giovedì 16 aprile 2015

Coercizioni liberali

goccia

Fino all'ultima goccia
di Robert Kurz

- Come l'illuminismo è diventato mito e come la promessa di libertà si è trasformata in tutto e per tutto in inganno di massa. Tutte le mostruosità della storia tornano sotto forma di "coercizioni" liberali -

Nel mese di maggio del 1944, durante il loro esilio californiano,  Max Horkheimer e Theodor W. Adorno portarono a termine, sotto il titolo di "Dialettica dell'Illuminismo", un manoscritto che avevano redatto insieme, frase per frase, che sarebbe poi stato pubblicato soltanto nel 1947, ad Amsterdam. A proposito di tale testo si può dire, senza esitazioni, che ha introdotto un cambiamento di paradigma ricco di conseguenze per la teoria sociale. Poiché, fino ad allora, il pensiero dell'Illuminismo, a partire dalla forma in cui si era sviluppato nel XVIII secolo, era considerato come l'eredità positiva comune alla modernità. Liberali e marxisti si riferivano, ugualmente, alle conquiste di quel periodo, dal momento che il marxismo era il risultato del liberismo e, questo, della filosofia dell'Illuminismo anglo-scozzese, francese e tedesco.
Le concorrenti ideologie del progresso, nel XIX secolo ed all'inizio del XX, si battevano intorno all'interpretazione ed all'evoluzione del pensiero dell'Illuminismo; il marxismo appariva, per così dire (e veniva così compreso anche da sé stesso), come la "seconda transizione", che, dopo la critica del dispotismo assolutista, della religione e della superstizione, voleva portare a termine la "missione storica" dell'Illuminismo per mezzo della critica delle relazioni sociali ed economiche. Una critica che fosse contraria ai fondamenti dell'Illuminismo, appariva possibile soltanto nell'orizzonte del pensiero reazionario, misantropo ed irrazionale, che aveva preparato ed armato il regime fascista e la sua moderna barbarie. Un anno prima della fine della Seconda guerra mondiale, quando ancora era in vigore la coalizione anti-Hitler fra l'Unione Sovietica e le potenze occidentali, sarebbe stato naturale riprodurre intellettualmente, secondo un manicheismo filosofico, il fronte di guerra ed identificare la coalizione antifascista schierata dalla parte dei buoni, nella tradizione dell'Illuminismo, e, il fascismo, dalla parte dei cattivi nella tradizione romantica e reazionaria del contro-illuminismo. Una tale interpretazione - in un orizzonte che comprendeva un liberalismo banale ed un non meno triviale marxismo democratico, che avrebbe vegetato fino agli anni 1980 e che, di buon grado, sarebbe rimasto in quella costellazione che da tempo è entrata nella storia come coalizione anti-Hitler - è stata, tuttavia, fondamentalmente rifiutata dalla "Dialettica dell'Illuminismo". Ma Horkheimer e Adorno non hanno fornito, con quest'opera teorica, neppure una filosofia per il conflitto fra Occidente ed Oriente, che avrebbe dominato la successiva metà del secolo - filosofia questa che era interessata semplicemente ai presupposti ideologici del mercato, e che anticipava lo spirito del tempo in quanto "trendsetter". La mera scomunica del marxismo dei limiti della "buona" modernità e la glorificazione della democrazia occidentale suppostamente "pluralista", in quanto unica erede legittima dell'Illuminismo, in opposizione alle dittature fasciste e staliniste, attiene ad una letteratura accademica a buon mercato, che, con esagerata accondiscendenza, serviva ideologicamente il proprio sistema di dominio durante il periodo della "Guerra Fredda".
Al contrario, la "Dialettica dell'Illuminismo" aveva radici molto più profonde: per la prima volta, da una prospettiva critica ed emancipatrice, la tradizione dell'Illuminismo in quanto tale venne messa in discussione. Il fascismo, è la scioccante rivelazione di Horkheimer ed Adorno, non è stato un mostro alieno che ha fatto irruzione dalla sua tana atavica del sotterraneo pre-civilizzatore della storia, bensì è un legittimo discendente dell'Illuminismo stesso. "L'Illuminismo è totalitario" - questa frase tagliente delinea il programma di una critica sociale nuova e diversa, la quale aspetta ancora oggi di essere portata a compimento. Il concetto di "totalitarismo" caratterizzava, in quel prisma, non solo il fascismo, e ancora meno il fascismo e lo stalinismo presi insieme, ma, in ultima analisi, la democrazia occidentale stessa. In un certo qual modo era la prospettiva di un futuro anticipato, a partire dal quale le ideologie moderne reciprocamente antagoniste, i movimenti politici ed i sistemi sociali, erano, in maniera non intenzionale, percepiti in un sistema di coordinate comuni, bei confronti del quale essi stessi erano ciechi, ma il cui riconoscimento critico relativizzava, da un punto di vista superiore, i loro antagonismi. Per questo, anche gli autori di quel libro ammirevole non smettevano di lasciarsi abbacinare dalla situazione storica concreta dell'anno 1944. Era indispensabile, nella pratica, rovesciare il fascismo, che incarnava le possibilità e le conseguenze più fatali dell'Illuminismo e della modernizzazione. Ma questo non voleva dire subordinare la Teoria Critica ad un simile obiettivo immediato. La conoscenza teorica, al di là della politica antifascista del giorno per giorno e delle necessità della guerra, non poteva mettere a tacere e reprimere il fatto che il fascismo era farina dello stesso sacco dell'Illuminismo, e che la logica di disumanizzazione nascondeva quelli che erano i pilastri stessi della democrazia occidentale.
Ma in che cosa consisteva questo momento totalitario comune della modernità illuminata, che il fascismo rappresentava in una forma estremamente irrazionale ed equivoca, lo stalinismo in una forma storicamente estemporanea (in ritardo) e la democrazia occidentale in una forma matura, sotto numerosi aspetti (almeno negli Stati Uniti) già quasi postmoderna? Horhheimer ed Adorno avevano delle serie difficoltà a formulare, nel 1944, il problema che avevano annusato. Il salto rispetto alla propria epoca li aveva portati ai limiti del pensiero moderno in generale, ossia, su un terreno per il quale non c'era ancora né nome né concetto. Al fine di potere definire il totalitarismo della modernità, fecero ricorso al concetto di "dominio della natura", che nella società si trasforma in "dominio sugli uomini". Nella misura in cui si abbassava la natura ad "una mera oggettività", e l'oggetto isolato ad un mero "esemplare" di una specie (e, pertanto, un'astrazione), il soggetto onnipotente, a sua volta, diventava "mero possedere, mera identità astratta", che si affaccia sul mondo, che fa calcoli, con la pretesa di sottometterlo e dominarlo. Al fine di rendere possibile il distacco necessario nei confronti della natura, deve sorgere nella società umana una classe dominante, la quale frappone fra sé e la natura "i lavoratori" in quanto dominati sociali: "La distanza fra soggetto ed oggetto, presupposto dell'astrazione, si manifesta nella distanza rispetto alla materia, su cui il signore vince per mezzo dei dominati."
Il dominio sulla natura attraverso l'intermediazione degli uomini-signori presuppone che l'uomo degradi il suo essere uomo a mero oggetto della natura: "Il risveglio del soggetto viene ottenuto per mezzo del riconoscimento del potere come principio di tutte le relazioni". Ora, questo, senza dubbio, descrive una correlazione negativa che ha validità da molto prima della società borghese moderna.
Di questo, Horkheimer e Adorno hanno piena coscienza: "Di fatto, le linee della ragione, liberalità e borghesismo si estendono incomparabilmente di più di quanto supponga la nozione storico, che data il concetto di borghese soltanto a partire dalla fine del feudalesimo del Medioevo". I più antichi progetti di volontà (seppure impotenti) di dominio sulla natura risalgono alla preistoria - già nello stesso "pre-animismo" si pensa "alla separazione fra soggetto ed oggetto". Ma se l'uomo preistorico era ancora pieno di un implacabile timore della natura predominante e cercava di esorcizzare la sua impotenza per mezzo di assimilazioni magiche di oggetti naturali (mimesi), il mito, da parte sua, dà inizio all'oggettivazione: "Il mito è già Illuminismo", e "Illuminismo è l'angoscia mitica diventata radicale". Quest'angoscia dev'essere estinta nel mito con l'oggettivazione della natura e, nella misura del possibile, nel "non esistere più niente di sconosciuto". Sotto quest'aspetto, le figure mitologiche appaiono come gli archetipi del soggetto borghese, astratto e oggettivante. Horkheimer e Adorno tentano di dimostrarlo con l'esempio del mito di Ulisse - e lo fanno appoggiandosi inconfondibilmente alla teoria della cultura di Sigmund Freud. L'eroe omerico delle avventure deve reprimere i suoi propri impulsi, per rendersi soggetto del dominio. La seduzione degli impulsi naturali, rappresentati mitologicamente dal canto avvolgente delle sirene, viene silenziato dai servi che tappano con la cera le loro orecchie; Ulisse, in quanto dominante, si permette, però, di udire il canto, previamente legato con le corde all'albero maestro della nave, affinché non soccomba alle lusinghe.
Tale archetipo mostra come la stessa soggettività, in ultima analisi, deve diventare oggetto, al fine di poter oggettivare la natura e gli altri uomini per mezzo del dominio. Già il mito, pertanto, "mette in scena il processo infinito dell'Illuminismo". In tale processo, vengono progressivamente distrutte, insieme agli dei, le qualità del mondo, poiché il "programma di disincantamento del mondo", che poggia sul dominio, decompone, con il suo "pensiero ordinatore", tutto ciò che gli è proprio e che, negli uomini e nelle cose, non si risolve nell'investitura oggettivante: "Quello che non vuole adattarsi alla misura della calcolabilità e dell'utilità è guardato con sospetto dall'Illuminismo". Esso è totalitario per principio, nella misura in cui sottomette la natura e la società, spogliate di ogni qualità, al calcolo della mera quantificazione, alla matematica del dominio: "La logica formale è stata la grande scuola dell'uniformizzazione. Essa ha fornito agli illuminati lo schema della calcolabilità del mondo (...) il numero è diventato il canone dell'Illuminismo". La modernità illuminata, in quanto erede della storia occidentale, secondo Horkheimer e Adorno è caratterizzata  da una contraddizione insanabile. Da un lato, promette libertà per mezzo della de-mitologizzazione, ossia, il superamento del proprio dominio, che verrebbe sostituito, in nome dei diritti umani universali, dalla ragione discorsiva del mercato. Dall'altro lato, però, essa non solo ha conservato il programma di dominio oggettivante della natura, ma lo ha anche aggravato. Proprio per mezzo del mercato, il dominio personale è stato sostituito da un "dominio della reificazione", ossia, non si è superata la "ingiustizia sociale", la quale è stata solamente oggettivata attraverso la mediazione universale della concorrenza, ad un grado di astrazione più elevato di quanto lo sia mai stato prima. Con l'equivalenza astratta dello scambio di merci, che il capitalismo ha totalizzato e dinamizzato, si è consumata la riduzione del mondo a quantità astratte.
In tal modo, l'Illuminismo moderno si è condannato all'autodistruzione. Infatti, con l'ampliamento della de-mitologizzazione sulla base del dominio reificato e spersonalizzato, esso si è costretto a distruggere il suo stesso concetto teorico - il concetto universale in generale - come presunto concetto mitologico: "Le sue stesse idee di diritto umano non sono qualcosa di diverso da quello che erano gli antichi universali". Ma quando la metafisica viene consumata fino all'ultima goccia, "il pensiero si cosifica in un processo automatico, indipendente, che imita la macchina" e perde, così, la capacità di riflessione critica. Quel che rimane è una scienza abbassata a "mero espediente dell'apparato economico": il positivismo, come "mito di quel che è il caso". L'Illuminismo, così, si trasforma nuovamente in mito - un mito tanto banale quanto nocivo a tutti. La promessa di libertà diventa un "totale inganno delle masse". Se il liberalismo, legato al dominio della reificazione economica, ha degradato l'Illuminismo ad un sistema di concorrenza e, così, ad una cieca "impresa di autoconservazione", il fascismo, a sua volta, ha dedotto l'ultima e più terribile conseguenza: la mitologizzazione razzista ed antisemita della concorrenza si è trasformata nel "sequestro totale dell'uomo". E, con "la fine del libero scambio", il capitalismo è stato falsamente superato nella modalità autoritaria e barbara. Letto mezzo secolo dopo la sua prima edizione, la "Dialettica dell'Illuminismo" provoca una sensazione contraddittoria. La sua idea di base per cui l'Illuminismo stesso si trasforma in barbarie è più attuale che mai. Il totalitarismo, che si metteva in primo piano nelle dittature fasciste e staliniste, è nelle fondamenta della democrazia liberale d'Occidente e oggi si mostra nella sua forma più pura e sviluppata: come totalitarismo del mercato globale ed onnipresente, che fa degli uomini le marionette del suo principio economico, gestito per mezzo della coazione della concorrenza globale.
Solo adesso diventa chiaro come sia stato giusto e, per così dire, profetico che la "Dialettica dell'Illuminismo" abbia incluso le società occidentali nella sua teoria della fatalità storica. Se, per più di 50 anni, la democrazia liberale ha soggiogato militarmente il suo fratello nemico, il fascismo, e, nel decennio passato, ha battuto per mezzo della concorrenza economica il suo altro fratello antagonista, lo stalinismo, alla fine del XX secolo, essa mostra, a sua volta, come unica sopravvissuta della famiglia dell'Illuminismo e della modernizzazione, il cipiglio della barbarie. Tutte le mostruosità della storia, che dovevano essere bandite secondo il principio illuminato dei diritti umani, tornano sotto la maschera delle "coercizioni" liberali. Per quanti grandi siano stati i colpi menati dalla "Dialettica dell'Illuminismo", oggi hanno un'efficacia limitata. Horkheimer e Adorno non hanno mai attraversato la porta che avevano aperto. Il loro ricorrere, in maniera quasi sovra-storica, al problema del dominio della natura ha messo in cortocircuito due piani diversi: il condizionamento di tutta la storia dell'umanità da parte del dominio socialmente incosciente, ed il feticismo specificamente economico della modernità. La "Dialettica dell'Illuminismo" arriva, con questo, a qualcosa di inevitabile e sovratemporale, mentre, simultaneamente, concede alla falsa promessa della libertà borghese un resto di dignità. Horkheimer e Adorno cadono nella contraddizione di riconoscere nello scambio delle merci la riduzione a quantità astratte ed irrazionali e, allo stesso tempo, vogliono preservare, nella libertà di tale scambio, la ragione discorsiva della circolazione delle merci. Essi rimangono, in questo senso, a dispetto della loro mutazione di paradigma, figli dell'Illuminismo. Oggi, andrebbe portata a termine la critica della ragione illuminata per mezzo della critica dell'economia moderna. Ma nessuno osa attraversare la porta aperta. Sembra sia privilegio della filosofia degli anni 90 strisciare nella polvere davanti alle divinità del mercato.

- Robert Kurz - Pubblicato il 24/8/1997 su "Mais! da Folha de São Paulo" -

fonte: EXIT!

Nessun commento: