Non c'era alcuna intenzione di manipolare il ciclo del carbonio o di causare il riscaldamento globale, né alcuna coscienza di star facendo una cosa del genere. Il risultato, tuttavia, è che, nel 21° secolo, la concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera si trova già oltre il limite di sicurezza di 350 ppm, che consente uno sviluppo umano a lungo termine. Così come per il ciclo dell'azoto, che è stato distrutto dall'industrializzazione dell'agricoltura e dalla produzione di fertilizzanti, ivi inclusa la concentrazione di azoto atmosferico per mezzo del processo Haber-Bosch. Anche in questo caso, non c'era alcuna intenzione di pianificare il controllo del ciclo dell'azoto, di causare l'eutrofizzazione dei laghi, o di indurre il collasso degli ecosistemi. Anche qui, il limite di 62 milioni di tonnellate all'anno di azoto rimosso dall'atmosfera è stato ampiamente superato, con 150 milioni di tonnellate nel 2014. Una storia simile potrebbe essere raccontata a proposito del tasso di biodiversità perduta, e a proposito del ciclo del fosforo e dell'acidificazione oceanica, che seguono il medesimo schema. L'epoca geologica "dominata dall'Uomo", a questo proposito, appare assai più come un prodotto del caso e dell'incoscienza, piuttosto che un adeguato controllo dei cicli materiali globali, nonostante i riferimenti di Crutzen a Vernadsky e Chardin, allo "aumento di coscienza e pensiero" e al "mondo del pensiero" (Noosfera). "Loro non lo sanno, ma lo fanno" - questo è quel che Marx diceva a proposito dell'attività sociale feticizzata mediata dalle merci, e questa è la chiave per una comprensione critica dell'Antropocene.

Infatti, Crutzen colloca l'inizio dell'Antropocene nella progettazione della macchina a vapore durante la rivoluzione industriale. Tuttavia, anziché essere svolta come una mera osservazione empirica, si dovrebbero investigare concettualmente, nella forma capitalistica delle relazioni sociali, i fattori determinanti dell'epoca geologica "dominata dall'Uomo". Con la sua analisi del feticismo, Marx ha mostrato come il capitalismo sia una formazione sociale nella quale c'è una prevalenza di "relazioni materiali fra individui e relazioni sociali fra cose, " in cui "la circolazione del denaro come capitale è un fine in sé". Il capitale è l'inversione in cui il valore di scambio governa l'uso, il lavoro astratto governa il lavoro concreto: "una formazione sociale in cui il processo di produzione padroneggia l'uomo, invece del'opposto," e la sua circolazione sotto forma di denaro e di merci per amore dell'accumulazione costituisce il "soggetto automatico", "il valore che si auto-valorizza". Collocare l'Antropocene nel capitalismo, pertanto, implica un'indagine nel rapporto fra Antropocene ed alienazione, o, come è stato ulteriormente sviluppato da Marx, il feticismo. Questo è il nucleo delle contraddizioni dell'epoca geologica "dominata dall'Uomo". Secondo Marx, la forma mediata dal lavoro delle relazioni sociali del capitalismo acquisisce vita propria, indipendente dagli individui che partecipano alla sua costituzione, sviluppandosi in una sorta di sistema oggettivo, sopra e contro gli individui, e determinando sempre più gli scopi ed il significato dell'attività umana. Il lavoro alienato costituisce una struttura sociale di dominio astratto che aliena i legami sociali, in cui "dopo aver iniziato come il condottiero del valore d'uso, il valore di scambio finisce per condurre una guerra che è del tutto e solo sua". Tale struttura, tuttavia, non appare essere costituita socialmente, ma naturalmente. Il valore, la cui forma fenomenica di apparenza è il denaro, diviene in sé una forma dell'organizzazione sociale, una comunità perversa. Questo è l'opposto di quello che potrebbe essere chiamato "controllo sociale". Un sistema che diventa quasi-automatico, oltre il controllo cosciente di coloro che sono coinvolti, ed è guidato dalla compulsione di un'accumulazione senza limiti come fine in sé, ha necessariamente come conseguenza la distruzione dei cicli materiali della Terra. Chiamarlo "Antropocene", tuttavia, è chiaramente impreciso, da un lato, in quanto è il risultato di una forma storica specifica di metabolismo con la Natura, e non di un essere ontologico generico (antropo), e, dall'altro lato, perché il capitalismo costituisce un "dominio senza soggetto", cioè, in cui il soggetto non è l'Uomo (e nemmeno la classe dirigente), ma il capitale.

E' importante notare che il feticismo non è una mera illusione che dovrebbe essere decifrata, di modo che la classe "reale" e lo sfruttamento ambientale possa essere compreso. Come ha sottolineato lo stesso Marx, "per i produttori... le relazioni sociali fra i loro lavori privati appaiono per quello che sono, per esempio, come relazioni materiali fra persone e come relazioni sociali fra cose"; "il feticismo delle merci... non è situato nelle nostre menti, di modo che noi (non)percepiamo la realtà, ma nella nostra stessa realtà sociale." E' per questo che neanche le prove scientifiche della distruzione ecologica, sempre raccolte post festum, sono in grado di fermare la dinamica distruttiva del capitale, mostrandoci ad un livello caricaturale l'inutilità della conoscenza senza un utilizzo. Il fatto che ora "sanno molto bene che cosa stanno facendo, eppure continuano a farlo" non confuta, ma piuttosto conferma che le forme delle relazioni sociali sono oltre ogni controllo sociale, e semplicemente cambiando il nome di "Antropocene" (a "Capitolocene" o qualsiasi altro nome) non si risolverebbero le contraddizioni sociali e materiali inerenti. La produzione sociale diretta dal valore, cioè, la produzione determinata dalla minimizzazione del tempo di lavoro socialmente necessario, si traduce in modo oggettivato di produzione materiale e di vita sociale che può essere descritta da leggi "oggettive". Tempo, spazio e tecnologia vengono oggettivati dalla legge del valore. Certo, gli agenti della "valorizzazione del valore" sono esseri umani, ma essi svolgono la loro attività sociale come "maschere di carattere", "personificazioni delle relazioni economiche": il capitalista è il capitale personificato ed il lavoratore è il lavoro personificato. La valorizzazione, feticista, auto-referenziale, del valore per mezzo dello sfruttamento del lavoro (M-C-M') con le sue caratteristiche di espansione ed astrazione dal contenuto materiale implica il carattere ecologicamente distruttivo del capitalismo, cioè, che nel capitalismo "lo sviluppo delle forze produttive è simultaneamente lo sviluppo delle forze distruttive".

Il valore che si auto-valorizza crea un "sistema industriale a palla di neve" che non è consapevolmente controllato, "una forza indipendente da ogni volontà umana". In tale contesto, non sorprende che la distruzione dei cicli ecologici globali venga presentata come "l'Antropocene", cioè, come un concetto che allude ad un processo naturale. L'Uomo viene presentato come una forza geologica cieca, come un'eruzione vulcanica o come variazioni nella radiazione solare, è un'espressione della forma naturalizzata o feticizzata delle relazioni sociali prevalente nel capitalismo.

Quindi, le strutture tecniche con cui l'Uomo svolge il suo metabolismo con la Natura sono logicamente segnate dal feticismo. Come ha notato Marx, "la tecnologia rivela la relazione attiva dell'uomo con la natura, il processo diretto della produzione della sua vita, e con ciò mette anche a nudo il processo della produzione delle relazioni sociali della sua vira, e delle concezioni mentali che decorrono da queste relazioni." Nel capitalismo, i processi di produzione non vengono progettati secondo i desideri e le esigenze dei produttori, secondo le considerazioni ecologiche o sociali, ma secondo la legge del valore. Prendendo come esempio i sistemi energetici del mondo, è stato dimostrato che non c'è alcun vincolo tecnico che impedisca la completa transizione all'energia solare, nel giro di venti o trent'anni, se consideriamo il valore d'uso delle energie fossili e di quelle rinnovabili (il loro ritorno di energia e il fabbisogno materiale), cioè, è tecnicamente possibile utilizzare energia fossile per costruire un'infrastruttura solare per fornire al mondo energia in una quantità e qualità sufficiente allo sviluppo umano. Questa transizione, che è desiderabile, necessaria ed urgente (a causa del riscaldamento globale) dal punto di vista del valore d'uso o della ricchezza materiale, non avviene, tuttavia, perché l'energia fossile è assai più adatta all'accumulazione del capitale: il capitale è andato in Cina per sfruttare lavoro a buon mercato e carbone a buon mercato, provocando un forte picco nelle emissioni di carbone alla vigilia di un'emergenza climatica, in un chiaro sprazzo di irrazionalità feticistica. Più in generale, l'ecologista americano Barry Commoner ha mostrato come nel 20° secolo molti prodotti sintetici (come la plastica ed i fertilizzanti) siano stati sviluppati prendendo il posto dei prodotti naturali e biodegradabili. Tuttavia, i nuovi prodotti non erano meglio dei vecchi; la transizione era stata effettuata solo perché era più redditizio produrli, sebbene fossero molto più inquinanti e dannosi per l'ambiente - infatti viene mostrato che queste nuove tecnologie sono state il fattore principale per l'incremento dell'inquinamento negli Stati Uniti, superiore all'incremento della popolazione e dei consumi.

Naturalmente, la legge del valore non determina soltanto i prodotti finali, ma anche i processi di produzione, che devono essere costantemente intensificati sia in termini di ritmi che di efficienza materiale, se non in termini di estensione della giornata lavorativa. Già ai suoi tempi, Marx ha evidenziato il "fanatismo che il capitalista mostra per economizzare sui mezzi di produzione" arrivando fino a cercare i "rifiuti della produzione" al fine di riutilizzarsi e riciclarli. Tuttavia, sotto la forma capitalistica della produzione sociale, gli incrementi di produttività si traducono in una minore quantità di valore creato per ogni unità materiale, cosicché viene promosso un consumo allargato di materiale. Questa tendenza generale è osservabile empiricamente nel cosiddetto Paradosso di Jevons. quando l'efficienza cresce si produce eventualmente come effetto di rimbalzo un aumento della produzione materiale. E' stato dimostrato per la prima volta da William Stanley Jevons, il quale ha presentato dei dati che dimostravano come l'economia del carbone della macchina a vapore, durante la rivoluzione industriale, avesse determinato un aumento del consumo di carbone. Quello che in un produzione sociale consapevole avrebbe portato a dei benefici ecologici (un aumento di efficienza nell'utilizzo delle risorse), nel capitalismo incrementava il plusvalore relativo, e quando rafforzava l'accumulo distruttivo senza limiti del capitale e un sistema tecnologico che è soprattutto inappropriato. E' sorprendente che vi siano molti ambientalisti che ancora predicano l'efficienza come se fosse un rimedio ecologico, senza accorgersi che la forma sociale capitalistica di ricchezza (valore) trasforma la produttività in una forza distruttiva.
Anche la maniera in cui il capitalismo affronta il problema dell'inquinamento è configurato dall'alienazione: ogni cosa può essere discussa, tranne il modo di produzione basato sulla mercificazione e la massimizzazione dei profitti. Dal momento che la produzione viene portata avanti da unità produttive isolate, il controllo socio-tecnico si limita ad un controllo esterno, attraverso la regolazione statale che impone tecnologie di fine ciclo e meccanismi di mercato. Il Protocollo di Kyoto è il miglior esempio di meccanismo di mercato. Esso rappresenta la mercificazione del ciclo del carbonio, stabilendo il principio di equivalenza, la forma stessa del feticismo delle merci, in una sorta di Borsa del Carbonio. Pertanto, questo implica tutto un processo di astrazione dalla qualità ecologica, sociale e materiale al fine di rendere possibile l'equivalenza delle emissioni di carbonio, delle dislocazioni, e dei depositi situati in contesti ecologici e sociali molto differenti. Il processo di astrazione include la parificazione delle riduzioni di emissione in contesti ecologici e sociali differenti, la parificazione delle riduzioni di emissione attuate con tecnologie differenti, la parificazione del carbone di origine fossile con quello di origine biotica, la parificazione delle diverse molecole per mezzo del concetto di "carbonio equivalente" e della definizione di "foresta che non richiede alcun requisito di biodiversità.

Tuttavia, come avviene con ogni merce nel capitalismo, il valore d'uso (riduzione delle emissioni di carbonio) è governato dal valore di scambio. L'inversione feticistica fra valore d'uso e valore di scambio che caratterizza il capitalismo implica che l'obiettivo effettivo di tutto il processo di scambio di emissioni sia il denaro, non la riduzione delle emissioni. Gli esempi empirici abbondano. Lo schema di scambio non offre alcun incentivo per una transizione tecnologica a lungo termine, ma soltanto per guadagni finanziari (il tempo è moneta) a breve termine. Le correzioni permettono in pratica agli inquinatori di rimandare la transizione tecnologica, mentre il corrispondente progetto di CDM (Meccanismo di Sviluppo Pulito) probabilmente genera un effetto di rimbalzo che favorirà l'impiego di combustibili fossili nei paesi in via di sviluppo. Semplici riduzioni tecnologiche, come bruciare il metano nelle discariche, consentono alla prosecuzione delle emissioni di carbonio da parte delle grandi aziende. Alcune industrie hanno fatto più profitti mitigando le emissioni di HFC-23 di quanti ne abbiano fatti con le merci che producono, mentre hanno generato un'enorme quantità di correzioni che hanno permesso di nuovo agli inquinatori di continuare con le loro emissioni. E la comparazione di progetti sulla base di scenari "possibili" permettono tragicamente l'incremento diretto delle emissioni, ad esempio, finanziando miniere di carbone che mitigano le emissioni di metano. E potrebbero essere fatti molti altri esempi. Il fatto che il riscaldamento globale sia determinato dalle emissioni cumulative rivela, su qualsiasi significativa scala temporale umana, l'effetto perverso di questo schema guidato dal valore di scambio: oggi, i ritardi nella riduzione delle emissioni vincolano le possibilità del futuro. Ancora una volta, come avrebbe potuto essere compreso in anticipo con la semplice critica marxiana, il valore di scambio diviene dominante sul valore d'uso, così come la ripartizione delle emissioni di carbonio viene determinata non da criteri socio-ecologici, ma secondo le esigenze della valorizzazione o secondo "l'allocazione ottimizzata delle risorse" - quando il mercato globale de carbonio ha raggiunto il record di 176 miliardi di dollari nel 2011, La Banca Mondiale ha detto che "una considerevole porzione di scambi è motivata principalmente da operazioni di copertura, aggiustamenti di portafogli, profitti ed arbitraggio", tipico gergo da speculatori finanziari. Kyoto, con il suo approccio quantitativo, non affronta, ed ostacola, la transizione qualitativa necessaria ad evitare un catastrofico cambiamento climatico. Anche se notevoli quantità di capitale vengono mobilitate attraverso i sistemi di scambio, le emissioni di carbonio continuano ad aumentare.

In questo scenario, diventa sempre più probabile che si renda necessaria l'applicazione di una tecnologia fine-ciclo. Con l'avvento dello Stato sociale e della regolamentazione ambientale, una miriade di tali tecnologie sono state utilizzate al fine di mitigare le emissioni industriali nell'acqua nell'aria e nel suolo - filtri, impianti di depurazione, ecc.. Il problema è che queste tecnologie possono essere applicate solamente in particolari unità produttive, quando è fattibile, nel contesto delle produzione guidata dal valore, cioè, solo se non compromettono la redditività delle imprese. Avviene, però, che l'estrazione e lo stoccaggio del carbonio (CCS) sia ancora troppo costoso per essere utilizzato nelle unità di produzione e nel sistema dei trasporti. Pertanto, quella che è venuta alla ribalta è la geoingegneria, l'ultima tecnologia fine-ciclo, la manipolazione diretta del clima stesso - attraverso l'uso di processi quali l'emissione di aerosol nella stratosfera per riflettere le radiazioni solari, oppure la fertilizzazione degli oceani per mezzo del ferro per indurre la crescita delle alghe che assorbono il carbonio. La sua origine si può far risalire alla guerra del Vietnam ed ai progetti stalinisti, ed uno dei suoi primi sostenitori è stato Edward Teller, il padre della bomba atomica. Ci sono enormi rischi in un simile approccio, dal momento che il sistema climatico ed i suoi sottosistemi non sono stati ancora pienamente compresi e sono soggetti alla non-linearità, punti critici, trasformazioni improvvise, e caos. Inoltre, l'inerzia del sistema climatico implica l'irreversibilità del riscaldamento globale su una scala temporale di un millennio, cosicché le tecniche di geoingegneria dovrebbero essere applicate per la stessa quantità di tempo, cosa che sarebbe un onere per dozzine di generazioni future. In caso di fallimento tecnologico delle applicazioni di geoingegneria, il risultato potrebbe essere catastrofico, con un repentino cambio climatico.

Considerando però il suo relativo basso costo, è probabile che il capitalismo si assuma come al solito un tale rischio al fine di riuscire a preservare la sua ricerca feticistica del profitto, facendo della geoingegneria una sorta di pallottola d'argento da sparare sul riscaldamento globale. Certamente, c'è la spaventosa possibilità che si possano combinare geoingegneria e modelli commerciali, di modo che i progetti geoingeregnistici possano generare crediti di carbonio in un mercato concorrenziale. Era questa l'idea della Planktos Inc. con il suo controverso esperimento di fertilizzazione degli oceani che fa intravvedere un futuro distopico nel quale il clima mondiale viene manipolato secondo gli interessi dei profitti delle imprese. E' chiaro che il controllo capitalista dell'inquinamento, sia attraverso meccanismi di mercato che di regolamentazioni statali, assomiglia all'hegeliana civetta di Minerva: essa (re)agisce solo successivamente al processo alienato di produzione ed al processo generale di alienazione sociale. Tuttavia, se il nucleo della distruttività è il processo feticistico stesso che viene riprodotto nel sistema di scambio, e le tecnologie di fine-ciclo sono soggette al fallimento e alle complesse dinamiche che non sono razionalmente accessibili sulla scala temporale delle istituzioni umane (almeno nella loro forma attuale), sia il mercato che i meccanismi statali potrebbero fallire nell'evitare un catastrofico cambiamento climatico.

Le future proiezioni del riscaldamento globale da parte degli economisti neoclassici rivelano il nucleo alienato dell'Antropocene in tutta la sua essenza. Nei modelli integrati climatico-economici, come quelli sviluppati da William Nordhaus e Nicholas Stern, il tasso di interesse finale determina quello che è accettabile in termini di concentrazione atmosferica di gas serra e del suo rispettivo impatto (inondazioni costiere, perdita di biodiversità, distruzione dell'agricoltura, epidemie, ecc.), in quanto "l'analisi di costi-benefici" deduce l'impatto futuro dagli attuali guadagni composti. Ma come mostrato da Marx, l'interesse è la parte del profitto che il capitalista industriale paga al capitalista finanziario che precedentemente gli ha prestato il denaro-capitale, dopo che il processo di valorizzazione è andato a buon fine. L'interesse prodotto dal capitale è il valore è la capacità che possiede il valore d'uso di creare plusvalore o profitto. Pertanto, "nell'interesse prodotto dal capitale, la relazione di capitale raggiunge la sua forma più superficiale e feticizzata", "denaro che produce denaro", "valore che si auto-valorizza". L'interesse prodotto dal capitale è la perfetta rappresentazione feticistica del capitale, in quanto progressione geometrica automatica di produzione di plusvalore, un "puro automa". Conseguentemente, la determinazione, per mezzo del tasso di interesse, del metabolismo sociale futuro con la Natura è la massima espressione del carattere feticistico di questa forma storica di metabolismo sociale con la natura, cioè, del nucleo feticista del cosiddetto Antropocene, a prescindere dalla grandezza del tasso di interesse. Nel capitalismo, il tasso di interesse determina gli investimenti e le allocazioni di risorse, e superare tutto questo non è una questione moralistica (ed irrealistica) usando un abbassamento della grandezza dell'interesse, come fa Stern, ma si tratta di superare lo stesso modo di produzione capitalistica.

Gli scenari futuri determinati dal tasso di interesse, in fin dei conti, negano la storia, dal momento che soltanto nel capitalismo il tasso di interesse è socialmente determinante, dal momento che è capitale nella sua forma più pura. Mentre nel capitalismo l'interesse prodotto da capitale diviene assolutamente adatto alle condizioni della produzione capitalistica, e la promuove per mezzo dello sviluppo del sistema creditizio, nelle formazioni sociali pre-capitalistiche, "l'usura impoverisce il modo di produzione, paralizza le forze produttive". Questo avviene perché nel capitalismo il credito viene accordato nell'aspettativa che esso funzionerà come capitale, che il capitale prestato verrà usato per valorizzare il valore, verrà usato per appropriarsi di lavoro "free" non pagato, mentre nel Medioevo gli usurai sfruttavano i piccoli produttori ed i contadini che lavoravano per sé stessi. La determinazione della futura relazione sociale metabolica con la natura per mezzo del tasso di interesse è quindi un'estrapolazione del modo capitalistico di produzione e di tutte le sue categorie (valore, plusvalore, lavoro astratto, ecc.) riguardo al futuro, la feticizzazione della storia - ancora una volta, tutto questo è in linea con il termine Antropocene, che fa riferimento ad un Uomo astorico.

Inoltre, il tipo di analisi di costo-benefici che Nordhaus e Stern svolgono, tende a negare non solo la storia, ma la materia stessa, in quanto il compromesso fra degrado delle risorse materiali e crescita astratta implica l'assoluta intercambiabilità fra le diverse risorse materiali, e quindi fra la ricchezza astratta (capitale) e la ricchezza materiale, cosa che in pratica è un falso presupposto. Ad esempio, il più elementare processo di sintesi naturale necessario alla vita sulla Terra così come noi la conosciamo, la fotosintesi, non è tecnologicamente sostituibile, cioè, nessun ammontare di valore di scambio la potrebbe rimpiazzare. Inoltre, sintetizzare le complesse interazioni ed i flussi materiali e di energia che costituiscono ecosistemi con caratteristiche differenti e su scale diverse, con le loro storie che dipendono da percorsi naturali, non è affatto un compito banale - interazioni materiali e specificità sono esattamente ciò da cui il valore di scambio astrae. Quello che un tale tipo di analisi dà per scontato è che la forma merce stessa, con la sua sostanza comune (valore) che permette lo scambio fra differenti risorse materiali in quantità definite, sia staccata dal suo contesto materiale ed ambientale. Ma è proprio questo distacco, o astrazione, che porta alla distruttività. "Il sogno implicito del capitale è quello dell'illimitatezza assoluta, una fantasia di libertà in quanto completa liberazione dalla materia, dalla natura. Questo 'sogno' del capitale sta diventando l'incubo di quelli da cui il capitale si sforza di liberare sé stesso - il pianeta e i suoi abitanti" (Postone).

Da ultimo, ma non ultimo, il capitale sta provando ad incrementare i suoi profitti anche sfruttando la stessa ansietà causata dalla prospettiva di una catastrofe ecologica, estendendo la produzione di soggettività da parte dell'industria culturale. Per esempio, le caffetterie Starbucks offrono ai loro clienti un caffè che è un po' più caro, ma sostengono che parte del denaro va alle foreste del Congo, ai bambini poveri in Guatemala, ecc.. In tal modo, la coscienza politica viene depoliticizzata per mezzo di quello che viene chiamato "effetto Starbucks". Lo possiamo anche vedere nelle pubblicità commerciali. In una di queste, dopo delle scene che raffigurano un qualche genere di catastrofe naturale indefinita, intercalate con scene di un falegname che costruisce un'imprecisata struttura di legno e con scende di donne in quella che sembra una sfilata di moda, viene rivelato il vero contesto reale: le modella stanno andando verso una sorta di Arca di Noè costruita dal falegname, di modo che così potranno sopravvivere alla catastrofe ecologica. Lo scopo della pubblicità viene alla fine svelato: vendere deodorante - "la fragranza finale". Lo slogan - "Felice fine del mondo" - sfrutta esplicitamente il collasso ecologico al fine di vendere merci.
Opposizione e volontà politica sono state sedotte e si sono adattate alla forma merce, penetrando perfino nella stessa scienza climatica. Alcuni scienziati sembrano essersi accorti di questa pressione pervasiva, da parte del feticismo economico, sulla scienza, quando affermano: "l'obiettivo, per quanto scomodo, è quello di liberare la scienza dall'economia, dalla finanza, e dall'astrologia" oppure "la geoingegneria è come un tossicodipendente che trova un nuovo modo per lasciare i suoi figli senza un soldo". La decarbonizzazione viene sempre richiamata ad essere "economicamente sostenibile". Ciò che è necessario, tuttavia, è che emerga nel pubblico dibattito una critica più radicale, una posizione esplicitamente anticapitalistica che rifiuti le richieste di accumulazione di capitale nella definizione delle politiche socio-ambientali - non da ultimo perché pare sia già impossibile conciliare il limite di riscaldamento globale a due gradi celsius e allo stesso tempo mantenere la "crescita economica".

Bisogna sottolineare che la feticizzazione qui descritta e la sua distruttività ecologica sono uno sviluppo storico specifico al capitalismo, e che questo può essere superato: il metabolismo sociale con la natura non è necessariamente distruttivo. Il feticismo delle merci ed il lavoro come categoria sociale mediante (lavoro astratto) sono storicamente specifici al capitalismo, e sono cominciati con l'accumulazione primitiva. L'Antropocene in quanto distruzione globalizzata della natura è l'esternalizzazione del lavoro alienati, la sua logica conclusione materiale. Superarlo, richiede la riappropriazione di quello che è stato costituito sotto forma alienata, cioè, la demercificazione dell'attività sociale umana o il superamento del capitalismo. La tecnologia così riconfigurata e socializzata non verrebbe più determinata dalla redditività, ma sarebbe la traduzione tecnica di nuovo valori e tenderebbe a diventare arte. Anziché essere determinata dall'unidimensionale valorizzazione del valore, la produzione sociale sarebbe il risultato di una molteplicità di criteri comunemente discussi, che promanano da considerazioni sociali, ecologiche, estetiche ed etiche, ed oltre - in altre parole, la ricchezza materiale deve essere liberata dalla forma valore. Tecnologie come l'energia solare, la microelettronica e l'agroecologia, per esempio, potrebbero essere usate per dare forma ad un mondo di abbondante ricchezza materiale e ad un consapevole metabolismo sociale con la natura - un mondo con abbondante rinnovabile energia pulita, abbondante tempo libero sociale grazie alle forze produttive altamente automatizzate, ed abbondante cibo prodotto ecologicamente, sotto il controllo sociale.

Allora e solo allora l'Uomo potrebbe avere il controllo consapevole dei cicli materiali planetari e potrebbe usare questo controllo a scopi umani (anche decidendo di lasciarli nel loro stato "naturale). In realtà, questo significa prendere molto sul seria la promessa dell'Antropocene, cioè, l'Uomo dovrebbe avere il controllo consapevole dei cicli materiali planetari, estendere il territorio della politica finora lasciato ai ciechi meccanismi della natura e, nel capitalismo, al feticismo delle merci. E questo non solo perché le forze produttive sviluppate dal capitalismo lo permettono - sebbene finora è avvenuto senza un consapevole controllo sociale - ma anche perché potrebbe essere necessario. La civiltà si è adattata alle condizioni oloceniche che hanno prevalso negli ultimi diecimila anni, e dovremmo essere preparati ad agire per preservare queste condizioni cje permettono lo sviluppo umano, o mitigare i cambiamenti improvvisi, dal momento che potrebbero essere messe in pericolo non solo dall'attività umana (feticizzata), ma anche da cause naturali, cosa che è già accaduta molte volte nella storia naturale (come nel caso dei cicli glaciali-interglaciali attivati da perturbazioni nell'orbita della Terra, o la catastrofica estinzione dei dinosauri dovuta all'impatto di un meteorite). La "mano invisibile" (feticizzata) e l'Antropocene (feticizzato) sono le due facce della stessa medaglia, della stessa inconsapevole socializzazione, e dovrebbero essere entrambe superate per mezzo della comunalizzazione dell'attività sociale, cioè, il controllo reale dei cicli materiali planetari dipende dal controllo sociale consapevole della produzione mondiale.

Andrebbe  sottolineato che ciò che qui chiamiamo "feticismo" non è semplicemente la denominazione imprecisa dell'Antropocene, bensì la forma dell'interscambio materiale stesso. Ed ancora una volta ciò che emerge è una vera e propria prospettiva utopica, la promessa della realizzazione dell'Antropocene, non in quanto constante antropologica o forza "naturale", ma in quanto essenza della specie pienamente storica che controlla consapevolmente e da forma alle condizioni materiali del pianeta. Se, come affermava il giovane Marx, il lavoro alienato aliena la specie dell'Uomo, la riorganizzazione liberatrice dello scambio socio-materiale libererebbe il potenziale della specie in essa incorporato, sebbene socialmente negato, nell'Antropocene. La geoingegneria e la tecnologia avanzata in generale liberata dalla forma valore e dalla ragione strumentale potrebbe essere usata non solo per risolvere il problema climatico, ma anche, come ha scritto Adorno, "aiutare la natura ad aprire gli occhi", per aiutarla "sulla povera Terra a diventare quello che forse vorrebbe essere". Le forze avanzate della produzione implicano che la visione utopica poetica di Fourier, richiamata da Walter Benjamin, potrebbe materializzarsi:

"il lavoro cooperativo aumenterebbe l'efficienza a tal punto che ci sarebbero quattro lune, ad illuminare il cielo di notte, le calotte polari indietreggerebbero, l'acqua di mare perderebbe il suo gusto salato, e le bestie da preda eseguirebbero gli ordini dell'uomo. Tutto questo disegna un genere di lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura, l'aiuterebbe a dare alla luce quello che giace dormiente nel suo ventre." (Walter Benjamin).

Anche l'eliminazione della brutalità (predazione), nella natura, e l'abolizione dei macelli per mezzo della produzione di carne sintetica appare oggi alla portata teorica attraverso la "riprogrammazione genetica" e la tecnologia delle cellule staminali. Questo va oltre i sogni più selvaggi delle utopie marcusiane. Certo, tutto questo richiede una lotta sociale che sovverta la produzione determinata dalla valorizzazione del valore e liberi, per prima cosa, il potenziale umano. D'altra parte, come al solito, siamo portati a vedere determinato il nostro futuro materiale sulla Terra dal tasso di interesse, dall'emergenza della geoingegneria, e dal caso.
- Daniel Cunha - pubblicato su Mediations, volume 28, n° 2, primavera 2015 -

giovedì 28 maggio 2015

La riduzione del debito uccide il capitalismo


Secondo questo grafico, ogni tentativo di ridurre il deficit federale degli Stati Uniti negli ultimi 30 anni sembra che finisca per minare lo stesso capitale.

Questa correlazione suggerisce che se la sinistra si impegnasse per una società al di là del capitalismo, il farla finita con tutti i deficit statali potrebbe essere una strada per realizzare questo superamento. La correlazione si spiega con il fatto che il capitale, a questo punto, sta producendo più plusvalore di quanto possa essere reinvestito con profitto in un'occupazione produttiva. L'assenza di sbocchi sufficienti per i nuovi capitali non è un semplice problema per quei capitalisti, come i proprietari delle più grandi corporazioni americane, che devono restare seduti sui profitti non investiti: a meno che il deficit statale non cresca costantemente, la sovrapproduzione di plusvalore alla fine impone una svalutazione generale del capitale, dal momento che il modo di produzione ai fini del profitto si blocca.

Niente di quanto ho detto dovrebbe essere una sorprese dal momento che sono le stesse conclusioni cui sono arrivati, insieme, sia la teoria del lavoro che la teoria keynesiana. Ad esempio, secondo l'economista borghese Hyman Minsky, i profitti aggregati del capitale devono eguagliare gli investimenti aggregati del capitale più il deficit spending dello Stato:

"Nonostante la maggiore complessità delle relazioni finanziarie, il fattore determinante del comportamento del sistema rimane il livello dei profitti. In un modello scheletrico, con comportamenti di consumo, altamente semplificati, dei ricevitori di redditi e di salari, in ogni periodo i profitti aggregati sono uguali agli investimenti aggregati. In una struttura più complessa (seppure ancora altamente astratta), i profitti aggregati sono uguali agli investimenti aggregati più il disavanzo pubblico. L'aspettativa di profitti dipende dall'investimento nel futuro, ed i profitti realizzati sono determinati dall'investimento: quindi, che le passività vengano o no convalidate dipende dall'investimento. L'investimento ha ora luogo perché gli uomini d'affari ed i loro banchieri si aspettano che ci saranno investimenti in futuro."

Peter Jones, uno scrittore marxista, è pervenuto ad una conclusione simile riguardo a come il deficit spending dello Stato incrementi la ricchezza dei capitalisti:

"Si consideri la seguente possibilità. Supponiamo che il governo decida di attuare un taglio della tassa sulle imprese aumentando il deficit, e lasciando immutata la spesa pubblica. Supponiamo che come risultato le entrate crollino di X dollari, ed il debito statale si incrementi del medesimo ammontare. Si assuma che le banche (nazionali od estere) finanzino questo debito acquistando X dollari di obbligazioni del Tesoro extra. Ora supponiamo, per semplificare, che le decisioni di investimenti da parte delle imprese non siano influenzate dalla combinazione del taglio delle tasse e dell'incremento del debito statale. Questo implica che gli extra X dollari di profitto in più che hanno fatto come risultato del taglio delle tasse si tradurrà interamente in dividendi pagati. Si supponga anche che tale incremento nei dividendi non faccia alcuna differenza sul consumo totale, e che così i depositi bancari totali si incrementino di X dollari. In questo caso, le banche avranno un extra di X dollari come fondi disponibili: vale a dire, quanto basta a coprire il valore dei buoni del Tesoro.

Così, secondo quest'ipotesi semplificata, un taglio alle tasse sulle imprese finanziato da un aumento dell'indebitamento porta un incremento equivalente nel pagamento dei dividendi, che a sua volta 'crea' i fondi prestabili richiesti per finanziare l'aumento del deficit. Sia il reddito che la ricchezza degli azionisti si incrementa di quella quota del taglio delle tasse sulle imprese, il profitto post-tassa aumenta al netto delle imposte, ma il consumo degli azionisti, e di tutti gli altri, rimane invariato. Cosa ancora più importante, il tasso di profitto post-tassa si incrementa (anche se prima del taglio delle tasse era costante)."

Pertanto, sia la teoria del valore-lavoro che la teoria keynesiana suggeriscono che il capitalismo non può sopravvivere senza il deficit della spesa dello Stato, per quanto ciascuna scuola utilizzi questa conclusione per i propri fini.

Va capito che il deficit federale è una completa truffa: in primo luogo, viene concesso ai ricchi un taglio delle tasse dai politici dello Stato; poi, i tagli fiscali vengono riprestati allo Stato; infine, lo Stato emette delle obbligazioni che consentono ai ricchi di reclamare una porzione delle future entrate fiscali dello Stato. E dopo, per coronare tutto questo, arriva l'MMT (Modern Monetary Theory) e riveste questa truffa definendola "attività finanziarie cumulative" del settore privato.

La sinistra, che diventa nervosa quando si parla di riduzione del deficit, nella truffa gioca la parte del pazzo. La truffa non potrebbe continuare se la sinistra non combattesse a fianco dei fascisti contro ogni tentativo di porre fine al deficit spending. Da una parte, la sinistra rende possibile ai fascisti di proclamare che il deficit spending serve ad aiutare tutti. Dall'altra parte, si lamenta della crescente disuguaglianza degli ultimi trent'anni sebbene ignori il fatto che lo Stato paga, letteralmente, i ricchi per NON pagare tasse. Non mi aspetto che tutto questo cambi, dal momento che deriva dall'idea che la spesa statale sia in un qualche modo più "progressista" degli investimenti del capitale privato.
La realtà è che sia gli investimenti che l'accumulazione del debito pubblico statale è accumulazione di ricchezza nelle mani delle stesse persone contro cui si pensa di stare combattendo. Il debito statale in tutte le sue forme è esso stesso la misura della crescente disuguaglianza sociale.

Ad un certo punto, la sinistra radicale sarà costretta a fare sul serio riguardo al deficit spending e ad aprire un dibattito su quali sono i suoi veri obiettivi. Non importa se decidono di riparare il capitalismo o di ucciderlo, ma non possono fare una delle due cose mentre allo stesso tempo sostengono l'altra . Il vero problema, ad ogni modo, è che la sinistra radicale non è realmente impegnata a porre fine al capitalismo ed è impegnata solo a parole a svolgere questo compito. Il suo scopo pratico reale è quello di aggiustare il capitalismo, in qualche modo.

La sinistra radicale sta per fare un salto nel buio e si fida della propria teoria, anche se le conseguenze appaiono essere spiacevoli. La teoria dice che il deficit statale se ne deve andare, ma la paura dice che quando il deficit spending se ne va, se ne vanno anche i posti di lavoro e i salari. Come ogni schiavo ben addestrato, pensi che sia impossibile sopravvivere senza posti di lavoro e senza salari, vale a dire senza schiavitù salariale. Hai torto. La tua teoria dice che hai torto. O hai fede nella tua teoria oppure hai fede in decenni di indottrinamento capitalistico.

by Jehu

mercoledì 27 maggio 2015

I visionari del capitale

La filosofia miope del capitalismo-casinò
- L'inflazione delle "sapienze" nel mondo amministrato -
di Robert Kurz

Filosofia, un concetto dell'antichità greca, ha lo stesso significato di "amore per la saggezza". In origine, con questo ci si riferiva alla dottrina del vivere bene e correttamente. A partire dall'Illuminismo, la filosofia è stata considerata come una sorta di teologia secolarizzata per spiegare l'universo e la ragione umana. Oggi, il concetto di filosofia è inflazionato. Suggerimenti e consigli su come avere successo ed imporsi sugli altri, manie sessuali, allucinazioni personali, metodi di esercizio fisico e di lavaggio di capelli e perfino abitudini alimentari vengono definiti "filosofia". Se qualcuno si fa un paio di drink al mattino oppure, al contrario, è astemio, se preferisce trascorrere le ferie in montagna o su una spiaggia, se prende il sole con o senza costume da bagno - pateticamente, tutto questo viene chiamato "la sua filosofia". Tennisti, stelle del calcio, politici e cantanti da "hit parade" possono discutere per ore ed ore a proposito della loro filosofia, riempiendo i media.
Così, non c'è voluto molto prima che, nel frattempo, anche gli amministratori si vedessero costretti a mettere su una filosofia. La filosofia gestionale ha così cominciato a dettare il modello nell'inflazione galoppante delle filosofie. Non c'è un solo produttore di cosmetici, di automobili, di spaghetti o di riviste pornografiche che non abbia una sua filosofia peculiare. E, allo stesso modo in cui ogni persona è diventata la sua propria impresa e deve lanciare sé stessa sul mercato, così ogni individuo ha bisogno anche della sua filosofia gestionale.
"L'amore per la saggezza" appare ora come "amore per la venalità". In questo modo, si è raggiunto lo stadio più basso del pensiero umano, anche se per il capitalismo questa risulta essere "l'ultima parola in fatto di saggezza". Filosofia significa, quindi, la dottrina del vendere bene e correttamente - sia che si tratti della vendita di sé stesso o della vendita delle scorie che si devono imporre all'umanità.
Filosofie di questo genere, provengono il più delle volte dagli Stati Uniti, sebbene non siano più da tempo "tipicamente americane", ma corrispondano allo spirito globale dell'epoca. Di solito vengono cambiate più frequentemente di quanto si cambi la biancheria intima, come avviene con i guru della filosofia gestionale e con la natura effimera delle loro situazioni. Per questa filosofia c'è una moda estiva ed una moda autunnale, e nel frattempo la gestione ha da fare parecchio per svolgere il suo compito. Rimane poco spazio per la gestione. Un fallimento intellettuale dopo l'altro, e il mondo dell'economia va di già in malora. Ora, anche se la filosofia gestionale non è profonda quanto il mare, ma al massimo quanto una pozzanghera, tuttavia la sua base è piuttosto rigida. Ancora una volta essa dà la formula della propira etica. Come Immanuel Kant, la filosofia gestionale gratifica il mondo con un "imperativo categorico". Il nuovo postulato porta il nome di 'shareholder value' ("profitto dell'azionista").
Nella stampa economica tedesca, il concetto di "shareholder value" è stato eletto "vocabolo alla moda dell'esercizio finanziario 1996". Siccome nell'era del neoliberismo tutto quello che proviene dal mondo anglosassone, nel continente europeo, viene annusato con rispetto e diventa oggetto di congetture, l'interpretazione di "shareholder value" ha acquistato rilevanza nel discorso economico-filosofico. Ma alla fine che cos'è lo "shareholder value"?
Il primo comandamento di questa nuova etica filosofica della gestione prescrive: "Non avrai altro Dio al di fuori del tuo azionista". "Shareholder value" significa quindi una rabbiosa difesa degli interessi azionari da parte della politica commerciale delle società imprenditrici. Questo sarebbe, come si osserva con le banche di investimento, un movimento "back to the roots" ("ritorno alla origini"), cioè, ritorno al compito originario della gestione di ottenere il massimo guadagno per gli azionisti. Per troppo tempo, questo comandamento etico dell'economia è stato offuscato dagli "interessi dei gruppi sociali" (sindacati, politica, ecc.).
Nel nome dello "Shareholder value" vengono quindi celebrate orgie di licenziamenti in massa e di riduzioni dei costi, al fine di estorcere ad un minimo di dipendenti un massimo di produzione e mandare al diavolo le conseguenze sociali. La massimizzazione dei profitti è da sempre l'obiettivo, solo che ora si tratta di una crescente radicalizzazione di questa volontà contro ogni interesse all'interno della società capitalista. In tal senso, il progetto dello "Shareholder value" corrisponde alla radicalizzazione del limitato punto di vista economico sotto l'egida della globalizzazione del capitale. La vita come un tutto, l'insieme dei compromessi sociali, il rimanente della cultura e perfino gli interesse della burocrazia statale devono subordinarsi alla "produzione di rendite attraenti per gli azionisti" e, se necessario, essere immolati su questo altare. L'umanità, al pari del suo ambiente naturale, viene tenuta in ostaggio dai grandi azionisti privati ed istituzionali.
Per una sinistra politica ammuffita, questo sviluppo potrebbe provocare di nuovo offese alla magnificenza ed alla forza perniciosa dello spirito capitalistico, che conferisce agli infami interessi di lucro un'aureola di moralità. La filosofia dello "shareholder value" però non rivela una situazione sana, ma una debolezza strategica fondamentale del capitale.
Il problema risiede nel rapporto dell'azionista con l'imprenditoria pratica, o gestione. Un'azionista, come è noto, è un investitore che compra azioni, ossia, partecipazioni ad un'impresa, con l'obiettivo di ricevere una quota corrispondente del guadagno di quest'impresa. L'azionista - e questo è importante - non è l'imprenditore stesso. La decisione di comprare azioni di un'impresa avrà i suoi motivi, che possono essere sia di natura sentimentale che razionale, e poggiano su un qualche genere di informazione (per esempio, sul successo commerciale di quest'impresa). Ma, dal momento che l'azionista non è imprenditore e che quindi non si occupa attivamente di produzione e vendita da parte dell'impresa, egli non può prescrivere una strategia o una determinata condotta commerciale; non può decidere sugli investimenti, sulla riorganizzazione, sulla politica del personale, sul marketing, ecc..
In altre parole, secondo la razionalità capitalistica, l'azionista in quanto mero investitore deve riporre la sua fiducia nella strategia, negli obiettivi e nelle potenzialità di un capitale produttivo e nella sua gestione. Tale fiducia è il suo rischio. Anche se il modo di produzione capitalista è, fin dall'inizio, distorto dal funzionalismo astratto del denaro, in passato quel che era in gioco era il residuo di un obiettivo qualitativo, ossia, la produzione ed il consumo di un determinato valore d'uso concreto (fosse esso già dimostrato oppure innovativo). Fiducia e rischio si riferivano non solo alla serietà dei metodi gestionali, ma anche alla qualità ed alla buona accettazione del prodotto dell'impresa, così come alla sua utilità.
Solo in questo modo, nel 19° secolo, inventori capitalistici come Edison, Siemens, Benz, ecc. hanno potuto realizzare le loro idee (quale che sia il giudizio che se ne possa dare oggi): essi avevano bisogno di investitori che credessero in quelle idee e nella loro possibilità di successo commerciale. Anche il più grande progetto capitalista del 19° secolo, l'integrazione del mondo per mezzo della costruzione delle ferrovie, è stato reso possibile soltanto per mezzo del rischio degli investitori che, come azionisti delle compagnie ferroviarie, davano carta bianca alla gestione. Infatti, in un famoso western, il regista italiano Sergio Leone disegna la figura tragica di un amministratore delle ferrovie cui, in contrasto con l'avidità ottusa dei suoi nemici e dei suoi colleghi, interessa assai meno il lucro facile di quanto gli interessa il sogno grandioso di riuscire a collegare con la ferrovia la costa Est con quella Ovest degli Stati Uniti, da oceano ad oceano.
Anche nella teoria economica si è sedimentato questo attributo dell'amministratore o dell'imprenditore pratico. Il classico Adam Smith giustificherà la quota di profitto dell'amministratore col fatto che questi riunisce strategicamente i "fattori produttivi" del lavoro, del suolo e del capitale. Teoricamente postulato da Joseph Schumpeter, lo stesso imprenditore innovativo e "distruttore creativo" delle strutture di produzione antiquate, che veniva visto come il garante dello sviluppo capitalistico e che oggi viene di nuovo conclamato a piena voce, presuppone sia la libertà strategica che la politica commerciale del capitale produttivo indipendente degli investitori.
Il progetto dello "shareholder value" mette la retromarcia a questa relazione classica fra azionisti e capitalisti pratici. Quanto più difficile è la valorizzazione del capitale reale, a causa dei livelli elevati di produttività globale, e quanto più indipendente è la produzione reale in rapporto ai focolai monetari sul mercato finanziario transnazionale, tanto minore è il potere strategico degli "agenti" industriali. Gli imprenditori innovatori di Schumpeter, per quanto possano essere richiesti dalla teoria, nella prassi capitalistica a partire dagli anni 1990, sono condannati a sparire. Steve Jobs forse è stato uno degli ultimi della sua specie, dal momento che nella filosofia dello "shareholder value" non c'è più spazio per persone come lui. Le idee e le strategie del capitale industriale reale vengono fagocitate dall'interesse monetario nudo e crudo degli azionisti.
Questo interessa soprattutto l'orizzonte temporale. Orientarsi in maniera strategica, significa pensare ed avere obiettivi relativamente a lungo termine. Sviluppare e lanciare sul mercato un prodotto reale richiede il suo tempo, anche con il potenziale tecnologico della microelettronica. Affinché le nuove idee industriali possano diventare realtà, gli azionisti e gli altri investitori devono coltivare una certa pazienza. A rischio di dilapidare il patrimonio dell'impresa, non devono esigere immediatamente "rendite attraenti", senza prendere in considerazione gli investimenti necessari, ed altri presupposti a medio e lungo termine, per guadagni futuri.
Se l'orizzonte temporale delle innovazioni industriali, della produzione e del trasporto, non può essere accorciato a piacere, oggi è però la velocità dei mercati finanziari e delle sue rendite a dettare le vicissitudini economiche. David Vice, della Northern Telecom, menziona la "cultura dei millesimi di secondo degli anni 90". E Toyoo Gyotheno, ex ministro delle finanze giapponese, racconta con un aneddoto: "Ho appena parlato con un operatore valutario. Gli ho chiesto quali sono i fattori di cui tiene conto per comprare e vendere. Mi ha risposto: 'molti fattori, per lo più a brevissimo termine, alcuni a medio termine ed altri a lungo termine'. Ho trovato assai interessante il fatto che pensasse anche a lungo termine e gli domandato cosa intendesse con questo. Senza esitare un attimo, mi ha risposto con tutta serietà: 'Anche 10 minuti'". E' su questi tempi che oggi si muove il mercato.” In questo clima evaporano le vestigia di un progetto qualitativo, orientato dal valore di scambio, così come le strategie imprenditoriali che coprono uno o più cicli economici. La stessa ricerca dei fondamenti è minata dagli imperativi della rendita massima a breve termine. La filosofia dello "shareholder value" è un progetto di estrema miopia, che non ha più bisogno di alcun visionario del capitale. Al posto dei grandi annunciatori strategici, gli smantellatori e gli avvoltoi delle imprese. Dovunque il commercio viene ridotto "in maniera salutare" a livelli nucleari, sempre più rapidamente.
Ci sono momenti in cui la rendita del commercio reale smette di essere in primo piano. Come dice già il nome, lo "shareholder value" parla di valore, del valore di cui può disporre l'azionista in maniera immediata e a breve termine, cioè, il valore in corso delle azioni, non dei dividendi. Una politica imprenditoriale che insegue la massimizzazione dello "shareholder value" è quindi rivolta di meno ai guadagni reali e a lungo termine, e di più ad una massimizzazione del valore in corso delle sue azioni, non importa a quale prezzo. In tal senso, la filosofia dello "shareholder value" è un prodotto dissimulato del capitalismo-casinò. Se in passato, i portafogli di azioni rimanevano spesso per decenni in mano allo stesso individuo ed erano anche un'eredità per la generazione successiva, oggi buona parte degli investitori privati ed istituzionali non detengono più portafogli a lungo termine, ma li usano solo per fare scommesse a seconda delle variazioni giornaliere del mercato.
Ecco perché ai direttori ed agli amministratori del capitale non rimane altro da fare che pilotare le proprie imprese alla maniera dei kamikaze. Vedendosi sempre più forzati a sbarazzarsi del loro patrimonio. Nel tentativo di dare un veloce ritocco al maquillage del successo illusorio, vengono incluse nel bilancio anche le riserve. Molti imprenditori si indebitano fino all'osso, ricomprandole dagli attuali possessori, pur di mantenere il corso delle proprie azioni. Anche il più reazionario dei consulenti di imprese ed investimenti diviene preda di vertigini a seguito di questo movimento frenetico, prevedendo una fine disastrosa. Ecco la spiegazione di Edward Emmer, specialista nordamericano di "rating", data alla rivista tedesca "Wirtschaftswoche": "Sotto il manto dello "shareholder value" si verificano le peggiori sciagure. Molto di ciò che accade sfugge a qualsiasi responsabilità (...) Vi sono decine di casi in cui gli imprenditori, in nome dello 'shareholder value', vengono spinti al fallimento".
Ora, non è l'equivoco soggettivo quello che equipara alle idee della gestione la memoria corta del mercato finanziario, bensì è il limite interno della stessa valorizzazione reale del capitale. Ecco perché gli avvertimenti conservatori dei guardiani della virtù del capitalismo reale cadono nel vuoto. Per mezzo dell'automazione, della razionalizzazione e della globalizzazione, il capitale ha sottratto, di propria mano, l'alimento della forza lavoro umana. Il sistema frenetico, avido della valorizzazione, comincia a divorare la sua propria carne. E la capitolazione strategica dell'amministrazione industriale viene imposta a tutte le élite capitaliste.
Anche negli imperi finanziari, i magnati vengono sostituiti da giovanotti disposti a spina di pesce di fronte ai terminali dei computer, che giocano all'economia mondiale come bambini in recinti con la sabbia. Anche l'orizzonte della politica si abbassa a livello dei videoclip. Con la filosofia dello "shareholder value", il radicalismo neoliberista del mercato ha superato i propri limiti. Ora lavora duramente e meticolosamente alla propria rovina storica.

- Robert Kurz - 27/10/96 -
fonte: EXIT!

martedì 26 maggio 2015

e l’intellettuale prese il fucile…

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Gli intellettuali italiani e la Grande Guerra
di Romano Luperini

Il sostantivo “intellettuali”, diffusosi in Francia alla fine dell’Ottocento in seguito all’affaire Dreyfus, compare in Italia qualche anno dopo ed è certificato per la prima volta da Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno del 1905. Secondo Panzini, «indica coloro che vanno distinti per l’uso e raffinatezza di cultura», talora anche in senso ironico. Pochi anni dopo, caduto ogni sospetto di ironia, il termine si presterà a un uso rigorosamente sociologico diventando denominazione di una «classe», come lo definisce più volte Croce, o piuttosto di uno «strato sociale», come preferisce chiamarlo Gramsci. La comparsa della parola coincide non casualmente con la rilevanza di un fenomeno sociale.
Già nell’età giolittiana, comunque, il termine definisce non solo pochi individui dotati di una cultura superiore ma in generale gli addetti alle professioni intellettuali, la «classe dei colti» cui si rivolge la principale rivista di quegli anni, «La Voce». E si capisce: la nascita in Italia di uno stato moderno determina un notevolissimo sviluppo non solo dell’industria, del ceto imprenditoriale e della classe operaia, ma della burocrazia statale e impiegatizia e nel lavoro culturale, negli uffici, nelle scuole, nei servizi, nel giornalismo, nelle case editrici, nelle sceneggiature della nascente cinematografia e ben presto anche alla radio. La piccola borghesia si allarga oltre misura, diventando rapidamente un nuovo strato sociale di massa. Anche la maggior parte dei letterati e degli scrittori proviene ormai da questo strato e non più dalla nobiltà o da une élite aristocratico-borgese. Gli intellettuali cessano insomma di vivere di rendita o di essere dei produttori indipendenti di reddito per divenire dei salariati. La maggior parte di essi fa l’insegnante, l’impiegato o il giornalista, e solo meno di un terzo riesce a vivere attraverso i diritti d’autore e i guadagni delle consulenze editoriali, delle traduzioni e soprattutto (ci informa Renato Serra in un libro uscito nel 1914, Le lettere) delle collaborazioni giornalistiche grazie agli elzeviri o ai brevi racconti pubblicati sulle terze pagine dei quotidiani.
Questa piccola borghesia è inquieta e tendenzialmente sovversiva, perché in cerca di uno spazio sociale e di un ruolo protagonistico che invece tende sempre più a ridursi. La soffoca l’alleanza giolittiana fra grande industria protezionistica e aristocrazia operaia del nord, mentre la sua condizione intermedia la condanna a un continuo pendolarismo fra borghesia e proletariato, fra un’esigenza di potere e di affermazione e i processi di proletarizzazione che invece la attraversano. I nuovi scrittori dell’età giolittiana si distinguono perciò nettamente dagli intellettuali della generazione precedente, quella di Carducci, Pascoli, d’Annunzio, Pirandello, Svevo, formatisi, culturalmente e politicamente, all’interno di una società ancora patrizio-borghese. Ad affermarsi ora è la nuova «generazione degli anni ottanta», quella dei «giovani» cui espressamente si rivolgono, in polemica contro i «vecchi», non solo i futuristi, ma le principali riviste del primo Novecento.
Ecco dunque giustificato l’arco del discorso qui proposto e motivata la ragione di alcune esclusioni. Non parlerò qui di d’Annunzio, Pirandello, Svevo, Croce, De Roberto, tutti intellettuali, nati negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, che pure sulla Grande Guerra hanno scritto, pubblicando racconti, poesie, romanzi, saggi, articoli. Mi limiterò invece a poche ma esemplari parabole di alcuni fra i principali collaboratori della maggiore rivista d’anteguerra, «La Voce», fondata da Prezzolini come settimanale politico-culturale nel 1908 con l’intenzione di dare “voce” appunto alla nuova generazione di intellettuali perché potesse affermarsi come classe dirigente. Ed è già significativo che questa rivista si trasformi poi, alla fine del 1914, a dimostrazione del fallimento di tale progetto e a guerra europea ormai in corso, nella «Voce» bianca diretta da Giuseppe De Robertis, dedita ormai a un impegno esclusivamente letterario. Evoluzione, che fa pendant con quella opposta di «Lacerba» che negli stessi anni da rivista artistica diventa invece rivista politica dell’interventismo militante. Due soluzioni diverse che rivelano però lo stesso impasse: la chiusura di ogni autonomo spazio di mediazione politico-culturale, a vantaggio della pura propaganda politica in un caso e della pura letteratura nell’altro.

I vociani e la guerra
La prima «Voce», in fondo più salveminiana che prezzoliniana, si impegnò in un antigiolittismo sostanzialmente di stampo liberale e riformistico. Ma già la guerra di Libia, inizialmente contrastata, poi sostanzialmente accettata, segna una prima svolta, caratterizzata dalla fuoriuscita di Salvemini che dà vita a «L’unità». Da questo momento la ricerca di una funzione intellettuale nella nuova società di massa diventa sempre più confusa e convulsa, mentre comincia a prevalere la tendenza al sovversivismo piccolo-borghese più estremo. Ne diventa espressione soprattutto Giovanni Papini che, dopo avere svolto di fatto un ruolo di direzione della «Voce» nel corso del 1912, fonda nel ’13 la rivista «Lacerba». Papini declina il sovversivismo in forme ibride che mescolano avanguardismo di marca futurista e nostalgie invece provinciali che lo inducono al assumere un ruolo ideologico e pedagogico e pose vagamente dannunziane da poeta-vate.
Fra la guerra di Libia e lo scoppio del grande conflitto mondiale, venuto meno il riformismo della prima «Voce», la borghesia industriale andava scegliendo la strada degli armamenti e della preparazione alla guerra e gli spazi si andavano rapidamente chiudendo. Se il tentativo vociano di dare vita a una società civile autonoma aveva dovuto registrare il proprio fallimento, la volontà protagonistica di Papini di fatto era costretta a esercitarsi. nel vuoto sociale che si era ormai determinato fra classi subalterne e classe dirigente. Così la tradizionale aspirazione al potere da parte della cultura rovescia la propria frustrazione in atteggiamenti scandalistici e provocatori, che si esprimono nella proposta papiniana del «teppismo» da parte di un intellettuale, che si autorappresenta come «incendiario», solitario «scorridore», isolato «iconoclasta» (nel Discorso di Roma,1913). Lo scoppio della guerra induce «Lacerba» a trasformarsi da organo artistico a rivista dell’ interventismo nazionalista e imperialista (vi si sottrae solo, in nome di un cauto neutralismo, un altro lacerbiano, Palazzeschi, l’unico della sua generazione a restare estraneo al bellicismo dominante). Nell’articolo Amiamo la guerrra!, pubblicato all’indomani dell’inizio del conflitto, l’ideologia malthusiana viene assunta da Papini come vaga copertura della propaganda futurista della guerra «sola igiene del mondo» e cinicamente esaltata in nome di un virilismo allora di moda (anche in seguito alla influenza di un altro pensatore caro ai vociani, Weininger, allora da poco tradotto anche in italiano):

Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue […]
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, della ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli; i civili son pronti a tornar selvaggi; gli uomini non rinnegano le madri belve. […]
Siamo troppi. La guerra è un’operazione maltusiana. Fa il vuoto perché si respiri meglio. […]
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa […] dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.

Questo appello eccitato e dionisiaco alla ferinità naturale dell’uomo (vi risuona l’eco di un Nietzsche magari letto attraverso d’Annunzio) è una rinuncia radicale ai valori della cultura che pure dovevano distinguere la “classe dei colti”. Anche se con toni molto diversi, e con ben altra tensione esistenziale e morale, tale rinuncia significativamente caratterizza, come vedremo, la vicenda di molti altri intellettuali vociani.

Scipio Slataper
Più interessante seguire l’evoluzione di due “moralisti” interpreti dell’anima liberaldemocratica e riformista della prima «Voce», il triestino Scipio Slataper e il valdese Piero Jahier, genovese di nascita, ma di madre fiorentina. Entrambi svolsero di fatto, in parte contemporaneamente, in parte invece in tempi diversi, la funzione pratica di redattori della rivista, collaborando con Prezzolini o a volte sostituendosi a lui.
Quando si chiude la fase riformistica della prima «Voce”, e dunque già nel corso del 1912, Slataper si allontana progressivamente dalla rivista, non condividendo né la prudenza di Prezzolini, troppo incline all’ordine crociano, né l’indirizzo prevalentemente letterario e artistico allora promosso da Papini. Slataper aveva sempre pensato alla «Voce» come a uno strumento di «preparazione» (termine spesso ricorrente nei suoi scritti) insieme, e indissolubilmente, etico-politica e artistica (d’altronde la sua autobiografia lirica, Il mio Carso, termina con questa significativa dichiarazione che unisce tensione sentimentale e morale: «Noi vogliamo amare e lavorare»). «Preparazione» doveva significare formazione di un ceto intellettuale capace di direzione politica complessiva perché costituitosi attraverso un continuo problematicismo culturale e la padronanza tecnica delle massime questioni nazionali poste dallo sviluppo della modernità. Ora, nelle diverse soluzioni prospettate da Prezzolini (sino a quella finale che farà della «Voce” un organo chiuso e persino settario dell’«idealismo militante») e da Papini (che nel 1913 aderisce di fatto a un’avanguardia artistica), Slataper vedeva svanire questa esigenza di «vivificazione» (altro termine a lui caro). Non per questo, tuttavia, lasciata «La Voce», egli rinuncia al proprio progetto, anzi mira ad articolarlo in termini più concreti e in una prospettiva politico-culturale più definita, calandolo nella realtà storica ed economica di Trieste. Pensa infatti a una nuova rivista, «Trieste», appunto, e a una nuova funzione sociale dell’intellettuale, capace di collegarsi organicamente ai centri commerciali più moderni della città. Il suo, avrebbe detto Gramsci, è il progetto di un intellettuale organico a una borghesia attiva in campo economico, politicamente liberale e progressiva. Slataper non immagina solo una rivista, un centro bibliotecario e una nuova università, in grado di rinnovare e di sviluppare l’antica scuola cittadina Revoltella, ma avanza un articolato progetto politico, che allora era condiviso anche dai socialisti triestini. Da un lato, sul primo versante, propone la fondazione di una università commerciale che superi la tradizionale estraneità fra il mondo della cultura e quello degli affari: una università che egli vorrebbe significativamente priva di una facoltà di lettere, ma fondata sullo studio storico delle civiltà moderne e dei popoli con cui Trieste era in rapporti commerciali e dunque sullo studio delle lingue, del costume, delle varie costituzioni politiche. Dall’altro, sul secondo versante, Slataper si batte per un irredentismo culturale e non politico: la Trieste da lui prospettata avrebbe dovuto difendere ed espandere la propria italianità, e magari imporre la propria egemonia, attraverso una libera concorrenza con le altre culture nell’ambito di «un’Austria del popoli», di una libera confederazione concepita in termini mazziniani e liberaldemocratici. Ne risulta escluso per il momento un impegno irredentistico volto a modificare i confini. Questo «irredentismo» esclusivamente culturale Slataper lo chiama significativamente «vociano». Particolarmente interessante è poi il drastico rifiuto delle posizioni nazionaliste e, invece, il proposito di rispettare i diritti dei vari popoli, a partire da quello slavo e dalle popolazioni della Dalmazia di cui viene riconosciuta l’esigenza di una autonomia linguistica e civile all’interno della auspicata federazione contro le tendenze imperialistiche anche di parte italiana. Tra i «vociani» Slataper è l’unico in quegli anni, insieme ad altri due triestini, i fratelli Stuparich, che si consideravano d’altronde suoi allievi, ad avere l’idea di un’Europa dei popoli, capace di convivere in modo pacifico e democratico (Jahier ci arriverà più tardi, subito dopo la fine della guerra, sull’onda dell’utopia wilsoniana).
Slataper, proponendo una fusione fra la cultura «fiorentina» e lo spirito commerciale triestino, indica agli intellettuali un compito d’avanguardia borghese moderna in una cornice politica che tuttavia era quanto mai irreale. L’«Austria dei popoli» è un sogno che svanisce con l’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinanndo e con l’ultimatum austriaco alla Serbia. È la guerra. Il «realismo politico» come lo chiama Slataper, lo induce ad accettare il fatto compiuto e a sposare la causa dell’irredentismo politico e dell’interventismo. Anzi Slataper giunge, in quei mesi di attesa, a rinnegare le precedenti posizioni federative e democratico-mazziniane e a sostenere l’annessione all’Italia non solo di Trieste, ma della Dalmazia di cui andrebbe duramente repressa l’aspirazione alla autonomia politica. Naturalmente l’adesione all’interventismo non è giustificata nei termini del dominante nazionalismo: Slataper parla di guerra difensiva, delle necessità dell’indipendenza nazionale e della conclusione del processo risorgimentale: «La nostra non sarà una guerra né sentimentale né imperialistica […]: sarà una guerra per difenderci», scrive. E tuttavia si assiste a una sostanziale rinuncia non solo ai principi democratici e mazziniani sino allora professati, ma soprattutto a quello spirito ribelle, non privo di venature anarchiche, che aveva animato la sua prima produzione, culminando nella figura del barbaro Alboino in cui si identifica il protagonista di Il mio Carso. Gli scritti politici e le lettere fra l’agosto del 1914 e il dicembre del 1915, quando Slataper cade sul Podgora in un’azione di pattuglia, sono caratterizzati da una accettazione dell’ordine, del codice (era la «conversione al codice» teorizzata da un altro moralista vociano, Boine), della disciplina. E quando torna a rivolgersi agli intellettuali è solo per constatarne ora il cupio dissolvi e la necessità della rassegnazione. Mi riferisco soprattutto a un articolo pensato per «Il resto del Carlino» e significativamente intitolato Prepariamoci alla guerra. Conviene citare:
Questa guerra, la guerra che dovrebbe essere […]la grande suscitatrice di passioni, costringe tutti dopo due o tre mesi a una quieta e quasi opaca rassegnazione spirituale. C’è un desiderio, curioso: d’essere imbrancati in qualche trincea, nel fango e nel freddo, e di morire. Un cupio dissolvi. Un sentimento quasi mistico […]. È l’eroismo questo?

Bisognerebbe «preparare il paese», aggiunge, ma come? Facendo propaganda alla guerra, cercando di convincere l’opinione pubblica? Ed ecco la disarmante conclusione:

È un’illusione credere che, in regime di neutralità, voi possiate convincere operaio e borghese a voler la guerra, mentre spinge l‘aratro e si corica, come se nulla fosse, o la gente avesse tempo di pensare a ciò che verrà. Se soltanto voi, intelligenza, per conto vostro, onestamente e astrattamente, senza faticoso e correttore contatto di popolo, siete riusciti a convincervi e quasi ormai avete l’istinto delle necessità vitali della nazione nel mondo, voi non potete pretendere e, soprattutto, non dovete illudervi di applicare oggi all’anima del lontano popolo le vostre conclusioni. […] Non c’è propaganda che persuada un popolo alla guerra. La guerra è un’imposizione e un’eroica rassegnazione. La guerra è un comando. Il comando verrà. E la nazione sarà un esercito.

L’unico eroismo, dunque, è quello della rassegnazione. Tanto resta a chi si era proclamato il «vivificatore» della propria generazione e si era proposto il compito della sua «preparazione» culturale e politica. Alla fine una sola proposta può avanzare: fare «piccole cose», per esempio organizzare associazioni di studenti medi che sovrintendano ai servizi pubblici in caso di mobilitazione generale. Sia l’autodistruzione del cupio dissolvi, sia la subordinazione e l’accettazione rassegnata della guerra come «imposizione» e «comando», sia la politica delle «piccole cose» concrete non sono che manifestazioni della rinuncia dell’intellettuale alla propria identità.

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Piero Jahier
Jahier concepisce la funzione intellettuale essenzialmente come protesta antiborghese da un lato ed educazione e direzione delle masse diseredate dall’altro. A tenere unite le due posizioni è il populismo ideologico, che può esprimersi tanto con la polemica antiborghese quanto con l’adesione a un idealizzato mondo di montanari e contadini.
Anche in Jahier convivono una spinta alla ribellione anarchica (che artisticamente si manifesta soprattutto nelle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi) e un bisogno evangelico di disciplina e di integrazione, rivolta, nel suo caso, all’universo contadino. Benché queste esigenze esprimano aspetti ideologicamente diversi e per certi aspetti opposti, egli le convoglia entrambe nel proprio iniziale interventismo, quello dei nove mesi di neutralità italiana. Così da un lato rivendica i diritti dell’individualismo contro l’autoritarismo germanico, il gusto personale dell’esistenza, spontaneo e anarchico, degli italiani contro lo spirito di caserma e la piatta uniformità di vita del popolo austriaco: «Avanti, Italia, sempre tempo di libertà mai di caserma!»: liberalismo e individualismo, insomma, contro dogmatismo e massificazione burocratica. Dall’altro il conflitto fra estro latino e ordine autoritario germanico viene presentato anche come scontro di civiltà fra «Naturvölker» e «Volkulturvölker», fra popoli contadini contro popoli «meccanici» e industrializzati. Dopo l’entrata dell’Italia in guerra, Jahier, ufficiale degli alpini, si trova a vivere a diretto contatto con fanti contadini e montanari e comincia a rendersi contro della distanza fra gli entusiasmi degli intellettuali e la rassegnazione degli soldati che non sanno perché vengono mandati a morire. A differenza di Slataper, però, non vuole che la guerra sia imposta al popolo e intenderebbe persuaderlo a una concezione democratica del conflitto capace di far prevalere gli interessi materiali e ideali dei più poveri sia a livello nazionale sia nei rapporti fra gli stati. È questo il momento di Con me e con gli alpini, in cui Jahier mette in scena, alternando prose liriche e versi fortemente prosastici, questo complesso rapporto di educazione ma anche di autoeducazione che si svolge fra intellettuale e popolo. Come Salvemini, anche Jahier tra l’altro si troverà a svolgere nell’esercito una funzione ideologica precisa dato che farà parte del servizio “P” (Propaganda) e per questo dopo Caporetto, come vedremo, dirigerà un giornale destinato a rincuorare e indirizzare la truppa; e tuttavia il suo atteggiamento non è certo riducibile a questo intento strumentale. Anzi Con me e con gli alpini trova il suo motivo conduttore, la sua interna coerenza di svolgimento, proprio in una continua dialettica fra una volontà astrattamente didattica volta a rendere accessibile ai soldati un apriori ideologico a loro estraneo e l’esigenza dello scrittore di confrontarsi realmente con loro e di imparare da loro una lezione di pazienza, di rassegnazione, di fraterna solidarietà che a quell’a priori invece radicalmente si oppone. Così, nonostante l’esaltazione dell’esercito e l’ingenua idealizzazione dell’etica montanara, nel libro sono continuamente presenti la polemica contro gli ufficiali, che Jahier vede lontani dai fanti perché divisi da una distanza di classe, e contro la disumanità del militarismo e una esigenza fortissima di eguaglianza e di giustizia fra gli uomini. Quando Jahier inizia una delle sue prose con l’avversativa «Ma», è evidente che intende rovesciare un luogo comune diffuso: «Ma questa guerra non dire neanche che è una lezione. – Muoiono i migliori, muoiono i soli che potessero approfittare». E poi:

Domanda angosciosa che torna quando vi guardo e voi non potete sapere: Perché alcuni son chiamati a lavorare e a guadagnare sulla guerra, e altri a morire? Morire non ha equivalente di sacrificio; morire è un fatto assoluto. – Se la guerra ha un valore morale: rieducare alla salute, alla mansuetudine, alla giustizia, attraverso il passaggio nella pena della privazione e distruzione, perché più di tutti debbon portarne il peso questi che erano nella privazione e nella mansuetudine, e non desideravan più che la salute?

In Jahier è in atto quel «logorio delle motivazioni originarie» della guerra di cui ha parlato Isnenghi e che è riscontrabile anche in altri autori (fra tutti, soprattutto Lussu, che scrive però Un anno sull’altipiano vent’anni dopo). La revisione critica fu però bloccata sia dalla catastrofe di Caporetto e dalla necessità della difesa nazionale, sia dalle teorie wilsoniane, che sembravano rilanciare l’idea di una possibile «giustizia fra i popoli» nell’assetto della futura Società delle nazioni e di una corrispondente «giustizia sociale» al loro interno. È allora il momento del giornale di trincea «L’Astico» che Jahier dirige nell’ultimo anno del conflitto. La guerra contro l’Austria e la Germania vi viene presentata ormai come «guerra redentrice» contro i «popoli sfruttatori» necessaria per aprire un’età nuovo di pace e di giustizia. Il passo successivo, a guerra finita, fu l’avventura giornalistica di «Il nuovo contadino», rivolto al mondo agrario con un duplice scopo: costringere il governo a mantenere le promesse fatte ai fanti contadini negli ultimi mesi di guerra e vigilare che ciò potesse accadere senza scontri di classe, nell’ambito di una politica interclassista di collaborazione. Questo secondo compito si rivelerà irrealizzabile: in quel 1919 in cui lo scontro sociale si era fatto durissimo. Non era più tempo di pacificazione, e Jahier è costretto a chiudere il suo giornale, dando ragione, nel suo ultimo scritto, a un contadino socialista con cui aveva sino allora dialogato e schierandosi significativamente dalla sua parte nel conflitto di classe che si era aperto.
Anche in questo caso la realtà dei fatti si incarica di logorare prima e di annientare poi le istanze di mediazione ideologica che l’intellettuale Jahier aveva professato e cercato di tradurre nella pratica. Il successivo ventennale silenzio dello scrittore sarà un riconoscimento di questa sostanziale sconfitta.

Renato Serra
Renato Serra presenta un profilo assolutamente diverso rispetto ai casi sinora considerati. Collaborò sì alla «Voce» prezzoliniana, ma senza aderirvi mai veramente, mentre sarà assai vicino a De Robertis e alla «Voce» bianca. E infatti ostentò sempre una certa insofferenza nei confronti dell’engagement dei vociani e al loro intento di unire politica e cultura. Vissuto a Cesena, dove era nato, lontano dai centri del potere politico e culturale, amò coltivare per sé una immagine di umanista provinciale, di lettore «disinteressato» di poesia (come dirà di sé), di appartato uomo di lettere che poteva dichiararsi ancora ammiratore e seguace di Carducci. Per questo poté sembrare ai vociani un «conservatore», come lo chiamò Boine. Che però subito si affretta a correggersi con la formula «moderno conservatore». «Moderno»: perché Serra non si rifugia in una difesa del passato ma vive drammaticamente, come gli altri vociani, la crisi dei vecchi valori e della stessa funzione umanistica. Ed è la guerra, di nuovo, a far precipitare questa crisi, a fargli avvertire l’insufficienza stessa della letteratura e della religione umanistica delle lettere sino allora affermata, e a indurlo a un interventismo lontanissimo dalle ideologie democratiche come da quelle nazionaliste e anzi estraneo alle posizioni culturali allora prevalenti. Espressione di questa crisi è l’ Esame di coscienza di un letterato, scritto da Serra fra il 20 e il 25 marzo 1915, a due mesi dall’entrata dell’Italia in guerra e a quattro dalla sua morte in trincea sul Podgora (anche lui, come Slataper).
Nell’Esame di coscienza di un letterato (e si noti l’ostentazione polemica della qualifica di «letterato», non molto ben vista in ambito vociano) egli si affretta subito a condividere l’assunto di De Robertis per cui il valore della letteratura non era affatto da abbandonare in tempo di guerra (e anzi, da buon crociano, De Robertis aggiungeva che della guerra era giusto si occupassero il governo e il ceto politico, non i letterati). Ma, pur sostenendo anche lui che dedicarsi alla letteratura sarebbe stata comunque una delle poche cose degne che si potessero allora fare, la sua scelta è poi sostanzialmente diversa. Da otto mesi, dice, da quando cioè ha avuto inizio la neutralità italiana, la letteratura a lui non interessa più, anzi «gli fa schifo». Il «letterato» dichiara dunque che il suo primum non è più la letteratura. Bisogna partire da qui, da questa bruciante contraddizione, per capire la portata di uno scritto per molti aspetti straordinario sia per ciò che lo distingue e anzi nettamente lo differenzia dalle posizione degli altri vociani, sia per ciò che invece a loro lo unisce.
L’Esame si divide nettamente in due parti attraverso uno spazio tipografico lasciato in bianco a segnare la distinzione. La prima parte comincia e finisce evocando la letteratura, sostenendo dapprima il diritto di farla malgrado la guerra e, poi, introducendo il cauto proposito (preceduto infatti da un «forse») di tornare a essa dopo quegli otto mesi di intervallo: «il meglio forse è di tornare […] proprio a quella letteratura che io ho sempre considerata la cosa più estrinseca e meno compromettente». Ma il lettore, avvertito anche da questi due ultimi aggettivi, farà bene a dubitarne. Il proposito è insieme vero e non vero, come vedremo. E d’altronde in tutto l’Esame, che pure avanza alla fine una tesi molto netta e precisa, Serra gioca di continuo con il lettore, avanzando ipotesi, correggendole, ritirandole, ritornando spesso sugli stessi argomenti da angolature diverse, ed esibendo non poche ironiche e autoironiche cautele.
Il proposito di tornare «forse» alla letteratura è giustificato dal fatto che, secondo Serra, tutte le motivazioni «intellettuali e universali», anzi «tutte le ragioni» portate a favore dell’interventismo gli paiono ora inconsistenti. In realtà la guerra a suo avviso non cambierà nulla, né in campo letterario, né in campo spirituale, e neppure in quello materiale. La guerra non migliora la letteratura (anzi, se la cambia, è solo perché incoraggia la sua trasformazione in retorica) e non rende migliori i popoli. Sì, ci saranno cambiamenti di confini e di tendenze politiche, ma lo «spirito della nostra civiltà» resterà invariato. I tempi in cui le razze le nazioni i popoli modificano la loro identità sono lentissimi. Nella sostanza partecipare alla guerra o restarne fuori non cambierà il destino dell’Italia. Se la classe dirigente manca oggi l’occasione della guerra, ne capiteranno altre domani. L’ira e il disprezzo contro Giolitti, contro i preti e contro i socialisti sono perciò esagerati e soprattutto inutili. La razza è fondata su una «animalità istintiva e primordiale» (e più avanti si parlerà di «animalità sorda e irriducibile») che procede attraverso impercettibili mutazioni che si misurano sui secoli e sui millenni. Il popolo viene ricondotto al «branco», il corso della civiltà a quello della natura. Evidenti sono qui le tracce di una formazione ancora positivistica.
Contro gli interventisti di destra e di sinistra Serra è categorico: la guerra «non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati». Peggio ancora: la guerra è comunque una «perdita cieca»:
Non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male. […] [La guerra] è un perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.
Sono queste, forse, le parole più chiare e più dure che siano state scritte in quei mesi contro l’interventismo.
Ebbene, proprio perché, alla fine della prima parte del suo scritto, Serra ha esaminato e distrutto, uno per uno, tutti i «pretesti», come li chiama, in cui anche lui si era rifugiato in quegli otto mesi, ora parrebbe propenso a ritornare forse alla letteratura. In realtà non è esattamente così. Eliminati quei pretesti, all’inizio della parte seconda dell’Esame Serra può sentirsi finalmente libero: «libero e vuoto», e anche «vuoto e nuovo». In cosa consiste questa nuova libertà? Forse nel dedicarsi liberamente alla letteratura? La libertà di cui Serra parla è un’altra: quella di vivere al di fuori delle ideologie e di lasciarsi travolgere dalla «irresistibile onda della vita», di cui fanno parte gli elementi della natura (l’erba, la polvere, il vento, il verde delle prode) e dell’umanità (le case, le strade, gli altri uomini). È la libertà di vivere pienamente la passione per la vita, colta nei suoi momenti più fugaci, negli attimi, nelle occasioni che essa presenta. Siamo in presenza qui di un grande tema del modernismo europeo, anche se declinato in termini che possono apparire provinciali. Una concezione attimale dell’esistenza viene piegata a motivare una scelta che dovrebbe essere altrimenti complessa. Perché per Serra cogliere il momento significa vivere «l’ora di passione» della guerra. La guerra è un’opportunità di vita, e va colta se non si vuole «invecchiare falliti». «Fra milioni di vite c’era un minuto per noi» («noi, quelli della mia generazione», specifica), «e non l’avremo vissuto». Non si tratta beninteso, di una scelta etica. «Non è un sacrificio indispensabile», precisa infatti. Si tratta di una scelta esistenziale. Non è una «fede», dichiara ancora, ma una «voglia» («Si ha voglia di camminare, di andare). Di fronte a questa spinta puramente emotiva, qualsiasi precedente ragionamento si rivela inessenziale, compreso evidentemente quello che aveva giudicato la guerra una «perdita cieca».
La «voglia di andare insieme agli altri» nasce dall’esigenza di ritrovare «il contatto col mondo e con gli altri uomini». L’aspetto morale, che induce Serra a chiamare «fratelli» coloro che marciano con lui, è indubbiamente presente, ma come risucchiato all’interno di quello esistenziale ed emotivo. Osserva Guido Guglielmi che sembra esserci in Serra, come in Ungaretti, il richiamo a una comune umanità elementare, «a una condizione di unanimità». Ma è una condizione che si può raggiungere non per via ideologica ma solo grazie a un empito. Questo appello alla fratellanza, pur declinato in questo caso in chiave esistenziale, è presente anche nei “moralisti” vociani, come Slataper o Jahier. E soprattutto anche in loro è dato riscontrare questa esigenza – individuale e insieme collettiva perché riguarda tutta una generazione – di un momento decisivo da non perdere. Basti citare il caso di Jahier per cui, nella poesia appunto intitolata In questo momento partecipare alla guerra è l’ultima speranza per salvare la vita: «Ti scade l’ultima speranza di essere uomo in questo momento».
Questa rinuncia alla mediazione ideologica può esprimersi solo nell’immediatezza attimale. «Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di qua di questa ora di passione», scrive Serra. Distrutta ogni mediazione intellettuale (anche di tipo umanistico, in questo caso), dissolta ogni prospettiva di agire sul futuro, non resta che lasciarsi bruciare dall’ora di passione della guerra. L’orizzonte di Serra è ontologico, non storico. Sta qui la sua originalità. Ma il suo è ovviamente anche un modo per vivere la stessa crisi dei suoi coetanei vociani.
Anche per Serra, l’ora di passione esprime la rinuncia a svolgere un qualsivoglia ruolo intellettuale. Non resta che «andare a vivere e morire insieme, anche senza saperne il perché». «Senza saperne il perché»: non potrebbe essere immaginato scacco maggiore per un intellettuale.
A questo punto – siamo alle battute finali dell’Esame – si riaffaccia, introdotto con la solita ironica cautela, il tema della letteratura. Serra sa bene, e lo dice, che la soluzione da lui proposta potrà apparire anch’essa un modo letterario di reagire alla guerra. Ma che importa? «Io sono contento, oggi», sono le ultime parole. Conta solo l’istante, la contentezza dell’«oggi».
Ma il lettore non può non scorgere un velo di malinconia dietro questo eventuale ritorno alla letteratura, d’altronde così ambiguo e circospetto, e dietro questa contentezza troppo esibita.

La guerra e la crisi dell'identità intellettuale
Papini vuole essere un intellettuale teppista, un solitario «schermidore» che si diverte a rompere i vetri delle finestre alla case borghesi, e in questo modo pensa di svolgere una funzione intellettuale provocatoria e anticonformista. Slataper propone un intellettuale organico ai ceti economicamente più sviluppati della sua città e un’Austria di popoli confederati in cui gli ottocentomila italiani dell’impero austroungarico possano liberamente competere per l’egemonia culturale. Jahier si batte perché il ceto intellettuale svolga una funzione democratica a vantaggio dei poveri e dei contadini. Serra prospetta la possibilità di una fedeltà all’umanesimo e alla religione delle lettere, vedendovi una soluzione ancora praticabile, seppure nell’ambito della vita di provincia. Tutte queste diverse proposte sono spazzate via dalla guerra. Il teppista Papini, nemico di ogni accademia, si trova a rompere i vetri per conto del ceto industriale e protezionista che spinge alla guerra, e poi, chiusa la parentesi bellica, adeguatamente ricompensato, finirà paludato e innocuo accademico d’Italia. Slataper, prima di morire in trincea, per realismo politico accetta la prospettiva dell’interventismo e della «eroica rassegnazione» alla imposizione del conflitto e rinuncia alle proprie esigenze di «vivificazione» e ai propositi liberaldemocratici circa i confini orientali. Jahier, terminata la guerra, si accorge che ogni intento di mediazione ideologica e sociale è miseramente fallito e si chiude in un silenzio ventennale. Serra sceglie di vivere l’immediatezza di un’ora di passione e di andare a morire senza chiedersene il perché. In modi diversi, insomma, si ripete lo stesso destino. Ormai, in trincea, si oscilla fra il senso di solidarietà e di fratellanza fra soldati sottoposti alla durezza della disciplina e agli imprevisti del destino, come in Ungaretti, o si scoprono il non-senso dell’esistenza e la frode di ogni umana intesa come nelle poesie dal fronte di Rebora.
Manca, in Italia, se si eccettua qualche spunto reboriano, una letteratura che denunci l’orrore della guerra, come faranno altrove Barbusse con Le feu e Remarque con Im Westen nichts Neues. I due libri italiani più risoluti nella critica del militarismo e delle ingiustizie della disciplina al fronte, Un anno sull’altipiano di Lussu e Con me e con gli alpini di Jahier, non giungono mai a porre in discussione le ragioni dell’interventismo. La crisi della identità sociale dell’intellettuale fu da noi così radicale da rendere impossibile persino quel minimo di autonomia che sarebbe stata necessaria per tale denuncia. Il fascismo, di lì a poco, avrebbe fatto il resto imponendo agli scrittori l’alternativa penitenziale fra il silenzio, il parlar d’altro, e la retorica.

- Romano Luperini - 15/16 gennaio 2015 -

fonte: La letteratura e noi