giovedì 30 aprile 2015

Le nuvole e le stelle

psico

Arrivano gli "psicopatici". Addio a "l'era del narcisismo
di Götz Eisenberg

Quello che segue è un testo di Götz Eisenberg - psicologo, vicino alla rivista tedesca "Krisis" - circa l'influenza che, dal suo punto di vista, il neoliberismo esercita sulla struttura psichica e sulle malattie psichiche, ed affronta il problema relativo alla imminente pubblicazione, nel 2013, a cura dell'Associazione americana di psichiatria, della quinta edizione del proprio manuale di diagnostica; manuale che esiste fin dal 1952 e che intende definire i criteri universali per decidere a partire da quale momento un essere umano dev'essere dichiarato malato, a livello psichiatrico.

Questo manuale tenta di fornire un approccio oggettivo ai problemi psichici, basandosi unicamente sui sintomi, e di imporli in maniera universale. L'obiettivo è quello di assicurare che, per esempio quando si parla di diagnosticare la "depressione" o la "schizofrenia", si stia parlando ovunque della stessa cosa. La nuova edizione intende fare pulizia nella rubrica dei disturbi della personalità. Delle undici malattie attualmente riconosciute, due solamente vengono regolarmente diagnosticate: il "disturbo della personalità borderline" ed il "disturbo della personalità antisociale". Che umiliazione per i narcisisti. Ben presto non esisteranno più, quanto meno nella loro forma pura!
Il fatto che il "disturbo della personalità narcisista" venga tolto dalla circolazione può essere interpretato come il fatto che i sintomi attribuiti a questa malattia sono diventati parte integrante della normalità. Questo disturbo di base non ha più valore di malattia nella nostra società, ma riflette piuttosto il suo carattere sociale. A ciascun grado di sviluppo sociale corrisponde un carattere sociale dominante. La struttura identitaria dell'uomo è sincrona con quella della società che lo circonda. Il personaggio principale del romanzo di Heinrich Mann, "Il suddito", con la sua sottomissione incondizionata, con la sua propensione compulsiva a risparmiare denaro e a conservare tutto, riflette pienamente la fase storica durante cui il capitalismo in Germania dava inizio alla sua ascesa sotto forma di uno Stato autoritario e semi-feudale. Parallelamente, si vedeva già, in certe subculture marginali, culturali ed artistiche, emergere la prossima tappa dello sviluppo. All'inizio, i suoi attributi venivano stigmatizzati ed analizzati come segnali di degenerazione e di malattia. E' così che sono stati trattati gli ambienti dadaisti e surrealisti, così come i dandy e i bohémien, che coltivavano determinati tratti narcisistici, e che anticipavano, in molti settori, l'edonismo consumista. Per i borghesi, i bohémien e gli artisti erano dei "dandy vanitosi", della feccia, di cui bisognava sbarazzarsi, cosa che finirono per fare. Nei famosi anni venti, si vedeva già spuntare all'orizzonte il cambiamento psico-storico che ci avrebbe portato nell'era del narcisismo. In seguito, il fascismo ha portato ad una regressione collettiva verso il carattere sociale tradizionale, con i suoi ideali di ordine e di purezza, e ha cos' sepolto provvisoriamente ogni altro sviluppo. Ci sono voluti alcuni decenni perché le tendenze degli anni venti, importate dagli Stati Uniti, si manifestassero di nuovo.

La rivolta del 68
Nel corso della transizione verso l'era consumista, i componenti bohémien escono dal loro ghetto subculturale e si massificano. Una buona parte della dinamica della rivolta del 1968 proviene dalla frizione fra due diverse forme di carattere sociale, o di "classi psichiche" (1). Successivamente, la rivolta appare come se fosse anche una nuova tappa nell'attuazione dello sviluppo capitalista. Si potrebbe dire, per parafrasare Hegel, che lo spirito del capitalismo si è servito dei suoi opponenti per far tornare a sé e per riunire i suoi concetti. Persone come Rainer Langhans (2) hanno reso dei grandi servizi alla modernità, ed è perciò logico ritrovarli oggi in un reality show in tv, il fatto di "divertirsi e curare il proprio look hippie rappresentava una ribellione solo nell'epoca in cui la Germania Federale era fondamentalmente post-fascista, coercitiva e "piccolo-borghese". L'epoca in cui portare i capelli lunghi suscitava nei borghesi e nei bifolchi una pulsione di annientamento è ormai passata. Lo sviluppo psichico e culturale possiede una sua propria struttura temporale e c'è sempre un periodo di ritardo in rapporto ai cambiamenti economici e tecnici. Di tanto in tanto, occorre una rivolta militante per poter riformare dei sottosistemi anacronistici, e renderli contemporanei.
Attualmente, possiamo assistere alla decomposizione del soggetto introverso tradizionale ed alla transizione verso "l'uomo flessibile", il quale corrisponde agli imperativi modificati di una nuova fase di sviluppo capitalista. I suoi attributi sono identici al catalogo dei sintomi del vecchio disturbo narcisistico della personalità, che non viene perciò più considerato come una malattia. Una parte dei sintomi di tale disturbo, che non sono compatibili con la nuova normalità, vengono trasferiti verso altri disturbi: il narcisismo ha ormai diritto di cittadinanza, tranne che nella sua forma patologica o "borderline".
Si cominciano già a vedere i primi frutti dei nuovi cambiamenti psico-storici. Gli anni che abbiamo appena finito di attraversare, segnati dal neoliberismo, hanno reso indifferenti le persone, la loro vita interiore si è trasformata in un grande frigorifero di sentimenti congelati. Le persone non possono più fare altro che trasmettere questa freddezza all'ambiente che li circonda. Ci sono delle differenze significative fra vivere in una società che valorizza la solidarietà nei confronti dei deboli e di quelli che sono meno competitivi, e vivere in una società in cui le persone vengono abbandonate nella miseria e vengono stigmatizzati in quanto perdenti. Il fatto che l'espressione "specie di vittima" sia diventato il peggior insulto che i giovani si rivolgono, la dice lunga sull'immagine pervertita che si sono fatti dell'umanità, un'immagine segnata negli ultimi anni dal culto del vincitore. Lo si vede per esempio fra gli sportivi che cantano a gola spiegata davanti alle telecamere, dopo aver vinto una partita: "Guardate come sono fatti i vincitori - hohéhohéhohé" (...) Indubbiamente, anche perché ha tutta l'aria di uscire dall'ultima soap opera, la portiera della squadra di calcio americana, Hope Solo, incarna questo culto del vincitore. In un'intervista rilasciata prima della  finale dell'ultimo campionato del mondo, ha dichiarato: "Sappiamo che vinceremo. E' la nostra mentalità." Il fatto che si sia sbagliata è soltanto una magra consolazione.

Il mercato come vita interiore
Gli atteggiamenti ed i comportamenti, che sono dettati dal mercato e che sono indispensabili per riuscire a livello economico, oggi hanno penetrato la vita quotidiana fin nei suoi più reconditi angoli. La mancanza di rispetto generalizzata, l'individualismo spinto fino alla mania egocentrica, il cinismo e l'indifferenza ogi caratterizzano le relazioni fra gli esseri umani. E' così che "l'era del narcisismo" porta già nel suo seno il prossimo livello di sviluppo psico-storico. Il mercato, l'economia e la pedagogia dettano un'idea della vita interiore umana che dev'essere flessibile e intercambiabile, analogamente a quanto ancora oggi viene stigmatizzato come "psicopatico", e che si può trovare fra i detenuti, nelle prigioni o nelle istituzioni medico-legali. Il termine di psicopatico non viene qui utilizzato nella sua accezione popolare, che definisce una personalità perturbata, imprevedibile e violenta, ma secondo la definizione dei psichatri americani canadesi  Cleckley et Hare, per i quali le caratteristiche di una personalità "psicopatica" sono l'incapacità di provare empatia, il fatto di essere un buon parlatore, affascinante, sicuro di sé, all'altezza delle situazioni sociali, freddo quando si trova sotto pressione. Cioè a dire proprio gli attributi che caratterizzano i pezzi grossi ed i guru della nuova economia e del mondo della finanza che continuano a spingerci verso il precipizio.
Nel 2007,  Paul Babiak et Robert Hare hanno pubblicato un libro, "Schiavisti o manager", in cui mettono in guardia i manager ed il mondo della finanza. Se degli "psicopatici" andranno ad occupare delle posizioni di comando, il loro gusto del rischio e la loro totale mancanza di scrupoli potrebbe rivelarsi disastrosa, nel lungo periodo. Ai nostri giorni, la psicologia che vende la sua conoscenza al miglior offerente cerca di spiegare il malfunzionamento del sistema a causa degli individui, piuttosto che per mezzo della struttura dell'economia capitalista. La psicologia ufficiale è cieca per quel che concerne la società, e tenta, come ha detto Peter Brückner, "di descrivere gli astri per mezzo di un cielo parzialmente nuvoloso". Non riconosce che i fenomeni da essa criticati sono soltanto un effetto secondario di una nuova era del capitalismo iniziata negli anni 1990, e che non ha più alcun altro criterio che non sia la quotazione in borsa. Il mondo del denaro, sfrenato e senza scrupoli, è diventato un generatore di "psicopatici", li attrae come una calamita, e li moltiplica.
Una carriera da psicopatico, da un lato nasce dalla famiglia, in quanto associazione utilitarista di soggetti-merce, e dall'altro dal mondo virtuale dei videogiochi. Giocare eccessivamente ai videogiochi, fondamentalmente antisociali, partecipa alla produzione di "psicopatici funzionali", e forma le generazioni a venire alla vita in un mondo capitalista. Attualmente, si assiste alla formazione di una nuova struttura infantile che si potrebbe denominare come oggetto-socializzazione (3). In una forma di abbandono del bambino postmoderno, lo si lascia fin dalla sua più giovane età davanti a degli apparecchi elettronici e tecnici caricati di una loro socializzazione. Anche se i genitori moderni sostengono che i loro bambini sono tranquilli, non sono tuttavia disposti a sostenere uno sforzo personale e a spendere il tempo necessario. Il lavoro educativo impegnativo viene lasciato agli insegnanti ed al "Ritalin", questa medicina miracolosa in grado di "sistemare" i bambini. Essa appartiene alla famiglia delle anfetamine e viene sempre più prescritta ai bambini come se si trattasse di un semplice integratore nutrizionale. E' con il Ritalin e con altri psicotropi che servono a voler rendere adatti i bambini a sopportare le relazioni di concorrenza con cui devono confrontarsi fin dalla più giovane età. Il mercato, onnipresente e divinizzato in tutto il mondo, penetra fin dentro la scuola, caratterizzata dalla concorrenza, dalla solitudine, dall'ostilità fra bambini e dalla prepotenza morale. La conseguenza rischia di essere che la concorrenza del darwinismo sociale, la mancanza di educazione, la freddezza e l'indifferenza costruiscano nei bambini un'insensibilità psichica, un'assenza d'empatia ed una mancanza di scrupoli. Anche se oggi è ancora il narcisismo a dominare, l'avvenire appartiene agli psicopatici.

L'uomo flessibile
L'unica cosa di cui oggi possiamo essere sicuri, sono le catastrofi verso cui ci precipitiamo. Qualsiasi alternativa dipenderà dall'azione umana. L'attuale società reca ancora in sé le possibilità di qualcosa di meglio, ma per realizzare tali possibilità non ci si può affidare né ad una tendenza che sarebbe propria della storia, né ad un qualche soggetto collettivo. Sta a noi, agli esseri umani odierni, arrestare la follia dell'economia sfrenata e riprenderne il controllo. Una delle priorità di una società che si è sbarazzata della tirannia dell'economia, sarebbe quella di inventare e creare dei nuovi spazi, stabiliti nei tempi e nella durata, e con una presenza educativa umana, che permetta ai bambini di portare a termine con successo la loro nascita psichica e svilupparsi in quanto umani in una società umana. Una società nella quale l'integrazione sociale e le relazioni fra le persone siano basate su delle forme di cooperazione solidale - e non su una socializzazione asociale fatta attraverso il denaro ed il mercato - produrrà altre strutture psichiche ed altre forme di mediazione della questione psichica e sociale che attualmente non possiamo formulare attraverso dei concetti. Si piò solamente avanzare l'idea che l'esistenza individuale dovrà avere una relazione pronunciata con la comunità nella quale l'individuo deve ritrovare una vera solidarietà. Per dirla con le parole del manifesto del partito comunista, una società nella quale "il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti".
La produzione dell'umano sarà al centro di una "economia della felicità" (Bourdieau) che permetterebbe alle persone di svilupparsi, di scoprire e di far nascere quelle possibilità che la società di classe ha finora ostacolato. Ma ricordiamoci dell'avvertimento formulato dalla teoria critica che mette in guardia contro la volontà di definire con troppa esattezza l'emancipazione, e finiamo quindi con una definizione negativa: l'uomo moderno non è limitato da niente, non è legato a niente, è senza tradizioni, senza scrupoli, retto dall'opportunismo, alla ricerca permanente dei frutti dei suoi vantaggi personali e della crescita delle quotazioni in borsa del suo proprio ego. Questo "uomo flessibile" non rappresenta certamente l'ideale di un'umanità liberata.

- Götz Eisenberg  * - Apparso sulla rivista tedesca "Freitag" - Settembre 2011 -

Note:
(1)
- Concetto forgiato da Lloyd deMause, nato a Detroit nel 1931, e che è un pensatore sociale americano noto per i suoi lavori sulla psico-storia.
(2) - Autore e cineasta tedesco, nato nel 1940, noto soprattutto come uno dei principali protagonisti del movimento comunitario politico a Berlino, nel 1967/68.
(3) - Concetto sviluppato da Günther Anders, secondo il quale l'uomo non è più il soggetto della Storia, ed è stato rimpiazzato dagli oggetti.

(*) - Götz Eisenberg è uno psicologo in ambito carcerario nella prigione tedesca di Butzbach. Ha pubblicato diversi libri, in tedesco, sulla questione della crescita del numero di accessi di follia mortifera (amok) e del loro legame con l'evoluzione della società moderna.

fonte: Critique de la dissociation-valeur. Repenser une théorie critique du capitalisme

mercoledì 29 aprile 2015

Good bye, Capitalismo!

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Good bye, capitalismo! Bye, bye, dissociazione-valore, merce, lavoro, denaro, feticismo, mercato, Stato, politica, partito, economia, concorrenza, soggetto. Bye, bye, Obama, Xi Jinping, Merkel, Putin, Cameron, Hollande, Castro, Maduro, Netanyahu, Abu Bakr, Abbas, Dilma, Tsípras.
Addio? Il capitalismo ha superato la società pre-moderna. E' stato capace di superare tutte le sue crisi. E' andato oltre tutti gli ostacoli, anche quelli rivoluzionari. Nel corso di alcuni secoli, il capitalismo ha creato un mondo a sua immagine e somiglianza. Ha modellato le nostre menti di modo da essere considerato come eterno. Capitalismo e denaro - l'uno è l'anima dell'altro. E l'essere umano dimostra quotidianamente di non saper vivere senza denaro. Come si può parlare di addio al capitalismo?
Il capitalismo, grazie alla concorrenza, ha aumentato la produttività all'infinito. Ha finito così per causare una drastica riduzione del valore (che si esprime in denaro) e del plusvalore (che si esprime in profitto) in esso incluso. Si stanno azzerando. Ed ecco che la sovversione capitalista sta sconfiggendo il capitalismo stesso, sovvertendone tutti i fondamenti di moderno sistema patriarcale produttore di merci.
E' sorprendente! Ma, lo è molto di più sapere che questo comporta la sua autodistruzione. Ha tagliato il ramo su cui è seduto. Ha messo fine alla sua propria dinamica. E' stato in grado di mettere in funzione un meccanismo che, in un dato momento, lo ha ferito a morte. Non è stata nessuna contestazione sociale a causare tutto questo. Il collasso del capitalismo deriva dallo stesso capitalismo. Come non dire good bye, capitalismo?
Il fatto che il capitalismo sovverta le sue stesse basi nasce dall'auto-contraddizione del capitale nella sua logica fondamentale. Questi ci pone di fronte ad un limite interno oggettivo del capitale che è andato avanti segnalando così il suo limite interno assoluto.
Ma, vediamo: c'è una relazione esplicita fra lo sviluppo delle forze produttive e la svalorizzazione del valore.
Lo sviluppo permanente della produttività rende gradualmente superflua la forza lavoro. In questo modo, il dispendio di energia umana astratta viene ad essere sostituito dalle forze produttive della microelettronica. Appare, così, una contraddizione fondamentale in seno al soggetto automatico del feticcio del capitale e della sua dinamica storica. Diamo un'occhiata più da vicino ad una questione così decisiva.
Il fine in sé della ricchezza astratta - che è quello di trasformare denaro in più denaro (valorizzazione del valore) - si fonda unicamente ed esclusivamente sul dispendio sempre maggiore dell'energia del lavoro umano, che costituisce la sostanza del capitale. L'aumento e lo sviluppo costante delle forze produttive rende proprio tale sostanza sempre più superflua. Ritirandola dal processo produttivo, causa la svalorizzazione lenta, e alla fine drammatica, degli oggetti in quanto valori (merci).
Dopo tutto, lo scopo de capitale non è la soddisfazione delle necessità per mezzo della produzione di ricchezza concreta, bensì il fine in sé della valorizzazione, la produzione di ricchezza astratta.
Il contenuto materiale della produzione diventa incompatibile con la forma impostagli dal valore. Emerge qui la sovversione del modo di produzione capitalista. Quindi, una sovversione che minaccia il mondo - la sovversione capitalista. Risultato: il lavoro smette di essere la fonte principale di ricchezza. Il tempo di lavoro smette di esserne la sua misura. Ed il capitalismo salta in aria proprio perché è fondato sul valore.
Pertanto, il modo di produzione capitalista ha portato con sé tale tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive. Non "è stato attento" al valore ed al plusvalore. Questo gli è stato fatale.
In pieno XXI secolo, il capitalismo si rivela come un sistema suicida che trascina con sé l'umanità ed il pianeta verso il suicidio, l'ecocidio, in breve, verso la barbarie. Le sue categorie, ossia, le sue condizioni di esistenza e le sue forme di pensiero hanno cominciato a tentare di giustificare la regressione, ovvero, il declino della sua civiltà.
Ci sono voluti sette anni, dall'inizio della crisi globale del 2008. Oggi, il sistema monetario mondiale è sul punto di arrivare al suo collasso. Il limite interno assoluto del capitale è stato raggiunto. Questo limite non è più temporaneo, ma è il limite assoluto della logica di valorizzazione. E' l'annuncio della prospettiva della morte del capitalismo.
La prima avvisaglia di questo limite è stato il terremoto svalorativo dell'ottobre del 2008. Esso ha dimostrato che la continuità dell'economia di deficit era insostenibile. Ne ha evidenziato chiaramente la scadenza. La crisi ha proceduto speditamente verso la frontiera storica del sistema.
I sintomi sono numerosi. E vengono alla luce rompendo un secolare silenzio. Indicano che il naufragio del sistema si presenta come crisi delle relazioni patriarcali capitaliste, in particolare crisi delle relazioni fra i sessi (controllo dell'identità sessuale del sistema/il mondo maschile è finito), crisi ecologica (barriera naturale), crisi economica (frontiera economica), crisi della politica e degli stati nazionali (non funzionano più come istanze regolatrici), crisi della società del lavoro (estinzione del lavoro/disoccupazione) e crisi della soggettività (morte del soggetto).
La gestazione di questa crisi risale all'origine del sistema. Capitalismo è crisi. La sua prima apparizione significativa è stata nel 1929, dopo la prima guerra mondiale. E' avvenuta in un momento di espansione del sistema. E' stato possibile superarla. Si è presentata in vari paesi, dopo la seconda guerra mondiale, con profili diversi, data l'eterogeneità dello sviluppo capitalista. Era presente nel corso della Guerra Fredda. In Brasile, la si è vista nel suo svolgimento da Vargas, fino alla dittatura e alla Nova República. Ha attraversato i governi Sarney, Collor, Itamar, FHC e Lula. La crisi ha interessato vari paesi, in particolare alla fine del XX secolo, ed ha raggiunto dimensioni maggiori a partire dal 2008. Ed ora, scoppia in faccia a Dilma che rimane sorpresa e fa aumentare così il disorientamento generale.
La sua cronologia mostra tutte le false opzioni offerte dallo Stato e dal mercato, dal capitalismo e dal capitalismo di Stato. Ora, la festa è finita. E le risposte accumulate nel corso dell'espansione del capitalismo erano innocue. Questa crisi attuale è la crisi di esaurimento del sistema. La sua complessità esige una nuova teoria con una sua corrispondente prassi emancipatrice. La sua configurazione attuale dimostra che era tutto privo di senso.

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L'etimologia della parola crisi proviene dal vocabolario medico dell'antica Grecia. Indicava il culmine dell'evoluzione di una malattia. Non è mai stata utilizzata per spiegare i conflitti, nel contesto delle rappresentazioni personali esistenti, nelle condizioni agrarie e religiose premoderne. Sarebbe inaccettabile. In tali società, la trascendenza era concepibile solamente attraverso gli dei.
L'avvento dell'era moderna cambiò totalmente questa situazione. In questa nuova configurazione storica, la polemica fra la destra e la sinistra occupa in ruolo di primo piano. Attraverso tale controversia, la trascendenza si trasformò in immanenza alla forma capitalistica. In tale immanenza, la possibilità che la crisi potesse evolvere in un collasso del sistema venne rifiutata. Il collasso non venne interpretato come un accadimento involontario. Perciò, la sua comprensione ed il suo superamento vennero rimandati.
Per un lungo periodo storico, la destra ha difeso l'indifendibile e la sinistra non è mai stata sovversiva.
La destra, per dar vita alla logica suicida dello sviluppo, si è fondata sul mantenimento dell'ordine a qualsiasi costo. L'espressione politica del capitalismo poteva variare, ma mai contro il sistema.
La sinistra, per dar vita ad un nuovo ordine, si è fondata su un'idea di rivoluzione che non metteva in questione le basi del capitalismo. Ossia, ne manteneva le sue categorie fondanti, contribuendo così alla modernizzazione del sistema.
Sono stati del tutto inutili, pertanto, fascismo, nazismo, golpismo, persecuzioni, terrorismo, guerra, assassinii, censura, intolleranza, oppressione, sfruttamento, dominio, dittatura, neoliberismo, socialdemocrazia per mezzo del mercato... Sono anche stati del tutto inutili socialismo, bolscevismo, trotskismo, fochismo, anarchismo, maoismo, nazionalismo, democraticismo, keynesismo, neoliberismo, socialdemocrazia per mezzo dello Stato... Non sono serviti a niente. Ma hanno lasciato una scia di distruzione umana e naturale, di sofferenze e di terribili conseguenze per l'umanità.
Ma il fallimento della creatura è il fallimento del creatore. E questo scalfisce la nostra soggettività. Essa è rimasta sottomessa ad una servitù volontaria al servizio del soggetto automatico, ossia, al servizio del valore, del capitale con la sua valorizzazione del denaro che lascia un'altra scia di devastazione, di stagnazione, di decomposizione e di sacrifici inauditi per gli esseri umani e per la natura.
La nostra soggettività ha scoperto che la Terra non è il centro dell'universo, si è resa conto che la scimmia è un nostro parente, ha constatato che siamo manipolati dall'inconscio ed ha progredito nella comprensione secondo cui il modernismo, il postmodernismo, il rinascimento, l'illuminismo e i suoi Narcisi avevano come senso della vita una ragione che era fondata su una relazione sociale irrazionale, folle, assurda e oggettivata.
Cosa farà ora, scoprendo che la natura della crisi attuale è il risultato di una sovversione capitalista suicida che ci porta verso il precipizio?
Continueremo a zittire la ragione critica, di modo che questa follia assassina la faccia finita una volta per tutte con l'umanità e col pianeta?
Non è forse arrivato il momento di cantare l'essere umano e la sua emancipazione, anziché le merci e le loro passioni?
Di guardare la luna, e non il dito che la indica, come avvertivano i situazionisti?
Visto che le strade non sono tracciate, non è forse tempo di volare?
La nostra soggettività feticizzata ha impedito che potessimo vedere, in anticipo, che il capitalismo avrebbe involontariamente sovvertito la sua stessa sostanza. Comprendere questo è decisivo. Poiché il motivo più profondo della crisi è, allo stesso tempo, il motivo della stessa continuità di questa relazione sociale capitalistica. Un esempio importante proviene dalla contraddizione fra capitale sociale globale e capitale individuale.
Nella relazione di capitale in quanto capitale sociale globale, il valore prodotto dai capitali individuali si aggrega, alle spalle dei soggetti, nella massa globale di valore, per cui competono i diversi capitali individuali.
Quel che interessa ai capitalisti individuali, è l'utilizzo efficiente di tutti i componenti del loro capitale. Risparmiare tempo. Ottimizzare le risorse. Produrre sempre più merci facendo ricorso a sempre meno forza lavoro. Prendere tutte le precauzioni per non naufragare nella disputa commerciale sempre più agguerrita.
I capitalisti individuali, pertanto, sono portati a far fronte alle conseguenze dei loro processi produttivi e non danno il giusto peso alle conseguenze del processo globale del capitale. Non rivolgono la loro attenzione al capitale in quanto soggetto automatico di tutta la società. E non lo fanno perché la concorrenza li obbliga ad una tale visione parziale, in ragione del suo stesso contesto sociale condizionante. Quindi, i soggetti economici pensanti agiscono e sviluppano i propri calcoli sul piano dell'economia d'impresa del capitale individuale.
Si rende allora evidente una contraddizione tra la determinazione quantitativa del valore globale e quella del valore individuale. Al concetto di capitale ed alle sue categorie, sviluppate a partire da esso, corrisponde unicamente il capitale globale. Ma, su questo piano, non esiste alcun soggetto che svolga dei calcoli coscienti. L'oggettività autonomizzata obbedisce ad una logica costante e predominante.
Pertanto, il capitale è l'oggetto autonomizzato dalle azioni feticiste dei soggetti. In questa autonomizzazione si inverte il la rapporto ideologicamente supposto, poiché l'ideologia si presenta come coscienza necessariamente falsa. Non è l'oggetto ad essere lavorato dai soggetti. Al contrario: è proprio su questi "soggetti" che "lavora" l'oggetto. Perciò esso è il soggetto automatico ed i soggetti empirici sono gli oggetti. In quest'inversione, si collocano le basi della crisi. Alla fine, il soggetto automatico non pensa e non agisce in quanto essere pensante. Costituisce la forma cieca che si trova, a priori, alla base dell'azione umana. E' la forma di un movimento dinamico guidato dalla concorrenza universale.
Questo movimento può essere percepito soltanto dalla critica radicale della crisi del valore, che è la critica dell'insieme della società. è può essere valutato nelle sue dimensioni soltanto da tale critica radicale della dissociazione-valore.
Oggi, l'umanità si confronta con il risultato storico negativo della dinamica capitalista, con il totale svuotamento del valore e con anche l'esaurimento della produzione di plusvalore. La crisi non è un problema solo di mancanza della realizzazione del plusvalore realmente prodotto, ma di mancanza di produzione di plusvalore. Per il capitalismo, continuare ad esistere significa barbarie capitalista. Questo è diventato incompatibile con l'esistenza dell'umanità e della natura.

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Non si tratta di catastrofismo, ma di una conclusione realistica di fronte alle minacce prevedibili, ma di dimensioni imprevedibili, che si annunciano.
Dall'attuale situazione brasiliana, emerge una ricchezza immensa. Il Brasile vi è immerso. La crisi è arrivata, e la sua co-amministrazione si è rivelata tragica. I governanti si erano presentati come capaci di superarla. Sono rimasti attoniti. E gli elettori sorpresi. Si sono addormentati con un candidato. Si sono svegliati con un altro candidato. Ha fatto notte con un partito. Ha fatto giorno con un altro. Hanno gridato vittoria. Sono finiti sconfitti.
Dopo la sconfitta del progetto socialdemocratico per mezzo del mercato, abbiamo visto il progetto socialdemocratico attraverso lo Stato. Ma il doppio salto mortale sulla scena non è riuscito. L'essenza comune ai due progetti è venuta alla luce. Le apparenze non hanno ingannato quasi nessuno. Il cambio di rotta del governo ha colpito il suo elettorato. Ed il rifiuto si è manifestato rapidamente. Secondo i sondaggi, il 75% ritiene che il paese sia sulla strada sbagliata. La percentuale più alta proviene dai più poveri, dai meno scolarizzati e dai residenti nell'interno del paese e nel Nordest. Esprime lo stupore di fronte al fallimento dei modelli proposti nel tentativo di salvare il capitalismo. E che, con il collasso di questi, scompaiono nell'abisso. La crisi manda tutto in pezzi. Aggrapparsi con forza alle condizioni di vita capitalista non garantisce più alcuna sicurezza a nessuno.
Il Brasile non era pronto ad affrontare la crisi. La confusione è generale. Ad un presidenzialismo quasi senza potere, corrisponde un parlamentarismo senza rappresentatività. I poteri esecutivi, legislativi e giudiziari sono sospetti. La popolarità del governo è a terra. La sfiducia nei politici e nei loro partiti è alle stelle. I loro argomenti sono diventati inutili, ridicoli. Sostituire una politica con un'altra non risolve più niente. cambiare un modello con un altro si è dimostrato inutile. La natura procede verso la rovina. Arte e cultura sono degradate. Nell'assistenza sanitaria e nell'istruzione regna il caos. Nelle città si conduce una vita animalesca. Prodotti alimentari avvelenati. Incrementi fiscali. Aumento delle imposte. Recessione economica. Carestie sugli altopiani. Inflazione incontrollata. Ulteriore aumento della disoccupazione. Terziarizzazione. Diminuzione dei diritti. Festival della corruzione in tutto il paese. Co-amministrazione della barbarie. Istituzioni a brandelli. Autorità decrepite. Intolleranza a tutti i livelli. Violenza incontrollata. Vita vuota. Discriminazione a volontà. Insoddisfazione generalizzata. In questa situazione, le proposte di riforme politiche, di sinistra, di destra, di centro non arrivano al cuore della questione. Movimenti di strada senza prospettive perché non affrontano o sciolgono questo nodo.
Fino ad oggi, in Brasile, tutte le rivolte sono finite sottomesse alla forma capitalista. Ora sono crollati i presupposti per giustificarla. Se prima rendevano possibili i mezzi precari per vivere nel sistema, oggi la fonte si è prosciugata. Per pochi, il paradiso. Per molti, l'inferno. Se il sistema è in decomposizione, tutti i mezzi vengono messi in discussione. Il paradiso si sta già trasformando in inferno e ci si rende conto che è sempre più difficile uscirne. Forse cominciamo a renderci conto che non bastavano i mezzi senza una ragione per vivere. Alla fine, questi mezzi ci hanno condannato a morte. Ora cerchiamo delle ragioni che aprano la strada verso una buona vita. Affinché la rivolta non rimanga spontanea, impotente, disperata e senza orizzonti, abbiamo bisogno di una teoria e di una pratica non più sottomesse alla forma capitalistica. Per mezzo di esse riusciremo a comprendere tutta l'estensione e la profondità del terreno della nuova lotta e del suo nuovo obiettivo. Il mondo capitalista ha costituito una tappa passeggera nella storia dell'umanità. E la consanguineità, il totemismo, la proprietà del suolo e la dissociazione-valore hanno costituito un lungo periodo storico attraverso il quale l'essere umano si è strappato dalla natura, diventando un essere relativamente cosciente in relazione alla prima natura, ma non ancora in rapporto alla seconda natura, che è la sua propria connessione sociale creata da egli stesso. Tale connessione sociale, oggi, uccide la natura ed elimina lo stesso essere umano.
Con tutto questo, diventa evidente la risposta da dare alla reale dimensione della crisi, in Brasile e nel mondo, nel XXI secolo.
SI tratta di superare, non solo la storia capitalista, ma tutta la storia finora esistente. Non è solo l'era della Guerra Fredda ad essere giunta alla fine. E' arrivata alla fine anche la storia mondiale della modernizzazione. Non solo questa storia specificamente moderna, ma la storia mondiale delle relazioni feticistiche.
Good bye, capitalismo! Oggi possiamo dare l'addio a vossia e alla crisi del vostro limite, alla vostra logica ed al vostro soggetto con la sua macchina del fine in sé della valorizzazione, da cui è arrivata la distruzione dell'umanità e la devastazione della natura. Possiamo dare alle lotte immanenti, realizzate quotidianamente in Brasile e nel mondo, una vera dimensione di emancipazione, trasformandole in lotte trascendenti al sistema. Ora, iniziamo una nuova storia. Contiamo su un pensiero ed un'azione innovatori. Possiamo realizzare una rottura categoriale col capitalismo perché i nuovi orizzonti rendono possibile costruire l'anti-soggetto emancipatore. A partire da questo, è possibile dare ali all'intelligenza ed all'immaginazione per costruire una nuova vita, una nuova società, un nuovo rapporto sociale.
Se il nostro quotidiano è effettivamente un luogo di privazione, di banalità, di infelicità e di insicurezza, ciò non avviene a causa di un destino immutabile. E' il risultato di un ordine sociale obsoleto e che oggi ha collassato.
Una vera vita quotidiana può ora essere creata come opera e come storia cosciente e libera, nella misura in cui andiamo eliminando i ciechi meccanismi che hanno raggiunto la loro barriera storica e che, superati, aprono la prospettiva di emancipazione. La nostra vita quotidiana avrà a disposizione ricchezze nascoste per essere in grado d'ora in poi di contribuire ad una contestazione generalizzata del sistema.

Non ha più senso la nostra rassegnazione davanti alla crisi e alle catastrofi dettate dall'auto-movimento astratto del denaro.
Non ha più senso limitare la nostra soggettività teorica e pratica ad un'astuta strategia di sopravvivenza.
Non ha più senso continuare ad illudersi immaginando di superare la crisi senza una critica radicale in quanto trascendente al capitalismo.
Non ha più senso difendere un campo di manovra per giustificare ed accettare sacrifici. E' arrivato il momento di abolire tutti i sacrifici. Dopo tutto, il processo di modernizzazione è finito. E' diventato catastrofe, come lo si registra nella morte degli immigranti nel Mediterraneo e nelle stragi che avvengono nei vari angoli del pianeta.
Per far sì che la vita abbia senso, occorre una ragione sensibile che è esattamente il contrario della ragione astratta illuminista, borghese, patriarcale, feticista e suicida sostenuta attraverso la dissociazione-valore.
Perché la vita abbia senso, di fronte alle azioni collettive suicide su scala mondiale e nazionale, non c'è più da discutere di riforme isolate, incapaci di rendere possibile una prospettiva di emancipazione. Come, per esempio, le opzioni false e precarie, offerte dalle istituzioni o dall'opposizione (di sinistra o di destra).
Perché la vita abbia senso, non ha alcun senso ricorrere allo Stato contro il mercato o al mercato contro lo Stato. Il fallimento del mercato ed il fallimento dello Stato, del soggetto-cittadino e de soggetto-mercantile, diventano identici perché la forma di riproduzione sociale della modernità e della postmodernità ha perso completamente la sua capacità di funzionamento e di integrazione.
Per far sì che la vita abbia senso, bisogna dare origine ad un movimento di superamento, in quanto forza sociale, e questo è possibile solamente per mezzo della coscienza. La crisi è oggettiva. L'emancipazione, no! Tale oggettività non è ineluttabile e neppure naturale. Essa è una costruzione storica. In quanto tale, può essere criticata e superata. L'emancipazione è una conquista cosciente. Oppure non sarà mai emancipazione.
Vale qui la pena ricordare i preziosi contributi che provengono dalle esperienze che cominciano a dare inizio alla costruzione di nuove relazioni sociali, ambientali, culturali, ecc. non più basate sul denaro, sullo Stato e sul mercato. Hanno un valore inestimabile perché vanno oltre il sistema.
Nell'essere consapevoli e liberi di emanciparci, la vita comincerà ad essere piena di senso, e la trascendenza al capitalismo sarà caratterizzata dalla poesia del futuro.

MESSAGGIO DI CRITICA RADICALE
Fortaleza, 24 Aprile del 2015

fonte: CRÍTICA RADICAL

martedì 28 aprile 2015

Tanto peggio per la realtà!!!

postimperi

Post-Imperialismo
- Il nuovo volto del mondo e la vecchia visione della sinistra -
di Robert Kurz

1.
Quando avvengono delle modifiche nell'oggetto della critica, anche la critica stessa deve cambiare sé stessa. Se, all'inizio del XX secolo, la trasformazione del modo di produzione capitalista ha cambiato il sistema di riferimento dei conflitti sociali, portando ad un nuovo stadio (imperialismo, economia di guerra, taylorismo, ideologizzazione di massa, ecc.), e trasformando anche, in maniera controversa, il marxismo del movimento operaio fino allora vigente, allora forse la rottura di un'epoca, alla fine del XX secolo, esigeva una trasformazione ancora più ampia. E' controproducente, perciò, volersi "aggrappare" a dei modelli teorici supposti immutabili. Sarebbe necessario, invece, prendere sul serio, una volta per tutte, il cambiamento nel sistema di riferimento politico-economico.
Solo ora, passato il periodo di incubazione degli anni 1980, le nuove forze produttive post-fordiste della microelettronica ed i loro concetti correlati di razionalizzazione (descritti nel loro insieme, secondo il riferimento teorico scelto, come seconda o terza rivoluzione industriale) mostrano il loro vero potenziale di crisi: per la prima volta, la ricchezza materiale (anche ecologicamente distruttiva) viene prodotta innanzitutto dall'utilizzo tecnologico della scienza piuttosto che dal dispendio di lavoro umano astratto. Il capitale comincia a perdere la sua capacità di valorizzazione assoluta, e raggiunge così quello stadio, estrapolato logicamente da Marx, in cui la forma di socializzazione del sistema produttore di merci - che "si basa sul valore" - va a sbattere contro i propri limiti storici.
La crisi della forma merce viene, tuttavia, filtrata dal movimento del mercato mondiale, ossia, per mezzo della lotta globale per la quota decrescente di valore "valido"; lotta che rende possibile (e domina) le stesse forze produttive che sono responsabili della svalorizzazione della forza lavoro. I capitali più produttivi massacrano concorrenzialmente quei capitali che non possono più tenere il passo con l'alto livello di produttività, mobilitando a tal fine considerevoli somme di capitale fisso. I vecchi perdenti ed i nuovi ritardatari possono continuare la gara solo per mezzo di salari sempre più bassi (o perfino facendo uso di lavoro forzato o schiavistico), come avviene in alcuni settori orientati esclusivamente all'esportazione (come nel caso dell'Europa Orientale e del Sudest Asiatico). Tuttavia, con lo stabilirsi di un quadro globale di produttività, i bassi salari non posso produrre alcuna massa addizionale "valida" di valore, ma servono soltanto ad ampliare in maniera precaria la capacità di concorrenza all'interno del processo di contrazione della sostanza valore "valida". Si istituisce così, in quasi tutti i settori - sia attraverso investimenti di capitale, sia attraverso strutture di esportazione mantenute da bassi salari - una competizione repressiva a livello globale.
A prima vista, potrebbe sembrare che il processo di crisi si svolga a scaglioni, accompagnando la situazione di ciascuna economia nazionale, e lasciando per ultime le nazioni più forti dal punto di vista del capitale, capaci di sostenere per più tempo il processo di simulazione monetaria attraverso l'indebitamento di Stato e del sistema creditizio. Per prime soccomberebbero le economie del Terzo Mondo e del socialismo di Stato, che sono diventate un esempio di "modernizzazione tardiva" destinata fin dall'inizio al fallimento dentro l'orizzonte borghese. Negli anni 1990, però, la crisi sembra avanzare a grandi passi proprio in direzione delle economie nazionali stabilizzate.
Il limite del modo di produzione si esprime nella forma di costi di produzione continuamente in ascesa, e preme sempre più, senza il filtro delle delimitazioni nazionali, sui conti delle imprese. Fornitori e forza lavoro, così come i mercati dei consumatori, devono essere ottenuti direttamente a livello globale ed essere flessibilmente variabili secondo l'offerta di mercato.
I tassi di crescita apparentemente elevati del commercio mondiale non si basano più, in queste condizioni, su un'esportazione vecchio stile di capitali e di merci nazionali, ma sono innanzitutto frutto del progressivo smantellamento globale di quello che, fino ad allora, erano le economie interne. Un prodotto venduto da un'impresa "tedesca" sul mercato tedesco può essere prodotto in Inghilterra e ad Hong-Kong, assemblato nel sud della Cina e spedito in Polonia, in conformità al suo piano di costi. La produzione di cacciaviti delle fabbriche giapponesi appare negli Stati Uniti come esportazione dal Messico, o appare in Spagna come esportazione inglese. Lo stesso processo si ripete sul piano monetario. Esportazioni tedesche verso la Cina, provenienti in realtà da un'impresa francese, possono essere fatturate in Yen; crediti in marchi possono essere assunti negli Stati Uniti da un'impresa giapponese. Tutti i componenti del processo capitalista vagano per il mondo.

2.
Come conseguenza di questo sviluppo, si sbriciolano i legami fra la sfera dello Stato - ossia, la politica - e la riproduzione capitalistica. Lo Stato e la politica, ovviamente, non spariscono, ma si staccano dai loro propri fondamenti economici (dando luogo alla crisi della sfera politica). Nel mezzo della concorrenza repressiva globalizzata nasce la figura di un capitale che non viene più prodotto essenzialmente a partire dalla massa nazionale di plusvalore (creata dall'economia interna delle nazioni), ma soprattutto dalla distribuzione del plusvalore mondiale in contrazione, per mezzo di strutture globali di perdita e di guadagno, vincolate solo indirettamente alle vecchie economie nazionali. Su queste basi, non è più possibile nemmeno una "lotta di classe" nazionale, ed ancor meno è possibile, su questo piano, la difesa o la mobilitazione di interessi capitalisti coerenti. Lo Stato non è più il capitalista ideale che aveva a cuore e curava, a tempo pieno, lo stock di capitale nazionale, e poteva concentrare e rappresentare come un tutto la volontà capitalista. Nello stesso Occidente, lo Stato comincia a perdere il controllo sui processi sociali che riguardano la sua popolazione ed il suo territorio, e diventa dipendente di una "localizzazione privilegiata". Può garantire condizioni capitaliste di base soltanto in maniera limitata, nella misura in cui marginalizza una quota della sua popolazione che non è più passibile di finanziamento. Se, da una parte, vengono smantellate le strutture di produzione, forniture e servizi che erano durate per decenni, e vengono disconnesse intere regioni, che corrono il rischio di trasformarsi in deserti, dall'altra parte, il diffondersi di baraccopoli, la disseminazione della barbarie ed il dominio delle mafie, mette in scacco le funzioni dello Stato.
In una situazione come questa, di graduale dissoluzione della sua economia interna, lo Stato eroga solo aree di influenza e dominio imperiale. Quelli che erano i vantaggi fondamentali in una posizione di supremazia mondiale, cioè a dire, l'utilizzo garantito di determinate capacità della forza lavoro, delle materie prime e dei mercati dei consumatori, ora sono svantaggi. Le strutture fise diventano un fardello, poiché quel che oggi può essere a vantaggio di una determinata regione, domani può diventare uno svantaggio, e questo anche perché possono aprirsi possibilità più attraenti in materia di costi ed in una regione del mondo completamente diversa. Gli investimenti necessitano di essere fluidi, flessibili e facilmente dislocabili e devono, inoltre, concorrere per i migliori interessi sui mercati finanziari globali. In linea di principio, tutti devono essere presenti dappertutto, ed essere capaci di sparire di nuovo al momento giusto. Sotto tali condizioni, un impero nazionale o multinazionale appare come qualcosa di antidiluviano, i suoi costi di finanziamento oltrepassano di molto i suoi rendimenti e minacciano di diventare rovinosi.
Il protezionismo statale non può fermare questo sviluppo nel suo complesso, ma, al contrario, diventa anch'esso selvaggio, in funzione di accordi definiti a livello globale (GATT), e assume l'aspetto di una fitta jungla, bilaterale e multilaterale, dove vengono gradualmente eliminati gli obblighi di protezioni per le industrie "nazionali" che ne hanno bisogno. In queste condizioni, non sembra probabile neppure la divisione del mondo in solo tre grandi blocchi di potere (l'Est asiatico sotto la guida del Giappone; le Americhe sotto la guida dell'USA; e l'Europa e l'Eurasia, sotto la guida di una coalizione centro-europea). Dal momento che le stesse strutture di potere continentale perderanno la loro efficacia a vantaggio dei grandi circuiti, a causa del deficit, dei flussi unilaterali di esportazione e degli investimenti diversificati globalmente. Tutto l'Est asiatico esporta nel resto del mondo, senza importare in maniera corrispondente, cosa che, già di per sé, impedisce la formazione di uno spazio economico autonomo. Gli investimenti giapponesi si trovano spalmati per il mondo intero e gli Stati Uniti si vedono non solo più dipendenti che mai dal mercato mondiale, ma dipendono di molto anche dai settori apparentemente autarchici della loro gigantesca economia interna, dall'acquisto dei loro titoli di Stato da parte del capitale speculativo e dai fondi pensione giapponesi. Anche la Repubblica Federale Tedesca può finanziare il suo improduttivo nutrimento della Germania Orientale solo con l'afflusso di capitale monetario americano e giapponese. La bancarotta imminente del girotondo deficitario e del sistema monetario europeo da impulso alle forze centrifughe e rende effettivamente impossibile la formazione di un blocco continentale autonomo. Le nuove crisi serviranno soltanto a rafforzare ancora di più questo potenziale di diversificazione fuggiasco e globale. I nomi nazionali del capitale finiscono per non essere altro che il manto di una riproduzione globalmente dispersa ed in fase di dissoluzione.

3.
Aggrappandosi ai suoi vecchi punti di vista, la sinistra interpreta in maniera del tutto equivocata la situazione effettiva e, con questo, classifica come dimostrazioni di forza imperialista delle nazioni i fenomeni dei blocchi economici che, in realtà, contraddistinguono le opposizioni post-imperialiste nel mezzo del processo di crisi. La politica statale di blocco contro i rifugiati della povertà, per esempio, non può in alcun modo essere elencata fra gli interessi capitalistici che, al contrario, dall'immigrazione si aspettano di poter rafforzare il dumping sociale e di attenuare la pressione dei costi d'impresa. Inversamente, la modifica dei diritti di asili non può essere spiegata come una "conquista" capitalista dei paesi dell'Est, poiché essa nasce innanzitutto dalla speranza illusoria di edificare una "fortezza europea", capace di far fronte alle economie in disgregazione. I prestiti statali della CEI, a loro volta, non rappresentano una sorta di linea di fronte del capitale occidentale per creare insediamenti commerciali, ma piuttosto ne prendono il posto (a causa del timore di evasioni incontrollate) e si perdono nelle tasche della mafia, poiché non esiste alcun progetto redditizio su larga scala, ad eccezione di alcune joint venture mantenuta al prezzo di bassi salari.
Tanto meno si può mettere nello stesso sacco il nuovo radicalismo di destra e le azioni delle forze di pace tedesche nelle regioni di guerra civile. C'è dell'ironia nel fatto che la maggioranza dei nuovi radicali di destra, ad esempio la sinistra antimperialista, sia rigidamente contro il versare "sangue tedesco" in territorio straniero. Questo corrisponde all'ideale illusorio del blocco e dell'isolamento del neonazionalismo in generale, che continua a soggiogare "l'altro", ma per tenerlo "fuori dalle proprie frontiere". Anche per l'organo di destra, "Junge Freiheit", in un futuro geopolitico, sarà difficile protestare contro il diffuso "pacifismo da fuori", e, nonostante la protesta, non potrà più riferire la sua strategia ad obiettivi ed interessi imperiali obsoleti, dovendosi accontentare di prevedere una "diga contro il caos".
Da parte sua, l'azione dei baschi azzurri (considerando o meno la partecipazione tedesca) non può nemmeno più essere vista nel quadro degli interessi di gestione di risorse specifiche, né tantomeno nella linea della "pura" dimostrazione di forza. Se la gestione di isole di produttività, bassi salari e strutture bancarie isolate e flessibilmente allargate, non implica più una delimitazione delle zone specifiche di influenza, con la crisi della funzione politica e del carattere statale, è diventato obsoleto anche il controllo da parte degli Stati "sovrani" più potenti su quelli meno potenti. Ora perché ci sia un rapporto in generale fra "sovrani", bisogna che uno di essi si mantenga come tale. Tuttavia, con il tracollo del potere statale e lo stabilirsi di un'economia recessiva, quello che si vede in Caucaso, in Somalia e in Jugoslavia è l'impero dei clan, dei signori della guerra, delle bande e delle mafie. Un tale stato di cose comincia a diffondersi dappertutto e, assieme al controllo imperiale sul dominio politico vigente altrove, porta ad una situazione assurda.
Per tale motivo, è del tutto incerta la definizione strategica delle discusse azioni dell'ONU. L'incipiente barbarie post-imperialista fa sì che le vecchie "potenze" competano non più per la responsabilità, ma per l'irresponsabilità a fronte del numero crescente di regioni "post-politiche" devastate. In tali regioni, non si promuovono più guerre rappresentative vecchio stile, e neppure una rinnovata costellazione di concorrenza imperialista, ma piuttosto si vede l'infiammazione interna mediata dal processo globale di crisi. In questo contesto, è possibile criticare con ugual diritto tanto l'intervento quanto il non intervento. Il regime di Saddam Hussein non è stato costretto alla capitolazione, così come non sono state disarmate le milizie in Somalia, né tanto meno la Bosnia verrà trasformata in un protettorato dell'ONU, come esigono i gruppo pacifisti locali contro tutti i partiti in guerra. Gli Stati post-imperialisti esitano poiché, a causa delle loro stesse crisi interne, che mettono in scacco la funzione della politica, devono non solo creare dei precedenti per la soppressione della "sovranità" statale (e non, come prima, soltanto la perdita di controllo imperiale esterni), ma devono anche istituzionalizzare una forma di responsabilità globale e non-statale nelle regioni disgregate, lasciate ai margini del mercato mondiale. E, tuttavia, come evitare un tale corso se la logica di questo stesso mercato deve d'ora in poi rimanere valida? In queste condizioni, tanto l'appoggio quanto il rifiuto senza limiti all'azione dell'ONU, diventa un'alternativa inaccettabile. Bisognerebbe innanzitutto sviluppare una pratica emancipatrice correlata alla nuova costellazione mondiale, capace di formulare una posizione propria e senza pregiudizi. Tale prospettiva non può essere ottenuta a partire da un'ottica immanente all'orizzonte politico attuale, soggetta a lasciarsi imporre nuovi obblighi decisionali - falsi e controproducenti - nel vicolo cieco della socializzazione capitalista mondiale.

4.
La vecchia sinistra antimperialista soccombe perché il suo proprio pensiero rimane legato alla forma merce e alla forma politica borghese e, quindi, non è in gradi di reagire alla barriera storica del sistema produttore di merci. Se l'ex-sinistra realista (con cui la sinistra radicale condivide la fede nell'eterna capacità di accumulazione del capitale), illusa dalla democrazia del mercato, si limita ad invertire le sue vecchie psicosi e a diffondere una sorta di colonialismo dotato di diritti umani del tutto chimerico, il vecchio antimperialismo, centrato sulla lotta di classe, si trova senza oggetto. La mobilitazione degli "interessi della classe operaia", ripetitivi ed orientati ad uno spazio di riferimento nazionale, si demoralizza priva com'è di una riflessione critica circa la forma merce, ossia, senza una riflessione sulla forma monetaria inerente a questi interessi. Di fronte all'effettiva realtà, finisce anche per ridicolizzarsi definitivamente l'illusione borghese che vede lo Stato come portatore di una volontà generale libera - propria della sinistra radicale e identica all'illusione per cui un soggetto di mercato sarebbe capace di passare sopra le leggi cieche della produzione di merci e di ottenere potere di definizione su sé stesso.
Una stessa linea può tracciare lo sviluppo dell'illusione della volontà politicista - che ha come base la riproduzione della forma merce a partire dal "primato della politica" di Lenin, e passando per la teoria del "capitalismo organizzato", formulata da Kautsky e da Hilferding, e poi per lo "statalismo integrale" della teoria critica, per lo "Stato pianificato" degli operaisti (che credevano seriamente nell'eliminazione del feticcio della merce per mezzo della "volontà di potere"), per la "teoria della legittimazione" di Habermas, fino ad arrivare al "derivazionismo di Stato" del Gruppo Marxista tedesco e alle "teorie della regolamentazione" fordiste, dei socialisti di sinistra. Ora, proprio nel bel mezzo della sua crisi, il feticcio cieco del capitale passa in rassegna tutti i falsi concetti della sinistra sulla politica, lo Stato, la "sovranità" e la volontà, e questa, in tutte le sue rimanenti fazioni, reagisce apertamente con lo slogan: "tanto peggio per la realtà".
I resti del vecchio radicalismo arrivano al punto di denunciare le previsioni di una imminente transizione verso la barbarie globale come "falsa certezza", dal momento che sono condizionati dal computo meccanico dei fenomeni di crisi del tutto contraddittori e contrapposti fra di loro - come l'unificazione tedesca, i cambiamenti nel diritto di asilo, il nuovo radicalismi di destra e le azioni dell'ONU visti come "rinascimento dell'imperialismo nazionalista tedesco". I naufraghi critici della società sono in tal modo rovinati dalla politica e rincretiniti dall'agitazione, che fa loro sembrare insano il tentativo di analizzare una rivoluzione industriale (quella della microelettronica), facendo uso di concetti teorici di crisi. Essi dichiarano superflua tanto una definizione dell'epoca, quanto una nuova storicizzazione dello sviluppo interno del capitalismo, poiché questo, concepito secondo concetti scolastici, non ha mai smesso di essere il male assoluto, immutabile (o forse perché tutto era tanto bello nel feudalesimo?). Non hanno nemmeno il coraggio di accusare di "oggettivismo", per l'appunto, l'analisi e la critica delle strutture (in realtà) oggettivate, perché da sempre hanno operato per mezzo di concetti borghesi irriflessi del soggetto e della volontà. Non sorprende, quindi, che la domanda di una soppressione della forma merce e della forma politica, allo stadio attuale di crisi del sistema mondiale pienamente sviluppato, dev'essere formulata in maniera molto diversa che nel passato - visto sia come riformismo che come fondamentalismo.
In un punto, però, la sinistra radicale è di fatto insuperabile: pur senza aver coscienza del fatto, essa stessa esprime, in maniera unica, la crisi della politica; le sue correnti si relazionano fra di loro in modo talmente isterico che i suoi leader ed i suoi divulgatori si smascherano gli uni con gli altri in quanto tedeschi nazionalisti, contro-rivoluzionari, razzisti ed antisemiti. Una forma naturale di auto-sterminio? Bene, ma questo significherebbe ricadere nel biologismo.

- Robert Kurz - [tratto dal libro di Robert Kurz - "Der Letze macht das Licht aus" (L'ultimo spenga la luce) 1993 ]

fonte: EXIT!

lunedì 27 aprile 2015

La realtà irreale

dick

L'economia politica della simulazione
- La realtà dell'apparenza e l'apparenza della realtà alla fine della modernità -
di Robert Kurz

In che misura la realtà è reale? Questa la domanda posta dal costruttivismo (Paul Watzlawick) alla coscienza sociale. Da tempo, nell'ambito della finzione scientifica, è diventato popolare il dubbio circa la realtà dell'esistenza soggettiva, ad esempio nei romanzi del nordamericano Philip K. Dick e del polacco Stanislaw Lem. Forse giacciamo in una stanza, clinicamente morti, e il nostro cervello viene manipolato per mezzo di stimoli elettronici che simulano la vita e l'esperienza? Oppure siamo sotto l'effetto di droghe che ci fanno vedere un mondo riempito di vita, quando in realtà ci troviamo rannicchiati in un fetido angolo? L'inquietante sensazione per cui la realtà potrebbe venire interrotta in qualsiasi momento, come se qualcuno staccasse la spina, è penetrata apertamente perfino nella coscienza di tutti i giorni.
La rivoluzione microelettronica ed i nuovi media hanno rafforzato una tendenza sociale che rimuove il confine fra esistenza e apparenza, fra realtà e simulazione. Qualè il significato e qual è il significante? E' ancora possibile tracciare questa differenza? Forse la guerra del Golfo, come suppongono alcuni teorici dei media, è avvenuta solamente sugli schermi televisivi. C'è chi considera la possibilità di far giocare le partite di calcio in degli stadi vuoti, trasformandole così in puri eventi televisivi. La stessa politica si è da tempo trasformata in un teatro della simulazione. Pornostar, idoli sportivi e attori del cinema condividono i seggi parlamentari con famosi criminali. Nelle democrazie, non  è più la propaganda della competenza a determinare i risultati delle elezioni, ma il personality show di maschere sorridenti.
La perfetta evasione dalla realtà concreta alla ricerca di un rifugio nella "realtà virtuale", sembra emergere all'orizzonte del tecnicamente possibile. Di fatto, esistono persone che quasi scompaiono dietro i loro computer. I media crescono non solo quantitativamente, ma assumono anche qualitativamente il potere sulla coscienza umana. Quanto meno gli uomini comunicano fra di loro, tanto più è lo spazio che viene occupato dagli schermi televisivi. Dal cinema tridimensionale alle fantasie cybersex che promettono la macchina definitiva per l'auto-soddisfazione. La finitezza del mondo concreto, che impone dei limiti alla crescita senza ostacoli dell'economia e del consumo, dev'essere superata per mezzo degli spazi virtuali. Parallelamente a questo, l'anima viene poco a poco trasmessa alla macchina. Ascensori assassini ed insurrezioni di robot, sono le fantasmagorie che popolano la letteratura fantastica. L'uomo fa di sé stesso qualcosa di superfluo e così diventa nient'altro che un prodotto simulato dai media.
Negli anni 1980, la coscienza simulatrice si è diffusa in ambito professionale ed ha raggiunto la struttura della società. Gli yuppies, essi stessi un prodotto dei media, cominciarono a simulare i criteri capitalistici di efficienza e successo, anziché compierli effettivamente. Quanto maggiori gli investimenti in tecnologia avanzata e quanto maggiore la razionalizzazione della produzione e dei servizi, tanto minore il rendimento del sistema. Come se il pasticcio del socialismo avesse contaminato il capitalismo. Tutti fingono professionalità, producono porcherie e di solito dicono: "Chiediamo la vostra comprensione". Non essere più capaci di concentrarsi su niente è quasi una cosa chic: "Sono tutti artisti" (Joseph Beuys); pittori incapaci di dipingere, cantanti incapaci di cantare e scrittori incapaci di scrivere. "Ciascuno ha i suoi cinque minuti di fama" (Andy Warhol). Il rispetto per la propria individualità si riduce all'abbigliamento. Giovani di ambo i sessi, immersi nella simulazione, considerano sé stessi come dei manichini ambulanti: sei quello che indossi.
Non è stata solo la rivoluzione tecnologica dei nuovi media ad aver portato, alla fine del XX secolo, ad una deplorevole cultura di "falsa autenticità" o di "autentica falsità". In una società in cui l'economia è alla base di tutto, la coscienza simulatrice deve avere anche un fondamento economico. Ma in cosa consiste la "economia politica della simulazione"? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo conoscere esattamente che cosa nell'economia capitalista non più in grado di figurare come "reale", e per tale motivo dev'essere simulato. Il problema appare risiedere nella relazione fra il lavoro, cioè, lavoro pagato per la produzione di merci, e il denaro. "Lavoro", in questo senso, significa il consumo di energia umana astratta. Il processo economico moderno può essere definito come l'inesauribile trasformazione di questo lavoro in denaro: l'energia umana che si manifesta nella società costituisce la sostanza del denaro. Tutto il denaro che rispecchia un lavoro precedente è denaro senza sostanza, e per questo simulato.
Karl Marx viene considerato oggigiorno come il grande sconfitto della teoria della storia. Ma, al di là dei vecchi conflitti ed interpretazioni, la sua teoria sul capitalismo ha ancora molto da dire. Il terzo volume de "Il Capitale" è sorprendentemente moderno, in quanto in esso incontriamo i fondamenti teorici dell'attuale "economia politica della simulazione". In tale contesto, il concetto di base è quello del capitale fittizio. Marx distingue due forme, o due pilastri, di questo capitale fittizio: il debito governativo e la speculazione. In entrambi i casi, non vi è alcuna trasformazione reale del lavoro produttivo in denaro, bensì viene simulato l'accrescimento del denaro.
Il debito de governo è un paradosso economico. Di fatto, nel sistema dell'economia di mercato, il debito serve solamente a finanziare la produzione ai fini del mercato. Le spese di Stato non rappresentano, però, alcuna produzione, ma soltanto il consumo sociale. Perciò, l'unica fonte delle finanze governative, davvero sensata e coerente con il sistema, è la tassazione dei guadagni e dei salari: lo Stato ritira l'eccedente monetario delle entrate del mercato al fine di poter finanziare il consumo sociale. Quando, a sua volta, lo Stato finanza sé stesso, per mezzo dei crediti, si vede costretto al pagamento di interessi. Normalmente, però, lo Stato non svolge alcuna attività produttiva per il mercato e, perciò, è del tutto incapace di ottenere fondi per il pagamento degli interessi. Il paradosso risiede nel fatto per cui, sotto la forma di debito governativo, un'attività economica viene trattata, in maniera simulata, come produzione, sebbene in realtà si tratti di consumo sociale. Lo Stato riesce a risolvere soltanto in modo insoddisfacente una simile contraddizione logica, impegnando i suoi ricavi futuri provenienti dalle imposte. Detto in altre parole, la società capitalizza il lavoro futuro. Il consumo sociale del presente, imprescindibile per il sistema, avviene a spese del futuro; lo Stato moderno diventa un vampiro che succhia il suo proprio futuro. Perché, allora, gli Stati approverebbero questo finanziamento sempre più insensato?
La ragione perché questo avviene, non risiede né nelle "rivendicazioni sociali esagerate", né nelle "false idee socialiste", come affermano gli ideologhi del neoliberismo, ma si trova nello sviluppo stesso del capitalismo che ha portato alla crescita improduttiva, in termini capitalistici, del consumo statale. Quanto più il sistema di mercato si è imposto storicamente e quanto più la concorrenza ha forzato l'impiego della scienza e della tecnologia, tanto maggiori sono stati i "costi operazionali" improduttivi dell'economia di mercato, evidenziati nella forma del consumo statale. Fra questi, i costi militari occupano un posto di rilievo. Già, nella prima guerra mondiale, la macchina industrializzata di morte ha potuto essere finanziata solamente per mezzo di ingenti investimenti statali. Una tale crescita dei costi per il consumo sociale improduttivo, continua fino ad oggi, e include i compiti civili dello Stato. Se questi oggi volesse finanziarie per mezzo delle imposte tutti i costi che si sono resi necessari per la sua attività, rovinerebbe fatalmente l'economia di mercato e distruggerebbe in tal modo la sua propria base. Ironicamente, si può dire che i "costi operazionali" della società, in un'economia di mercato, diventano talmente alti che essa, secondo i suoi propri criteri, non è più redditizia storicamente.
Per coprire una tale situazione, il sistema capitalista deve ricorrere alla simulazione monetaria e, per mezzo del crescente capitale fittizio del credito governativo, dissanguare il suo immaginario futuro capitalistico. Un simile procedimento di simulazione appare praticabile in quanto l'economia di mercato ha dato prova di essere affidabile ed ha assicurato la sua crescita per mezzo di un vero e proprio consumo di energia umana sotto forma di lavoro. Fino al secondo terzo del XX secolo, il debito statale è cresciuto di pari passo con il lavoro produttivo nelle industrie, cosa che ha consentito allo Stato di raccogliere più imposte reali e pagare così i suoi debiti sempre maggiori. Le nuove industrie "fordiste", così denominate in omaggio all'imprenditore nordamericano Henry Ford, con la loro produzione in massa di automobili, di elettrodomestici, di oggetti elettronici, ecc, resero possibile, soltanto nella Germania del dopoguerra, la creazione di 10 milioni di nuovi posti di lavoro.
Ma l'incanto di questo "miracolo economico" venne rotto dalla rivoluzione microelettronica della fine degli anni 1970. La stessa tecnologia che ha prodotto su grande scala i nuovi media, ha sostituito il lavoro umano con i robot e con la razionalizzazione (produzione snella). E' chiaro che con questo, il lavoro produttivo, nel senso capitalista del termine, non è sparito del tutto, ma la crescita successiva di denaro ha smesso di corrispondere in maniera sufficiente alla crescita del lavoro. Dopo lo Stato, pertanto, anche la stessa economia di mercato è entrata in una fase di simulazione. Accanto al capitale fittizio del credito governativo, è sorto il capitale fittizio della speculazione commerciale. Una volta che l'espansione del lavoro produttivo ha smesso di essere redditizia, o è diventata troppo onerosa, i profitti hanno iniziato a fluire sempre più per mezzo della speculazione con azioni, immobili, cambio di valute, contratti a termine, ecc..
L'essenza dell'economia speculativa è di ottenere un aumento fittizio del valore senza che vi sia un supporto in alcun lavoro produttivo, affidandosi soltanto alla negoziazione di titoli di proprietà. Nel caso delle azioni, questo significa che lo stesso rendimento, per mezzo dei dividendi, ha acquisito un valore accessorio; l'aumento degli indici di Borsa è diventata la cosa più importante, a scapito di qualsiasi crescita dei profitti ottenuti sul mercato reale. Il decennio del 1980 ha visto nascere in tal modo un capitalismo da casinò di dimensioni globali, che dura fino ad oggi. E' ovvio che anche negli anni passati ci sono state fasi dominate dalla speculazione, ma queste non solo terminavano regolarmente con un crollo finanziario, dopo un breve periodo di tempo, ma sono anche sempre state seguite da un nuovo impulso nell'espansione del lavoro produttivo. AL giorno d'oggi, invece, avviene esattamente l'opposto. L'era del capitalismo da casinò si estende in maniera così poco naturale perché, grazie alla razionalizzazione, il lavoro economicamente produttivo continua a sciogliersi come neve al sole.
Il nuovo luogo comune economico definito come "jobless growth (crescita senza occupazione)", significa che la crescita del denaro è diventata senza sostanza ed è soltanto ed unicamente simulata per mezzo del debito, ed in maniera speculativa. Non solo lo Stato, ma anche il mercato, si trova ora costretto a dissanguare il suo futuro immaginario, e ad impegnare i suoi immaginari profitti futuri. L'economia e l'imprenditoria privata hanno la stessa quota di colpa che ha l'amministrazione statale. Soltanto negli Stati Uniti, il debito dello Stato arriva a 6.500 trilioni di dollari, sotto forma di prestiti statali e di titoli di Stato; i debiti privati, a loro volta, raggiungono i 10 trilioni di dollari, sotto forme di ipoteche, mutui, interessi sui prestiti, credito al consumo, ecc.. I costi di questi debiti assurdi non sono supportati dal lavoro produttivo, ma in gran parte dall'incremento speculativo delle attività finanziarie. Le grandi imprese ricevono profitti monumentali non più per il loro successo sul mercato reale, ma per le ingegnose manovre dei loro settori finanziari sul mercato speculativo del capitale fittizio.
I cosiddetti derivati finanziari, originariamente uno strumento di protezione contro il rischio nei negoziati con gli altri paesi, hanno subito paradossalmente una drastica trasformazione su un mercato speculativo che oggi ha raggiunto, in ambito globale, l'approssimativo volume di 50 trilioni di dollari. Il capitalismo simula sé stesso. Il capitale fittizio del debito governativo ed il capitale fittizio della speculazione commerciale sono inestricabilmente legati, i debiti di un settore vengono "pagati" facendo debiti in un altro settore, e la crescita simulata alimenta la simulazione stessa. L'indice Dow Jones, il termometro della Borsa di New York, che attualmente arriva a 4.700 punti, in una valutazione realistica non arriverebbe neanche a 1.000 punti.
In un bilancio reale, senza valori fittizi, tutti i paese del mondo sarebbero testimoni di un collasso delle loro imprese più importanti. Partiti politici, provincie, amministrazioni comunali ed istituzioni culturali usano il loro denaro sul mercato finanziario, cosa che li rende dipendenti dalla creazione simulata di moneta. Il crollo di quest'edificio globale appare inevitabile. La svalorizzazione della moneta senza sostanza può avvenire sia attraverso l'inflazione che la deflazione; in futuro, è possibile che l'inflazione e la deflazione corrano perfino parallelamente in diversi settori: Numerosi indizi ci rivelano l'immanenza dello shock di una svalorizzazione mondiale. Diversi paesi del Terzo Mondo e dell'Est europeo attraversano già cicli di iperinflazione, le cui percentuali variano fra 100 (Turchia) ed 1 milione (ex-Jugoslavia). Questo non era mai successo in tempo di pace. In Occidente, si moltiplicano i fallimenti di imprese industriali ed immobiliari. Un numero sempre più alto di banche, casse di risparmio e compagnie di assicurazione falliscono, come il Banco Baring di Londra, portato alla rovina da un broker ventinovenne. La crisi del sistema monetario mondiale indica anche che la creazione di denaro senza sostanza ha raggiunto il suo limite.
Una cosa è certa: i moderni uomini del denaro, di tutte le classi sociali, non vogliono ammettere che, alla lunga, un'economia totalmente del denaro è un'impossibilità logica e pratica. Nonostante questo, la strana "cultura della simulazione" ci permette di supporre che la realtà capitalista è divenuta irreale. Forse l'indizio più evidente della fine di questa realtà dell'apparenza sta nel fatto che certi uomini non la prendono più sul serio e non sanno nemmeno se esista ancora realmente.

- Robert Kurz - ( Pubblicato su "Folha de São Paulo" del 03.09.1995 col titolo "A realidade irreal " ) -

fonte: EXIT!

domenica 26 aprile 2015

Forme transitorie di annichilimento

imperialismo

'One World' ed il nazionalismo terziario
- Perché il mercato mondiale totalizzato non può impedire la barbarie etnica? -
di Robert Kurz

Senza ombra di dubbio, l'attuale quadro del mondo è definito da due fenomeni ugualmente reali che sembrano, tuttavia, escludersi reciprocamente dal punto di vista logico. Se, da una parte, il moderno sistema di mercato ha raggiunto il suo "obiettivo" ed ha prodotto una rete sociale la cui trama abbraccia senza eccezioni la Terra intera, dall'altra parte, questo One World sembra smentire sé stesso, in quanto, proprio nell'istante della sua consolidazione, un'ondata mai vista prima di nazionalismo, separatismo e guerre civili sommerge il globo. Nei salotti tedeschi, nelle baraccopoli africane e persino fra gli indios delle foreste tropicali, identiche radio di fabbricazione giapponese trasmettono monotonamente la medesima musica pop internazionalizzata e le immagini trasmesse via satellite mostrano, per la prima volta, l'unità del mondo umano, realizzata a partire da quella sognata prospettiva "divina", capace di comprendere in sé tutta la sfera terrestre come una totalità immediata. Ma forse, nonostante tutto questo, sulla soglia del XXI secolo, dovremo essere testimoni di un'epoca di "nazionalizzazione delle masse" (George L.Mosse)?
Qualcosa dev'essere andato storto dal momento che i nostri antenati storici sembrano emergere dalle loro tombe. L'era borghese, che ha prodotto la nazione propriamente detta, è stata sempre essenzialmente economicista, e questo enigma forse può essere risolto a partire dal processo di socializzazione di mercato.
Il sistema produttore di merci, che si è sviluppato a partire dal corpo della società feudale e, alla fine, l'ha distrutto, era in germe, fin dall'inizio, un sistema mondiale. Indifferente a qualsiasi contenuto, la logica della valorizzazione del denaro non conosce alcuna lealtà che la possa limitare. Tuttavia, nel suo processo di formazione, l'ordito della ragnatela del mercato mondiale era ancora debole per poter diventare lo spazio funzionale immediato dell'emergente economia mondiale. Così, quella struttura misteriosa che dava forma alla nazione, prodotta a partire da diversi e disparati elementi - come la lingua, la geografia, le tradizioni culturali e giuridiche e le vie di trasporto - fu ciò che per la prima volta allargò il ristretto orizzonte del campanile feudale, fondando, in quanto spazio sociale e storico iniziale dei sistemi di mercato, una forma nuova ed impersonale di lealtà.
La consacrazione della bandiera delle nazioni si contrapponeva, però, alla ragione illuminista del mondo, che nel XVIII secolo aveva già coniato il concetto enfatico di cosmopolitismo, che teneva immediatamente conto del senso segreto della logica di mercato senza frontiere. E' per questo motivo che Kant e Fichte cercavano ancora di derivare la propria forma particolare di nazione dai principi universali della ragione, conciliando così la contraddizione evidente. Lo Stato nazionale, in quanto "Stato della ragione" avrebbe dovuto continuare come "stato di mercato chiuso in sé stesso" (Fichte) e, contemporaneamente, portare alla "pace perpetua" (Kant), ratificando così i principi universali della ragione. Tuttavia, per lungo tempo la logica cieca della concorrenza, inerente al sistema di mercato, aveva permesso solo un progresso della forma universale della merce nel quadro di una lotta sanguinosa delle nazioni emergenti in lotta per il predominio regionale o globale. Questa lotta segnò tutto il XIX secolo e la prima metà del XX. In quell'epoca, il mercato mondiale propriamente detto rimase una sfera secondaria e subordinata alle economie nazionali, coperto da forme militari e politiche di auto-affermazione reciproca delle stesse forme.
Già con le lotte di liberazione contro Napoleone, l'astratta ragione illuminista, che non aveva mai avuto una visione dell'umanità come un tutto, aveva attratto le nuvole nere dell'irrazionalismo sull'auto-legittimazione nazionale. Quanto più le giovani nazioni ed i movimenti nazionali emergenti si proiettavano anacronisticamente nel passato,, e cominciavano a rivendicare per sé tradizioni trasfigurate storicamente , quanto meno erano adatti a concepire sé stessi come fenomeno storico, tanto più diventavano ideologici, quasi al punto di diventare delle costanti antropologiche. La formazione nazionale non era più fondata sui principi universali della ragione, ma, sempre più, su basi "etniciste", razziste e biologiche. Come se questo non bastasse, il darwinismo sociale aveva fornito al principio della concorrenza del sistema produttore di merci una pretesa base naturale. Nascevano così quelle letali ideologie di legittimazione di epoca imperialista, che sarebbero sfociate in maniera catastrofica nelle due guerre mondiali e nell'olocausto fascista. Nella lotta per le zone di influenza e di supremazia mondiale, le economie nazionali che avevano rotto le loro vecchie cuciture cercavano irrazionalmente di innalzarsi ad "economie nazionali di portata mondiale" - grandi aree economiche sotto controllo nazionale - una contraddizione in termini.
L'epoca imperialista veniva lasciata alle spalle soltanto con la Pax Americana del dopoguerra, per quanto paradossale questo possa sembrare allo "antimperialismo" di sinistra. E' vero che gli Stati Uniti avevano a cuore i principi universali della ragione occidentale, da molto tempo ribassati al loro banale nucleo mercatologico del "fare soldi", ma con questo non avevano altre mire se non quelle della propria gloria e del proprio potere, che alla fine della Seconda guerra mondiale risplendeva in maniera seducente a partire da Fort Knox (dov'era ammucchiato, nel 1945, circa l'80% delle riserve auree globali). Tuttavia, l'americanizzazione del mondo non era più un imperialismo vecchio stile, ma soltanto garanzia dell'osservanza delle regole concorrenziali e di mercato del suo paradigmatico sistema di merci, che si era liberato delle scorie europee del XIX secolo.
La ragione kantiana del mondo poteva apparire un po' volgare nella sua incarnazione yankee, ma è solamente in questa forma che essa ha potuto di fatto scendere sulla Terra. A dispetto di tutte le contese della Guerra Fredda, sotto il tetto dell'americanizzazione globale, è stato possibile un boom fordista senza uguali ed una serie di miracoli economici. Priva di ostacoli, e non più sotto il giogo del "primato della politica" che aveva caratterizzato il vecchi imperialismo, la concorrenza mondiale mise in moto forze produttive fino ad allora inconcepibili, sotto la forma della microelettronica, dei computer e dell'automazione. Su questa base tecno-scientifica nacquero mercati totalmente nuovi - subito globalizzati - che fecero gradualmente impallidire perfino l'involucro politico della Pax Americana. I processi di produzione divennero talmente sezionabili che in molti settori divenne possibile, per la prima volta, l'internazionalizzazione della stessa produzione di beni. Allo stesso tempo, i costi di comunicazione e di trasporto vennero abbassati a tal punto che finirono per coinvolgere anche le medie e le piccole imprese nell'internazionalizzazione. Con le grandi corporazioni multinazionali degli anni 70, il mercato mondiale si convertì in spazio funzionale immediato dei soggetti economici. Il sistema totale di produzione delle merci cominciò così a dissolvere le economie nazionali ormai invecchiate.
Questo processo di internazionalizzazione dell'economia di mercato fece sì che anche la critica tradizionale al capitalismo apparisse invecchiata. Il defunto "internazionalismo proletario" non era di fatto meno astratto della ragione borghese del mondo illuminista. Era, piuttosto, il suo legittimo discendente. Il movimento operaio marxista aveva seguito, in realtà, la stessa strada nazionaliste di quella società borghese che supponeva di combattere.
La socialdemocrazia occidentale è stata la prima a rivelare il suo carattere nazionale nel fuoco dello sviluppo alla fine del secolo, ed è questo carattere che oggi le conferisce, particolarmente in Germania, quell'inimitabile aria di rispettabilità guglielmina da museo. Successivamente, la modernizzazione tardiva dell'Est ha creato il "patriottismo sovietico" stalinista, che rimane bloccato dietro la cortina di ferro. Infine, il movimento anticolonialista nell'emisfero Sud ha prodotto quel nazionalismo liberatore che, per qualche tempo, invece di riflettere sul suo proprio stadio di socializzazione, ha nascosto sotto un manto romantico la gioventù ribelle d'Occidente.
In contrasto con queste figure decadenti della modernizzazione, che sono chiaramente rimaste legate al paradigma nazionalista del XIX secolo, oggi, il trionfo dell'internazionalizzazione e della globalizzazione capitalistica dell'economia di mercato pare essere completo. Tuttavia, questo trionfo lascia in bocca un gusto amaro. Gli Stati autarchici, limitati alla sfera nazionale, ed il nazionalismo liberatore dei paesi dell'Est e del Sud non è stato semplicemente il risultato delle ideologie diventate reazionarie, ma piuttosto il frutto della stessa pressione concorrenziale del mercato mondiale. Se, nel XIX secolo, il processo primario della nazionalizzazione occidentale doveva essere diretto principalmente contro le strutture feudali, la nazionalizzazione secondaria del XX secolo, tanto ad Est quanto a Sud, era il prodotto di un mondo modernizzato, costituito dagli Stati nazionali, e si dirigeva contro la supremazia delle nazioni occidentali.
Fino alla metà del secolo, o perfino anche dopo, questa lotta poteva ancora essere condotta nella stessa forma politica e militare nella quale erano stati combattuti i conflitti interni, per la supremazia, in Occidente. Il patriottismo sovietico dell'Est ed i movimenti di liberazione dei paesi dell'emisfero Sud si sovrapponevano alla concorrenza interna dell'Occidente, producendo nuove linee di conflitto globale che, ancora una volta, prolungavano artificialmente la vita utile di quel "primato della politica" che era già stato svuotato dalla globalizzazione economica dei mercati. Gli Stati pianificati, autarchici e sovvenzionati dalle economie nazionali secondarie (e ritardatarie), non si rendevano conto di lottare, sempre più, con armi del passato contro il nemico invisibile dell'internazionalizzazione economica del mercato.
Per quanto terribili e dittatoriali siano stati i regimi del Secondo e del Terzo Mondo, certamente hanno mantenuto quella che poteva essere chiamata dignità di auto-affermazione di fronte alla pressione occidentale per l'apertura del mercato - e questo non solo in nome degli interessi delle loro élite ciniche ed autoritarie. Era quindi prevedibile che questi paesi fossero forzatamente massacrati sul campo di battaglia della concorrenza globale aperta, quale che fosse l'ideologia leggittimatrice che li guidava. La globalizzazione microelettronica, in meno di un decennio, è riuscita a venire a capo di quello che le operazioni di polizia nordamericane non sono riusciti a fare in più di 30 anni di interventi militari; la cortina di ferro è caduta sotto la pressione dei deficit non più sostenibili sulla bilancia commerciale e nei flussi di capitale delle economie ritardatarie. Queste sono state aperte alla libera concorrenza, proprio perché per mezzo di questa fallissero. In quanto, senza poter arrivare ai livelli necessari di redditività, tali economie cadono fuori dalle relazioni globalizzate del mercato.
Il vecchio sogno dell'umanità può essere realizzato soltanto in maniera negativa e catastrofica. Il motivo di questo può essere trovato nella maniera rigidamente unilaterale con cui è stato formato l'One World. Il concetto illuminista di cosmopolitismo, nella sua natura cangiante, nascondeva il fatto che il cittadino dei sistemi di mercato è essenzialmente una figura schizofrenica, nella misura in cui si presenta sempre con una doppia funzione: da un lato, come homo oeconomicus e, dall'altro, come homo politicus. Il soggetto di mercato può sopravvivere solamente se possiede un alter-ego come soggetto-cittadino. Lo Stato moderno deve, non solo riunire i soggetti economici forgiati dalla forma merce e garantire loro uno statuto di persona giuridica, ma ha bisogno anche di impegnarli attivamente, e per il più tempo possibile, nel processo di mercato, oltre a regolare e distribuire il flusso monetario. In linea di principio, questo è coerente con il monetarismo di un Milton Friedman; Keynes, com'è noto, desiderava anche reprimere il commercio mondiale, in quanto riteneva che la sua teoria fosse attuabile soltanto nella cornice degli Stati nazionali.
Uno Stato mondiale, di fatto non può esistere. Ogni Stato è, secondo la sua propria natura, una forma particolare che deve rimanere delimitata da frontiere esterne. Oggi questo è vero più che mai, in quanto gli Stati cercano di esportare i costi operativi del sistema produttore di merci, sia dal punto di vista sociale che ecologico, attraverso le demarcazioni reciproche delle loro frontiere. E' per questo che lo stesso mondo occidentale degli Stati nazionali non si è disciolto in un'unità globale. Oggi più che mai, i grandi blocchi economici (CCE. EUA, Giappone) stabiliscono barriere reciproche sia fra di loro che nei confronti dei paesi storicamente ritardatari dell'Est e del Sud, mediante strutture di sovvenzione  attraverso conflitti commerciali permanenti. Inoltre, esistono reti sociali, infrastrutture costituite e tariffe di importazione solo nella sfera degli stati nazionali, ossia, in un mondo costituito da Stati, si può parlare di politiche distributive solo a determinati fini, come il servizio sanitario, la giustizia, la ricerca, l'istruzione, ecc..
Pertanto, ciò che costituisce l'One World, o ciò che propriamente è stato internazionalizzato e globalizzato, attiene unicamente ed esclusivamente alle forme economiche della circolazione del denaro e del mercato. Nella misura in cui, tuttavia, il livello di civiltà della modernità viene associato allo Stato, un tale modello è rimasto limitato agli Stati nazionali. o meglio, ai blocchi economici. Soltanto il "borghese" (il soggetto economico, o di mercato, puro) è diventato cittadino del mondo, mentre il "cittadino" (il soggetto statale o giuridico), che è limitato alla sfera nazionale degli Stati e della loro natura, non può globalizzarsi. La modernità deve essere, quindi, una prova del fuoco: la forma merce, essenzialmente illimitata, e lo Stato nazionale, essenzialmente particolare, non possono più vivere in armonia. La divisione globalizzata del lavoro e l'intercomunicazione del sistema di mercato vanno oltre le infrastrutture di base e le politiche distributive, limitate sul piano statale; il sistema finanziario ed il credito globalizzato - come i mercati degli eurodollari - sono al di là dei meccanismi di controllo delle banche centrali nazionali.
Tuttavia, il fatto per cui i costi operativi del sistema, tanto sociali quanto ecologici, possono essere distribuiti ed esternalizzati solo attraverso l'istanza particolarizzata dello Stato, fa sì che, in questo modo, il processo di mercato e monetario globalizzato produca catastrofi nazionali per i suoi sconfitti. Se nella dinamica interna di un'economia nazionale possono essere create strutture di compensazione, attraverso regolamentazioni statali - per quanto limitate ed insoddisfacenti siano - la sfera mondiale manca del tutto di un'istanza che svolga questo ruolo. Se esistono "problemi sociali" a livello nazionale, è possibile ricorrere ad organismi statali, con un grado maggiore o minore di sviluppo, ma nel processo di mercato globalizzato, uno Stato nazionale nel suo complesso diventa un "problema sociale", e perde così il terreno sotto i piedi. I mercati finanziari internazionali forniscono con sollecitudine accesso al capitale soltanto nelle condizioni di mercato, ossia, non funzionano, per loro essenza, come istanze sociali distributive a livello mondiale, ma semmai in funzione dell'importo degli interessi che devono ricevere. E' stato in questo modo che si è prodotta la crisi internazionale del debito, che cresce in maniera accelerata e si diffonde ogni giorno che passa. Gli Stati nazionali ed i blocchi economici, da parte loro, possono anch'essi fornire aiuti tecnici e monetari solo a partire dai propri interessi. Non esiste un'istanza giuridica mondiale; il tribunale internazionale di giustizia è soltanto una farsa, oltre ad essere disprezzato in maniera "sovrana" proprio dalla "superdemocrazia" nordamericana.
Perciò, il processo di globalizzazione dei mercati e del capitale semplicemente non disfa le vecchie economie nazionali, formando una maggiore unità, ma, al contrario, le soffoca in maniera sempre crescente. Se un'economia nazionale finisce sotto le ruote del mercato mondiale totalizzato, viene distrutta anche, a sua volta, la sua capacità interna di regolamentazione e distribuzione. Infatti, oggi, la quasi totalità degli Stati - inclusi i pretesi "vincitori" - è stata raggiunta dalla crisi generata dalla crepa che si è aperta fra i mercati globalizzati e la regolamentazione statale. La differenza attiene solamente al grado con cui si esternalizza.
Nelle economie in chiara disgregazione dell'emisfero Sud e dell'Est Europa, gli Stati nazionali hanno perso a tal punto la loro capacità di regolamentazione e di distribuzione, che la loro autorità statale soccombe insieme alla loro capacità di integrazione al mercato. Però, dalle rovine lasciate dal mercato mondiale, spunta il fungo velenoso di un nazionalismo terziario, che non ha più parentela alcuna con il nazionalismo europeo primario, del XIX secolo, né col nazionalismo liberatore secondario del XX secolo. Si tratta assai più di una "ondata di agitazione etnica (o parzialmente etnica)" (Eric J. Hobsbawn) che parla più del crollo delle economie nazionali, che del loro sorgere. In questo senso, non si tratta affatto di un nazionalismo in senso stretto. In quanto gli Stati nazionali del XIX e del XX secolo, nonostante tutte le ideologie leggittimatrici "etniciste e razziste", non erano in nessun modo basati sulla lealtà etnica. Al contrario, essa veniva lasciata alle spalle. Anche nel remoto e paradigmatico processo di nazionalizzazione europeo, le più diverse componenti etniche confluirono nella formazione nazionale. Fuori dall'Europa, in un modo o nell'altro, la maggior parte delle nazioni erano formazioni sintetiche, composte dalle più diverse tradizioni, e costituivano frequentemente delle nazioni multietniche.
Il nazionalismo  terziario è, quindi, uno pseudo-nazionalismo etnico che nuota controcorrente rispetto ai suoi predecessori: è un prodotto della disperazione che affligge le popolazioni delle economie in disgregazione del mercato mondiale totalizzato. La globalizzazione economicista dell'One World ed il nazionalismo terziario mantengono fra loro una relazione di implicazione reciproca. Laddove si rompono le strutture di regolamentazione statale e non può più essere distribuito niente, si rompe anche la struttura di lealtà. La Slovenia e la Croazia pensano di poter tornare ad essere competitive più facilmente, o persino ad essere accettate dalla Comunità Europea, liberandosi dalle regioni povere della Serbia e della Macedonia. Speranze ugualmente filantropiche sono nutrite dalle repubbliche baltiche, che desiderano slegarsi dal centro di distribuzione sovietica, e dagli azeri, che preferiscono competere per conto proprio sul mercato mondiale, vendendo il loro petrolio all'Occidente a prezzo speciale, invece che, per esempio, fornire riscaldamento agli uzbeki. E' chiaro che, inversamente, il separarsi a fronte delle strutture distributive assomiglia alla discordia nelle regioni della povertà relativa o assoluta, che, a loro volta, abbandonano del tutto la vecchia lealtà e si convertono in potenziali aree di violenza.
Pertanto, la guerra civile si trova già pre-programmata e, nella turbata situazione attuale, bisogna mettere mano ad un qualche costrutto capace di fondare un carattere comunitario di delimitazione ed esclusione. In assenza di altri parametri di riferimento, in molte regioni sono state mobilitate, così, accanto al fondamentalismo religioso del mondo islamico, lealtà etniche che si riteneva fossero superate da molto tempo, come reazione aggressiva alla disintegrazione del livello di civiltà. Si scava di nuovo nell'insieme di ingiustizie e conflitti, reali o immaginari, risalenti a Mosè. L'Occidente non riesce ad affrontare questo irrazionalismo ignorante. Non solo perché esso è nato proprio dallo scatenamento del sistema globale di mercato, ma anche perché lo stesso Occidente non se n'è mai liberato.
Anche in Italia, la "lega Lombarda" vuole liberarsi del Sud impoverito e sottosviluppato. Il mezzogiorno minaccia di uscire dalle frontiere italiane e diventare un concetto paradigmatico per le nuove zone di povertà in tutti i paesi dell'Occidente stesso. In Germania, brucia il conflitto fra "Ossis" e "Wessis" (N.d.T.: rispettivamente, gli ex-abitanti della Repubblica Democratica Tedesca e gli abitanti della Repubblica Federale Tedesca); negli Stati Uniti, è visibile una nuova linea di forze che oltrepassa il vecchio conflitto razziale fra neri e bianchi, contrapponendo ora anglosassoni e latini, mentre in Canada cresce il separatismo francofono. Non manca molto a ché anche gli svizzeri, uno contro l'altro, si dichiarino, rispettivamente, tedeschi, italiani, zingari o extraterrestri. In ogni parte del globo, il nuovo nazionalismo terziario mobilita opposizioni etniche o nazionali che, riferite a diversi gradi alle epoche delle nazionalizzazioni passate, ora si stagliano nell'One World del mercato totale. E, dovunque, la forza motrice è la ridotta, o esaurita, capacità distributiva dello Stato.
In realtà, la nazionalizzazione etnica terziaria è solo un fenomeno di decadenza sprovvisto di qualsiasi prospettiva storica. In opposizione flagrante ai vecchi movimenti nazionalisti, non possiede alcuna struttura economica che possa sostenerla e portarla avanti. E neanche gli sfortunati processi di liberazione nazionale secondaria ancora esistenti possono essere risolti in maniera conseguente. I palestinesi, per esempio, non hanno la minima possibilità di formare un'economia nazionale autonoma e competitiva. Uno Stato palestinese non potrebbe essere altro che uno Stato da operetta, alimentato da risorse esterne. Lo stesso vale anche, nonostante la forte legittimazione post-Olocausto, per lo Stato nazionale Israeliano, che ancora non è capace di produrre nemmeno la metà del suo PIL. Se neppure gli sloveni posseggono la quantità necessaria di valuta per poter coprire la loro prevista moneta propria - il "tallero" - allora figuriamoci i croati, i lituani, gli armeni e i curdi, e ancora meno i sardi o i baschi, per non parlare nemmeno dei ceceni e dei gaugazi. Le lealtà etniche della disperazione sono nel loro insieme insostenibili. Non sono capaci nemmeno di sostituire il vecchio Stato nazionale a brandelli, né di produrre nuove strutture sociali riproduttive. Queste lealtà si costituiscono soltanto in mezzo e per mezzo di guerre civili aperte o latenti, e sussistono solo finché queste non si esauriscono. In tal senso, il nazionalismo terziario è solo una forma transitoria di annichilimento.
Non ha senso cercare di fermare la barbarie etnica e pseudoreligiosa, provocata dal carattere economicista dell'One World, modellato dalla forma merce, attraverso la "gestione del debito" e attraverso azioni poliziesche di dubbia legittimità  - come si è fatto finora - guardando solo agli interessi strategici occidentali. Se l'ONU dev'essere legittimata come istanza mondiale, allora gli stessi Stati occidentali e i blocchi economici devono essere i primi a conferirle "sovranità". Inoltre, le azioni poliziesche dei baschi azzurri dovrebbero essere dirette in primo luogo contro l'oscura classe dei latifondisti in America Latina, in Asia e in Arabia, al fine di eliminare, quanto meno, la miseria primaria per mezzo dell'esproprio di quelle terre e per mezzo di riforme agrarie richieste da molto tempo. Un'ONU così legittimata dovrebbe allora passare ad organizzare trasferimenti internazionali di risorse che non dovrebbero essere sottomessi ai principi della concorrenza e della redditività della logica di mercato. Se la generalizzazione del grado occidentale di industrializzazione e del modello di produttività potrebbe significare l'immediato collasso della Terra, e se, invece, i paesi che non riescono a raggiungere quel modello restano privi di qualsiasi riproduzione vitale, allora lo "scambio di equivalenti" del sistema produttore di merci conduce, esso stesso, ad una situazione assurda. L'ONU, in quanto istanza mondiale effettiva, dovrebbe garantire il mantenimento di una produzione di generi di prima necessità in tutti i paesi e dovrebbe attivarsi affinché nelle relazioni internazionali ogni paese fornisca solo quello che può fornire a basso costo, senza prendere in considerazione il quadro fissato dal sistema di mercato. Avremmo, così, come conseguenza, uno "Stato mondiale", il quale, secondo la logica di mercato globale, per poter essere realizzato, avrebbe bisogno di una seconda Terra e di una seconda umanità, al fine di delimitare ed esternalizzare i suoi costi di produzione. La Comunità Europea, in quanto burocrazia sovra-statale, non fa altro che dare continuità allo stesso processo distruttivo, questa volta a livello continentale, in nome dei medesimi comandamenti di redditività. Sarebbe necessario, soprattutto, una rottura sociale a livello mondiale della logica mercantile stessa.
Questa proposta forse è meno utopica di quanto possa apparire a prima vista. se gli Stati che competono sul mercato mondiale ed i blocchi economici non vogliono legittimare l'ONU in maniera effettiva, allora prima o poi la sua pretesa "sovranità"le verrà sottratta in modo molto più doloroso dai mercati finanziari autonomizzati. Le catastrofi ecologiche che attraversano le frontiere esigono, ormai, non solo misure "non redditizie" ma anche sovranazionali. Secondo il parere unanime degli specialisti, in un futuro prossimo, ad esempio, mancherà ai combattenti fondamentalisti di entrambi i campi del conflitto arabo-israeliano, qualcosa di assai fondamentale: l'acqua. E se, nonostante la loro insolvenza, i bulgari non avessero avuto garantita la loro fornitura di energia nel prossimo inverno, essi avrebbero messo di nuovo in funzione lo loro difettose centrali nucleari che, giorno più giorno meno. si sarebbero volatilizzate per i cieli di tutta Europa.
In qualche modo, l'ONU, in quanto istanza mondiale effettiva (cosa che oggi non è e non può essere, se consideriamo la continua ed ostinata finzione di una "sovranità" mantenuta nell'ambito degli Stati nazionali) presupporrebbe una mutazione fondamentale nelle relazioni sociali di lealtà. Sarebbe anche necessaria che tale mutazione venisse "dal basso" e si situasse nel campo di azione degli individuo. Un movimento sociale che lottasse per un'ONU modificata, a favore della rinuncia alla sovranità da parte degli Stati che competono sul mercato mondiale, romperebbe anche con la falsa alternativa fra lealtà nazionale ed agitazione etnica all'interno della società. Esiste già, in ambito regionale, un gran numero di alternative, di movimenti di resistenza e di disobbedienza civile contro i deludenti tentavi di regolamentazione e contro i progetti faraonici di mercato mondiale costituito come Stato. Le proteste contro la paralisi ed il deterioramento di regioni intere, contro la devastazione sociale e la sterilizzazione culturale, contro le spese militari abusive, i grandi aeroporti, le centrali nucleari e le mostruose centrali di smaltimento nucleare, contro il traffico intensivo e la distruzione del paesaggio, costituiscono un poderoso arsenale sociale. E anche nelle economie in disgregazione si può avvertire una considerevole resistenza, non solo allo stato di assedio dell'amministrazione statale, ma anche nei confronti dell'etno-nazionalismo bellicista.
Tuttavia, affinché queste iniziative regionali possono effettivamente mobilitare il loro potenziale trasformatore, bisogna che superino l'ottusità espressa dal principio di San Floriano ("Salva la mia casa, incendia quell'altra"), prendendo coscienza della sua propria dimensione sociale a livello mondiale. Solo un regionalismo aperto verso il mondo, emancipatore, multiculturale e socio-ecologico (e oggi quasi tutte le regioni del mondo sono strutturate in maniera multietnica e multiculturale) potrebbe fondare una nuova reciprocità fra lealtà globali e regionali, capace di assumere una posizione di sfiducia nei confronti delle istituzioni europee tradizionali. La crisi globale del sistema di scambio delle merci non può più essere risolta attraverso la tradizionale trasformazione democratica degli interessi di mercato nelle forme limitate del mondo degli Stati parlamentari occidentali.

- Robert Kurz - (Testo pubblicato inizialmente sul Frankfurter Rundschau", il 4 gennaio del 1992, col titolo di "One World und jüngster Nationalismus".

fonte: EXIT!