domenica 8 febbraio 2015

La tirannia del feticcio

tirannia

Quella che segue è un'intervista di Marc-André Cyr ad Eric Martin ed a Maxime Ouellet, entrambi impegnati con quella che è la rinascita della sinistra nel Quebec canadese, in particolare la formazione denominata "Maple Spring". Recentemente hanno curato la pubblicazione del libro, "La tirannia del valore", che - al di là delle riserve su qualcuno dei testi (riserve che si estendono anche alla tirata finale di Ouellet, in quest'intervista, circa Keynes ed il tempo di lavoro) - comprende almeno tre contributi raccomandabili: « Introduction – La crise du capitalisme est aussi la crise de l’anticapitalisme » (Eric Martin et Maxime Ouellet) ; « Une histoire de la critique de la valeur à travers les écrits de Robert Kurz » (Anselm Jappe) ; « Prolégomènes à une analyse comparative de la sociologie dialectique de Freitag et de la Wertkritik » (Jean-François Filion).

La Tirannia del valore (Intervista)

Il valore in processo (il capitale) è il soggetto automatico, tirannico ed astratto, che domina le nostre vite fin nei più intimi anfratti. Esso è l'astrazione reale che porta al disprezzo della vita e della bellezza del mondo. Facciamo di tutto, dobbiamo fare di tutto pur di soddisfare la sua fame insaziabile di lavoro alienato e di distruzione. Il suo regno ci porta dritti verso la catastrofe ecologica, politica ed economica - in breve: alla barbarie. Eppure, al di fuori di qualche cerchia di iniziati e di intellettuali, la critica del valore è praticamente del tutto assente dall'analisi della sinistra. "La tirannia del valore: dibattiti per il rinnovamento della teoria critica", curato da Eric Martin e da Maxime Ouellet, tenta di riunire un po' di materiale per che desideri articolare una critica consistente del capitalismo, una critica radicale che attacchi il cuore di questo sistema di sfruttamento.

Marc-André Cyr: Innanzitutto, questo libro è un'opera teorica. Non è di facile lettura e richiede un certo bagaglio di conoscenze. All'inizio, aprite il vostro libro con due citazioni, una di Marx e l'altra di Zizek, affermando l'importanza della teoria al fine di sviluppare una pratica più efficace. In cosa questo libro è rilevante, oggi e subito, ai fini della prassi della sinistra?

Éric Martin: Noi abbiamo questa cattiva abitudine di opporre la teoria e la pratica. Tuttavia, da un punto di vista dialettico, la teoria è un momento della pratica. Un certo spontaneismo alla moda pretende che la rivolta possa aver luogo immediatamente, senza che abbia bisogno della teoria o di un progetto politico: "non penso: agisco e basta!", come caricaturizza Zizek. Noi scommettiamo sul contrario: certamente, ci si può rivoltare "spontaneamente" o immediatamente contro un qualche avversario. Ma difficilmente si può attaccare alla base il dominio capitalista se non ci si dà la pena di interrogarsi sulla natura di questo sistema. L'etimologia della parola 'teoria' contiene la parola 'vedere'. Teorizzare il capitalismo, significa tentare di far vedere quali sono le categorie centrali che permettono a questa forma sociale di strutturare la prassi. Il marxismo sovietico, per esempio, si limitava a criticare la proprietà privata ed il mercato, ma non attaccava le categorie fondamentali del capitale (lavoro alienato, merce, denaro, valore astratto). Questo è dovuto soprattutto ad una lettura semplicistica di Marx che si accontenta di opporre i lavoratori "buoni" alla "cattiva" borghesia proprietaria, suggerendo che il solo problema sia l'esistenza della proprietà privata. Una tale lettura non rende giustizia al pensiero di Marx. Una prassi di lotta che si abbeveri a questo marxismo classico, o volgare, si accontenterà di attaccare la sfera della proprietà o della distribuzione, senza mettere in discussione le categorie fondamentali del capitalismo, Questo perché, per continuare con l'esempio sovietico, l'URSS è stata capace di abolire la proprietà privata ed il mercato pur rimanendo fondamentalmente capitalista, creando quello che si chiama un "capitalismo di Stato" produttivista e violento sia verso gli esseri umani che verso la natura che cercava di sfruttare così come lo era la sua controparte americana. Questo genere di errore non può essere evitato senza un ritorno alla teoria. Marx, per esempio, nei Manoscritti del 1844, spiega come la proprietà privata non sia affatto la causa del lavoro alienato, ma la sua conseguenza. Solo quest'idea cambia enormemente le cose: ci si può limitare ad una critica superficiale, sopprimere la proprietà privata e conservare il lavoro alienato. Qui, il carattere superficiale del cambiamento deriva direttamente dal carattere superficiale della teoria. Il punto di vista militante è quello che sta dentro la lotta ed esige (come si capisce, da questo punto di vista) delle strategie che rispondano immediatamente ai problemi pratici che si pongono nell'urgenza. Il pericolo è quello di restare a guardare. Contro una tale tentazione, bisogna dire che alcuni progressi teorici non possono avvenire che a partire da un certo distacco nei confronti della pratica, e a partire da un certo livello di astrazione teorica. Tutti pensano solo alla "prassi". Ma Marx era ben coinvolto nel movimento comunista reale, ma non di meno passava gran parte del suo tempo nella bibilioteca del British Museum seduto a divorare libri e a spiegare la logica del capitale. Così, il nostro libro è un libro di teoria, che richiama a pieno diritto alla teoria critica, che cerca di rimettere in primo piano, nel Quebec, il dibattito sul marxismo, dopo una lunga eclissi. Esso pone più di una questione centrale (bisogna liberare il lavoro oppure bisogna liberarsi dal lavoro? Il valore è esso stesso una sostanza? Cosa fa il valore al tempo?). Non si tratta di un libro pratico: non ci sono raccomandazioni pratiche immediate. Di contro, questo non vuol dire che le osservazioni teoriche di questo libro non abbiano conseguenze pratiche, tutt'altro. Solo che il libro si situa alla tappa successiva: il consolidamento e la problematizzazione dei nuovi approcci teorici sviluppati da Kurz, Jappe o Moishe Postone. Chi legge questo libro e sceglie poi di impegnarsi in una prassi, può trovarci un'analisi del capitalismo più precisa e più dettagliata di quella del marxismo volgare, e potrà dedurre delle pratiche che, per ora, restano da essere inventate. Ma per dirla in maniera più succinta: c'è una grande differenza fra dare la colpa agli speculatori cattive e prendersela con il lavoro alienato.

Maxime Ouellet : Aggiungerei che questo libro cerca di porre l'importanza della critica del valore ai fini della rifondazione della teoria critica al giorno d'oggi. Questa teoria si concentra principalmente su una critica negativa delle forme alienate di mediazione proprie alla società capitalista, e punta, senza tuttavia svilupparle enormemente, verso la necessità di elaborare delle forme di mediazione post-capitaliste. E' ad un tale progetto che il libro contribuisce per mezzo dei dibattiti sulle questioni sollevate dalla corrente della critica del valore. Non si tratta affatto, dunque, unicamente di una presentazione delle tesi di tale corrente, ma piuttosto di una messa in prospettiva di tali tesi, insieme ad altre prospettive, nella speranza che questo permetta di aprire un dialogo fecondo. Questo libro è perciò un appello a coltivare il pensiero e la riflessione critica come conditio sine qua non della possibilità di una prassi di trasformazione della società.

Marc-André Cyr: Voi dite che non è solo il capitalismo ad essere in crisi, ma lo è anche l'anti-capitalismo. Inoltre non siete molto pieni di apprezzamento per i movimenti sociali, particolarmente nei confronti degli "indignati", l'anticapitalismo soft o alcune declinazioni dell'anarchismo. Cosa avete loro da rimproverare?

Maxime Ouellet: Ci sembra che dopo il collasso del marxismo all'inizio degli anni 1980, nessuna teoria sociale generale sia stata in grado di comprendere la strada verso cui si dirigevano le società capitaliste avanzate. Peggio, la liquidazione dell'eredità marxista fatta dal pensiero postmoderno ha dimostrato di essere un disastro per riflettere seriamente sulla barbarie nella quale le società occidentali sono sul punto di impantanarsi. Queste avviene perché - diciamo nell'introduzione - la crisi del capitalismo ga dimostrato di essere anche la crisi dell'anticapitalismo. Questa crisi del pensiero critico è indubbiamente dovuta alla lettura dogmatica di Marx fatta all'epoca dai movimenti marxisti-leninisti, i quali assai spesso non leggevano nemmeno Marx e si accontentavano di scandire gli slogan banali del tipo: "a morte la borghesia" senza nemmeno comprendere quello che stavano professando. Questo medesimo anti-intellettualismo ed anti-teoricismo sembra piuttosto comune anche attualmente in alcuni movimenti militanti a favore di una teoria dell'azione e del confronto, che lungi dall'affrontare realmente il dominio astratto del capitale sull'insieme delle nostre vite, partecipa piuttosto di un "nomadismo" che è del tutto compatibile con l'ideologia manageriale del neoliberismo dominante. Evidentemente, si è sostituito un pensiero non-dialettico, il marxismo-strutturalismo, con un altro pensiero non-dialettico, il postmodernismo post-strutturalista, che è la nuova ortodossia che anima la più parte del pensiero della sinistra contemporanea. La categoria della resistenza, mobilitata dalla maggior parte dei movimenti di estrema sinistra, poggia su una forma edulcorata di "foucaltismo" che - poiché il potere è dappertutto e poiché ogni forma di mediazione è in sé oppressiva - vede impossibile il superamento dialettico delle contraddizioni dell'ordine sociale. La libertà, perciò, si situerebbe in delle "zone autonome temporanee" dove l'individuo slegato potrebbe godere senza ostacoli, in uno spazio e per un tempo determinato. Come dice Daniel Bensaïd: "Il radicalismo chic della retorica della resistenza nasce da un tentativo ricorrente, in tempi difensivi, di purificare la contraddizione ed eliminare ogni mediazione e rappresentazione" (Lo spettacolo, ultimo stadio del feticismo della merce, 2011). Evidentemente, la mobilitazione, da parte della sinistra anarchizzante, del concetto di "resistenza" ha portato ad una messa in parentesi del progetto di trasformazione radicale della società capitalista moderna. Come evidenziato da Moishe Postone, uno dei principali autori associato alla critica del valore: "Il concetto di resistenza, tuttavia, ci dice poco sulla natura di quello a cui si resiste o delle strategie che vengono attuate, ossia, sulle forme specifiche che avrà la critica, la contestazione, la ribellione e la 'rivoluzione'. Il concetto di resistenza copre una visione del mondo puramente dualistica che tende a reificare tanto il sistema di dominio quanto l'idea di autodeterminazione. Raramente si fonda su un'analisi riflessiva delle possibilità di cambiamento radicale aperte o chiuse da un ordine dinamico eteronomo. In tal senso, manca di riflessività. E' una categoria non dialettica, che non afferra le sue stesse condizioni di possibilità, cioè non riesce a cogliere il contesto storico dinamico cui appartiene"  (Moishe Postone, « History and mass helplessness: Mass Mobilization and Contemporary Forms of Anticapitalism », Public Culture, vol. 18, n° 1, 2006, p.108.)

Éric Martin: "Occupy" è un fenomeno molto interessante. La teorica marxista Jodi Dean, in "The communist horizon", lo ha visto come un importante tentativo di tornare ad un "noi", un "we the people" contro la classe dominante, cioè a dire riallacciare la lotta di classe contro il carattere sfarzoso di quello che chiama il "capitalismo comunicativo" nel quale si bagnano anche numerosi individui che si vogliono di sinistra, ma che rimangono incollati ai loro schermi e alle loro reti sociali. Occupy è perciò un tentativo di unificazione, di organizzazione, di soggettivazione politica che tenta di resuscitare il divario e la lotta di classe nella rappresentazione: il 99% contro l'1%. Detto questo, ciò che rende inoltre Occupy interessante, e criticabile, è la sua incapacità a produrre reali cambiamenti oggettivi nell'ordine sociale. Una delle ragioni (e non la sola) di questa impotenza attiene, dal punto di vista della critica del valore, alla teorizzazione tronca del capitalismo che ispira questi movimenti (la stessa critica potrebbe essere rivolta all'alter-mondialismo in salsa ATTAC con il suo mantra sulla "Tobin Tax", una misura originalmente inventata per consolidare il capitalismo finanziario globalizzato cercando di evitarne il surriscaldamento, oppura anche agli anarchici la cui analisi del capitalismo s'ispira sovente al marxismo più classico).
Qual è il problema con la teorizzazione del capitalismo fatta da Occupy o da ATTAC? La critica si situa esclusivamente sul piano della redistribuzione della "ricchezza", senza mai mettere in discussione quello che chiamiamo "ricchezza". La critica della diseguaglianza è importante, ma essa è l'equivalente di una diagnosi di raffreddore che si limita ad enunciare i sintomi senza pensare al virus del raffreddore stesso (è lo stesso problema di Thomas Piketty). Ancora una volta, è la ripresa di uno schema proprio del marxismo classico a funzionare qui: i lavoratori producono ricchezza, il problema è che questa ricchezza viene accaparrata dai parassiti della borghesia o dello "Impero" (Negri). L'analisi di Marx è molto più profonda. Per esempio, egli fa una distinzione fra la ricchezza reale ed il valore astratto. La ricchezza reale, è la quantità di cose che si producono o di cui si dispone per poter esistere come esseri umani, come esseri nella natura e come membri di un rapporto sociale dotati di bisogni concreti (sempre sotto una forma culturale). Per esempio, ricchezza reale è avere i libri per i bambini che vanno a scuola, o delle terre coltivabili di cui ci si deve prendere cura (invece di bruciarle con il super-sfruttamento intensivo, come fa il capitale, lui che - come diceva Marx - ha due fonti di ricchezza, l'essere umano e la terra, e li distruggerà entrambi). Al contrario, il valore astratto designa un modo di misurare il valore di una merce per mezzo del tempo di lavoro umano socialmente necessario in essa contenuto, e poco importa la natura qualitativa di tale merce. Così si può produrre valore fabbricando dei missili, delle scorie nucleari o dei gadget inutili che non rappresentano alcuna ricchezza reale dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni concreti della popolazione. Il valore astratto rileva semplicemente l'accumulazione del lavoro morto umano (del capitale), poco importa il contenuto della produzione e senza che venga pensato di limitarlo. Il problema dunque non è solo quello di redistribuire la ricchezza: bisogna rimettere in discussione l'idea stessa di ricchezza, e quella di "valore". Diversamente, ci si limita a mettere ordine in una casa le cui fondamenta categoriali sono marce.

Marc-André Cyr: Affermate, nell'introduzione, che il "lavoro costituisce la base del dominio astratto ed impersonale nella società capitalista". Molti, inclusi i marxisti, sarebbero sorpresi di tale affermazione. Evidentemente, non siete i primi a sostenere una tale tesi. I situazionisti, certi anarchici ed il gruppo Krisis, di cui fa parte Anselm Jappe, uno dei fondatori della teoria del valore, hanno già fatto tale promozione. Agli occhi della popolazione in generale, abolire il lavoro sembra però un'utopia nel suo irrealismo. Possiamo davvero farla finita col lavoro? Come si organizza la produzione dei beni essenziali per la vita senza lavoro?

Éric Martin: Effettivamente, il marxismo classico non problematizza affatto il lavoro. Pretende di liberare il lavoro dagli sfruttatori senza interrogarsi sulle forme di mediazione che organizzano questo stesso lavoro. Evidentemente, non siamo i primi a dire questo, e non lo pretendiamo neanche. Il nostro libro cerca innanzitutto di far conoscere meglio le teorie che, sulla scia di Debord, del gruppo Krisis, ecc., come hai detto, tentano di rileggere Marx in una prospettiva che definirei meno soggettivista e più sociologica. Voglio dire che invece di limitarsi a vedere il capitalismo come lo scontro di due gruppi sociali (dominanti contro dominati) che cercano di appropriarsi della "ricchezza" fra loro mal "distribuita" o "accaparrata" dai cattivi dello scenario, queste teorie ritornano all'analisi più olistica di Marx che intende il capitalismo come un "fatto sociale totale", cioè a dire che comprende il capitalismo come una totalità, un Tutto, e una forma sociale-storica che funziona per mezzo della sua ideologia, delle sue mediazioni e delle sue proprie istituzioni. Una di queste mediazioni è il "lavoro alienato", cioè a dire il lavoro il cui fine, la cui finalità, non può essere determinata da un individuo membro di una comunità sociale e politica che esercita la sua autonomia tenendo conto delle esigenze comunitarie; al contrario, il lavoro alienato si trova organizzato "dall'alto", dall'auto-movimento de Soggetto automatico che è il valore astratto. Questo vuol dire che il mio lavoro non serve affatto a dei bisogni individuali e collettivi determinati in maniera riflessiva, ma serve solo a nutrire questo cadavere: siamo tutti dei Sisifo, in un qualche modo. Ora, abolire il lavoro alienato non significa affatto che le persone non faranno più niente e che passeranno le giornate sdraiati al sole mangiando dei fichi (anche se avere molto tempo fuori dalla produzione per fare esperienza di vita è certamente qualcosa di importante a cui mirare). Bisogna distinguere il lavoro alienato specifico al capitalismo dall'attivazione di sé, dall'attività pratica in cui l'essere umano si impegna per dare forma o metabolizzare il mondo. Ci sarà sempre attività sociale di produzione, ma l'importante è che questa non venga più organizzata dalle stesse categorie o mediazioni sociali. In altre parole, si produrranno sempre dei beni essenziali alla vita, per mezzo dell'attività produttiva, ma non ci sarà più il lavoro alienato in senso capitalista. Detto questo, il nostro libro non si limita solo a riprendere le tesi della Critica del valore; tenta anche di inserirle in un dibattito, facendo appello ad altri autori o correnti (Franck Fischbach, Pierre Dardot, Théorie communiste, Michel Freitag, Bernard Friot, etc.). In tal senso, questo libro non è solamente una semplice raccolta di critiche preesistenti, bensì un tentativo di spingere le cose un po' più lontano.

Maxime Ouellet: Innanzitutto occorre ricordare che la categoria del lavoro, come insieme di categorie economiche attraverso le quali afferriamo il mondo (ad esempio, il valore, la merce o il capitale), non appartengono che ad un'epoca socio-storica ben precisa, la modernità capitalistica. Ciò significa che le società precedenti non conoscevano affatto l'esistenza di una sfera economica esterna alla cultura, alla politica e alla società in generale. Per riprendere l'espressione di Karl Polanyi, l'economia era incorporata nel sociale. L'autonomizzazione dell'economia in rapporto alla pratica sociale avviene in seguito ad un processo di astrazione che vede rimpiazzare l'attività umana, la cui finalità è determinata dalla qualità, d un'attività la cui finalità è determinata dalla quantità. Questo processo di astrazione tocca principalmente l'attività umana, il lavoro, che passa da attività naturale e concreta di trasformazione della natura volta a soddisfare i bisogni umani, ad attività de-finalizzata rivolta rigorosamente all'accumulazione della ricchezza astratta. Ma, la vita umana in sé è inquantificabile, sia perché concreta, sia perché soggettiva. Quindi, perché il capitalismo sia possibile, bisogna separare gli individui dalla loro comunità, distruggere i rapporti di interdipendenza che essi intrattengono e che li mette in grado di fare società, ed instaurare un legame sociale alternativo, vale a dire il lavoro. Il lavoro nelle società capitalistiche non consiste più nel produrre le cose utili al mantenimento della vita, ed ora funge da mediazione sociale alienata. Vale a dire che è solo nella società capitalista che per mezzo del mio lavoro posso appropriarmi del frutto del lavoro degli altri. Il valore di questo lavoro viene calcolato in funzione di una nuova norma temporale astratta, il tempo. Allorché il tempo è denaro, la società intera è dominata dalla necessità di accelerare senza posa il ritmo della produzione. Tutto questo per dire che l'economia corrisponde ad un immaginario sociale, come dicono i "decrescitori", e che se si vuole uscire dall'economia occorre comprendere la sua prassi costitutiva, ossia il lavoro. Il lavoro è puramente tautologico nel capitalismo poiché è volto solo a riprodurre, costantemente ed in maniera allargata, più lavoro per poter produrre più valore. E' chiaro che si lavora unicamente per lavorare, e ci si trova ad essere dominati dal nostro stesso lavoro. Quindi, se si vuole uscire dalla tirannia del valore, bisogna pensare ad uscire dal lavoro come base del legame sociale. Questo non vuole affatto dire che non si lavorerà più in una società postcapitalista, nel senso che si smetterà di costruire case, di coltivare la terra, ecc., ma piuttosto che la finalità dell'attività umana cesserà di essere determinata dalla finalità della produzione di valore, bensì servirà piuttosto alla creazione di ricchezza reale. Ciò permetterà di prendere in considerazione una diminuzione radicale del tempo di lavoro, al fine di potersi dedicare ad altre attività socialmente più arricchenti come la cultura, le arti, la letteratura, ecc.. Si tratta di rianimare una problematica che è apparsa nel corso degli anni 1960, quella della società del tempo libero, dove non appariva assolutamente come utopico prendere in considerazione una società dove il lavoro non era il cuore del legame sociale. Sicuramente, la società del tempo libero da prendere in considerazione è del tutto contrapposta alla società dei consumi attuale dove il tempo libero è per lo più consacrato al consumo della merce. Anche Keynes, che è ben lungi dall'essere un pensatore radicale, prevedeva negli anni 1930, nelle sue "Possibilità economiche per i nostri nipoti", di diminuire radicalmente il tempo di lavoro in ragione dell'aumento della produttività. Credo valga la pena citarlo: "Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routine. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo ‘pane’ affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito tra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi."

fonte: Critique Radicale de la Valeur

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